Da ciò si può dedurre l’esistenza non di un rifiuto, ma certamente di una forte svalutazione di tutti i riti. I profeti hanno accettato anche in questo caso le concezioni degli intellettuali sviluppate dalla torah: Jahvè era, perlomeno secondo il loro postulato, il dio della giusta retribuzione etica e la felicità; (terrena) dell’individuo — di cui si pain Isaia, 3, 10 — era quindi per loro un immediato «frutto delle opere», come lo era la felicità; del popolo. Presso gli antichi profeti, perlomeno, il peso di questa equità; etica basata sulle opere era contrapposto al peso altanto forte del ritualismo dei sacerdoti. In particolare l’opposizione al valore accordato dai sacerdoti al sacrificio crebbe, soprattutto presso Amos e Geremia, fino a negare a questo ogni valore. I sacrifici non sono comandati da Jahvè, e quindi sono inutili (Ger., 6, 20; 7, 21). Già; Amos sostiene che nel deserto non si offrivano sacrif(5, 5). Anche Isaia insegna (1, 11 e seg.) che se il popolo è disobbediente le sue mani sono piene di sangue e tutti i suoi sacrifici e i suoi digiuni costituiscono un oggetto di abominazione per Jahvè. Si può ritenere certo, dati i rapporti di Isaia con il ceto sacerdotale, e il valore che annetteva alla rocca del tempio, che in tali parole non vi era nessun rifiuto incondizionato del culto e del sacrificio, e ciò vale quindi senza dubbio anche per gli altri profeti. Tuttavia negli oracoli l’atteggiamento nei confronti del sacrificio è freddo fino all’ostilità;.

Risuonano in tutta la profezille forti reminiscenze dell’«ideale nomade», in seguito alla trasfigurazione di questo passato senza re ad opera della tradizione letteraria. è vero che lo stesso pastore Amos, che prometteva a Giuda abbondanza di vino (9, 13), era tanto poco recabita quanto Geremia. Quest’ultimo era l’unico profeta entrato in rapporto personale con l’ordine, di cui citava la devozione in esempio ad Israele; egli stesso però nella sua vecchiaia acquistò un campo. Ma in confronto al presente in cui regnava il lusso, e quindi l’arroganza e la disobbedienza verso Jahvè, l’epoca del deserto rimaneva anche per i profeti la vera epoca devota. Israele alla fine tornerà; ad essere steppa, per via della devastazione, e il revatore come pure i superstiti mangeranno il cibo della steppa: miele e crema.

Si è spesso descritto l’atteggiamento dei profeti, nell’insieme, come «ostilità; verso la cultura». Ciò non va inteso com00E0x00AB; mancanza di cultura» personale. Al contrario è diffìcile immaginarseli al di fuori della grande cassa di risonanza della scena della politica mondiale del loro tempo o del contesto di una cultura raffinata molto diffusa e di uno strato colto molto forte. Anche se d’altra parte, per i motivi politici già; esposti, sono concepibili solo nell’à;mbdi un piccolo stato, come Zwingli si può cpire solo in un cantone. Erano tutti letterati ed avevano palesemente una buona conoscenza delle caratteristiche della cultura egiziana o mesopotamica, in particolare della scienza delle stelle; dall’uso dei numeri sacri, per esempio del numero settanta in Geremia, si può dedurre il loro possesso di cognizioni non solo approssimative. In ogni caso non ci è stato tramandato nessun tratto che indichi un’impostazione orientata verso la fuga dal mondo o il rifiuto della cultura in senso indiano. I profeti, oltre alla Torah, conoscono anche la chokhma o ’ezah (Ger., 18, 18) dei maestri di vita saggia (chakhamìrn). D’altra parte però il loro livello di cultura corrispondeva probabilmente più a quello degli orfici e dei profeti popolari nell’Ellade che a quello dei saggi aristocratici come Talete. Il loro atteggiamento era di totale estraneità; nei confronti non solo di tutti i valori estetici o gicamente propri ad un modo di vivere aristocratico ma anche di qualsiasi saggezza mondana. Anche tale atteggiamento del resto era rinforzato dalla posizione dei puritani devoti del loro ambiente, tradizionalmente anti-crematistica, avversa alla corte, ai funzionari, ai gibborìm e ai sacerdoti. Il suo condizionamento intimo però era puramente religioso, determinato dal modo in cui essi elaboravano le loro esperienze. Di queste dobbiamo ora occuparci.

Dal punto di vista psicologico i profeti pre-esilici erano senza dubbio in gran parte degli estatici. Ciò vale, in ogni caso, per loro stessa testimonianza, per Osea, Isaia, Geremia, Ezechiele; e non è troppo azzardato sostenere che con ogni probabilità; valga, anche se in grado e senso diverso, per tutti.

Già; il loro modo di vita personale, per quanto ne sappiamra quello di uomini stravaganti. Geremia rimase celibe per ordine di Jahvè, perché la catastrofe era imminente. Sembra che Osea abbia realmente sposato, per ordine di Jahvè, forse più di una volta, una prostituta. Isaia per ordine di Jahvè (8, 3), si unisce ad una profetessa al cui figlio dà; poi il nome che gli era stato prescritto in precedenzarani nomi simbolici si riscontrano nei figli dei profeti e hanno un ruolo importante.

Stati patologici e azioni patologiche dei generi più diversi accompagnano la loro estasi o la precedono. Non vi è dubbio che proprio questi stati costituissero in origine le principali credenziali del carisma profetico e che essi si trovino quindi, seppure in forma più blanda, anche quando nulla ci è stato tramandato in proposito. Tuttavia una parte dei profeti ne parla esplicitamente. La mano di Jahvè «grava pesantemente» su di loro. Il suo spirito «s’impadronisce» di loro. Ezechiele (6, 11; 21, 19) batte le mani, si percuote i fianchi, calpesta il suolo. Geremia (23, 9) diventa come un ubriaco e trema in tutte le membra. Il viso dei profeti si contorce quando lo spirito scende su di loro, il fiato gli manca, cadono talvolta storditi al suolo, momentaneamente privi della vista e della parola, torcendosi tra le convulsioni (Is., 21). Sette giorni dura una paralisi che ha colpito Ezechiele dopo una delle sue visioni (3, 15).

I profeti compivano strane azioni cui veniva dato il significato di un augurio. Ezechiele, come un bambino, si costruisce con dei mattoni e una padella di ferro un gioco di assedio. Geremia spacca in pubblico una brocca, seppellisce una cintura e la dissotterra in putrefazione, gira con un giogo sul collo; altri profeti vanno in giro con corna di ferro o, come Isaia per molto tempo, nudi. Altri ancora, come Zaccaria, si procurano ferite, oppure sono spinti dall’ispirazione a nutrirsi di cose nauseanti, come Ezechiele. Gridano ad alta voce (karah) i loro annunci nel mondo: in parte con parole incomprensibili, in parte sotto forma di imprecazioni, minacce, benedizioni; così facendo molti hanno la bava alla bocca (hittif, «sbavare» = profetizzare). Altre volte invece mormorano o balbettano.

Riferiscono allucinazioni visive ed auditive cui sono soggetti, ma anche sensazioni abnormi delle specie più diverse nel gusto e nella sensibilità generale (Ez., 3, 2). Si sentono levitare (E00E0 8, 3 et al.) e trasportati attraverso l’aria, hanno visioni di eventi che si svolgono a grande distanza, come Ezechiele a Babilonia, a suo dire, all’ora della distruzione di Gerusalemme, o di cose che avverranno in un lontano futuro, come Geremia (38, 22) del destino di Sedekia. Gustano cibi strani. Soprattutto sentono suoni (Ez., 3, 12 e seg.; Is., 4, 19), voci (Is., 40, 3 e seg.) intorno a sé, ora isolate ora sotto forma di dialoghi, ma odono specialmente parole e comandi diretti a loro stessi. Vedono in allucinazione una luce abbagliante e in essa delle figure di esseri sovrumani: è lo splendore del cielo (Is., 6, e anche Amos, 9, 1). Oppure vedono oggetti reali, insignificanti, a volontà;: una cesta di frutta, un filo a piombo, e ad un tratto e chiarito loro, perlopiù tramite una voce, che questi oggetti simboleggiano importanti decisioni di Jahvè per il destino degli uomini (in particolare in Amos). Oppure raggiungono, come in particolare Ezechiele, degli stati auto-ipnotici. Subiscono una coercizione nelle loro azioni, e soprattutto nei loro discorsi. Geremia sente il suo io sdoppiato. Implora il suo dio di esonerarlo dal parlare. Non vuole ma deve riferire ciò che egli sente come un’ispirazione e non qualcosa che viene da lui; e nello stesso tempo il dover parlare è da lui percepito come un terribile destino (Ger., 17, 16). Se non parla soffre atroci tormenti, lo afferra un calore incandescente e non può sopportare la pesante pressione senza sgravarsi del suo impegno. Chi non conosce tale stato e non parla sotto tale coercizione ma «dal proprio cuore» non è, secondo lui, un profeta.

L’esistenza di questo tipo di profezia estatica che fornisce oracoli non è stata provata fino adesso per l’Egitto e la Mesopotamia, né per l’Arabia pre-islamica; nella vicinanza di Israele la si trova solo (sotto forma di profezia regia, come in Israele), in Fenicia e, sotto rigoroso controllo e interpretazione sacerdotale, nelle sedi di oracolo degli Elleni. Da nessuna parte però si trova la tradizione di una libera demagogia di estatici profetizzanti alla maniera dei profeti israeliti. Ciò senz’altro non è dovuto alla mancanza di condizioni mentali analoghe. Si spiega piuttosto con il fatto che nei regni burocratici, quali l’impero romano, sarebbe intervenuta la polizia religiosa, mentre presso gli Elleni, in epoca storica, tali stati non erano più considerati sacri, ma bensì patologici e privi di dignità;, e solo i tradizionali oracoli regolati dai sacerdoti eruniversalmente riconosciuti. In Egitto la profezia estatica appare solo all’epoca dei Tolomei, in Arabia con Maometto.

Non è questo il luogo per classificare e interpretare i diversi stati dei profeti, che presentano in parte delle differenze caratteristiche, come stati fisiologici, psicologici, ed eventualmente patologici, anche nelle misura in cui ciò fosse possibile (i tentativi compiuti finora, in particolare per Ezechiele, non sono convincenti). Del resto la cosa non presenta, almeno per noi, nessun interesse decisivo. Come in tutto il mondo antico, così anche in Israele gli stati patologici erano considerati sacri. Ancora all’epoca dei rabbini il contatto con i pazzi era tabù. Il sovrintendente regio ai profeti viene chiamato (Ger., 29, 24 e seg.) «sovrintendente ai pazzi e profeti»; del pari nella tradizione l’ufficiale di Jehu, vedendo il discepolo del profeta che doveva offrire a quest’ultimo l’unzione regale, chiede: cosa vuole questo pazzo?

Ciò che ci interessa qui tuttavia è qualcosa di totalmente diverso. In primo luogo il carattere emotivo dell’estasi profetica in quanto tale, che la distingue da tutte le forme indiane di estasi apatica. Abbiamo già; visto in precedenza (parte I) come carattere prevalentemente auditivo della profezia classica, rispetto a quello essenzialmente visuale dell’estasi apatica degli antichi «veggenti», fosse anzitutto condizionato da fattori puramente storici, concretizzabili nel contrasto tra la concezione meridionale, jahvista, del modo di manifestarsi di Jahvè, e quella esistente nel Nord. La «voce» corporea di Jahvè sostituiva l’antica epifania corporea che il Nord, con le sue diverse concezioni di Dio, rigettava sul piano teorico, e che non era conforme alle qualità; psichiche della devozione nordica, che dall’orgo si era sublimata in estasi apatica. Il riconoscimento sempre più esclusivo del carattere auditivo dell’ispirazione come l’unica caratteristica che ne garantisce l’autenticità; era correlato alla sempre più intensa eccitazione tica degli ascoltatori, corrispondente al carattere emotivo della profezia.

Un’altra particolarità; importante sta nel fatto che i profeti stessi davano un o ed un’interpretazione a questi loro straordinari stati, visioni, discorsi e azioni coartate. E malgrado differenze psicologiche, chiaramente notevoli, tale interpretazione seguiva sempre la medesima direzione. Già; il fatto dell’interpretazione in sé, per quaoggi ci possa apparire ovvio, non è assolutamente una cosa scontata; presuppone infatti che allo stato di estasi non venisse dato semplicemente il valore del possesso personale di un bene sacro, ma venisse attribuito un significato completamente diverso: quello di una «missione». E ciò si manifesta ancora più chiaramente nel carattere unitario dell’interpretazione. Cerchiamo di chiarire più dettagliatamente questo punto.

Solo talvolta i profeti parlano direttamente «e//’estasi (Is., 21, 17; Ger., 4, 19 e seg.). Perlopiù invece parlano sulle loro esperienze durante l’estasi: «Mi fu rivolta la parola di Jahvè…» è l’inizio abituale degli oracoli. Vi sono varie gradazioni. Da un lato figura Ezechiele il quale, pur essendo un vero estatico e anche, apparentemente, di tipo gravemente patologico, ricava dalle sue visioni degli interi trattati. D’altra parte vi sono numerosi brevi versetti dei profeti pre-esilici, che veniva no scagliati in faccia ai destinatari mentre i loro autori erano al colmo dell’agitazione e a quanto sembra durante l’estasi stessa. In genere tali proclamazioni raggiungevano il massimo grado d’immediatezza estatica; i profeti erano soggetti a tali trasporti indipendentemente dalla loro volontà;l9, semplicemente sotto la pressione dell’irazione di Jahvè, in situazione particolarmente pericolose per il paese o sotto l’impressione particolarmente sconvolgente dei peccati.

Troviamo invece tra i profeti classici quei casi relativamente rari in cui il profeta è stato interrogato in precedenza. Sembra che solo di rado, in tal caso, abbia dato una risposta immediata. Come Maometto, soleva meditare in preghiera sulla questione; Geremia una volta andò avanti per dieci giorni, finché non subentrò lo stato di estasi (Ger., 24). Ma anche allora la visione o la voce di regola non viene immediatamente trasmessa al pubblico in attesa. Infatti spesso è oscura e ambigua. Il profeta allora medita in preghiera sul suo significato. Parla solo quando ha afferrato l’interpretazione. Talvolta parla sotto forma di discorso divino: Jahvè parla direttamente in prima persona; altre volte sotto forma di relazione delle parole di Jahvè. Il discorso umano prevale in Isaia e Michea, quello divino in Amos, Osea, Geremia, Ezechiele. Infine l’interpretazione dei dati, anche della propria vita quotidiana, come importanti segni da parte di Jahvè, è scontata per tutti i profeti (cfr. in particolare Ger., cap. 32).

Se qualcosa caratterizza le enunciazioni tipiche dei profeti pre-esilici, a livello generale, è il fatto che venivano pronunciate o, com’è detto una volta per Isaia (5, 1), cantate in stato di straordinaria emozione. Certamente si trovano alcuni versi che forse sono stati lasciati volutamente confusi, come il noto oracolo a Creso112 dell’Apollo di Delfo; e si trovano anche alcune elaborazioni razionali, come in Ezechiele. Ma questa non è la regola. Si pensa inoltre, senza dubbio a ragione, di poter individuare nella letteratura profetica la consapevole osservanza di determinate regole stilistiche (tra le altre si può ricordare quella di non nominare la persona che s’intende, eccetto quando la si vuole maledire).

Tuttavia ciò non toglie nulla al carattere istantaneo ed emotivo della profezia. è vero che la concezione di Dio poneva dei limiti al contenuto dell’esperienza. La corporeità; della voce di Jahvè per i profeti esprime da un lat fatto che il profeta si sente incondizionatamente «pieno di Dio», dall’altro che la tradizionale maestà; di Jahvè esclude un’autentica «penetone» di Dio nella creatura: di conseguenza viene scelta l’espressione immediatamente più vicinam9. In ogni caso però tutti i detti a noi noti degli oracoli ellenici, che venivano sempre forniti su ordinazione, non si avvicinano neppur lontanamente, nella loro controllata perfezione formale, alla potenza emotiva degli spontanei versi profetici di Amos, Nahum, Isaia, Sofonia, Geremia. Perfino nella tradizione, in parte mutilata, la potenza del ritmo in sé sorprendente viene ancora superata dall’incandescenza delle immagini contemplate, che sono sempre concrete, espressive, convincenti, complete, spesso di uno splendore e di una terribilità; inaudite, e che sotto questo punto di vista appartengono aliù grandi che la poesia universale abbia mai prodotto e diventano prive di plasticità; solo quando le grandi azioni personali del Dio invisibile aore di Israele debbono essere plasmate da vaghe visioni in fantastiche ma indeterminate immagini del futuro.

Da cosa deriva questa emozione se in molti casi perlomeno la vera e propria eccitazione estatico-patologica era già stata placata e messa in disparte? Non deriva dal pathos di questi stati psicopatici in quanto tali ma dall’impetuosa certezza di avere infine afferrato il significato di quella che è stata l’esperienza del profeta. Non deriva cioè dal fatto che egli abbia avuto una visione, sognato dei sogni o udito voci enigmatiche, come uncomune estatico patologico, ma dal fatto che gli è diventato chiaro ciò che Jahvè con questi sogni ad occhi aperti o visioni od eccitazioni estatiche ha voluto dire, ordinandogli di ripeter lo in termini comprensibili; e che egli è certo di averlo sentito attraverso la voce corporea di Dio. L’enorme pathos con cui parla è in molti casi un’eccitazione per così dire post-estatica, di nuovo a carattere semi-estatico, suscitata dalla certezza di essere stato realmente e di persona «nell’adunanza del consiglio di Jahvè»; come si esprimono i profeti; di essere la sua bocca, di dire quanto egli ha detto loro o meglio quanto egli dice attraverso loro. Il tipico profeta apparentemente si trovava in uno stato continuo di tensione e di cupa meditazione in cui anche le cose più insignificanti della vita quotidiana potevano diventare per lui degli enigmi inquietanti in quanto potevano significare qualunque cosa. Una visione estatica non era assolutamente necessaria per produrre questa tensione. Quando questa si scioglieva — e ciò avveniva con il lampo dell’interpretazione che si configurava come l’udire della voce divina — allora erompeva la parola del profeta. La pizia e il poeta-sacerdote fungente da interprete non erano qui separati: il profeta israelita era l’uno e l’altro in una stessa persona e ciò spiega il suo possente slancio.

A questo si aggiungono due altre circostanze importanti. Da un lato questi stati dei profeti non erano legati né — come per esempio l’estasi della pizia —? all’impiego dei tradizionali mezzi di eccitazione dei nevijìm, né a qualsivoglia influenza di massa esterna, vale a dire di una comunità; estatica. Nulla di tutto ciò si trova nei profeti class della nostra raccolta di scritture. Non cercavano l’estasi. Questa veniva a loro. Non risulta neppure che nessuno di loro sia stato accolto tramite imposizione delle mani o qualsivoglia altra cerimonia in una gilda di profeti o che abbia fatto parte, genericamente, di una comunità; di qualsiasi tipo. Al contrario la chiamata va sempre direttae da Jahvè al profeta e i profeti classici ci narrano la loro chiamata visiva o auditiva. Nessuno di loro usa mezzi di eccitazione di qualsiasi tipo; anzi in ogni occasione li maledicono come idolatria. Presso i profeti pre-esilici non sentiamo neppure parlare del digiuno — che la tradizione riferisce una volta a proposito di Mosè (Es., 34, 28) — come mezzo per raggiungere l’estasi. l’estasi emotiva tra loro non appare nemmeno nella forma che più tardi troviamo nelle comunità; proto-cristiane (e nei loro eventuali predecessori).

All’epoca degli apostoli di regola lo spirito, seguendo la forma che la comunità; considerava tipica, non scendeva sui singoli individui ma sul2019;assemblea dei credenti o, in seno ad essa, su uno o più dei suoi partecipanti. Lo «spirito» veniva «infuso» sulla «comunità;» quando veniva annunciato il Vangelo. Era in mezzo alomunità;, e non in una camera solitaria, che si sviluppavano il dono d lingue e gli altri «doni dello spirito», ivi compresa la profezia. Tutto ciò evidentemente era perlomeno di regola la conseguenza dell’influenza della massa o più precisamente dell’essere insieme della massa a cui tali fenomeni apparivano legati perlomeno come ad un normale presupposton9. Tutto il valore religioso, così importante sul piano storico-culturale, attribuito alla comunità; in quanto tale, come portatrice dello spirito, nel cristiimo primitivo, si fondava proprio sul fatto che il riunirsi stesso dei fratelli era ciò che prevalentemente produceva questi stati sacri.

Diversamente stanno le cose per gli antichi profeti. Lo spirito scende su di loro proprio nei momenti di solitudine. Non di rado, anzi, li spinge prima in luoghi solitari, nei campi o nel deserto, come è successo ancora a Giovanni e a Gesù. Quando però il suo messaggio spinge il profeta per la strada, tra la folla, questo, ancora una volta, è solo la conseguenza dell’interpretazione che egli dà; alla sua esperienza. Occorre notare bene che questa comparsa ubblico non è motivata dal fatto che il profeta sia in grado di vivere soltanto lì la sua esperienza sacra, sotto l’influenza della suggestione di massa. I profeti, contrariamente ai primi cristiani, non si considerano membri di una comunità; pneumatica che dà; loro sostegno. Al contrario sanno diere incompresi e odiaalla massa dei loro ascolta» tori; non ricevono mai da loro sostegno e protezione come compagni della stessa fede, come succede agli apostoli nell’antica comunità; cristiana. Di conseguenza non una sola volta i profeti parlani loro ascoltatori o dei destinatari del loro messaggio chiamandoli «fratelli» come invece fanno sempre gli apostoli cristiani.

Tutto il pathos della solitudine interiore sovrasta il loro stato d’animo che proprio nella profezia pre-esilica è prevalentemente duro e amareggiato; o se è tenero, come in Osea, è velato di malinconia. Non sciami di estatici, ma uno od alcuni discepoli fedeli (Is., 8, 16) condividono la loro esaltazione solitaria ed il loro tormento altrettanto solitario. è chiaro che di solito sono stati i discepoli a trascrivere le visioni del profeta o a farsi da lui dettare la loro interpretazione, come Baruc, figlio di Neria, ha fatto per Geremia. In certi casi le profezie vengono raccolte per essere trasmesse a coloro a cui si rivolgono. Ma quando il profeta preesilico compare tra la folla e comincia a parlare, ha sempre la sensazione di trovarsi davanti a uomini indotti dai dèmoni al male, cioè al culto orgiastico di Ba’al o all’idolatria o a peccati etici o sociali o a quella che è la peggiore stoltezza politica: la resistenza ai decreti di Jahvè. Sente in ogni caso di trovarsi dinanzi a mortali nemici o a persone cui il suo Dio ha destinato sciagure spaventose. La sua stessa schiatta lo odia (Ger., ir, 19 e 21; 12, 6) e Geremia scaglia la maledizione contro il proprio villaggio natale (11, 2223). Il profeta di sventura emerge da lotte solitarie con le proprie visioni e torna nella solitudine della sua dimora, guardato con ribrezzo e paura, mai amato, spesso deriso, beffato, minacciato, coperto di sputi e colpito al volto.

Gli stati sacri di questi profeti sono, in questo senso, assolutamente endogenio9 e come tali vengono percepiti da loro e dagli ascoltatori, e non come prodotti di una concreta influenza emotiva di massa; nessuna influenza esterna, bensì la propria condizione mandata da Dio, mette il profeta nel suo stato di estasi. E il tradizionale valore attribuito all’estasi come sacra di per sé subisce palesemente un declino sempre maggiore proprio nel periodo profetico. Profezia e contro-profezia si affrontano sulla via, ambedue legittimate nello stesso modo dall’estasi, lanciandosi reciproche maledizioni. Dov’era dunque, doveva chiedersi ciascuno, la verità; di Jahvè? La conclusione da trarre era che l’autcità; dei profeti non si riconosce dall’estasi in quanale. Di conseguenza l’estasi, concretamente, perse importanza, perlomeno sul piano della predicazione. Solo eccezionalmente, e solo come mezzo per uno scopo preciso si parla dell’esperienza del profeta nell’estasi dal punto di vista delle sue sensazioni. Poiché — contrariamente agli esempi indiani — questo aspetto non contava nulla. Non garantiva l’autenticità;. Solo l’udire la voce corporea di Jahvè, il dio iibile, dava al profeta stesso la prova di essere il suo strumento. Per questo motivo veniva posta la massima enfasi su questo punto. Ad esso si appellava il profeta, e non al modo di essere dei suoi stati sacri. Di conseguenza i profeti non radunavano intorno a sé nessuna comunità; in cui l’estasi di massa, quella condizionata dalla massa risvegli estatici in genere potessero essere praticati come vie di salvezza. Non la minima traccia di questo ci è nota riguardo alla profezia classica di Jahvè. è in contrasto con il carattere della sua proclamazione. Da nessuna parte l’acquisizione o il possesso di uno stato estatico o della capacità; di percepire la voce di Jahvè, qualità; che erano pie del profeta, vengono posti come presupposto anper i suoi ascoltatori, contrariamente a quanto avviene per il possesso del pneuma nelle antiche fonti cristiane. Il carisma profetico, piuttosto, è la carica pesante e spesso tormentosa del profeta e di nessun altro.

Lo scopo dei profeti non è mai, come nella profezia protocristiana, di far discendere lo spirito sugli ascoltatori. Al contrario: il carisma profetico è il loro privilegio. E si tratta di un libero dono della grazia divina senza qualificazione personale. Nei racconti sul modo in cui è avvenuta la loro chiamata questa prima estasi, che fa dell’individuo un profeta, non viene mai presentata come frutto di ascesi o di contemplazione o magari di realizzazioni etiche, pratiche di penitenza o altri meriti. Al contrario si tratta sempre, senza eccezioni, di un evento improvviso e immotivato, conformemente al carattere endoge no di tale stato. Jahvè chiama Amos distogliendolo dal suo gregge. Un angelo di Jahvè tocca con un carbone ardente la bocca di Isaia, Jahvè stesso con il suo dito tocca quella di Geremia ed essi vengono così consacrati. Talvolta, come Geremia, essi recalcitrano spaventati contro il dovere che viene loro imposto insieme al carisma; altre volte, come Isaia, si offrono con gioia al dio in cerca di un profeta.

Inoltre, contrariamente ai profeti indiani, e a quelli ellenici del tipo di Pitagora e degli orfici, e in contrasto anche con i puritani recabiti, a nessun profeta israelita veniva in mente di adottare una via di salvezza che superasse sul piano rituale od ascetico l’etica quotidiana. Si manifesta qui l’enorme portata della concezione del berith che fissava in modo univoco ciò che Jahvè desiderava dal suo popolo, in collegamento con la Torah levitica che aveva stabilito la validità; generale di queste sue esigenze. Il fatto che la Torah noa nata dagli sforzi personali verso la salvezza di uno strato letterario di pensatori aristocratici, ma dalla prassi della confessione e dell’espiazione dei peccati in mano a curatori di anime empirici, portava qui i suoi frutti: senza tener conto di questa circostanza l’intero sviluppo rimane del tutto incomprensibile.

Ciò si esprimeva anche nella qualificazione della profezia stessa. Abbiamo visto come l’estasi in quanto tale non legittimava più. Solo la percezione della voce di Jahvè aveva questo valore. Ma cosa garantiva agli ascoltatori che il profeta aveva veramente udito la voce di Jahvè, come egli asseriva? Le risposte erano determinate in parte dalla storia contemporanea, in parte dalla religione e dall’etica. Fattori storici e la natura minacciosa di Jahvè inducevano Geremia (23, 29) a presentare come segno distintivo il tradizionale contrasto con la profezia di salvezza al servizio dei re. Ciò si spiega con la lotta sociale contro la monarchia fondata sulla corvée e i gibborìm. L’autentico profeta non annuncia la salvezza ai grandi che sono scellerati. Era invece eticamente condizionato il legame con i comandamenti di Jahvè quali erano noti a ciascuno (23, 22): solo il profeta che esorta il popolo alla moralità; e punisce i peccati (con minacce di sventura) non è un pro menzognero. Ma i comandamenti di Jahvè, a loro volta, erano universalmente conosciuti attraverso la Torah. Questa continua dunque ad essere il presupposto di tutta la profezia, menzionata di rado in modo esplicito, a dire il vero, perché del tutto ovvia.

Anche i maestri di sapienza greci del vi secolo proclamavano il carattere assolutamente vincolante della legge etica, che in concreto era una molto simile a quella dei profeti, così come l’etica sociale prodotta dalla legislazione degli esimnèti elleni è affine nel contenuto, come si è visto, a quella del Libro del Patto. Ma la differenza stava nel fatto che in Grecia, come in India, i veri profeti e annunciatori di salvezza religiosi collegavano la salvezza a presupposti speciali di carattere rituale o ascetico; erano, di fatto, portatori di «salvezza» e soprattutto di salvezza nell’aldilà;. In maniera diametralmente opposta, i profeti israeliti annunciavaa sventura, e si trattava di sventura su questa terra, come punizione per i peccati contro la legge generale del loro dio, valida per ogni israelita. Poiché l’osservanza di questa etica quotidiana era considerata un dovere speciale di Israele in virtù del berith giurato, tutto il possente pathos delle minacce e promesse escatologiche agiva nel senso dell’osservanza di questi semplici comandamenti che ciascuno era in grado di mantenere e che, secondo i profeti, alla fine dei tempi anche i non-israeliti avrebbero osservato. Il grande paradosso storico era che in questo modo quella che più tardi è stata l’etica quotidiana ufficiale dell’Occidente cristiano, il cui contenuto si differenziava dalla dottrina e dalla prassi di vita quotidiana vigenti sia in epoca proto-ellenica che ellenica solo riguardo alle cose del sesso, veniva fatta oggetto del dovere speciale di un popolo eletto dal suo dio, il più potente di tutti, e inculcata con ricompense e punizioni utopiche. La speciale salvezza promessa ad Israele dipendeva completamente dall’agire eticamente corretto, e precisamente dall’agire conforme all’etica quotidiana. Per quanto triviale e ovvio ciò possa sembrare, soltanto qui se ne è fatto la base di un proclama religioso e a ciò hanno portato circostanze molto specifiche.

In virtù della loro chiamata i profeti rivendicavano speciali qualità;. L’espressione «spirito» (rùach Jahvè viene impiegata relativamente di rado e solo da uno di questi profeti preesilici (Osea, 9, 10; Is., 30, 1; Michea, 3, 8) per designare il loro specifico possesso interno, benché occasionalmente (Osea, 9, 7) l’espressione «uomo dello spirito» (ish ha-ruach) compare in un profeta scrittore. Solo con Ezechiele, e in seguito con il Deuteroisaia ed i profeti post-esilici l’espressione comincia ad apparire frequentemente. Sembra che il contrasto con i nevijìm professionisti inducesse i profeti più antichi a non usarla o ad usarla molto di rado. Inoltre ruach nell’uso linguistico designava essenzialmente gli stati estatici irrazionali e transitori mentre i profeti mettevano la loro specifica dignità; proprio nel possesso abituale di una comprensione consapevole, chiarcomunicabile, delle intenzioni di Jahvè. Solo con Ezechiele il rùach ridiventa una misteriosa forza divina che è sacrilego disdegnare, come nei Vangeli. E solo durante l’esilio (Deuterois., 40, 13; 42, 1; 48, 16) lo «spirito» diventa un’entità; trascendente ed infine (Gen., 1, 2) cosmica per la quale il Tisaia adopera per la prima volta l’espressione «spirito santo» (59, 21; 63, 14).

Ma se il carisma profetico significava soprattutto la capacità di una comprensione razionale di Jahvè esso comprendeva anchelità del tutto diverse e irrazionali. Tra queste, in primo luogo, le forzgiche. Isaia è l’unico tra i profeti scrittori che viene menzionato anche come consigliere medico durante una malattia di re Ezechia. In una difficile situazione politica egli chiese a re Achaz di domandargli la conferma del suo oracolo politico tramite un miracolo e, di fronte all’evasività del re, pronunciò le celebri parole sulla «giovane donn00BB; già incinta del principe salvatore Immanuel. Questa, come se ne deduce d situazione, non è solo una profezia, ma l’annuncio di una decisione di Jahvè che ha per effetto la salvezza promessa ed è conseguenza dell’incredulità del re. I profeti hanno il potere di uccidere con le loro parole (6, 5; Ger., 28, 16). Geremia affida a un messaggero una formula di maledizione su Babilonia che dovrà essere letta e poi affondata nell’Eufrate onde produrre la tura predetta.

Non è però mai una qualsiasi manipolazione simpatetica o di altro tipo magico a produrre il miracolo, bensì la semplice parola, parlata o scritta. E soprattutto questo potere magico — così importante nella coscienza di sé di Gesù — passa del tutto in secondo piano nelle testimonianze di sé dei profeti. Non lo menzionano mai come prova della loro legittimazione divina e anzi non lo rivendicano personalmente. Senza dubbio Geremia (i, io) si riconosce come «costituito su tutti i popoli» da Jahvè per distruggerli od offrire loro il «calice del delirio» (25, 15 e seg.). Ma sempre questa consapevolezza del proprio valore si trasforma nella coscienza di non essere altro che uno strumento. Non è la volontà; del profeta, ma la decisione di Jahvè a lui comunicata con la soce corporea, la «parola» di Jahvè (Ger., 23, 29) che realizzerà; quanto predetto. La conoscenza di queste decisioni e del potere miraco di Jahvè e dei suoi effetti sono le sole cose che rivendicano per sé. «Jahvè non fa nulla», assicura Amos, «senza prima rivelarsi ai suoi profeti»: questa è la fonte della loro sicurezza in se stessi. è vero che entro certi limiti i profeti rivendicano anche la capacità; di influenzare le decisioni di Jahvè. Nello stesso Amos succede il profeta appaia nel ruolo di intercessore, lo stesso che la tradizione attribuisce a Mosè e anche ad Abramo. Ma non sempre Jahvè si lascia smuovere. Succede che dichiari di non voler mutare le sue decisioni «perfino se Mosè e Samuele apparissero davanti a lui». Dal canto suo il profeta non prende neppure in considerazione la possibilità; di costringere Jahvè con la magia. Anzi, nei confronti di questo terribile, ciò sarebbe un peccato mortale. Né tantomeno il profeta si trasforma mai in salvatore o anche solo in esemplare virtuoso religioso, neppure nei propri detti. Non rivendica mai per sé una venerazione agiolatrica. Non pretende di essere senza peccato.

Le esigenze etiche che si poneva non erano diverse da quelle poste a tutti. Senza dubbio uno dei sicuri contrassegni dei profeti menzogneri, accanto all’assenza dell’esortazione etica al popolo e delle minacce di sventura, è anche il loro rifiuto di convertirsi e la loro disobbedienza ai comandamenti di Dio; si tratta di un segno distintivo che è sempre stato molto importante e ricco di conseguenze per il carattere della religiosità;. Ma Geremia, per esempio, non asseriva affatto di non mancare mai egli st sul piano etico. Il fatto che su istigazione di Sedekia egli dica una menzogna ai sostenitori dell’Egitto per non compromettere il re (38, 28) è conforme all’etica dei Patriarchi. Lo mostra del resto anche il fatto che Jahvè stesso prenda al suo servizio lo «spirito di menzogna». Il dovere della sincerità; nell’etica proto-israelitica (anche quella del Decalogo) come in qa omerica non è così incondizionato come nell’etica indiana ed è anche superato, tra l’altro, dalle esigenze del Siracide. Ma ciò mostra comunque che il profeta, che in quanto tale rivendicava una fede assoluta nella sua persona, separa il suo ufficio dalla sua condotta personale. Diffìcilmente la Torah avrebbe approvato gli eccessi spaventosi di odio e di ira contro gli avversari, tipici di molti profeti. è vero che talvolta Jahvè sembra collegare l’efficacia delle sue parole sul cuore del popolo alla condizione che il profeta «parli nobili parole» gradite a Dio. Ma per il resto Geremia si riconosce come «impuro» e debole. Nessun profeta giudica di avere qualche merito proprio nel possesso della salvezza; egli è sempre solo un mezzo per proclamare i comandamenti divini. Rimane sempre soltanto strumento e servo del suo incarico del momento.

Da nessun’altra parte il tipo della «profezia di missione» è stato coniato con tanta precisione. Nemmeno nella comunità; proto-cristiana. Nessuno dei profeti apparteneva ad una «società;» esoterica, come più tardi gli apocalittici. E nessuno dei eti ha mai pensato a fondare una «comunità;». Una delle differenze sociologicamente decisive rispetto alla proa protocristiana sta nella mancanza di ogni presupposto in questo senso; in particolare la creazione di una nuova comunità; cultuale come quella offerta dal culto del Kyrios Christos doveva necessaente mancare dato l’ambito concettuale dei profeti. I profeti stanno in mezzo ad una comunità; politica i cui destini li interessano. Ed i loro interessi sono puramenteci, non cultuali, in contrapposizione ai missionari cristiani che impiegavano soprattutto la cena eucaristica come mezzo per dispensare la grazia. Su questo punto si manifesta in effetti an elemento dell’antico cristianesimo derivato dalle comunità; misteriche della tarda antichità;, che era completamente estraneo aofeti. Tutto ciò ancora una vo00E0è connesso al particolare rapporto d’Israele con il suo Dio nel cui nome i profeti parlano, e al senso del loro proclama. Ambedue però erano loro forniti proprio da quel mondo concettuale religioso che era stato preparato dagli intellettuali israeliti, soprattutto dalla Torah levitica. I profeti non hanno annunciato, per quanto ci è dato sapere, né una nuova concezione di Dio né nuovi mezzi di salvezza né nuovi comandamenti; o perlomeno questo non era nelle loro intenzioni. Si suppone che il loro Dio sia conosciuto da ciascuno e che «ti è stato detto, o uomo, che cosa sia il bene» (Michea 6, 8). E cioè: osservare i comandamenti di Dio conosciuti tramite la Torah. Anche Isaia chiama la propria predicazione «Torah di Dio» (30, 9). I profeti si riferiscono senza eccezioni alle trasgressioni di questi comandamenti già; noti.

Del pari l’ambiente forniva loro i problche si trovavano al centro della loro predicazione. Il timore del popolo per la guerra si frangeva intorno a loro con le domande sui motivi dell’ira di Dio, sui mezzi per disporlo favorevolmente, sulle speranze nazionali per il futuro in genere. Panico, furore e sete di vendetta contro i nemici, timore della morte, della mutilazione, della devastazione, dell’esilio (già; in Amos), della riduzione in schiavitù, e le domande se era giusto resre 0 sottomettersi, allearsi con l’Egitto, con Assur o con Babele, tutto ciò agitava il popolo e reagiva sulla profezia. Questa emozione generale influenzava nel più profondo il loro mondo concettuale anche quando comparivano in pubblico per impulso proprio.

3. Etica e teodicea dei profeti

Alla domanda sul perché della sventura la risposta sin dall’inizio era questa: tale era la volontà; di Jahvè, del proprio dio. Per quanto ciò appaia semplice, era t00E0#x2019;altro che ovvio. Infatti per quanto la concezione di questo dio avesse già; assunto vari singoli tratti universalistici, perlomeno nel pensiero degli intttuali, tuttavia sarebbe stato più conforme all’opinione popolare l’ipotesi o che gli dèi stranieri in quel momento per qualche motivo erano i più forti, o che Jahvè non voleva aiutare il suo popolo. Ma la predicazione profetica superava quest’ultima ipotesi e asseriva che Jahvè stesso portava intenzionalmente la sventura sul suo popolo. «Succede una sciagura in città; senza che Jahvè sia all’opera?» chiede Amos (3, 6).

I giudizi divergevano sul problema se tali decisioni divine erano determinate in maniera contingente, come presuppone la maggior parte degli oracoli, o se il destino è preparato da Jahvè «da giorni immemorabili» come asserisce Isaia (37, 26). L’opinione variava a seconda che in primo piano nel mondo concettuale dominasse il dio irato della lega o l’augusto monarca universale. Ma in ambedue i casi l’affermazione di Amos, terribile per l’opinione popolare, era sorta sulle particolari basi storiche dello jahvismo.

Il punto decisivo era questo: Jahvè da sempre, come Amos ricordava in modo molto esauriente (6, 6 e seg.), era soprattutto il dio delle catastrofi naturali, che poteva mandare e spesso aveva mandato la pestilenza e ogni sorta di terribili sventure su coloro con cui era adirato. Soprattutto aveva ripetutamente mandato rovesci bellici sui nemici salvando così Israele; spesso però soltanto dopo aver lasciato che questo soffrisse a lungo tale sventura. Per questo motivo, e solo per questo, i profeti diventavano uomini politici: la sventura politica, e nessun’altra, stava ora minacciosa alle porte; essa rientrava nella vera sfera d’azione di Isaia. Se all’inizio restava ancora in secondo piano rispetto alle attese catastrofi naturali di dimensione cosmica, la sua importanza nella profezia di sventura crebbe sempre di più. Essa va attribuita a Jahvè e a nessun altro dio. D’altra parte però Jahvè era il dio che aveva eletto Israele tra tutte le stirpi della terra. «Perciò punirò su di voi tutte le vostre colpe» gli fa dire Amos (3, 2) con un voluto paradosso. Solo Israele era legato a lui da un berith la cui rottura è comparata da Osea, il primo forse che ha definito il contrasto tra il popolo di Dio e i «popoli» impuri (9, 1 e seg.), all’adulterio. Ai padri di Israele Jahvè aveva fatto determinate promesse e prestato un giuramento. Aveva mantenuto queste promesse e in guerra e in pace aveva mandato benedizioni incalcolabili sul popolo. Viene esortato dai profeti a non rompere il suo patto e a sua volta chiede: (Ger., 2, 5) quale ingiustizia — intesa come condotta contraria al patto — avevano trovato in lui i padri di Israele?

L’adempimento delle promesse non era solo legato alla condizione che essi tenessero fede agli accordi con lui come il loro unico dio e non si volgessero ad altri culti, ma anche e, secondo la maggior parte dei profeti (Amos, Michea, Geremia ma anche Isaia), soprattutto all’osservanza di quei comandamenti che egli aveva loro imposto. E in particolare di quelli imposti soltanto a loro. Vi sono infatti, già; secondo Amos, delle ingiustizie per le quali Jahvè, in quanto monarca ersale, punisce anche altri popoli, in particolare i vicini di Israele. Tra queste (Amos, 1, 3 e segg.) vi è la violazione di una specie di diritto internazionale religioso di cui si presuppone la validità; tra i popoli palestinesi. Naturalmente si tratta soprato di violazioni nei confronti di Israele: la barbara devastazione di Galaad da parte dei Damascheni, il ratto e la vendita di prigionieri agli Edomiti da parte di Gaza e Tiro, la spietatezza degli Edomiti in guerra, lo sventramento di donne incinte da parte degli Ammoniti. In questo non c’è niente di speciale. Ma Jahvè punisce anche i torti di terzi popoli rispetto ad altri: così la cremazione del cadavere di un re edomita da parte di Moabiti. In ciò si manifesta senza dubbio la comunanza culturale dei popoli palestinesi intesa come parentela tribale.

Forse indica anche delle relazioni di diritto internazionale. Agli Edomiti la loro iniquità; viene rinfacciata come violazione del rapporto di «fratellanza» Israele, a Tiro addirittura come sprezzo di una «alleanza fraterna», presumibilmente un accordo militare giurato di diritto internazionale concernente il trattamento dei prigionieri. Appare possibile che convenzioni analoghe esistessero anche con altri popoli vicini, motivando la vendetta di Jahvè. La vera svolta etica si compì con il sopravvento della concezione universalistica di Dio. Nei confronti dei grandi re mesopotamici Isaia vede nella loro condotta di guerra smodatamente crudele un motivo in sé per l’ira di Jahvè. Inoltre però anche Yhybris di questi grandi monarchi doveva suscitare la gelosia di Jahvè.

Israele al contrario, secondo Amos, viene punito per tutte le colpe. Si attira addosso l’ira di Jahvè soprattutto con la violazione della «giustizia», il che significava però la violazione delle sue particolari istituzioni sociali. Valevano a questo fine per la maggior parte dei profeti quei comandamenti di fratellanza che la parenesi levitica aveva sviluppato in connessione con le antiche raccolte giuridiche. In Amos (2, 6 e seg.) troviamo, giustapposti in maniera caratteristica, da un lato l’induzione dei nazirei alla violazione dei loro doveri rituali e l’oppressione dei nevijìm, dall’altro la violazione dei comandamenti del Libro del Patto sul trattamento dei prigionieri per debiti israeliti e sul pignoramento del vestiario; si tratta dunque di elementi dell’antica costituzione militare e sociale il cui garante ai tempi della confederazione era Jahvè. La posizione particolare di Jahvè nei confronti di Israele come parte contraente della confederazione appare qui particolarmente chiara. Negli oracoli degli altri profeti, accanto ai semplici peccati privati (essenzialmente quelli contenuti nel Decalogo) viene chiamato in causa soprattutto l’atteggiamento non fraterno in tutte le sue forme, in particolare però, come in tutta l’etica caritativa del Medio Oriente e dell’Egitto, come oppressione dei poveri in tribunale e tramite l’usura.

Ma in tutte queste motivazioni dell’ira di Jahvè, già; nell’intenzionale paradosso di Amos, si manifesta l’influenza di#x2019;intensa cultura di intellettuali. Motivazioni etico-sociali delle punizioni divine si trovano anche altrove. La burocrazia patrimoniale dei grandi re aveva fatto sorgere dappertutto nei paesi vicini «l’ideale dello stato del benessere» patriarcale e caritativo e ovunque si era diffusa la credenza che proprio la maledizione del povero contro l’oppressore fosse particolarmente portatrice di sventura. Tale credenza, evidentemente per la mediazione fenicia, si trovava anche in Israele: i re della Mesopotamia nelle loro iscrizioni rimproverano agli avversari sconfitti di aver perpetrato ingiustizie sociali nei confronti dei loro sudditi (così già; Urukagina113 e ancora Ciro114). E soprattutto nelle fonti cinesi troviamo, inasione di un cambiamento di dinastia o della conquista di uno degli stati combattenti da parte di un altro governante, dei frequenti richiami a un trattamento dei sudditi contrario alle norme e a un modo di vivere eterodosso. In tutti questi casi tale motivazione è il prodotto di strati di intellettuali sacerdotali o ritualistici nell’ambito di stati burocratizzati.

L’aspetto particolare, nel caso di Israele, stava in primo luogo solo nel fatto che queste esigenze caritative nei confronti degli strati dominanti, soprattutto dei funzionari del re, erano mutuate, mentre dappertutto altrove solevano seguire lo sviluppo di un apparato nazionale burocratico e di un corrispondente strato coltop9. Mentre invece proprio questo sviluppo di una monarchia patrimoniale veniva rifiutato dagli intellettuali israeliti devoti a favore dell’antico ideale del principe della provincia. Un altro tratto particolare è che tale motivazione si trova nelle minacce di sventura dei profeti e che la punizione non riguarda soltanto i governanti personalmente, ma anche il popolo in quanto tale, responsabile in solido per i peccati dei re e dei grandi in virtù del berìth. Ciò a sua volta si collegava alla natura particolare della costituzione politica e religiosa di Israele.

Anche sotto altri aspetti troviamo nei profeti i prodotti intellettuali della giurisprudenza e della saggezza israelitiche. Accanto ai propri oracoli, i «devarìm Jahvè», i profeti citano come fonti determinanti della morale: la chok ovvero l’antica consuetudine stabilita (come abbiamo visto) dagli oracoli giuridici dei chokel(im, la torah, la dottrina razionale levitica (Amos, 2, 4; Is., 24, 5), e infine il mishpat, il diritto espresso dalle sentenze e dagli statuti dei sarìm e degli zekeriim. Malgrado occasionali contrasti acuti con i giudici, soprattutto i sarìm, i chokel{im ed anche i maestri della Torah che parlano con parole vane, il carattere vincolante di queste norme non veniva contestato dai profeti e anche la chokhma, il vivere prudente dei maestri di saggezza, non veniva rigettata in linea di principio. Senza dubbio le posizioni sono diverse. Nessun profeta, si è visto, avanza la pretesa di proclamare nuovi comandamenti, come fa talvolta enfaticamente Gesù: «Sta scritto, ma io vi dico…» Ma la falsificazione della vera volontà; di Jahvè pure da molto tempo palesata, ad opera dello «stilo menero degli scribi» e degli «iniqui decreti» emessi dai chokeì(ìm a detrimento dei poveri (Is., 10, 1 e seg.) sono delle iniquità, come gli ingiusti verdetti, ripetutamente stigmatizzati, dei giudici corrottix00E8; vero che talvolta il profeta preso da Jahvè nel suo consiglio in virtù della sua sovranità; rifiuta totalmente il valore della chokhma come quello dei comandamenti (mizwoth) che i maestri «onorano solo con le labbra» (Is., 29, 13-14). Tuttavia questo scetticismo, ancora peggiore in Geremia, rivolto personalmente contro i maestri, non impediva che i comandamenti positivi della Torah levitica e quelli dei profeti fossero identici.

L’importanza della Torah per la profezia va però al di là; dell’aver fornito il contenuto dei comandamenti. La concezione fondamen della profezia, vale a dire che Jahvè infligge mali terribili a causa di mancanze etiche, in particolare etico-sociali, aveva già; la sua origine nella pratica levitica della confessione e dell’espiazio nel suo sviluppo mediante la parenesi etico-razionale. Anche il trasferimento del concetto della vendetta divina dai peccati e dalle mancanze dei singoli a quelli del popolo come unità; è senza dubbio pre-profetico, a prescindere dall’epoca a cui risil rituale sacerdotale di espiazione per l’intera comunità; che si trova nella versione attuale. Infatti questa importante concezione deri dal carattere mai dimenticato di Israele, come unione di liberi cittadini responsabili in solido in virtù del berith. Gli oracoli di Amos presuppongono questa teodicea di sventura. Ma come ogni teodicea anche questa senza dubbio è stata in primo luogo un concetto di proprietà; esclusiva di strati intellettuali. Senza dubbio non era ancora mai stato proclo in pubblico, da un visionario come Amos, con una simile violenza, per spiegare una sventura attualmente imminente. Ciò spiega l’enorme impressione che fece e che si manifesta nel fatto che gli oracoli di questo profeta furono i primi ad essere conservati. A ciò si aggiunge naturalmente l’effettivo verificarsi della sventura che era stata predetta proprio all’epoca della prosperità; politica ed economica sotto il regno di Geroboamo II.

Se prima infatti abbiamo sottolineato come la posizione della profezia classica era determinata dal declino del potere dei due regni e dalla crescente minaccia che li sovrastava, tale asserzione non va fraintesa. Tali fatti non produssero in sé la comparsa dei profeti di sventura. Anche Elia appare già; come un profeta di sventura nei confronti del re e forse anche prima di Amos esvano già; profezie di sventura dirette contro il popolo. Le visioni di sventura dei proferano determinate in sé in maniera «endogena». Ogni occhiata ai loro scritti ci insegna che abbiamo a che fare con delle personalità; il cui temperamento duro, amaro e foscamente passionale perlopiù era preesnte in loro stessi, indipendentemente dalla situazione del momento. Vedono il mondo pieno di sventura proprio quando la fortuna sembra risplendere al massimo. Amos non chiama Assur per nome: viene chiamato «il nemico» e l’esilio predetto sarà; «al di là; di Damasco». Ciò era abbastanza chiaro. Ma spiegare come mai vee le sventure venire proprio da lì, il profeta adduceva la venerazione di divinità; mesopotamiche (5, 27). I profeti non fondavano i loro tetri presentimenti sulla azione mondiale ma sulla corruzione intorno a loro. Tali presentimenti tornano anche ad Isaia proprio nel periodo successivo alla ritirata di Sennacherib, in contrasto con la sua precedente fiducia nella vittoria (22, 14). L’avvento effettivo della sventura sembrava piuttosto sollevare i profeti: la corruzione che vedevano allora intorno a loro sembrava trovare infine la sua espiazione e quindi essere cancellata.

Senza dubbio resta più che incerto in che misura si possa per questo parlare di uno specifico «tipo di personalità;» dei profeti, nel senso di una predisposizione univoca per quel determinstato emotivo. Infatti anche i resti mutilati dei loro oracoli ci lasciano scorgere le differenze fondamentali del loro temperamento: la passione tempestosa, bruciante, ininterrotta di Amos, la tenerezza e il calore dell’amore sentimentale di Osea, lo slancio di tempra aristocratica e pieno di sicurezza di sé di Isaia e il suo forte e profondo entusiasmo, l’anima tenera di Geremia che soffriva di acuti stati depressivi e di ossessioni ma per la forza della sua vocazione si dominava imponendosi un disperato eroismo, l’intellettualismo di Ezechiele, capace di voli estatici ma interiormente freddo. Tutti questi contrasti si lasciano cogliere e tuttavia non mutano il carattere della profezia di sventura. è indicativa soprattutto una circostanza: con la definitiva distruzione del tempio finisce la profezia di sventura e comincia il conforto e la profezia di salvezza. La profezia di sventura era quindi il prodotto di un profondo orrore per l’abominazione del distacco da Jahvè e dai suoi comandamenti e di un tremendo terrore per le sue conseguenze, di un’incrollabile fede nelle promesse di Jahvè e della disperata convinzione che il popolo le avesse perse per propria colpa o fosse sul punto di perderle.

Evidentemente anche l’opinione dello stesso profeta mutava di volta in volta riguardo al grado d’imminenza della terribile sventura. Talvolta, in particolare in Amos e Geremia, occasionalmente anche nel giovane Isaia, ogni speranza sembrava vana. Altre volte vi era la possibilità;, la probabilità;, addirittura la sicurezza della salvezza o anche — esta è la re00E0 — del ritorno di tempi migliori dopo la sventura. Nessun profeta ha contestato permanentemente in modo assoluto questa speranza. Né avrebbe potuto, volendo ottenere un qualche effetto sui suoi ascoltatori. Tale effetto non era una questione semplicemente indifferente per i profeti malgrado il carattere endogeno della loro estasi. Si sentivano investiti da Jahvè del ruolo di «guardiani» ed «esaminatori». Per Geremia è un autentico profeta solo colui che sferza i peccati del popolo e — in connessione a ciò — annuncia la sventura. La sventura però poteva non essere assoluta e definitiva ma condizionata dal peccato. I profeti, già; Isaia ma ancora di più Geremia, oscillano nei loro atteggiamenti. Quando vogo avere un’influenza pedagogica Jahvè è un dio che può pentirsi delle sue decisioni. Quando parlano sotto l’impressione immediata della corruzione tutto appare vano e senza speranze. Le obiezioni pratiche di carattere pedagogico e legate alla cura delle anime da parte soprattutto dei maestri della Torah avevano un certo peso. Lo mostra, rispetto alla concezione che riecheggia in Isaia di una predestinazione del destino di sventura, il racconto paradigmatico di Giona che deriva evidentemente dai circoli di intellettuali. Il suo tema specifico è l’esclusione dell’immutabilità; della profezia di sventura e la giustificazione della mutabilità; delle decii di Jahvè.

Tali considerazioni, che pano essere determinanti per i maestri della Torah che si reggevano sulla cura delle anime e ancora di più per gli autori sacerdotali della scrittura, non erano certamente oggetto di esplicita attenzione da parte degli estatici dediti alle loro visioni. D’altra parte sembra infondato assumere per questo motivo che le promesse di salvezza siano state messe in bocca ai profeti solo dalla versione sacerdotale. Si vede infatti chiaramente come l’intento pedagogico si inserisce nei profeti, solo una volta in Amos (5, 15), più volte in Osea, e ancora molto più frequentemente in Isaia e, malgrado il suo pessimismo, più forte di tutti e addirittura come principio in Geremia (7, 23). Inoltre contro l’ipotesi dell’interpolazione c’è anche la presenza di categorie di salvezza ben determinate, come quella del «resto» che si converte a tempo, già; presso i primi profeti (Amos). Piuttosto, la tradizionale speranza della parenesi #x2019;idea, che sempre riemerge, della sventura la quale non può rappresentare la fine dei piani di Jahvè su Israele, facevano sì che la salvezza rinascesse sempre, sia pure in maniera indeterminata e solo per quel «resto che si converte», e a ciò aiutava in misura crescente l’intento pedagogico, anche se in singoli casi l’angoscia non abbia fatto vedere al profeta altro che un fosco destino. In ogni caso è difficile assumere un’univoca predeterminazione psichica all’«ipocondria politica» come fonte della posizione dei profeti.

Se la profezia di sventura va fatta derivare in larga misura dalla personale disposizione psichica dei profeti condizionata da doti interne e da impressioni concrete, ciò non toglie che siano stati proprio i destini storici di Israele a dare a tale predicazione la sua posizione nello sviluppo religioso. E non soltanto nel senso che la tradizione ci ha conservato proprio gli oracoli di quei profeti che si erano avverati o sembravano essersi avverati o il cui avverarsi poteva ancora essere atteso; lo stesso prestigio sempre più solido della profezia si fondava su quei casi, poco numerosi ma estremamente impressionanti per i contemporanei, in cui l’esito le aveva dato ragione in modo del tutto inatteso. Tra questi vi è in primo luogo l’oracolo di sventura di Amos sull’allora potente Regno del Nord. Poi l’oracolo di sventura di Osea sulla dinastia di Jehu e su Samaria. Poi l’oracolo di salvezza di Isaia per Gerusalemme in occasione dell’assedio di Sennacherib. A dispetto di ogni probabilità; egli esortò con sicurezza da sonnambulo alla resistenza. E se infine lȁito definitivo fu una velata sottomissione del re, sembra certo che l’assedio di Gerusalemme non portò ad una capitolazione poiché lo stesso Sennacherib nella sua relazione non dice niente in proposito. Vi è poi soprattutto la conferma dei terribili oracoli di sventura del giovane Isaia, di Michea, soprattutto però di Geremia e di Ezechiele, data dalla conquista e dalla distruzione di Gerusalemme. Infine vi è il predetto ritorno dall’esilio.

Da allora l’autorità; della profezia, che evidentemente aveva patito per la grave delusione della battagli Megiddo, fu incrollabile. Venne totalmente dimenticato che la grande maggioranza degli oracoli, anche quelli inseriti nella raccolta che ci è stata conservata, non si era realizzata. Infatti i profeti potevano sfruttare il fatto che sin dall’inizio, già; in Amos, era stata esplicitamente affermata la mutabilità; delle decisioni divè e i seguaci della profezia potevano ritirarsi dietresta asserzione. Questa mutabilità; del resto era già; implicita anche nella prassi di penitenza dei Leviti poich il perdono dei pec garantiva l’allontanamento della sventura minacciata. Anche presso i profeti quindi Jahvè continuava pur sempre ad essere un dio di grazia e di perdono, per quanto ai loro occhi restasse soprattutto e sempre più il dio dell’ira e della vendetta e per quanto nei singoli casi tenesse fede rigorosamente alla propria ira. Questo suo carattere lo distingueva, agli occhi dei profeti, da tutti gli altri dèi. Una vena di tenerezza corre in quelle profezie di grazia che si trovano in particolare in Osea e in Geremia ma anche in vari oracoli di Isaia. Jahvè chiede la fede di Israele come un amante la fede dell’amata.

Ma nell’insieme i tratti di Jahvè, anche dove veniva sottolineato questo aspetto benigno, dovevano dare vita, nei profeti, a una figura ben più maestosa che nei prodotti letterari dei circoli dei maestri della Torah, quali il Deuteronomio. Un dio che aveva a sua disposizione i re dei grandi imperi per punire i peccati di Israele e si serviva di loro a suo piacimento doveva toccare con il suo universalismo e la sua grandiosità; ben altre vette che non l’antico dio della lega di Israele ed il borghese disatore di grazia dei Leviti. Tutti i profeti, senza dubbio collegandosi volutamente all’antico periodo eroico, preferivano il nome «Jahvè Zevaoth», ossia la designazione del dio della guerra patrono della lega. Ma con questo si fondevano ora i tratti di un grande dio del cielo e della terra. La corte dei grandi re, i quali avevano nei confronti d’Israele un ruolo simile a quello del basileus persiano per gli Elleni (benché anch’egli fosse nemico del paese), per esempio nella Ciropedìa115 di Seno fonte, forniva l’immagine della corte celeste in cui l’antico principe della guerra non aveva più intorno a sé il suo seguito, i «figli degli dèi», ma una schiera di spiriti celesti al suo servizio che persino nella foggia dell’abito erano ripresi da modelli babilonesi ed egiziani. Sette spiriti, corrispondenti ai sette pianeti, circondano il suo trono, e tra questi uno con la penna e vestito di lino, corrispondente al dio degli scribi. Le sue spie cavalcano destrieri dai colori dei quattro dèi del vento babilonesi, percorrono il mondo in lungo e in largo e fanno rapporti. Il re del cielo procede su un carro con cherubini, simili evidentemente a figure ieratiche babilonesi, in uno splendore soprannaturale. Certo avveniva ancora, malgrado tutto, che Dio chiamasse gli spiriti della natura a testimoni contro Israele, fedifrago come in un processo. Ma di regola egli è il signore sovrano di tutto il mondo delle creature. La benigna clemenza di cui talvolta dispone non impedisce che altre volte dia prova di tratti del tutto amorali, come i re terreni. In modo analogo ai re patrimoniali indiani che mandavano i loro agenti provocatori così egli manda il suo «spirito di menzogna» per accecare i suoi nemici. I suoi stessi profeti inorridiscono talvolta di fronte a lui. Isaia definisce «barbaro» il suo decreto contro Assur che egli stesso aveva chiamato come strumento; anche Ezechiele (20, 25) che non si scandalizza affatto per tali progetti di annientamento di Jahvè contro i nemici di Israele da lui stesso chiamati crede tuttavia che Jahvè abbia dato in passato delle leggi per la rovina del proprio popolo.

Per la tradizione è normale che Dio mandi dei consigli volutamente falsi ai re israeliti disobbedienti. Solo Osea (11, 9) si è sdegnato per tali tratti: se la versione — oggetto di controversie tra Wellhausen ed altri — è esatta, fa dire a Jahvè che egli non agisce «secondo la passione» perché è «santo e non corruttore». Ma l’esperienza di come la chiara parola del profeta fosse ignorata e rifiutata da Israele portò anche Isaia al convincimento che Jahvè stesso non voleva diversamente e che arrivava a indurire il popolo per distruggerlo. Questa concezione, diventata importante nella predicazione del Nuovo Testamento e più tardi nel calvinismo, ebbe inizio qui. Per questi suoi tratti contingenti-passionali Jahvè rimase molto diverso dal dio universale ellenico, per esempio di Senofonte. Restava, nell’ insieme, un dio terribile. Spesso il fine ultimo del suo agire sembra essere esclusivamente l’esaltazione della propria maestà; su tutte le creature. Da questo punto di vista però il suo atteggiamento era comui grandi monarchi terreni. Di conseguenza la sua immagine d’insieme restava incerta. Uno stesso profeta lo vedeva ora in una sacra purezza sovrannaturale, ora di nuovo come l’antico dio della guerra dal cuore mutevole. Se in questo modo egli conservava un alto grado di tratti antropomorfi, tuttavia proprio i profeti più soggetti ad esperienze estatiche non osavano più, come gli antichi narratori jahvisti, prestare alle loro visioni della magnificenza celeste dei tratti troppo concreti, perlomeno per quanto riguarda personalmente il Dio invisibile fin dai tempi antichi. Ciò che vedono è «come un trono» ma non un vero trono; anche Isaia scorge solo in fluttuante mantello regale, non il Dio in persona.

La dimora di Jahvè restava tanto ambigua quanto la sua natura. Il fatto che avesse creato il cielo e la terra e assegnato il loro posto alle costellazioni, come dice Amos, non gli impediva, secondo lo stesso profeta, di «ruggire da Sion». Isaia ebbe la sua visione della magnificenza divina come una visione del tempio. Tale localizzazione avrebbe dovuto compromettere il prestigio di Jahvè con la caduta del tempio. Si erano visti innumerevoli santuari devastati dai conquistatori ed i loro idoli trascinati via senza essere in grado di difendersi. Poteva ciò accadere anche a Jahvè? I profeti erano incerti. Isaia, in molti dei suoi oracoli posteriori, dopo la ritirata di Sennacherib, era fermamente convinto, contrariamente alle sue precedenti minacce, che Gerusalemme in quanto sede di Jahvè non sarebbe mai potuta cadere. Ma dopo che Amos e Osea ebbero predetto la caduta del Regno del Nord come voluta da Jahvè stesso (una profezia che si trova già; nei primi oracoli di Isaia) anche la caduta di Gerusalemme stessa diventò, a partda Michea e definitivamente da Geremia in poi, un destino decretato da Jahvè il cui finale avverarsi non toglieva dunque più nulla, ora, al prestigio del dio ma anzi lo aumentava. Gli dèi dei grandi re vittoriosi non potevano essere gli autori di questa catastrofe. Erano lordati dall’abominazione della prostituzione sacra e del culto degli idoli o addirittura dallo spregevole culto degli animali degli Egiziani. Tutti questi dèi di altri popoli potevano quindi tutt’al più essere dèmoni e rispetto a Jahvè erano «nullità;». A partire da Osea si fece strada il rifiuto e la derisione del culto degli ido sempre più gli intellettuali basarono tale atteggiamento sulla considerazione che l’idolo è opera dell’uomo e quindi è senza significato religioso, né tantomeno la sede di un dio.

Tuttavia nemmeno nel periodo dell’esilio da parte del Deuteroisaia non si è mai sostenuto che gli altri dèi non esistessero affatto. è vero che, con la teodicea di sventura dei profeti, Jahvè di fatto ascese al rango di unico dio determinante per il corso del mondo. Da questo punto di vista erano particolarmente importanti alcuni fatti. In primo luogo, il fatto che conservasse gli antichi tratti del terribile dio delle catastrofi; in secondo luogo l’accostamento della teodicea di sventura alla pratica della confessione dei peccati della Torah levitica; infine la svolta del concetto del berith in Amos, collegata a questi due fattori e che faceva di Jahvè stesso l’autore di ogni sventura. Infatti la conseguenza di tutto ciò era che nella concezione profetica non era mai un qualche dèmone esistente accanto a Jahvè e in posizione d’indipendenza o di ostilità; nei suoi confronti a mandare il male sui singoli e su Israele: Jahvè solo determa tutti i particolari del corso del mondo. Come abbiamo visto, questo monismo era il presupposto più importante di tutta la profezia. La credenza popolare nei dèmoni diffusa in tutto il mondo s’inserì, perlomeno nella religiosità; degli intellettuali, solo nel tardo giudaismo post-esilico e raggiunse la sua piena espane solo sotto l’influenza del dualismo persiano. La credenza babilonese nei dèmoni certamente non era ignota ai profeti. Ma per le loro concezioni rimase altrettanto insignificante delle dottrine astrologiche, mitologiche ed esoteriche del mondo circostante. D’altra parte Jahvè era stato il dio di un’associazione politica, l’antica confederazione, e continuava ad esserlo per la concezione puritana. Di conseguenza egli conservava un tratto inestirpabile malgrado l’universalismo cosmico e storico di cui si era rivestito: era un dio dell’azione, non dell’ordine eterno. Da questa qualità; derivava il carattere decisivo dei rapporti religiosi.

Le stesse rienze immediate dei profeti erano plasmate dalle qualità; che per loro erano attributi immutabili del Dio. La loro fantasia gira sempre intorno all’immagine di un re celeste di terribile maestà;. Ciò riguarda innanzitutto la loro esperienza visuale. Il ruolo della visione era rso, come abbiamo visto, presso i singoli profeti. Era massimo presso il più antico dei profeti, Amos, che per questo motivo era anche chiamato «veggente» (choze). Ma non mancava nemmeno presso gli altri profeti, soprattutto Isaia ed Ezechiele. Il profeta non vede solo la magnificenza celeste. Vede per chiaroveggenza, nella lontananza, un esercito avanzare su un passo di montagna, o vede da Babilonia la morte di un uomo, chiamato per nome, nel tempio di Gerusalemme. O ancora, un essere di focoso splendore trasporta il profeta afferrandolo per i capelli. Però si tratta sempre di un intervento diretto del divino e regale signore, di cui il profeta è in grado di rendersi conto. Oppure, quando il profeta vede un ramo di mandorlo o un cesto di frutta, la cosa deve avere un qualche significato a cui Dio ha dato forma simbolica. Talvolta sono sogni, ma molto spesso queste visioni incalzano il profeta nel corso di sogni ad occhi aperti.

Tali esperienze visive erano tuttavia, come si è già; detto in un altro contesto, ampiamente superate, presso i profeti, dalle esperienze audi che erano le più importanti e caratteristiche. Il profeta sente una voce che gli parla, gli dà; l’ordine e l’incarico di dire qualcosa, in certi casi anche di fare qualcooppure, come abbiamo visto nel caso di Geremia, una voce esce da lui, che lo voglia o meno. Come si è già; sottolineato, il prevalere di queste esperienze auditive sulle visioni non era un caso. ndeva innanzitutto dalla tradizionale invisibilità; di Dio per cui era escluso che si potesse dire qualcosa su di lui e sulla sua apparenza. era anche la conseguenza dell’unico modo possibile, per i profeti, di avvedersi di un rapporto con questo Dio. Nei profeti non troviamo in nessun passo quel processo mistico preliminare all’estasi apatica indiana che svuota la mente di tutte le forme sensibili e materiali, quella silenziosa appagante euforia del possesso di Dio; raramente troviamo l’espressione di un raccoglimento in intimità; con Dio, e mai quel sentimento di fratellanza, pietoso e compassionevole, per tutte le crre, tipico del mistico. Il loro dio vive, regna, parla e agisce in un mondo spietato di guerra ed i profeti sent no di essere inseriti in un’epoca profondamente funesta. Ma soprattutto molti profeti sono essi stessi profondamente infelici. Non tutti e non sempre; ma spesso proprio nel momento della massima intimità; con Dio. Tra i profeti pre-esilici, per Osea l’essere afferrato dallo spirito di J00E0#x00E8; rappresentava uno stato di felice possesso; per Amos era la coscienza di essere iniziato a tutti i piani di Dio che costituiva il sostegno di un’orgogliosa coscienza di se stesso. Ad Isaia premeva ottenere l’onore della profezia, ma, di fronte a molti annunci terribili del Dio e alla durezza delle sue decisioni, egli stesso la trovava talvolta un duro incarico. Per Geremia infine la sua missione profetica rappresentava un peso intollerabile. In ogni caso la vicinanza di Jahvè non è mai per lui una felice presenza immanente del divino; è sempre dovere e comando, perlopiù esigenza urgente e burrascosa. Geremia si sente violentato da Jahvè come una fanciulla da un uomo, o prostrato come il lottatore sconfitto.

Anche questo fatto, importante sul piano della storia delle religioni, costituisce una differenza fondamentale rispetto a tutta la profezia indiana e cinese ed è dovuto solo in parte a condizioni psichiche preesistenti dei profeti, mentre per il resto era dovuto all’interpretazione che la profezia ebraica era costretta a dare alla sua esperienza. Costretta cioè dal tipo di credenza in cui il profeta era relegato e che, ergendosi come un apriorismo incrollabile davanti a tutte le sue esperienze, determinava la selezione di quegli stati che potevano essere considerati autenticamente profetici. La violenza senza pari come pure i limiti interiori di questa profezia trovarono in ciò il loro fondamento. Per via di questo apriorismo i profeti non potevano essere dei «mistici». Il loro dio — fino al Deuteroisaia era del tutto umanamente comprensibile e doveva essere così. Poiché egli era un signore e si desiderava sapere come ottenerne la grazia.

Mai e in nessun luogo è stata anche solo sollevata dai profeti o — per quanto ne sappiamo — dal loro pubblico la questione sul «significato» del mondo e in particolare della vita; non si è mai cercato un motivo che ne giustificasse la fragile transitorietà;, carica di dolore e di colpa, come in India, dove tale interrogativo ha dato l’impudecisivo a tutta la conoscenza sacra. A questo si collega anche il fatto che ciò che spinge il profeta e il suo pubblico a Dio non è mai il bisogno di salvezza, redenzione, perfezione della propria anima rispetto a questo mondo imperfetto. Inoltre il profeta non si sente mai divinizzato dalla propria esperienza, unito alla divinità;, strappato al tormento e all’assurdità; dell’esistenza, come accade alento indiano per il quale anzi questo rappresentasignificato autentico dell’esperienza religiosa. Non si sente mai sfuggito alla sofferenza, sia pure solo alla servitù del peccato. Non vi è mai posto per una un io mystica né tantomeno per la calma interiore dell’anima dell’arhat116 buddhista. Non esisteva nulla di tutto ciò e una gnosi o un’interpretazione del mondo metafisiche non venivano nemmeno prese in considerazione.

Infatti la natura di Jahvè non conteneva nulla di ultrasensibile nel senso di qualcosa che sta al di là; dell’intelligenza e della comprensione. I suoi motivi non erano sottratti alla comprone umana. Al contrario la comprensione delle decisioni di Jahvè in base a giustificati motivi era precisamente il compito del profeta nonché del maestro della Torah. Jahvè del resto era pronto addirittura a sostenere la giustezza della sua causa davanti al tribunale del mondo. Il suo modo di governare il mondo viene illustrato da Isaia (28, 23-29) con la massima semplicità; e in maniera chiaramente esauriente in una parabola presa dal mondo contadino; era una teodisufficiente, altrettanto completa delle parabole di Gesù, del tutto analoghe, che da questo punto di vista partono da identici presupposti. è proprio questo carattere razionale, sia degli eventi del mondo — che non sono determinati né dal caso né da forze magiche — sia della profezia stessa, i cui oracoli contrariamente all’esoterismo gnostico erano comprensibili per tutti, che anche più tardi gli Ebrei hanno sempre percepito come specifico dei loro profeti. Non si poteva parlare di una «imperscrutabilità;» di principio, per quanto certamente l’orizzonte di Jahvè non potesse su confronti con quello delle sue creature. Era questo principio della comprensibilità; dei decreti divini che escludeva ogni interrogativo circa un senso del mondo che avrebbe ancor tuto sussistere al di là; di Jahvè, proprio come la sua persona maestosa di signore escludeva ogni idea di una mia comunione con Dio come qualità; del rapporto religioso con lui. Nessun autentico profeta di Jahvè e nessuna creatura inere poteva osar rivendicare qualcosa di simile, per non parlare dell’auto-divinizzazione.

Il profeta non poteva mai raggiungere una pace interiore permanente con Dio: la natura di quest’ultimo lo precludeva. Poteva solo liberarsi della sua intima oppressione. Ma il risvolto positivo, euforico, della sua situazione emotiva doveva essere da lui proiettato nel futuro, come promessa. Ciò determinava la selezione dei temperamenti profetici. Non c’è nessun motivo per presumere che stati mistico-apatici di stampo indiano non siano stati provati anche in terra palestinese. Non si può nemmeno sapere con certezza se profeti come Osea e forse anche altri non sarebbero stati accessibili a questi stati. Ma estasi emotive del tipo israelitico in India presumibilmente si sarebbero indirizzate ad un’appassionata ascesi di mortificazione oppure, i suoi portatori, se fossero apparsi in veste di demagoghi, non sarebbero stati considerati santi ma barbari e non avrebbero esercitato nessuna influenza. Viceversa la stessa sorte doveva toccare agli stati estatico-apatici in Israele. Non venivano interpretati dalla religione di Jahvè come un bene sacro religioso e non erano quindi coltivati, come in India, con un addestramento di tipo scolastico. Inoltre le conseguenze anomiche del possesso estatico di Dio venivano rigorosamente rifiutate. Un profeta menzognero secondo Geremia è colui che disdegna la legge di Jahvè e non cerca di condurre a lui il popolo.

Se quindi il possesso mistico di una divinità; extramondana veniva rifiutato a favore dell’agire attivo al servizio di un Dio ultramon, in linea di principio è comprensibile che anche la speculazione sul motivo di essere del mondo venisse rifiutata a favore della semplice dedizione ai comandamenti positivi di Dio. Non vi era quindi nessun bisogno di una qualche teodicea filosofica e quando il problema, intorno al quale in India venivano fatte sempre nuove elaborazioni, si presentava, malgrado tutto, veniva liquidato con i mezzi più semplici che si possano immaginare. Il pensiero dei profeti pre-esilici fino ad Ezechiele non risale più indietro dell’esodo dall’Egitto. Non solo i Pa triarchi — contrariamente a quanto avviene nel Deuteronomio hanno un ruolo molto modesto ed occasionale ma anche l’«uomo primitivo» di Ezechiele (28, 17) sta ad indicare una variante del mito di Adamo molto diversa da quella più tardi recepita. Osea apparentemente ignora la leggenda del vitello d’oro: per lui il ruolo analogo l’ha il sacrificio del Baáal-Peor.

La collera di Jahvè viene fatta risalire sempre e soltanto alla conclusione del patto di Jahvè con Israele come un’unione i cui membri sono responsabili in solido tra di loro anche per le azioni degli avi. Non si chiamavano mai in causa le qualità; degli uomini collegate al peccato originale, né la colpa di Adamo. L’uomo appare pttamente in grado di osservare i comandamenti di Jahvè anche se purtroppo raramente lo fa in maniera veramente durevole ed ha quindi bisogno della misericordia sempre rinnovata di Jahvè. Inoltre i profeti non erano preoccupati in primo luogo della qualificazione etica dei singoli individui ma delle conseguenze che un agire contrario alla volontà; di Dio da parte dei rappresentanti qualificati del popolo — i principi, i sacerdoti, i pti, gli anziani, i patrizi — e solo in via subordinata anche di tutti gli altri concittadini poteva e doveva attirare sulla collettività;.

Il problema è stato sollevato esplicitamente per la prima volta zechiele (capp. 14 e 18): perché i giusti dovevano soffrire insieme agli iniqui e dove stava il loro compenso? Geremia (31, 29) prospetta un regno futuro in cui ciascuno dovrà; pagare solo per i suoi misfatti e non si dirà; più: «I padri hanno mangiatox2019;uva acerba ed ai figli s’allegano i i». Il Deuteronomio, come abbiamo visto, aveva rotto con il principio della responsabilità; in solido. è caratteristico della natura particolare della profezia, tutta orientata sullrti della collettività;, non del singolo individuo, il fatto che proprio su questo punto essa sia rimasta più constrice. Senza dubbio per quanto riguarda la salvezza finale sin dall’inizio ci si aspettava — lo dice già; Amos — che il «resto» devoto fosse risparmiato dalla sventura e reso parte alla salvezza. E anche alla questione della teodicea Ezechiele rispondeva, o meglio non rispondeva, in questi termini: Jahvè nel giorno della sventura avrebbe risparmiato i giusti; coloro che non avevano praticato l’usura, che avevano restituito i beni pignorati, che avevano esercitato la carità; sarebbero stati ricompensati e tutti coloro che si sarebbero convertiti a o non sarebbero morti. Ma il popolo peccatore non si sarebbe salvato nemmeno per amore degli uomini più devoti (14, 18). La speranza era dunque esclusivamente quella che il «resto di Giacobbe», quello rimasto fedele a Dio, avrebbe conosciuto tempi migliori quando il tempo della vendetta fosse passato. Ma nel frattempo per la profezia il rapporto con Jahvè era analogo a quello che intercorre nella vendetta del sangue, nella faida e in guerra: l’individuo doveva rispondere di quanto facevano i suoi compagni di tribù e di schiatta o di ciò che gli antenati avevano fatto e lasciato inespiato. Violazioni al dovere del patto si erano avverate ripetutamente ed era facile ravvisarle anche nel periodo presente. Di conseguenza Dio, semplicemente, era sempre dalla parte della ragione e non esistevano problemi di una teodicea.

Né tantomeno, infine, questi portavano delle aspettative nell’aldilà;. L’idea che l’evento escatologico fosse un «giudizio» si fa strada on è mai pienamente svoltaq9: bastava l’«ira» di Dio per motivare tutto. Per tutti i profeti pre-esilici il regno delle ombre dell’ade era, come per i Babilonesi, il soggiorno inevitabile di tutti i morti che Jahvè non avesse preso con sé, come alcuni grandi eroi. La morte in sé era considerata un male, la morte prematura, violenta e inattesa, come un segno dell’ira divina. Lo sheol spalanca le fauci, secondo le parole d’Isaia (5, 14), e la salvezza dallo sheol, di cui parla Osea (13, 14), non è la salvezza da un «inferno» ma semplicemente dalla morte fisica.

L’orizzonte profetico rimane quindi del tutto terreno, proprio come quello ufficiale babilonese, in contrasto con i misteri greci e la religione orfica, tutti concentrati su promesse dell’aldilà;. Queste si occupavano della salvezza individuale, mentre la profezia israelitica, pur collegandosi cura delle anime dei Leviti, si occupava solo del destino del popolo nel suo insieme: in ciò si manifesta ripetutamente il suo orientamento politico. La profezia lasciava anche totalmente in disparte i miti babilonesi e quelli analoghi sui viaggi nell’ade. Essi non avevano nulla a che vedere con il destino futuro della comunità; devota e non potevano rientrare nella credenza jahvista. Solo in un poema del tempo dell’esilio, erroneamente attribuito ad Isaia, si trovano tracce di distinzioni nel destino dei morti nell’ade, senza dubbio sotto l’influenza di concezioni tardo-babilonesi. E anche qui l’ade conserva ancora un carattere del tutto omerico: tutti, anche i grandi re, sono ombre impotenti e solo alcuni grandi malfattori ricevono delle punizioni speciali (Is. 14, 9 e seg.;

I comandamenti di Jahvè erano del tutto concreti e positivi, puramente terreni, ed altrettanto concrete e puramente terrene erano le sue antiche promesse. Solo problemi contingenti di concreto agire intramondano potevano emergere ed esigere una risposta. Ogni altra problematica restava esclusa. Bisogna rendersi conto dell’immensa economia di forze psichiche che ciò comportava per misurare la portata di questo stato di cose. Come per Bismarck l’esclusione di ogni speculazione metafìsica, sostituita dal salterio sul suo comodino, era una delle premesse necessarie del suo agire ininterrotto da ragionamenti filosofici, così anche per gli Ebrei e le comunità; religiose da essi influenzati lo stesso effetto era esercitato da quella barriera, mai totalmente atuta, contro la speculazione sul significato del cosmo. Agire secondo il comando di Dio, non conoscere il significato del mondo, giovava all’uomo.

Un’etica non riceve il suo carattere specifico dalla particolarità; dei suoi comandamenti — l’etica quotidiana israelitica non era dissimile da quelle diri popoli — ma dai princìpi religiosi generali che stanno dietro ad essa. Ora la profezia israelitica ha avuto una fortissima influenza sulla formazione di tali principi.

L’esigenza religiosa determinante dei profeti non era l’osservanza di singoli precetti, per quanto importanti questi fossero in sé e per quanto l’autentico profeta si sentisse il custode della moralità;: lo stesso Isaia (3, 10) talvolta dà; ancora la massima importanza alle buone opere. Il requisfondamentale era la fede. Il ruolll ’amore non si poteva neppure paragonare alla fede. Senza dubbio per il profeta Osea (3, 1), di orientamento nord-israelitico, l’amore costituiva il rapporto religioso fondamentale tra Dio e il suo popolo e anche negli altri profeti, soprattutto in Geremia (2, 1 e seg.), il rapporto amoroso di Jahvè con la sua sposa Israele, nei tempi passati, è illustrato con un lirismo pieno di sentimento. Ma questo non è l’aspetto prevalente e soprattutto non è mai la comunione d’amore con Dio che costituisce uno specifico stato sacro. Il motivo lo conosciamo già;.

L’esigenza della fede, in Israele, con la straordinaria enfasi che laatterizza, presumibilmente è stata sollevata per la prima volta dai profeti, precisamente da Isaia (7, 9). Ciò è conforme al tipo di ispirazione profetica ed alla sua interpretazione. Ciò che i profeti sentono è la voce divina e questa dapprima non chiede altro a loro, e tramite loro al popolo, che la fede. La fede richiesta dai profeti ebraici non era quindi quell’atteggiamento interiore come lo intendevano Lutero ed i Riformatori. Significa veramente soltanto la fede incondizionata nel fatto che Jahvè è davvero onnipotente, che le sue parole sono sincere e si adempiranno malgrado tutta l’inverosimiglianza esterna. Questo convincimento è elevato proprio dai maggiori profeti a fondamento della loro posizione. Le virtù che ne derivano sono l’obbedienza e l’umiltà; e ad ambedue Jahvè dà; la massima importanza, ma soprattutto all’umiltà; cta nell’evitare rigorosam non solo Vhybris in senso greco ma in ultima analisni fiducia nelle proprie capacità; e ogni glorificazione di se stessi. L’antico timore dell’invidia degli dèi per roppa felicità; e della loro vendetta contro l’orgogliosa fiducia in sé, che permea la saggezza empirica tempi omerici e ancora di quelli di Solone e di Erodoto, in Israele rimase efficace nei limiti di una saggia e austera visione della sorte dell’uomo. L’esigenza di «umiltà;» nel senso dei profeti avrebbe urtato il senso di dignità; dell’eroe e una vera enza nella provvidenza con la sua esigenza di onorare solo Dio e di smettersi obbedientemente ai suoi decreti poteva avere il sopravvento solo nelle vicinanze di grandi monarchie, non in stati liberi. Nei profeti però tale necessità; è diventata assolutamente dominante. I grandi re crollano e i loro regni tramontano perchétribuiscono a se stessi e non a Jahvè l’onore delle loro vittorie. E non diversamente i grandi del loro paese corrono verso la loro distruzione. Chi invece cammina con umiltà; e piena obbedienza davanti a Jahvè è da lui protetto e non ha nulla da temere. Questa erche la base della politica dei profeti. I profeti erano demagoghi ma tutt’altro che politici realisti o uomini politici di partito in genere. Con ciò ritorniamo a quanto si è detto all’inizio.

La posizione politica dei profeti era puramente religiosa, motivata dal rapporto di Jahvè con Israele, ma dal punto di vista politico era di carattere prettamente utopistico. Jahvè solo avrebbe guidato tutto secondo i suoi voleri. E tali voleri, per il prossimo futuro, vista la condotta del popolo, sono minacciosi e terribili. I grandi re e i loro eserciti sono, come abbiamo visto, i suoi strumenti. In quanto tali il loro agire è voluto da Dio e Isaia trova «barbara» la volontà; di Jahvè di annientarli dopo averli chiamati lui stesso. Per Geremia Nabucodonosor è il ervo di Dio» e nel libro di Daniele, una tarda opera post-esilica, egli diventa, in seguito a tale designazione, un convertito a Jahvè.

In questa concezione e soprattutto nella sua recezione da parte della devozione israelitica emerge nuovamente la posizione particolare di Israele. In una situazione del tutto analoga, davanti all’imminente attacco dei Persiani, anche l’Apollo delfico aveva dato al proprio popolo un oracolo di sventura, consigliandogli di fuggire all’estremità; della terra. Ma questo era il destino, non la conseguenza di una colpa religiosa. Tuttavia anche la coione di un dio sdegnato, anche il dio della propria associazione, che fa cadere la disgrazia, in particolare il disastro bellico, sul proprio popolo, è molto diffusa in tutta l’antichità;, specialmente nella poesia pre-ellenica. E anche la rappresentazione, molto più specifica, di un universale che per punire la colpa del popolo guida i nemici contro la città; portando quest’ultima alle soglie della rovina o permettendo che venga effettivamente distrutta è propria solo alla profezia israelitica. Si trova in Platone, in frammenti del Crìzia e nel Timeo, scritti che senza dubbio si situano sotto la terribile impressione della distruzione del potere di Atene dopo Egospotami. E anche qui i vizi che motivano l’intervento divino sono gli stessi: crematismo e hybris. Ma queste costruzioni teologiche del capo di una scuola filosofica rimasero senza effetto sulla storia delle religioni. Le vie di Gerusalemme e il boschetto di Akademos erano due luoghi di predicazione molto diversi. La sfrenata demagogia dei profeti era ben lontana dal pensatore aristocratico e dal pedagogo politico della gioventù colta di Atene e — occasionalmente — dei tiranni o riformatori siracusani. L’ordinata ecclesia ateniese col procedere razionale delle sue deliberazioni non sarebbe mai stata, malgrado tutta la sua deisidaimonia117 e la sua eccitabilità; emotiva, un luogo adatto agli oracoli estatici.

Mancava però soprattutto oncezione specificamente israelitica tanto della natura di Jahvè come dio delle catastrofi quanto dello speciale berith del popolo con il dio. Solo quest’ultimo dava all’intera concezione il pathos che riecheggia nella punizione per la violazione di un patto con questo terribile dio. Per quanto considerevole possa dunque essere stato il ruolo degli oracoli e degli auguri nell’antichità; ellenica per le singole decisioni politiche, tuttavia non si è sviluppata una teodicea profeticme quella sulla quale i profeti scrittori hanno fondato sin dall’inizio l’interpretazione della loro storia di sventura. è vero che la visione della sventura non è la conseguenza di questo tipo di interpretazione. Geremia chiama Jahvè a testimone del fatto che egli non ha chiamato il giorno della sventura su Giuda ma lo ha annunciato come gli era stato ordinato, con suo grande tormento. Del pari, come abbiamo visto, Isaia recalcitra interiormente contro certe minacce di sventura per Assur. Ma l’interpretazione della sventura d’Israele, una volta avverata, segue la via tracciata dalle concezioni degli intellettuali israeliti e soprattutto dei maestri della Torah sulla base dell’antico concetto del berith.

Per Israele valevano i comandamenti della parenesi. Contro gli altri popoli Jahvè interveniva quando la sua maestà; era lesa in maniera insolente. Le note maledizioni di Isaia contro gli Assiri, stando alle motivazionie, sono dovute esclusivamente al fatto che, vedendo più da vicino la condotta di questo popolo, il profeta riteneva impossibile che Jahvè lo lasciasse durare a lungo. Non entrava quindi in gioco, nell’apparente mutamento della posizione del profeta rispetto ad Assur, nessuna considerazione di realismo politico. E per quanto riguardava Gerusalemme, anche qui la sua posizione mutò per motivi puramente religiosi. La città; corrotta all’inizio sembrava votata alla distruzione. La devozione a Jahvè di Ezechia lotò a pensa re che Gerusalemme non sarebbe mai caduta. Poi, malgrado la conferma di quest’opinione data dalla ritirata di Sennacherib, la visione del peccato che continuava immutabile a sussistere lo portò di nuovo al pessimismo: questo non sarebbe mai più scomparso. Anche per gli altri profeti la condotta religiosa tenuta di volta in volta dagli strati dei potenti costituisce l’elemento decisivo. Quasi ciascuno di loro sembra talvolta disperare di ogni salvezza. Dev’essere stato così in certi periodi anche per Amos, Isaia e Geremia. Ma tale condizione non è stata definitiva per nessuno di loro.

4. 1 profeti e l’escatologia

Altrettanto utopistiche della loro politica erano le aspettative future dei profeti che dominano tutto il loro mondo concettuale e gli danno la sua coesione interna.

La fantasia dei profeti è satura di imminenti orrori bellici e in parte cosmici. Malgrado ciò, o meglio proprio per questo essi sognano tutti un futuro regno di pace. Già in Osea, poi anche in Isaia e in Sofonia, questo regno del futuro assume i tratti usuali del paradiso lonese e medio-orientale. A torto si è sostenuto che nei profeti si troverebbe la dottrina astronomica babilonese delle rivoluzioni periodiche del mondo determinate dalla precessione degli equinozir9. In realtà i profeti adattano qui ai particolari presupposti del rapporto di Israele con Jahvè delle concei primitive e delle speranze per il futuro che non gli sono affatto necessariamente collegate, essendo diffuse quasi in tutto il mondo; nell’antichità le troviamo ancora nella quarta Egloga di Virgilio, nella tipica forma di un’età dellàoro che torna dopo l’età del ferro. Jahvè avrebbe stabilito un nuovo erith con Israele, ma anche con i suoi nemi perfino con le bestie selvagge.

Da allora in poi la speranza pacifista torna periodicamente, alternandosi con aspettative di vendetta sui nemici. Il meravi glioso re-fanciullo escatologico, Immanuel, che mangia latte e miele, in Isaia è un principe di pace il cui dominio si estende fino alle estremità; della terra. Nessun profeta ha osato promettere che la morte sarebbe di nuovo scomparsa. Ma ciascuno compirà i suoi giorni» (Tritoisaia, 65, 20). Accanto a tali concezioni, che evidentemente erano rutto della trasposizione di miti popolari primitivi nella sfera speculativa degli intellettuali, vi erano poi le grandi aspettative per il futuro degli abitanti delle città; e dei contadini. In primo luogo, ogni sorta di benessere materiale, seguito dalla vendetta sui nemici. piutasi questa, i destrieri, i carri, e tutto l’apparato della monarchia, il suo fasto ed i palazzi dei suoi funzionari sarebbero sprofondati scomparendo, e un principe di salvezza sarebbe entrato a Gerusalemme cavalcando su un asino alla maniera degli antichi principi provinciali. Allora l’apparato militare sarebbe diventato superfluo e con le spade si sarebbero fabbricati aratri.

Quale era il rapporto tra quest’epoca felice, rappresentata in termini ora più borghesi, ora paradisiaci, e le minacce di sventura annunciate da tutti i profeti pre-esilici ? Si è spesso creduto di poter stabilire uno «schema» unico — prima la terribile sventura, poi una felicità; esaltante — come tipo generale della profezia, supponendo che questo tipo fosse stato mutuato d00E0#x2019;Egitto. L’esistenza di questo schema unitario per l’Egitto non sembra però sufficientemente provata dagli esempi — soltanto due — addotti finora in merito. Del resto sarebbe altrettanto ovvio in tal caso rifarsi all’influenza dei culti della vegetazione e dei culti astrali, senza dubbio diffusi anche in Palestina, con le peripezie che traversano i loro mitologemi (in part. Is., 21, 4 e seg.). In tutti quanti infatti si trova il principio che deve venire la notte fonda o il pieno inverno, prima che il sole o la primavera ritornino. Non vi è dubbio che questo potesse influenzare la fantasia al di là; della stretta cerchia dei membri del culto, anche se non è certo che vi sia stata un’infza sui profeti in questo senso.

In primo luogo infatti questo presunto schema non si lascia ravvisare in tutti i profeti. Proprio presso i profeti più antichi gli oracoli che sarebbero conformi a questo schema non costituiscono la regola. In Amos si trova solo un esempio di peripezia (9, 14). Per il resto vi è solo la speranza, ma non la certezza, che forse il resto che si converte sarà; risparmiato per grazia di Jahvè e solo i peccatori periranno (5, 15; 9, 8 e 10), mentre la maggparte degli oracoli contengono solo minacce di sventura. In Osea il destino del Regno di Nord appare diverso da quello di Giuda. In Isaia si trovano oracoli di sventura senza profezia di salvezza e la profezia di salvezza del fanciullo Immanuel non è collegata ad un oracolo di sventura. Una vera e propria peripezia dalla sventura alla salvezza si trova in Isaia soprattutto in un oracolo (21, 4 e seg.) in cui Gerusalemme sprofonda nell’ade ma poi viene salvata. E questo indubbiamente ricorda dei mitologemi cultuali. Inoltre presso quasi tutti i profeti si trova il tipo di alternativa deuteronomica che si stacca completamente da questo schema, e cioè o la salvezza 0 la sventura, a seconda della condotta del popolo (Amos, 5, 46; Is., 1, 19-20, che sono pre-deuteronomici; Ger., capp. 7 e 18, Ez., cap. 18, post-deuteronomici).

È quindi generalmente valida solo l’asserzione che nessun profeta ha pronunciato esclusivamente oracoli di sventura. Si può affermare inoltre che in alcuni casi la profezia di salvezza è collegata alla minaccia di sventura come peripezia dopo il placarsi dell’ira di Jahvè e come ricompensa per il «resto» devoto; che la sventura inoltre in molti oracoli appare come assolutamente inevitabile e in tutti i casi deve scoppiare all’improvviso come un destino determinato da molto tempo; e che infine, se si guarda all’insieme degli oracoli di un profeta, si deve avere l’impressione che ambedue, la sventura come la salvezza, e naturalmente in primo luogo la prima, verranno immancabilmente. L’ineluttabilità; della sventura appare come una conseguenza anche dei soli peccati degli avi che hanno violato senza mo il patto (Ger., 2, 5). Tuttavia la maggior parte dei profeti non si attiene a questa concezione fatalistica più di quanto non lo facciano i maestri della Torah. La via della conversione e della prevenzione della sventura è aperta, anche se soltanto un «resto» la percorrerà;. Confrontando i singoli oracoli, non si riscontra in essi un carattere unitario, nel senso di uno sche nemmeno in uno stesso profeta. La profezia varia invece a seconda dello stato di peccato e della situazione mondiale. La profezia non conosceva la moira ellenica e Vheimarmene ellenisti ca, ma bensì Jahvè, le cui decisioni cambiano a seconda della condotta degli uomini.

In sostanza, soltanto due concezioni erano comuni a tutta la profezia. La prima era la concezione di «quel giorno», il «giorno di Jahvè», che la speranza popolare si raffigurava come un giorno di terrore e di sventura, soprattutto di sventura bellica, per i nemici, ma come un giorno di luce per Israele; esso però sarebbe stato un giorno di sventura anche per il proprio popolo, almeno per i peccatori. Dal modo in cui Amos l’annuncia sembra che questa importante concezione, di fatto, fosse una sua specifica proprietà; intellettuale. è vero che l’interpretazione di quel giorno come un giorno di salvezza pe raele ha continuato a sussistere ulteriormente. Ma l’idea che nello stesso tempo o prima sarebbe venuta una grave sventura come punizione dei peccati rimase comune a tutta la profezia. Lo stesso vale per la concezione del «resto» al quale sarebbe stata elargita la salvezza; la si trova già; in Amos ma è chiaramente sviluppata soprattutto in Isaia che la richiama nel nome dato a suo fi. Poiché dall’insieme di queste due concezioni risulta lo schema: sventura per il popolo (o per i peccatori), salvezza per il resto, ne deriva una peripezia dalla sventura alla salvezza o una combinazione delle due che rappresenta di fatto il tipo intorno al quale torna sempre a gravitare la promessa profetica. Questo tuttavia non era dovuto tanto ad uno schema mutuato quanto semplicemente alla natura stessa della situazione, non appena il carattere del «giorno di Jahvè» come giorno di sventura (perlomeno anche tale) era stato accettato. Infatti poiché una semplice minaccia di sventura che non desse adito a speranze di salvezza non avrebbe potuto assumere un significato pedagogico, era necessario che s’imponesse il tipo della peripezia, perlomeno nella selezione dei curatori della raccolta.

Per quanto riguarda i profeti, senza dubbio, bisogna astenersi in generale dall’attribuire loro scopi primariamente pedagogici nelle minacce di sventura. Essi annunciavano ciò che vedevano o sentivano. Non erano veri e propri «predicatori di penitenza» come quelli che compaiono all’epoca dei Vangeli e nel Medioevo. Non mancava naturalmente, nemmeno da parte loro, l’appello alla penitenza ed al ravvedimento. Al contrario la denuncia dei peccati costituiva, secondo Geremia, uno dei contrassegni del l’autentico profeta: questo importante principio differenzia i profeti da tutti i mistagoghi. L’appello alla penitenza è stato sollevato con la massima passione, proprio all’inizio, da Osea, e lo si trova anche in Geremia (cap. 7). Di regola però il contenuto immediato delle grandi rivelazioni visive e auditive si riferiva semplicemente a ciò che Jahvè aveva già; deciso, in fatto di sventura o di salvezza, ed eventualmente al perché. Dal popolo ci si aspettava licemente, in termini duri e chiari, senza nessuna esortazione, che si rassegnasse a pagare le colpe sue o dei suoi avis9. Al contrario i discorsi propriamente parenetici di biasimo e di esortazione alla penitenza e le ammonizioni dei profeti di regola non venivano presentati come devarìm di Jahvè ma come parole proprie dei profeti, pronunciate per incarico di Jahvè. Comunque lo schema: sventura, poi salvezza, era dato dalla natura dei fatti, ed è spiegabile anche senza ipotizzarne la mutuazione.

La straordinaria passione delle accuse e minacce dei profeti, e le locuzioni perlopiù estremamente generiche con cui si esprime la loro ammonizione sono in contrasto con lo stile della Torah, più edificante nel Deuteronomio, poderoso nella parenesi antica, ma comunque pratico e che enumera in modo specialistico le varie esigenze. Tale contrasto non è dovuto solo a differenze di temperamento. Al contrario è in primo luogo il tono stesso ad essere determinato dal carattere attuale delle aspettative dei profeti. Solo raramente la sventura o la salvezza attese sono rimandate ad un lontano futuro. Perlopiù possono verificarsi in ogni momento, e di regola, con ogni probabilità; e certezza, sono alle soglie. Isaia vede già; incinta la giovane donna che porta il re-fanciullo es logico. Ogni singola campagna militare dei gover i mesopotamici, in particolare però degli eventi come l’invasione degli Sciti118, potevano significare o preludere all’avvento di quel «nemico dal Nord» — presumibilmente una figura dell’aspettativa mitologica popolare — che Geremia in particolare vedeva come foriero della fine. Le terribili peripezie nelle vicende degli stati in conflitto tenevano vive queste aspettative.

Proprio questo carattere attuale della speranza finale era assolutamente determinante per il significato etico-pratico della profezia. Aspettative e speranze escatologiche popolari, evidentemente, erano diffuse ovunque nel mondo circostante. Ma, come sempre in casi analoghi, la loro vaga indeterminatezza faceva sì che la condotta pratica non ne fosse quasi per niente toccata. Il narratore di fiabe, o l’attore mascherato nelle rappresentazioni cultuali, eventualmente lo gnostico intellettuale nella sua conventicola esoterica, sapevano come ottenere degli effetti strettamente limitati sul piano temporale o personale. In nessun luogo queste aspettative erano o si esplicavano come qualcosa di immediatamente attuale, da mettere in conto per tutta la condotta della vita. Le aspettative attuali erano suscitate dalla profezia dei profeti di salvezza al servizio dei re o anche, come presso gli Elleni, dai cresmologi erranti. Ma a tener conto, più o meno, di tali aspettative, nel primo caso erano delle ristrette cerehie di corte, nel secondo dei singoli privati. In Israele invece, a causa della struttura politica e della situazione del paese, tutti, perlomeno nelle cerehie degli anziani, erano al corrente ancora cent’anni dopo di un oracolo di sventura come quello di Michea; lo dimostra il grande processo contro Geremia. Tutta la popolazione entrava in agitazione quando appariva un profeta con minacce che colpivano nel segno. Infatti la sventura predetta era del tutto attuale, minacciava l’esistenza di ciascuno e costringeva ognuno a chiedersi cosa poteva essere fatto per prevenirla. Inoltre dietro la predizione vi era una profezia legittimata dalla sorprendente conferma di alcuni oracoli di sventura mai dimenticati, e questa profezia a sua volta era sostenuta dall’antica forte opposizione contro la monarchia. In nessun altro luogo un’aspettativa così attuale era rappresentata da una demagogia pubblica priva di inibizioni e nello stesso tempo collegata all’antica concezione tradizionale del berìth di Jahvè con Israele.

Per i circoli dei veri credenti di Jahvè naturalmente era proprio questo carattere attuale dell’attesa finale ad essere determi nante. Conosciamo, attraverso il Medioevo e l’epoca della riforma, e anche attraverso l’antica comunità; cristiana, il potente effetto di tali aspettative. Anche in Israele sono state evidentemente pienamente de inanti per la condotta di vita di quei circoli. Solo con esse si spiega in ultima analisi l’utopistica indifferenza verso il mondo da parte dei profeti. Se sconsigliano tutte le alleanze, se continuano a rivolgersi contro il vano e superbo agire di questo mondo, se Geremia rimane celibe, il motivo è lo stesso di quello dell’ammonimento di Gesù: date a Cesare quel che è di Cesare o delle esortazioni di Paolo, che ciascuno rimanga celibe o coniugato, così com’è, e che abbia moglie come se non l’avesse. Tutte queste cose del presente sono del tutto indifferenti poiché la fine è imminente. Come nella comunità; proto-cristiana, così anche tra i profeti ed il loro seguito questa attualità; dell’aspe iva finale plasmava tutto il loro atteggiamento interiore ed era ciò che dava all ro predicazione il suo potere sugli ascoltatori. E malgrado l’indugiare del giorno di salvezza ogni nuovo profeta ha ritrovato la stessa fede appassionata — sia pure limitata, prima dell’esilio, a cerehie più ristrette — nel corso di un intero millennio, fino alla caduta di Bar Kocheba119.

Anche qui erano proprio gli elementi irreali a plasmare la realtà;; i loro residui erano quelli che più profondamente si radicavano nella religione e fondavano il suo p e sulla vita. Solo l’irreale dava alla vita ciò che la rendeva sopportabile: la speranza. Soprattutto la totale rinuncia a ogni speranza nell’aldilà; e ad ogni sorta di autentica teodicea — malgrado il costante interrogarsi sui motivi della sventura l postulato di un equo compenso — poteva essere sopportata più facilmente in un periodo in cui ogni vivente doveva aspettarsi di vivere di persona l’evento escatologico. Questi uomini appassionati prodotti da Israele vivevano in una disposizione di attesa costante. Immediatamente dopo l’irrompere della sventura si aspettava la salvezza. Nulla lo mostra più chiaramente della condotta di Geremia di fronte all’imminente distruzione della città;: compra un campo, perché presto verranno i nuovi tempi tanto attesi, ed esorta g siliati a lasciare segni sulla loro strada per ritrovare la via del ritorno.

L’attesa salvezza venne a poco a poco sublimata. Declinarono ambedue le grandi speranze finali che esistevano giustapposte: l’aspettativa chiliastica di uno stato finale paradisiaco in senso cosmico, che si trova in Osea e in Isaia, e le concrete e materiali speranze deuteronomiche di pretta marca cittadina, secondo cui Israele sarebbe stato il popolo patrizio di Gerusalemme, e gli altri popoli i contadini debitori, asserviti e pagatori di tributi. Ricompariranno solo in periodo post-esilico, la prima in Gioele, la seconda nel Tritoisaia (61, 5-6). Accanto all’aspettativa politica di una vittoria militare e del dominio di Israele sugli altri popoli, quale si trova in particolare in Michea (4, 13), e accanto alle antiche promesse contadine di ricchi raccolti e di benessere materiale (in Amos), comparvero con i profeti le speranze ben più idealistiche di stampo pacifista; quelle di un regno di pace il cui centro sarebbe stato la cittadella del tempio (Isaia), sede unica della Torah, della saggezza e della dottrina per tutti i popoli (Michea).

La speranza, già; presente in Osea (2, 21), che Jahvè in avvenire, in un nuovo berith con Israele, gli avrebbe g tito «giustizia, amore e compassione», si è approfondita in Geremia (31, 33-34) e in Ezechiele (cap. 36) nel senso di un’etica dell’intenzione: Jahvè concluderà; con il suo popolo un berith più benigno del vecchio duro patto con le sue pesanti leggi. Toglie00E0; alla sua gente il cuore di pietra e darà; loro un cuore di carne e sangue, metterà; in loro un n spirito affinché facciano spontaneamenl bene. «Metto la mia legge dentro dro, la scrivo nel loro cuore». Allora «non hanno più bisogno di insegnarsi l’un l’altro» perché conoscono Jahvè. E finché esiste l’ordine cosmico non cesseranno di essere il suo popolo. Troviamo qui perlomeno un accenno, seppur lontano, al fatto che il peccato possa costituire un problema per la teodicea. L’insieme però è una sublimazione altamente etica delle speranze sviluppate una volta in un poema attribuito (discutibilmente) a Amos (9, 11). L’idea di questo «nuovo patto» basato unicamente sulla fede è stata importante anche per lo sviluppo del cristianesimo. Anche il peccato, che si spera verrà; tolto da Jahvè, è molto interiorizzato, come una diizione globale ostile a Dio; la circoncisione del «prepuzio del cuore» è per Geremia quello che conta, e non qualcosa di esteriore. Anche questo ricorda molte delle note enunciazioni evangeliche. Non si guarda più soltanto, qui, ad una semplice utopia sociale ma ad un’utopia puramente religiosa.

In Geremia, di pari passo con questa interiorizzazione e sublimazione delle aspettative future, le speranze esteriori vanno acquistando dimensioni singolarmente modeste. Il Deuteronomio presuppone l’esistenza delle città;-stato e la posizione patrizia dei devoti, e la profezia per il resto, quando giunge a parlare di queste speranzede gli Ebrei come il popolo dominante della terra, perlomeno sul piano spirituale, come maestro e guida. Con Geremia anche tutto ciò scompare. Solo una volta (31, 6) egli menziona Sion come sede del culto di Jahvè. Senza dubbio conosce anche lui l’ideale del popolo dominante nella sua forma sublimata. Ma con l’età; diventa più moderato. Le benedizioni di Jahvè in futuro andranno ai pastori ed ai contadini devoti, 24); egli si accontenta di sapere che in futuro la gente tornerà; a seminare la terra ed a raccoglierne i frutti. Una specie di «felicità; in un cantuccio»acciava di soppiantare le grandi aspettative escatologiche di dominio sul mondo: civiamo nella completa miseria che segue la devastazione del paese e il profeta Geremia termina la sua vita sotto il segno della rinuncia. Consiglia di rassegnarsi al destino decretato da Jahvè, di rimanere nel paese, di obbedire al re babilonese e poi al suo governatore, e mette in guardia contro una fuga in Egitto. E mentre all’inizio aveva aspettato il rapido ritorno degli esiliati, più tardi consigliò loro di metter su casa nella loro nuova residenza. Dopo l’assassinio di Gedalia e la propria deportazione in Egitto egli si trovava evidentemente alla fine delle sue speranze, come attesta il commovente testamento, profondamente rassegnato, che lascia al suo fedele discepolo Baruc: (Ecco che porto la sventura su ogni carne, — mormora Jahvè, — a te darò la tua vita come preda ovunque andrai». Secondo una tradizione tardo-giudaica Geremia sarebbe stato lapidato in Egitto.

Questo atteggiamento totalmente pessimista e rassegnato non avrebbe certo potuto offrire una base per tenere insieme la comunità; nelle condizioni dell’esilio. Già; il suo consiglio agli esiliati di sistemarsi a Babele lo fece ere immediatamente in violento conflitto con 2019;antiprofeta Semaia, come mostra l’irritata corrispondenza con Babilonia. Soprattutto Ezechiele, il più eminente tra i profeti deportati, sosteneva il carattere attuale della speranza del ritorno, in acuto dissidio con Geremia. Di fatto tale speranza era strettamente necessaria semplicemente per tenere insieme la comunità;. Le speranze finali che determinavano il forte ascendente dei profeti non erano ovviamente quelle sublimate, maforme di speranza più concrete che continuavano a sussistere, giustapposte alle prime, in tutti i profeti. L’esperienza mostra che le rappresentazioni escatologiche che non presentano come imminente il giorno del giudizio universale e della resurrezione sono altrettanto poco efficaci delle speranze di salvezza puramente terrene proiettate molto lontano nel futuro. L’elemento decisivo era proprio che qui il «giorno di Jahvè» veniva annunciato come un evento che ciascuno poteva ancora sperare o temere di vivere e che erano in vista grandi rivoluzioni estremamente concrete e terrene.

Alle diverse configurazioni delle speranze finali corrispondevano anche le forme diverse assunte dalla rappresentazione della personalità; del salvatore. In Amos questa era del tutto assente, poiché tutta l’enfasi era posta sul «r» del popolo da salvare. Ma negli altri profeti le aspettative di salvezza si saziavano d’immagini di un redentore, come quelli noti alla tradizione degli antichi eroi guerrieri, i shofetìm, i «salvatori», e collegavano a queste le rappresentazioni escatologiche offerte dal mondo circostante. è vero che queste ultime non offrivano in ultima analisi degli elementi che si sarebbero potuti utilizzare. Infatti, tra le possibili figure di questo salvatore-redentore, esulavano dalla concezione profetica sia l’incarnazione che la generazione fisica divina e l’apoteosi vera e propria, poiché tutte queste erano inconciliabili con la tradizionale natura di Jahvè. Che il ruolo di salvatore sarebbe toccato ad un re straniero (Ciro) è solo una concezione del periodo dell’esilio (Deuteroisaia). In Israele la figura del salvatore doveva essere messa in rapporto con il «giorno di Jahvè», ovvero con un evento escatologico ben concreto la cui natura, come abbiamo visto, derivava dal carattere tradizionale di Jahvè come dio delle cata strofi. Ma una figura «escatologica» di re-salvatore, in questo senso particolare, era ignota alle religioni culturali ed ai culti del mondo circostante (ivi compresa, del resto, anche la religione iranica). Da questi potevano essere mutuate tutt’al più le speculazioni su di un Salvatore preesistente, di carattere astrale (nell’oracolo di Balaam, Num., 24, 17) o identificato col primo uomo (con la massima chiarezza in Giobbe, 15, 7 e seg.; delle reminiscenze forse si trovano in Is., 9, 5, Michea, 5, 1, Ez., 28, 17). Ma anche se tali leggende cultuali o anche speculazioni di intellettuali riecheggiano talvolta in misteriore allusioni dei profeti, nessuno di loro si è risolto ad addentrarsi in un terreno di siffatte concezioni che portano necessariamente all’esoterismo misteriosofico, non fosse che per il timore di recar danno alla maestà; esclusiva di Jahvè.

La figura del salvatore doveva conservare un carattere creatu. Restava quindi o il modello «Barbarossa» di speranza, non diffuso nel mondo circostante, per quanto ci è dato sapere, ma facilmente derivabile dalla regia profezia di salvezza, che in Israele si concretava nella speranza del ritorno di Davide. Oppure la speranza nell’apparire di un nuovo re-salvatore israelita, o come rampollo della stirpe di Davide o come fanciullo miracoloso contrassegnato da qualche generazione sovrannaturale, essenzialmente quindi dall’assenza di padre. In Mesopotamia in particolare quest’ultimo tratto era attribuito a re (specialmente ad usurpatori) durante la loro vita. Tutte queste possibilità; si riscontrano, la prima in quasi tutti i profeti, l’ultima in particolare in Isaia nella profezia del fanlo Immanuel, il figlio della «giovane donna».

La legittimità; della stirpe di Davide non è stata messa in dubbio da nessun profeta, nemmeno da quelli apparsi nel Regno Nord: Amos e Osea. Per Amos Sion è la sede di Jahvè, per Osea Giuda è incontaminato dai peccati di Israele, soprattutto dallo scandalo degli usurpatori. Sembra che Osea non abbia nemmeno creduto alla possibilità; di una rovina di Giuda. Anche Isaia in origine sembra aver identificato il «resto» con Giuda. Perhea il re-salvatore proviene dal luogo d’origine della schiatta di Davide, Bethel Efrat. è anche probabile però che in Isaia la figura del fanciullo salvatore Immanuel signifi chi un ripudio dell’empia famiglia realet9; e in Geremia ed Ezechiele le speranze nell’antica dinastia reale retrocedono fortemente. Accanto ai Davidici si trova in Ezechiele (21, 32) anche la speranza in qualcuno «che ne ha il diritto e al quale io (Jahvè) lo rimetterò». Le promesse dei profeti tuttavia sono ostili alla monarchia solo nel senso dell’opposizione popolare, sostenuta dagli intellettuali: il principe salvatore non è esplicitamente un re guerriero che compie per conto suo la vendetta di Israele sui suoi nemici, anche se naturalmente anche questa concezione appare talvolta. Di regola, tuttavia, è Jahvè stesso l’esecutore della punizione.

Il fatto che la figura del salvatore assumesse i tratti di un profeta e maestro era già; preparato in tempi pre-esilici dal forte accento posto dalla Torah su ciò che alla fine dei tempi Sivrebbe avuto da offrire al mondo, nonché dalla predizione deuteronomica che Jahvè avrebbe destato in Israele «un profeta come Mosè». La profezia a partire da Osea (12, 11) ha identificato in Mosè, e dopo Geremia (15, 1) e il Deuteronomio anche in Samuele, gli archegeti della propria vocazione. Il carattere puramente e essenzialmente religioso che queste figure conservavano, in contrasto con i governanti e i capi dell’esercito — sono consiglieri e ammonitori, non capi-popolo — le faceva apparire ambedue atte a tale ruolo. Ad esse naturalmente si affiancava, circondata da un alone di leggenda, la figura di Elia, noto per essere stato il primo ad essersi opposto al re come profeta di sventura nel significato posteriore del termine. Ma la concezione tradizionale del «giorno di Jahvè» come una catastrofe politica e naturale rendeva più difficile l’introduzione, al posto del popolare re-salvatore, di una figura puramente spirituale. Di conseguenza la vera e propria concezione escatologica di un maestro salvatore risale solo al periodo dell’esilio e solo in epoca posteriore la speranza nel ritorno di Elia, il mago osti le ai re, ha acquisito quella popolarità; che ci è nota attraverso il Nuovo Testamento.

Nei profeti la speculazione sulla naturaquesta figura escatologica ha un ruolo palesemente molto limitato. Il fatto principale per loro è l’imminente e possente rivoluzione posta in essere da un’azione straordinaria di Jahvè stesso. In questo si distinguono dal Deuteronomio che predice tutta una serie di benedizioni e di sventure nello stile parenetico del predicatore morale. L’agire umano in questa rivoluzione in definitiva non interessa i profeti: le loro concezioni in merito variano. Il miracolo assoluto è il perno di tutta l’aspettativa profetica, senza di cui essa perderebbe il suo specifico pathos. Per questo motivo l’immagine del Messia perlopiù non è mai diventata del tutto chiara o anche solo costante, nemmeno in un singolo stesso profeta preesilico. Anche il ruolo di queste predizioni nei singoli casi rimase diverso. Scende al livello più basso in Geremia nel quale, come in Amos, tutta l’enfasi è posta sul resto convertito del popolo in quanto tale; in lui si trova una sola predizione «messianica» vera e propria. Lo stesso vale per il suo contemporaneo Ezechiele. Il prestigio della dinastia di Davide era profondamente offuscato. Siamo già; sulla strada di quel profondo mutamento che ha fatto del «popolo di Israele» la comunità; dei 0AB; Giudei». Giuda apparve come il portatore delle promesse sin dal declino del Regno del Nord, in, poi sempre di più con i profeti venuti in seguito, seppure la speranza nella riunione di tutto il popolo alla fine dei tempi non fosse stata abbandonata.

Prima di esaminare questo sviluppo verso il giudaismo dobbiamo ancora porci brevemente una domanda: quale influenza hanno avuto sullo sviluppo dell’etica i profeti pre-esilici in rapporto alle altre forze motrici? Tutto il contenuto dei loro comandamenti era stato attinto, come abbiamo visto, dalla Torah dei Leviti. Anche la concezione del berith di Jahvè con Israele e i tratti essenziali della loro specifica concezione della divinità; erano preesistenti. Erano già; esistiti degli strati sociali che si trovavano nella loro stessa posizione risp alla monarchia e alla cultura maale ed estetica dei patrizi. E molto probabilmente è sempre esistito, anche al di fuori dei circoli recabiti, l’atteggiamento scettico nei confronti del sacrificio. La questione è se sono da attribuire ai soli profeti da un lato il potente pragma del piano divino di salvezza e sventura che serviva da supporto all’etica, dall’altro l’intensa sublimazione del peccato e della condotta gradita a Dio nel senso di un’etica dell’intenzione; o se questi invece vanno considerati come prodotti di una cultura pre-profetica di intellettuali.

L’evidenza intrinseca suggerisce che lo sviluppo di queste concezioni è sorto dall’azione congiunta dei profeti con la graduale razionalizzazione della Torah levitica e col pensiero dei circoli laici colti e devoti. Lo indica già; la crescente coincidenza tra l’elenco profetico dei peccati e i comandamenti del Decalogo. I profeti stessi, luce della loro epoca, erano uomini còlti e avevano rapporti amichevoli anche se talvolta tesi con quei circoli che sfociavano nella scuola deuteronomica. Ai maestri della Torah si dovrà; attribuire la casistica etica sistematica; all’ispirazione profetica l’iniziativa e le parole d’ine che hanno presieduto alla sublimazione dell’etica ed al suo consolidarsi come etica dell’intenzione. Basta confrontare lo stile edificante e prettamente cittadino delle concezioni e dell’esposizione deuteronomiche con gli oracoli di Isaia per rigettare l’ipotesi (seriamente affiorata) che egli stesso abbia redatto quest’opera parenetica e l’abbia consegnata «suggellata» ai suoi discepoli. Ciò è semplicemente impensabile e se l’alternativa: «benedizione e maledizione a seconda della condotta» era conforme alla pedagogia popolare dei maestri della Torah, era però estranea alle visioni di sventura imminente che si trovano precisamente in Isaia e nei profeti posteriori. Il contrasto decisivo qui era dato dalla straordinaria attualità; delle terribili aspettative dei profeti completamente orientati verso la catastrofe politica. Questa si opponeva inf da un lato alla retribuzione individuale dei peccati e della devozione della clientela della Torah, costituita da singoli individui; dall’altro alle speranze e ai timori, proiettati lontano nel futuro e per giunta abbastanza prosaici, dipinti in tono moralistico ed esortativo dal Deuteronomio per la borghesia.

Tuttavia il Deuteronomio, naturalmente, non è concepibile senza la profezia. Infatti ripone le sue speranze precisamente nei profeti del futuro. E le ingenue regole di guerra del Deuteronomio sono puramente utopistiche, secondo uno stile prettamente profetico, e si spiegano solo con l’assunzione di una concezione della fede che nei profeti era direttamente conforme all’esperienza. Solo che tutto è trasposto nel quotidiano e nella sfera dei sentimenti. Del pari — anche se non possiamo occuparcene qui ulteriormente — l’intera versione attuale della tradizione e della Torah, nella misura in cui può considerarsi pre-esilica, è influenzata dalla profezia, sia pure con diversa intensità;, anche se senza dubbio non è stata elaborata da redattori profetici. Soprattutto però, senza l’ee prestigio di questi demagoghi noti e temuti da tutto il popolo, la concezione di Jahvè come Dio universale che distrugge Gerusalemme e la ricostruisce non sarebbe mai riuscita ad imporsi. Tale concezione infatti era altrettanto estranea all’idea popolare che a quella sacerdotale del rapporto di Israele con il suo dio. Non è pensabile che, senza l’impressionante conferma di una parola profetica di sventura pronunciata pubblicamente e ancora scolpita nella memoria della gente cent’anni dopo (Ger., 26, 18), la fede del popolo potesse rimanere intatta malgrado il terribile destino politico e anzi consolidarsi definitivamente in un paradosso storico unico e senza precedenti. L’intera struttura interna dell’Antico Testamento è inconcepibile senza l’orientamento dato dagli oracoli dei profeti. E poiché questo libro sacro degli Ebrei è diventato tale anche per i Cristiani e tutta l’interpretazione della missione del Nazareno è stata determinata in primo luogo dalle antiche promesse fatte a Israele, l’ombra di queste figure di giganti si proietta attraverso i millenni fin nel presente. D’altra parte, senza la grandiosa interpretazione degli intenti di Jahvè e senza la fiducia incrollabile nelle sue promesse, malgrado o meglio per via di tutto ciò che egli infliggeva al suo popolo, conformemente alle sinistre predizioni, non sarebbe stato concepibile nemmeno quello sviluppo in seno al popolo d’Israele, che solo ha reso possibile l’ulteriore esistenza della comunità; di Jahvè dopo la distruzione di Gerusalemme: il passaggio, cioè, dall’associazione politica a qu confessionale.

Ancora una volta l’elemento decisivo era dato dal carattere attuale, fortemente emotivo, dell’aspettativa escatologica. Proprio questo era assolutamente necessario durante l’esilio. Con la Torah soltanto e le esortazioni e consolazioni edificanti degli intellettuali deuteronomici non si sarebbe potuto fare nulla. Se te di vendetta e speranza erano i moventi naturali di tutto l’agire dei credenti e soltanto la profezia che dava a ciascuno la speranza di poter conoscere personalmente la soddisfazione di queste aspettative appassionate era in grado di dare coesione religiosa alla comunità; politicamente distrutta. Il fatto stesso che i profeti non avessero offerto nessun appiglio per la formazione di una comunità; religiosa e che l’immediato contenuto etico-pratico della loro predicazione escatologica fosse semplicemente lblimazione etica — precisamente in un’etica dell’intenzione — della religione tradizionale, fece sì che la nuova associazione confessionale, segregandosi ritualmente, si sentisse la continuazione diretta dell’antica collettività; nazionale rituale: il che non era invece possibile a lungo andare per il cristianesimo.

5. Lo sviluppo della segregazione rituale e il dualismo della
morale interna ed esterna

L’opera della profezia, insieme ai tradizionali usi rituali di Israele, contribuì a suscitare quei fattori ai quali il giudaismo deve il suo posto di paria nel mondo. L’etica israelitica in particolare ricevette la sua fisionomia decisiva, sotto questo aspetto, dal carattere esclusivo conferitole dallo sviluppo della Torah sacerdotale. Anche l’etica egiziana era esclusiva nella misura in cui, come in tutte le etiche antiche, ignorava ovviamente i non compaesani. Tuttavia non sembra che in Egitto esistesse un divieto del connubio con stranieri né una loro generica impurità; rituale. Sembra invece che gli Egiziani, al contrario di Israele, evitassero il contatto con la bocca e con le stovigl ei popoli consumatori di carne vaccina, in maniera analoga agli Indiani.

In Israele in origine mancava qualsiasi segregazione rituale rispetto agli stranieri, e l’esclusivismo, sostanzialmente conforme al tipo generale di questo fenomeno, acquistò la sua speciale impronta solo attraverso il suo collegamento con lo sviluppo del popolo in associazione confessionale. In realtà; questa trasformazione della comunità; israelitica cominciò sotto l’influenza della Torah e d profezia già; prima dell’e o. Si manifestò innanzitutto con la crescente inclusione dei meteci (gerim) nel suo ordinamento rituale. In origine, come abbiamo visto, il ger non aveva nulla a che fare con il rituale. La circoncisione non era un’istituzione esclusivamente israelitica; in Israele era obbligatoria solo per l’esercito. Lo shabbà;th era un giorno di riposo diffuso presumibilmente al di là; della cerchia degli Israeliti in senso pieno e f al di là; della cerchia degli adoratori di Jahvè; gr lmente era asceso a comandamento fondamentale della parenesi. Il o che il ger potesse farsi circoncidere e poi prendere parte al pranzo pasquale (Es., 12, 48) era già; senza dubbio un’innovazione dovuta alla trasformazione in senso pacifista dei circoli jahvisti devoti. Essa div un dovere del ger (Num., 9, 14). Senza dubbio anche prima era proibito ai gerìm il consumo di sangue (Lev., 17, 10) e il sacrificio a Moloch (Lev., 20, 2), pena la morte, e soprattutto era imposto loro il riposo sabbatico. In seguito la dottrina sacerdotale deuteronomica e poi, definitivamente, quella esilica (Num., 9, 14; 15, 15-16) misero fine a tutte le differenze rituali tra Israeliti in senso pieno e gerìm: d’ora in poi doveva esserci «una sola legge» per il forestiero e l’israelita per tutti i tempi futuri (è conforme a ciò l’integrazione, chiaramente posteriore, del passo Es., 12, 49).

Secondo Deut., 29, n i gerìm rientrano nel patto con Jahvè e nel Libro di Giosuè (8, 33) ciò viene addirittura inserito nella cerimonia delle benedizioni e maledizioni a Sichem (per cui il tardo precetto in Deut., 31, 12 prescrive esplicitamente che la Torah sia letta in pubblico anche per gli stranieri). Le forze propulsive di questo processo d’integrazione erano da un lato l’interesse dei sacerdoti per la clientela dei gerìm tra i quali si trovavano devoti esemplari come gli allevatori di bestiame jahvisti (mentre i «nobili» nel racconto dell’insurrezione dei Korahiti figuravano assieme a questi come avversari dei sacerdoti); dall’altro, e legata al primo, la smilitarizzazione dei contadini e delle popolazioni rurali israelitiche. Gli strati politicamente privi di diritti e sotto-privilegiati costituivano qui, come anche spesso altrove, un campo di lavoro sempre più importante per i Leviti e, durante l’esilio, per i sacerdoti. All’epoca dell’esilio risalgono senza dubbio le prescrizioni oggi incluse nella versione attuale del Deuteronomio (23, 8), che riguardano l’accoglienza di completi estranei, in primo luogo egiziani e edomiti, nella comunità rituale in senso pieno. Al posto dell’antica associazione dei guerrieri residenti, con le tribù ospiti di gerìm aggregate tramite berith, emerge ora sempre di più un’associazione puramente ritualistica e precisamente un’associazione territoriale — almeno idealmente — con Gerusalemme come capitale postulata.

Intorno alla questione della configurazione futura della comunità; di Jahvè le posizioni all’inizio non erano affatto univoche. Poco dopo la prima deportazione Geremia con iava agli esuli di stabilirsi a Babilonia come a casa propria. D’altra parte dopo la distruzione di Gerusalemme esortò quelli lasciati nel paese a rimanervi. Sarebbe sorta allora una collettività; rurale con Mitspa come centro sotto la sovranità; babilonese. A ciò si oppose però con la massima as za Ezechiele (stando all’interpretazione pres ilmente corretta di 33, 25). Gerusalemme era per lui, il sacerdote, l’unico luogo di culto legale e senza tener fede alle promesse non vi erano speranze future per Sion. Da un punto di vista pratico egli aveva indubbiamente ragione. Il comandamento dell’unità; rituale del popolo, inclusi i gerìm, venne ora collegato al principio, già; affermato al tempo di A della specifica purità; rituale del paese che Jahvè aveva dato ad Israele, al trario di tutti gli altri paesi. Il crescente zelo rit dei sacerdoti dell’esilio esigeva quindi, in teoria, che nessuna persona ritualmente impura fosse tollerata come residente stabile nel paese. Quasi nello stesso momento in cui Israele perdeva la sua base territoriale il valore ideale della base politica territoriale veniva dunque definitivamente stabilito sul piano rituale per il popolo-ospite che si andava sviluppando sparso in vari paesi: solo a Gerusalemme si potevano offrire i sacrifici e nel territorio di Israele i residenti stabili dovevano essere solo persone ritualmente pure. Però tutti gli adoratori di Jahvè ritualmente puri, non importa se Israeliti o gerìm o neo-convertiti, erano adesso uguali sul piano confessionale.

La natura puramente religiosa della comunità;, fondata sulle promesse profetiche, fece sì che questa segregazione rituale verso l’esterno si sostituiss quella politica e sostanzialmente s’inasprisse. Lo vediamo innanzitutto nello sviluppo dell’etica positiva. All’inizio, come in origine presso tutti i popoli della terra, i doveri dell’israelita erano diversi, naturalmente, secon do che avesse a che fare con un confratello tribale o con un estraneo alla tribù. L’etica dei Patriarchi considerava inoffensivi l’inganno e la frode verso forestieri tribali anche etnicamente vicini, come gli Edomiti (Esaù) o i nomadi dell’est (Labano). Jahvè ordina a Mosè di mentire al faraone (Es., 3, 18; 4, 23; 5, 1) e aiuta gli Israeliti ad appropriarsi indebitamente di beni egiziani durante l’esodo. Anche aH’interno di Israele esisteva, come abbiamo visto, la distinzione tra tribù, con conseguenze analoghe. Il ger era protetto nel quadro del berith esistente con la sua comunità; sul piano etico era protetto solo dalla parenesi levitica. Tuttavia nei tempi più antichi non vi era traccia di00AB; xenofobia». Tra i gerìm si trovavano anche, come indica la tradizione, delle comunità; cananee (Gabaon è l’esempio paradigmatico). Fu solo da un lato con il puritanesimo jahvista volto contro x2019;orgiasmo sessuale cananeo, dall’altro con la monarchia nazionale di Salomone, che s’inasprì il contrasto con i Cananei, ivi compresi i gerìm cananei. Nella visione esilica tutti i Cananei erano considerati nemici e condannati da Jahvè alla servitù, per via della loro impudicizia sessuale, e più tardi allo sterminio per via della santità; del paese e affinché non inducessero Israele all’apostasia (Es., 23, 23 e seg.; 34, 15). In base a ta concezione un berith con loro era inammissibile, a meno che non entrassero nella comunità; rituale tramite la circoncisione, conformemente alla riserva della tradizione di Sichem. Tenendo conto dell’indu prevalenza della pratica della circoncisione tra i Cananei, di cui si è già; parlato, risulta chiaro che questa è un’inserzione posteriore. Infatti il rapporto di Israele con i non-I liti era stato al contrario, nei tempi antichi, determinato da fattori prettamente politici, anche sul piano cultuale e rituale.

In origine non esisteva né l’esclusione dalla commensalità né l’incompatibilità del sacrificio straniero ad essa collegata. Il pasto in comune con i Gabaoniti c non era, come indica il tenore del t, un «pranzo sacrificale» ma una semplice commensalità come conseguenza del berith. Tuttavia in occasioni rituali gli Israeliti accettavano cibo straniero. Il racconto d asto di Giuseppe e dei suoi fratelli e degli egiziani (Gen., 43, 32) mostra come il rifiuto della commensalità con gli stranieri da parte degli Egiziani era considerato, all’epoca in cui è nata q a tradizione, una peculiarità di questi ultimi e non di Israele. I divieti dei pasti sacrificali comuni con gli stranieri (Es., 34, 16; Num., 25, 1 e seg.), che s’inasprivano sempre di più sotto l’influenza del puritanesimo jahvista, difficilmente sarebbero stati necessari se tali pasti in origine non fossero esistiti in Israele come del resto in tutto il mondo. Può restare dubbio se il contratto tra Giacobbe e Labano suggellato da un sacrificio (Gen., 31, 53 e seg.) era considerato tale dall’Elohista (che tratta Labano come il servitore di altri dèi). Ma le storie di Eliseo testimoniano ancora del fatto che un adoratore di Jahvè che si trovava al servizio di stranieri, come Naaman, era autorizzato, secondo l’opinione di quell’epoca, a partecipare al culto del dio del suo re, senza dubbio perché ciò era un atto politico. Tale opinione sarebbe stata invece oggetto di abominio per la posteriore concezione confessionale ebraica che posta di fronte alle pretese del culto reale e imperiale sceglieva il martirio. Le piene conseguenze della rigida monolatria, così com’era determinata dal berith, sono state tratte all’epoca della confessionalizzazione.

Anche il connubio viene menzionato come una cosa ineccepibile. Era permesso prendere in moglie una prigioniera e, stando al contesto, precisamente una prigioniera cananea. Il fatto di considerarla una concubina e il principio che il figlio della serva non deve ereditare in Israele erano qui come dappertutto soltanto il prodotto di un ulteriore sviluppo, di un’epoca in cui le schiatte benestanti fornivano le loro figlie di una dote al momento del matrimonio e rivendicavano quindi per i loro figli il monopolio della legittimità;. è a questo periodo forse che risalgono i primi dubbi circa il connubio con estranei al gruppo; questi dubbi poi si forzarono rapidamente tra i devoti all’epoca dei matrimoni con principesse. Solo con l’esilio però si arrivò ad un vero e proprio divieto dei matrimoni misti. L’albero genealogico di Davide, secondo il racconto di Ruth, comprende ancora una straniera.

Il rapporto interno con i non-Israeliti si riflette con la massima chiarezza nello sviluppo della posizione di Jahvè nei loro confrontiu9. Questa però era determinata innanzitutto da moti vi puramente politici. I non-Israeliti in sé gli sono indifferenti. Quando scoppia una guerra con loro, egli sta naturalmente dalla parte di Israele. Ma gli stranieri, anche se adorano altri dèi, non per questo gli sono odiosi. Quando aiutano Israele in guerra o gli prestano servizio in qualche altro modo (Hobab come guida attraverso il deserto, Num., io), tanto più quando tradiscono il loro popolo a Israele (Rahab e le spie in Gios., 2), ottengono il privilegio di vivere come gerìm in Israele. è escluso che gli stranieri vadano combattuti in quanto tali. Al contrario Jahvè disapprova apertamente l’offesa recata allo straniero in maniera politicamente imprudente e soprattutto traditrice (come nel caso di Sichem). E il dio pacifista dei Patriarchi si rallegra palesemente della generosità; di Abramo verso Lot nella spartizione pacifica del paese (Gen., 13) ed esaudisce la preghiera di Abramo per Abimelec embra talvolta che non sia gradito a Jahvè il compensare con del male il bene fatto da stranieri ad Israele. Nell’antica tradizione non viene mai rimproverato in nome di Jahvè ad altri popoli il fatto di adorare loro propri dèi; d’altra parte la legittimità; per loro di altri dèi viene riconosciuta solo eccezionalmente (nel racconto di Iefte e nella versione originale del conto del sacrificio del proprio figlio da parte del re di Moab). Tutte queste sono posizioni usuali, leggermente modificate solo dal particolare rapporto del berìth di Jahvè con Israele. Ma secondo la leggenda dei Patriarchi (Gen., 27, 40), Jahvè aveva fatto una promessa, seppur più modesta, anche a Edom, un’antica sede del suo culto, nonché a Ismaele, anch’egli considerato evidentemente come incline all’adorazione di Jahvè.

Una razionalizzazione universalistica di queste rappresentazioni cominciò con il bisogno teologico di una teodicea che facesse discendere dal berith con Jahvè il diritto di questi di punire Israele in caso di disobbedienza, onde spiegare così la minaccia politica e le sconfitte. Jahvè rimane prima come dopo indifferente verso gli altri popoli. Ma li usa come «flagello di Dio» (Peisker) contro Israele disobbediente, per poi farli di nuovo schiacciare da Israele non appena il suo popolo si sia endato. Tale è il modello paradigmatico tipico dell’attuale Libro dei Giudici. A Jahvè importa Israele, e Israele soltanto, gli altri sono solo mezzi per un fine. Solo che per essere questo bisognava che Jahvè avesse il potere di usarli a volontà; per i suoi scopi. Doveva quindi determinare almeno in parte anche il loro destino. E non lo faceva solo a loro svantaggio. La imitazione del luogo d’insediamento di Israele, che è opera sua, non era certo avvenuta nell’interesse degli altri popoli, ma tuttavia tornava a loro vantaggio. Sono chiaramente espressione dello stato di pace allora vigente con Moab e Edom le spiegazioni deuteronomiche secondo cui Jahvè avrebbe dato Seir ai figli di Esaù e Moab ai figli di Lot, per dimorarvi (Deut., 2, 4 e 9), nonché il divieto, fondato su queste motivazioni, di muovere guerra contro di loro.

Le disposizioni di Jahvè nei confronti degli stranieri diventarono sotto molti punti di vista sempre più simili a quelle verso Israele. Nella versione sacerdotale della leggenda dell’Esodo è Jahvè che indurisce il cuore del faraone (Es., 7, 2) — ciò è conforme alle concezioni dei circoli deuteronomici —onde esaltare maggiormente la propria potenza. è vero che soggettivamente gli stranieri — ad esempio il faraone — non conoscevano Jahvè (Deut., 5, 2, elohista) ma la credenza che fosse stato Jahvè a portare i Filistei e gli Aramei da lontano doveva pur risalire a un’epoca antecedente anche ai primi profeti i quali ne presuppongono già; l’esistenza.

Solo con il crescente universalismo della concezione di Dio la posizione particolar Israele tramite Jahvè divenne quel paradosso che si tentava adesso di motivare con un rinnovato accento posto sull’antica concezione del berith (nella forma, ora, di una promessa unilaterale divina condizionata dall’obbedienza e dettata da un amore immotivato o dalla fiducia incondizionata degli avi che era piaciuta a dio, o dall’abominazione — cultuale — degli altri popoli). Da forma sociale, storicamente condizionata, di un’associazione politica, il berith diventava quindi adesso un mezzo di costruzione teologica. Solo adesso che Jahvè era diventato sempre più il sovrano divino del cielo e della terra e di tutti i popoli Israele diventava il suo popolo «eletto». Su questa elezione si fondavano ora i particolari doveri e diritti rituali ed etici degli Israeliti, come abbiamo visto in Amos. Il dualismo della morale interna ed esterna esistente ovunque allo stato primordiale, riceveva ora per la comunità; di Jahvè questo fondamento carico di pathos.

Sul piano economico questo dualismo si manif va nel modo più esplicito e palese nel divieto dell’usura e poi nelle disposizioni di protezione sociale e di fratellanza della parenesi caritativa. In origine infatti questa condannava solo (Es., 22, 25) lo sfruttamento del povero — senza dubbio (cfr. Lev., 25, 36) il fratello impoverito — e si riferiva solo agli Israeliti in senso pieno (áam). Il Deuteronomio autorizzava esplicitamente l’usura nei confronti dei non-correligionari (nohri). In origine si trattava dell’usura nei confronti del ger, come mostrano le promesse deuteronomiche collegate a questo passo e le parallele minacce di sventura (queste ultime menzionano ancora il ger invece del nokhri). è vero che l’usura rimane sempre l’usura. Ma, secondo l’interpretazione corretta di Deut., 23, 20, anche questa usura sarà; benedetta col successo da Jahvè, come tutte le altre imprese dell’israelita purché questi non l’eser contro il suo fratello. Del pari tutte le altre prescrizioni etico-sociali: l’anno sabbatico, l’angolo dei poveri (nei campi), la spigolatura, erano limitati ai gerìm e agli evjonìm del proprio popolo. Il «prossimo» è sempre il connazionale o, adesso, il correligionario. Né tutto ciò vale meno per la parenesi dell’etica dell’intenzione: contro un membro del proprio popolo l’uomo non deve nutrire odio nel suo cuore, ma «amarlo come se stesso»; il «nemico», la cui bestia non bisogna permettere si smarrisca (Es., 23, 4), non è un forestiero in senso politico, ma, come mostra Deut., 22, 1, un compaesano con il quale si è in attrito. Senza dubbio la condotta benevola e giusta di un israelita verso uno straniero può accrescere il buon nome di Israele e quindi essere gradita a Dio. Ma i comandamenti etici della parenesi sono limitati ai «fratelli». Il diritto d’ospitalità;, come nei tempi antichi, restava sacro. Ma per il resto solo qualche grande azione abominevole contro stranieri, che metteva a r taglio il buon nome d’Israele, era disapprovata anche da Jahvè.

La distinzione di un’etica economica interna ed esterna è rimasta d’importanza permanente per la valutazione religiosa del comportamento economico. Una razionale economia acquisitiva posta sulla base della legalità; formale non poteva essere, né è mai stata, valutata positivamente sul piano religioso, nel senso proprio al puritane. A ciò era d’ostacolo il dualismo dell’etica economica per la quale certi comportamenti severamente proibiti nei confronti dei correligionari erano definiti adiaphora nei confronti dei forestieri. Questo era l’elemento decisivo. Ha preparato grosse difficoltà; ai teorici ebraici dell’etica. Se Maimonide120 era incline a sostenere che prendere interesse dal forestiero era addirittur precetto etico ciò era dovuto — oltre che alla situazione storica degli Ebrei a quell’epoca — senza dubbio anche all’avversione per il riconoscimento di tali adiaphora, pericoloso per ogni etica formalistica. L’etica tardo-giudaica ha disapprovato l’usura nel senso di uno sfruttamento senza riguardi anche nei confronti dei non-Ebrei. Ma di fronte alle concrete parole della Torah e alla situazione sociale creatasi nel frattempo il successo di questa condanna doveva essere precaria e comunque il dualismo nella questione dell’interesse continuò a sussistere.

Le difficoltà; teoriche dei pensatori etici sono naturalmente questioni secondarie. Dal punto di vista pratico però questo dualismo che pe va tutta l’etica significava che quello specifico concetto di «conferma» religiosa tramite «l’ascesi intramondana», proprio del puritanesimo, veniva a mancare. Questo infatti non poteva basarsi su qualcosa di riprovevole in sé, e «permesso» solo nei confronti di certe categorie di persone. Con ciò veniva anche a mancare sin dall’inizio tutta la concezione religiosa della «vocazione», caratteristica del protestantesimo ascetico; né poteva cambiarvi qualcosa il grandissimo (ma tradizionalistico) valore attribuito al lavoro fedele nella propria vocazione che troveremo in Gesù Ben Sirach. La differenza è chiara.

È vero che i rabbini, soprattutto all’epoca della propaganda del proselitismo, hanno sottolineato con molta enfasi la condotta onesta e leale degli Ebrei nei confronti dei loro popoli ospitanti. Su questo punto la dottrina talmudica non si differenzia in nulla dai princìpi etici di altre comunità; di credenti. In particolare il cristianesimo antico (Clemente d’Alessandria121), rispetto all’etica economica, tendeva v lo stesso dualismo che la legge sull’usura dell’Antico Testamento fissava. Il combattente per la fede puritano guardava al non-credente con lo stesso orrore — alimentato in parte dal tono dell’Antico Testamento con cui la legislazione sacerdotale d’Israele guardava al cananeo. E nessun puritano avrebbe mai parlato di un re non-credente chiamandolo «servo di Dio», cosa che invece la profezia israelitica faceva esplicitamente, riferendosi ad esempio a Nabucodonosor e a Ciro. Tuttavia, sul piano dell’etica economica, nelle manifestazioni delle sette cristiane del XVII e xvm secolo (soprattutto i Battisti e i Quaccheri), si palesa in particolare il loro orgoglio di aver sostituito, proprio nei rapporti economici con gli uomini irreligiosi, la legalità;, l’onestà;, l’equità; alla falsità;, l’imbroglio e la non fidatezza; di aver attuato il sist dei prezzi fissi; de tto che la loro clie a, anche se mand li i figliuoli, riceve sempre merce buona a prezzo equo, che i depositi e i crediti sono al sicuro presso di loro e che proprio per questo le loro botteghe, le loro banche, le loro manifatture sono preferite a tutte le altre dai clienti irreligiosi; in breve che la lora superiore etica economica, religiosamente condizionata, assicura loro la superiorità; sulla concorrenza degli irreligiosi secondo il principio: «honesty is the best policy». Ciò è per amente conforme a quello che ancora negli ultimi decenni negli Stati Uniti era la realtà; tangibile tra i ceti medi. Ed è analogo a quanto avviene in India per i Jain e i Parsi122: solo che qui i vincoli rituali pone rigidi limiti allo sviluppo della razionalizzazione deH’impresa economica. Come il jain e il parsi corretto, così il puritano ortodosso non si sarebbe mai messo al servizio del capitalismo coloniale, il capitalismo dei fornitori di stato, degli appaltatori di dazi e imposte e dei monopoli di stato. Queste specifiche forme dell’antico capitalismo extra-europeo antecedente al moderno sviluppo borghese erano per lui rozzi metodi di accumulazione di denaro, eticamente riprovevoli e sgraditi a Dio.

Ben diversa era l’etica economica ebraica. In primo luogo il fatto che proprio l’etica dei patriarchi fosse fortemente permea ta dalla massima «Qui trompe-t-on?» nei confronti dei «nonmembri» non poteva restare senza conseguenze. Mancava comunque ogni motivazione soteriologica alla razionalizzazione etica delle relazioni economiche con l’esterno: questa infatti non comportava nessun premio religioso. Ciò ha avuto conseguenze di vasta portata per il tipo di attività economica degli Ebrei. Sin dall’antichità il capitalismo paria ebraico si trovava altrettanto a suo agio di quello delle caste mercantili indù proprio in quelle forme di capitalismo statale e predatorio — accanto all’usura pura e al commercio — aborrite dal puritanesimo. In ambedue i casi queste erano considerate ineccepibili sul piano dei princìpi etici. Senza dubbio colui che in qualità di appaltatore di tasse al servizio di un principe empio o addirittura di una potenza straniera praticava l’usura contro il proprio popolo era profondamente abbietto e considerato impuro dai rabbini. Ma nei confronti di un popolo straniero questo tipo di acquisizione patrimoniale era eticamente un atto adiaforo, con la riserva naturalmente, da parte dei moralisti, che la frode vera e propria è sempre riprovevole. Ma per questo stesso motivo l’attività economica acquisitiva non poteva in nessun caso diventare un elemento di «conferma» religiosa. Se Dio «benedice» i suoi eletti con il successo economico non era perché avevano dato «prova» di sé sul piano economico ma perché l’ebreo devoto era vissuto in modo gradito a Dio al di fuori di questa attività acquisitiva (così già nella dottrina deuteronomica sull’usura). Infatti — come vedremo più avanti — per gli Ebrei il terreno della conferma della propria devozione nella condotta di vita non coincideva assolutamente con quello del dominio razionale del «mondo», in particolare dell’economia. Più avanti vedremo quali elementi del loro modo di vivere religiosamente condizionato resero gli Ebrei in grado di avere un ruolo nello sviluppo della nostra economia. In ogni caso nessuna di quelle regioni orientali, sud e est-europee, in cui gli Ebrei hanno soggiornato più a lungo e in maggior numero, ha mai sviluppato, né nell’antichità, né nel Medioevo, né nell’Evo Moderno, i tratti specifici del moderno capitalismo. La loro parte effettiva nello sviluppo dell’Occidente si è basata essenzialmente sul carattere di popolo-ospite che la volontaria segregazione imprimeva loro.

Questa posizione di popolo-ospite era fondata sulla chiusura rituale la quale, come abbiamo visto, si era diffusa in epoca predeuteronomica, e fu portata a termine nel periodo dell’esilio dalla legislazione di Esdra e Neemia.

Il tramonto dello stato nazionale e l’esilio hanno avuto significati diversi per Israele del Nord e per Giuda. In Samaria i re assiri in cambio dei guerrieri deportati avevano insediato dei coloni mesopotamici i quali, come mostra la tradizione, si adattarono molto presto agli «dèi del paese», ossia alle forme locali del culto di Jahvè, indotti a ciò, si narra, dai terrificanti miracoli di Jahvè. Nabucodonosor, evidentemente, aveva distrutto Gerusalemme molto controvoglia e dopo lunghe ponderazioni, in quanto se n’era servito volentieri come base contro l’Egitto. Quando lo fece però, la distrusse a fondo, portando via con ripetute deportazioni le famiglie cittadine di patrizi e funzionari, ossia la nobiltà di corte, i guerrieri addestrati e i regi artigiani, la gerarchia ecclesiastica e senza dubbio anche i notabili rurali. Rimasero essenzialmente piccoli contadini nelle campagne e poiché Babilonia da molto tempo non disponeva più di una forte popolazione contadina nessun insediamento di coloni mesopotamici o altri ebbe luogov9.

Sembra che il destino degli esuli a Babilonia abbia conosciuto delle variazioni. è certo che la maggior parte di loro — seppure difficilmente tutti — erano installati nella vicinanza della capitale, ma in campagna. Senza dubbio, conformemente a quanto troviamo da tempo immemorabile nelle iscrizioni dei grandi re mesopotamici, dovevano costruire (o riattivare) un canale; vivevano quindi insieme su terre proprie per le quali pagavano al re delle imposte, prestando però anche la corvée a seconda del bisogno. La corvée viene menzionata dai profeti (Is., 47, 6; Ger., 5,10; 28, 14; Lamentazioni, 1, 1; 5, 5). Si lamenta l’indigenza, in un caso anche la fame (Is., 51, 14). Un aumento dell’oppressione sotto re Nabu-nàdin, in contrasto con il trattamento sotto Evilmerodach123 come Klamroth ritiene probabile, non sarebbe sorprendente, in quanto anche dalle iscrizioni di Ciro risulta che quel re aveva incrementato le prestazioni di lavoro servile anche per il suo stesso popolo. Alcuni singoli imprigionamenti, che secondo i testi profetici appaiono probabili, erano dovuti senza dubbio alla resistenza e questa, a sua volta, all’influenza dei profeti di salvezza (Ger., 29, 21) che sono apparsi perlomeno fino alla distruzione di Gerusalemme sotto Sedekia.

Tuttavia l’oppressione, di regola, da un punto di vista puramente oggettivo, non può essere stata pesante, poiché già la lettera di Geremia ai capi della comunità esilica presuppone che gli esuli avessero la libertà di lavoro, e sostanzialmente fossero in grado di sistemarsi a Babilonia come più gli garbava. Troviamo gli esuli in misura crescente nella capitale stessa e — stando ai documenti dei Murasu124 scoperti e pubblicati dalla spedizione della Pennsylvania — nelle più diverse posizioni professionali, con l’unica eccezione degli uffici puramente politici, l’accesso ai quali era subordinato al requisito dell’educazione degli scribi babilonesi (che evidentemente restava preclusa agli Ebrei come agli altri non-babilonesi)w9.

Il numero nei nomi ebraici a Babilonia si accrebbe particolarmente all’epoca dei Persiani e troviamo ora Ebrei come proprietari terrieri, esattori di rendite, impiegati presso notabili babilonesi e persiani. Infine, e senza dubbio sempre più, li troviamo nel commercio e in particolare nell’attività di cambia-valute, che proprio a Babilonia, già all’epoca di Hammurabi, aveva fatto nascere per la prima volta il tipo del «finanziere». Le scarse differenze etniche, nonché linguistiche — dopo che gli esuli ebbero adottato l’idioma popolare aramaico — hanno impedito sin dall’inizio lo sviluppo di persecuzioni come in Egitto, nonché di un’esistenza da ghetto, come quella di cui testimoniano i contemporanei papiri di Assuan. La comunità prosperava sempre di più. Dopo i Persiani, sembra che avesse tra tutti i popoli stranieri il ruolo più considerevole. Le condizioni patrimoniali di una notevole parte degli esuli si erano sviluppate molto favorevolmente, come mostrano le importanti elargizioni per la costruzione del tempio; e il numero delle persone benestanti che preferirono addirittura restare a Babilonia per non perdere i loro beni era tutt’altro che limitato.

Tutto ciò avveniva, indubbiamente, sotto il dominio dei Persiani, che era spiccatamente favorevole agli Ebrei, e sotto il quale troviamo eunuchi ebrei, come Neemia, nella funzione di uomini di fiducia personali del re. Tuttavia un’oppressione sistematica proprio degli esuli da parte del governo babilonese è del tutto inverosimile. In fatto di intolleranza religiosa non vi è nulla di accertabile. E per quanto i grandi re, se si dava il caso, ci tenevano a che i vinti mostrassero reverenza ai loro dèi, tuttavia intervenivano come tutti i despoti antichi, solo quando la ragione di stato lo esigeva. Inoltre mancava in tutte queste monarchie orientali un vero e proprio culto del sovrano, alla maniera del culto tardo-romano dell’imperatore. Il sovrano, infatti, pur esigendo la prosternazione e l’obbedienza incondizionata, stava tuttavia sotto agli dèi. Questa circostanza facilitava la tolleranza. Ciononostante l’odio contro Babele era molto forte, come mostrano le giubilanti profezie di sventura del Deuteroisaia all’avvicinarsi della guerra contro i Persiani. è chiaro che la comunità degli esuli nel corso dell’esilio si sviluppò con sempre maggior coesione. Questa però era opera soprattutto dei sacerdoti, deportati in massa solo con l’ultima deportazione, al momento della distruzione di Gerusalemme. Fino allora evidentemente Nabucodonosor aveva sperato di trovare appoggio in loro.

L’autorità tra gli esuli apparteneva innanzitutto agli «Anziani» che nella lettera di Geremia (Ger., 29, 1) sono citati in testa e prima dei «sacerdoti e profeti». Ufficialmente rimasero forse in modo permanente i rappresentanti responsabili di fronte al governo babilonese. è vero che re Evilmerodach aveva graziato, dopo una lunga prigionia, il penultimo re giudaico Joiakin e l’aveva ricevuto al suo tavolo di corte. Con questo i Davidici, come schiatta reale, avranno acquisito una priorità onorifica nella comunità degli esuli. Ma, in principio, non molto di più.

Di fatto erano i sacerdoti che comparivano sempre più in primo piano, accanto ad aleuni profeti, di cui parleremo più avanti. E questo per gli stessi motivi per cui, all’epoca delle migrazioni dei popoli, si accrebbe il potere dei vescovi. Il Libro di Ezechiele ci rivela la loro grande importanza, sin dai primi tempi. Ezechiele era di stirpe sacerdotale. Il suo piano di uno stato israelitico futuro mostra quanto era discreditato il potere monarchico. Il principe (nasi) della comunità a struttura teocratica fondamentalmente non è altro che un protettore della chiesa. Il «gran sacerdote» del tempio di Gerusalemme appare invece per la prima volta con Ezechiele come la figura centrale del futuro ordinamento ierocratico. Non ci interessano qui le singole proposte utopiche e insieme schematiche del suo progetto. Da un punto di vista pratico era importante, accanto alla figura del gran sacerdote, soprattutto la distinzione di status, applicata qui per la prima volta, tra i sacerdoti addetti al culto, i kohanim, e gli altri, i «Leviti», non qualificati per il culto sacrificale. Ma proprio da qui sorgevano naturalmente le difficoltà. Per Ezechiele i Sadoqiti di Gerusalemme hanno ancora il ruolo preponderante in quanto unici kohanim. Su questa base un’unificazione delle diverse famiglie di sacerdoti non era possibile. Solo un’evoluzione ulteriore deve aver portato all’accomodamento con i sacerdoti non-sadoqiti, gli Aronniti.

Con l’inizio del dominio persiano i sacerdoti acquisivano la guida incondizionata del popolo. Questo fatto si collegava alla politica seguita con perfetta coerenza dai re persiani che dappertutto portavano al potere la ierocrazia onde utilizzarla come mezzo di domesticazione dei popoli dipendenti. Già lo stesso Ciro, pur attestando da un lato la sua riverenza per gli dèi babilonesi, si vantava dall’altro di aver reintegrato nei loro antichi luoghi di residenza tutti quegli dèi che i Babilonesi avevano spodestato e le cui immagini e tesori erano stati accumulati a Babele. Conformemente a ciò consentì agli Israeliti il ritorno in patria. Tuttavia non era ancora coerente come Dario nella sua utilizzazione dei sacerdoti. La politica persiana aveva tentato dapprima di appoggiarsi alla dinastia legittima dei Davidici. Troviamo due davidici, Sheshbazzar e Zorobabel, come nasi degli esuli tornati. Ma, probabilmente perché la posizione della schiatta dei Davidici, nelle complicazioni del falso Smerdi, si era rivelata politicamente dubbia, tale politica dovette essere abbandonata. A quell’epoca il profeta Aggeo aveva predetto a Zorobabel la rapida restaurazione della corona di Davide. è incerto se Zorobabel ha effettivamente compiuto un tentativo in questo senso. Da allora però scompare e la sua schiatta non venne più presa in considerazione dai Persiani. In linea generale e di principio la politica di Dario partiva dall’alleanza con i sacerdoti nazionali. Per l’Egitto i documenti attestano la restaurazione, da parte sua, delle antiche scuole sacerdotali. L’organizzazione quasi ecclesiastica della religione egiziana con i suoi sinodi e la sua potenza a livello nazionale risale a quell’epoca. Qualcosa di analogo si trova per il culto di Apollo dell’Asia Minore. Per quanto riguarda l’antica Grecia, è assodato che i Persiani avevano dalla loro parte tanto l’oracolo delfico quanto ogni sorta di profeti plebei. è stato l’esito delle battaglie di Maratona, di Salamina e di Platea che ha preservato la cultura ellenica, libera da influenze sacerdotali, dall’essere consegnata alle dottrine orfiche della metempsicosi o altre mistagogie e al dominio di una ierocrazia sotto la protezione persiana. Dopo Dario, e con ancora maggiore coerenza dopo Artaserse125, la politica persiana nei confronti dei sacerdoti israeliti seguì proprio questa via e con pieno successo. I sacerdoti non avevano nessun interesse alla restaurazione del potere monarchico dei Davidici e preferivano essere loro stessi l’autorità decisiva per tutte le questioni sociali e di politica interna, all’occorrenza sotto governatori stranieri e quindi lontani dalla comunità. Ciò rispondeva agli interessi della politica persiana. La figura, totalmente sconosciuta prima dell’esilio, del «gran sacerdote» come rappresentante della ierocrazia, contrassegnato da maggiori esigenze di purezza, dal privilegio dell’accesso al sancta sanctorum nel tempio e dalla qualifica esclusiva per l’esecuzione di certi riti, era il prodotto della collaborazione tra la profezia esilica influenzata dai sacerdoti e la revisione e interpolazione dei comandamenti rituali ad opera dei medesimi. La versione sacerdotale dei mishpatīm e della Torah menziona il «principe» (nasi) solo nel divieto di maledirlo e per il resto ne prescinde completamente. Tutto ciò corrispondeva in pieno alle esigenze della politica persiana.

I sacerdoti però avevano anche svolto con molta coerenza un intenso lavoro preliminare a quell’intesa con la monarchia persiana suggellata sotto Artaserse. La prima parte di questo lavoro fu una zelante registrazione delle schiatte di sacerdoti da riconoscere come tali con pieni diritti, nonché dei Leviti e servitori del culto ora separati da loro e non abilitati all’ufficio sacerdotale e anche dei membri della comunità. Sono stati fabbricati a quell’epoca quei registri completi delle famiglie, in parte palesemente in contraddizione con la tradizione più antica, che costituiscono una frazione così importante dell’attuale versione sacerdotale della tradizione, e dovevano valere per il futuro come uniche convalide delle qualificazioni rituali. L’ulteriore lavoro dei sacerdoti è consistito nella definizione e nella stesura scritta sia dei regolamenti del culto che dei comandamenti rituali per la condotta di vita; nonché in una rielaborazione conforme di tutta la tradizione storica e della Torah levitica esistenti allora per iscritto. Fu in quell’epoca, nel v secolo, che questi testi ricevettero, nelle linee essenziali, la loro configurazione attuale. Compiuto questo lavoro preliminare, i sacerdoti, grazie ai loro rapporti con la corte sotto Artaserse, riuscirono ad ottenere: 1) che un eunuco ebreo e favorito del re, Neemia, con i pieni poteri di governatore, riorganizzasse la comunità di Gerusalemme e assicurasse la sua esistenza tramite la costruzione di mura di cinta ed il sinecismo; 2) che un sacerdote, Esdra, proclamasse la «legge» elaborata da sacerdoti della comunità esilica a Babilonia, dichiarandola vincolante per la comunità in virtù dell’autorità regia e impegnando i rappresentanti della collettività tramite un documento solenne.

Di questi eventi ci interessa qui soprattutto l’attuazione della segregazione rituale della comunità. Questa fu posta in atto durante l’esilio dopo che i nord-israeliti deportati dagli Assiri erano stati quasi completamente assorbiti dal nuovo ambiente pronto ad accoglierli; questo fatto aveva insegnato ai sacerdoti e ai maestri della Torati l’importanza decisiva che rivestiva per i loro interessi l’erezione di tali barriere rituali.

Il divieto assoluto del matrimonio misto era il punto più importante sul piano pratico. Questo venne definitivamente messo in vigore da Esdra con l’aiuto di mezzi molto teatrali; e si procedette anche immediatamente e senza alcun riguardo allo scioglimento forzato dei matrimoni misti sussistenti. Fino allora tale divieto aveva avuto scarsa importanza, e non lo mostrano solo le fonti più antiche (Gen., 34, 38; Giud., 3, 5-6; Deut., 21, 10) e il sangue misto dei Davidici (Ruth!) ma anche il fatto che tra coloro che si erano stabiliti in Israele risultava colpevole di questa abominazione, accanto ad alcune famiglie in vista e non pochi sacerdoti e Leviti, la stessa famiglia del gran sacerdote (Esdra, 10, 18 e seg.). Nella versione sacerdotale questa lotta contro il connubio si è condensata in tutta una serie di teologumeni. Tra questi il divieto di mischiare sementi diverse sul campo, filati diversi nella tessitura e di usare animali bastardi. Non è impossibile che questi divieti si ricollegassero almeno in parte ad antiche superstizioni di origine ignota. Nell’insieme però è molto più probabile che siano tutti quanti dei tardi teologumeni di sacerdoti formalisti occasionati dall’esecrazione della «mescolanza» con i non-ebrei. è accertato infatti che il mulo, per esempio, veniva usato in epoca pre-esilica senza che vi si trovasse nulla da eccepire. Accanto al connubio va considerato il ruolo della commensalità nella chiusura verso l’esterno alla maniera delle caste. Abbiamo visto che anche questa veniva praticata senza scrupoli, con persone ritualmente estranee benché sempre naturalmente, come dappertutto, solo nella cerchia di coloro con cui si era legati stabilmente tramite berith o temporaneamente alleati in virtù del dovere d’ospitalità. Nell’episodio del pasto separato degli Egiziani e degli Ebrei, nella storia di Giuseppe, il rifiuto della commensalità viene attribuito alle vedute degli Egiziani in contrasto con quelle degli Israeliti. Solo la straordinaria enfasi posta dalla legislazione sacerdotale sulla legge alimentare creò delle difficoltà praticamente sensibili.

Né il «Decalogo cultuale» — che pur contiene un precetto alimentare altamente specifico (non cuocere il capretto nel latte della madre) la cui estensione, più tardi, è stata gravida di conseguenze — né altri regolamenti certamente pre-esilici includono o fanno menzione degli altri divieti alimentari israelitici, quelli che in seguito sono diventati i più caratteristici. Questi sono, oltre al tabù su numerosi animali, in parte molto importanti {Lev., 11), il divieto di consumo: 1) del nervo sciatico che nella sua ulteriore specificazione escludeva quasi ogni consumo della carne dei quarti posteriori; 2) del grasso (Lev., 3, 17; 7, 23 e 25) che più tardi, in virtù dell’interpretazione che lo limitava ai quadrupedi, costrinse gli Israeliti a usare solo grasso d’oca; 3) del sangue, che rendeva necessaria la salatura e l’ammollo della carne; 4) di carne di bestia morta o lacerata che (insieme al n. 3) determinava la regolamentazione rituale della macellazione.

La forma stessa di alcuni di questi divieti (per es. Lev., 3, 17) li caratterizza come innovazioni della legislazione sacerdotale. Il consumo di carne d’asino è presupposto in II Re, 6, 25. Il divieto di cibarsi di carne di bestia morta o sbranata è presupposto da Ezechiele (4, 14, cfr. 44, 31) come valido solo per i sacerdoti; e nel Tritoisaia (66, 3) solo il sacrificio di sangue di porco viene presentato come abominio. Alcuni di questi divieti debbono risalire ai tempi antichi, in parte come tabù generali, in parte come tabù sacrificali a favore del Diox9, in parte come tabù relativi alla purezza dei sacerdoti. Ciò vale presumibilmente per le obiezioni contro la carne di porco e di lepre e per il divieto del consumo di sangue menzionato nella tradizione di Samuele (7Sam., 14, 33 e seg.). Una leggenda eziologica, che in genere è un indice sicuro di grande antichità, esiste solo per l’uso di non mangiare il nervo sciatico. Per il divieto del consumo di sangue c’è un’interpretazione metafisica, quindi relativamente tarda (derivata dalla credenza nell’anima). Il divieto di cuocere il capretto nel latte della madre che si trova nel cosiddetto Decalogo cultuale, esteso nel tardo giudaismo a ogni forma di cottura promiscua di carne e latte, sembra derivare da un tabù locale del culto sichemita ed è inserito nel testo come regola positiva senza motivazione. La proibizione del consumo di bestie morte o sbranate può essere collegata alle prescrizioni relative al sacrificio. Per il divieto di determinate specie di animali non si trova da nessuna parte una leggenda eziologica. Al suo posto troviamo invece una specie di distinzione scientifica naturalistica che certamente non è antica ma bensì il prodotto di una schematizzazione sacerdotale. Se ne trova una molto simile, in parte identica, in Manu (V, § n e segg.); presumibilmente essa ha esteso di molto la categoria delle carni proibite.

Sarebbe probabilmente una fatica del tutto vana il voler rintracciare i motivi della nascita dei singoli divieti. è accertato che il porco veniva ancora allevato in Palestina, anche in branco, all’epoca dei Vangeli. Anche più tardi, le setole non erano considerate impure, ma solo il consumo della carne. Solo nell’epoca talmudica gli allevatori di bestiame minuto — tutti però, anche quelli di capre — che una volta erano i portatori della devozione jahvista vennero considerati impuri: ma non per via del consumo di carne di porco ma per il loro modo di vivere, impuro secondo il metro dei Leviti. La spiegazione in sé più probabile sarebbe che in questo caso, come per il divieto ecclesiastico del consumo di carne di cavallo in Germania, vi sarebbe alla base la proibizione dei pasti sacrificali di culti estranei. Tuttavia tale divieto, abbastanza diffuso — anche in India e in Egitto — potrebbe anche essere stato mutuato da fuori.

Più ancora del rifiuto di tutta una serie di piatti di carne pure altamente apprezzati altrove doveva incidere sulla possibilità di commensalità il divieto del consumo di sangue e la crescente ansia di evitare ogni animale non realmente ucciso tramite macellazione. Gli effetti dovevano farsi sentire in particolare non appena da questi precetti si dedusse la necessità di un particolare metodo di macellazione (shachat) controllato e regolato ritualmente per tutti gli animali, come avvenne nel periodo post-esilico. Ogni animale non macellato correttamente era considerato adesso «carogna» (nevelah) anche se la scorrettezza consisteva in una tacca nel coltello (perché allora la carne era stata «lacerata») o in qualche altra svista del macellaio126 la cui arte si acquista solo con una lunga pratica. Sulla necessità di. avere nelle vicinanze un macellaio ebreo ritualmente corretto si fondava la difficoltà, per gli ebrei osservanti, di vivere isolati o in piccole comunità. Negli Stati Uniti questo fatto ha promosso fino al giorno d’oggi la concentrazione degli ebrei ritualmente ortodossi nelle grandi città (mentre gli ebrei riformati erano in grado di attendere all’aflare molto redditizio dell’usura isolata verso i negri delle campagne). L’elaborazione casistica di questo rituale alimentare e della macellazione appartiene solo alla tarda antichità ma le sue basi risalgono senz’altro alla dottrina sacerdotale dell’esilio.

La commensalità fu resa molto difficile da questa ritualizzazione degli usi alimentari. Il giudaismo ufficiale non ha mai conosciuto un vero e proprio divieto della commensalità. L’esortazione del Libro (apocrifo) del Giubileo (22, 16) di separarsi dai gentili e di non mangiare con loro non è stata recepita come non lo è stato il principio di una generica impurità delle cose dei gentili o del loro contatto personale. Solo per l’ebreo che si accinge a compiere un atto del culto è entrato in vigore, in epoca posteriore, il comandamento della più rigorosa segregazione da tutto ciò che è pagano (Giov., 18, 28). Tuttavia le relazioni degli autori ellenici e romani attestano che gli ebrei corretti nutrivano naturalmente dei considerevoli scrupoli riguardo a ogni forma di commensalità con non-ebrei; il rimprovero dell’odium generis humani risale senza dubbio in primo luogo a questo fattoy9.

Nel periodo dell’esilio la rigorosa santificazione del sabato passò in primo piano come uno dei più importanti «comandamenti di differenziazione» rituale; da un lato perché, al contrario del semplice fatto di essere circonciso, indicava in modo certo e visibile a ciascuno che la persona in questione prendeva effettivamente sul serio la sua appartenenza alla comunità; dall’altro perché le solennità cultuali erano legate al luogo di culto di Gerusalemme e lo shabbàth rappresentava l’unica festività indipendente dall’apparato cultuale. Il riposo sabbatico creò naturalmente delle difficoltà considerevoli al lavoro comune con non-correligionari nell’officina; per questo e per il suo carattere contribuì di fatto in grande misura alla segregazione. Nella versione sacerdotale, sotto forma del maestoso racconto della creazione lo shabbàth, in virtù dei sei giorni di lavoro divino, fu sanzionato da un mito eziologico molto imponente.

La ritualizzazione dello shabbàth si manifestò in ampie inserzioni nel testo del Decalogo. Il comandamento di derivazione jahvista di interrompere il lavoro dei campi (Es., 34, 21) e il generico precetto elohista del riposo dal lavoro (Es., 23, 12) si trasformarono soltanto ora nella proibizione di ogni attività, nel divieto di lasciare la propria dimora (Es., 16, 29) — più tardi mitigato dalla delimitazione della «via sabbatica» con varie possibilità di elusione —, di accendere il fuoco (Es., 35, 3) sicché occorreva già cucinare il venerdì (per il lume il precetto era mitigato da varie possibilità di eluderlo), di portare pesi e di seppellire animali da soma, di andare al mercato, di concludere qualsiasi negozio, di combattere e di parlare ad alta voce (Ger., 17, 19; Tritois., 58, 13; Neem., 10, 32; 13, 15 e segg.). All’epoca dei Seleucidi127 venne dichiarato impossibile prestare servizio militare, essenzialmente per via del sabato e dei divieti alimentari: con questo era suggellata la smilitarizzazione definitiva degli ebrei devoti, eccetto che nel caso di guerra santa in cui, secondo l’opinione dei Maccabei, il fine giustificava i mezzi.

Si trovano anche gli abbozzi della creazione di un costume particolare, come quello costituito più tardi dai tefillim per i devoti esemplari; tuttavia, perlomeno all’inizio, questi non ebbero ulteriore sviluppo.

Le obiezioni, importanti sul piano pratico, sollevate nel corso del tardo giudaismo e del proto-cristianesimo contro ogni partecipazione a lavori che tornassero anche solo indirettamente a vantaggio del culto sacrificale pagano e contro ogni rapporto sociale che poteva comportare il pericolo di una partecipazione indiretta a tali atti del culto sono state elaborate per primi dai rabbini. Ma le basi erano fornite dalla profezia e dalla Torah. E questo, il rifiuto della partecipazione comune a qualsivoglia pasto sacrificale, rappresenta una caratteristica unica nell’antichità nonché determinante per la posizione politica di paria degli Ebrei. Tratto caratteristico di questa tendenza alla segregazione è il fatto che ne sono stati portatori la comunità in esilio di Babilonia e, sotto la sua influenza, gli organizzatori della comunità dei reduci in Palestina.

Mentre la comunità egiziana degli esuli era evidentemente composta in prevalenza di nord-israeliti — come indicano i nomi — e continuava quindi la tradizione nord-israelitica del sincretismo, la comunità babilonese era al contrario di origine giudaica e rigorosamente jahvista, come mostrano anche i numerosi nomi nuovi coniati nel periodo dell’esilio che sono stati tutti costruiti con jah e non con el. Soprattutto però la comunità babilonese era centrata sulla continuità della tradizione profetica, al contrario di quella dell’Egitto, dove si erano rifugiati gli avversari giudaici della profezia trascinando con loro a forza Geremia, e la cui alleanza politica era sempre stata rifiutata con particolare asprezza dalla profezia. Nell’insieme la situazione degli esuli babilonesi era di gran lunga più favorevole rispetto a quella degli esuli egiziani; soprattutto erano molto meno respinti dall’ambiente in cui si trovavano. Ciò nonostante sono stati proprio gli Ebrei babilonesi e non quelli egiziani a dare l’avvio alla creazione delle barriere rituali decisive verso l’esterno e all’organizzazione interna della comunità, così come più tardi furono loro i portatori della cultura talmudica. Da ciò si può misurare la capitale importanza della profezia e delle speranze di cui era latrice per la costituzione ed il mantenimento del giudaismo. Naturalmente esistevano sacerdoti anche nella comunità egiziana. Ma il corpo sacerdotale di Babilonia, influenzato dalla profezia, che teneva viva la tradizione deuteronomica in seno alla comunità, è stato l’unico nucleo di una ulteriore evoluzione.

In Palestina la popolazione urbana sosteneva la tradizione puritana in contrasto tanto con le ricche schiatte rurali che con i sacerdoti agiati. Sin dall’inizio si manifestarono gli antagoni smi sociali gravidi di conseguenze del periodo post-esilico. I primi avversari dei reduci furono i Samaritani. Questa popolazione immigrata, secondo la tradizione (II Re, 17, 24), da città mesopotamiche e aramaiche, che si era fusa con quella israelitica locale, adorava Jahvè, sotto la guida di sacerdoti nord-israeliti, ma spesso in comune con altre divinità. I suoi strati più influenti erano costituiti da un lato dai funzionari e altri gruppi d’interesse presso la corte del governatore, che è sempre rimasto a Samaria, dall’altro delle ricche schiatte delle campagne e delle cittadine minori, che erano interessate ai culti rurali. Quando ebbe inizio — sembra sotto Dario — la costruzione del tempio a Gerusalemme essi offrirono la loro collaborazione che però venne respinta da Zorobabel (Esdra, 4, 3) — stando a quando Rothsteinz9 dimostra in maniera plausibile — in seguito ad un oracolo di Aggeo (2, 10 e seg.); e riuscirono allora ad imporre la sospensione dei lavori del tempio. La loro ostilità nei confronti dei gerosolimitani continuò a sussistere; essi ostacolavano in particolare ogni tentativo di fortificare la città. I gerosolimitani vivevano continuamente nel timore di questi avversari (Esdra, 3, 3) che vennero chiamati ammè ha-arazoth.

Le circostanze mostrano però che sotto Neemia una parte considerevole degli strati abbienti della città di Gerusalemme e della campagna circostante, composta tanto da laici che da sacerdoti e da funzionari e in primo luogo dalla stessa famiglia del gran sacerdote, era imparentata con gli avversari del puritanesimo babilonese ed era in parte in connivenza in parte in posizione oscillante nei confronti di questi (Neem., 5, 1; 6, 17 e seg.). E così rimase. Ancora in epoca ellenistica (come appare secondo Giuseppe Flavio128) un fratello del gran sacerdote era imparentato con un governatore samaritano e si era stabilito a Samariaa10.

Evidentemente solo i poteri delegati dal re di cui disponevano Esdra e Neemia inducevano i nobili a piegarsi in qualche misura. Alla costruzione delle mura parteciparono, è vero, i Tekoiti plebei, ma non i grandi (adirìm) della città di Tekoa (Neem., 3, 5). Anche gli strati possidenti di Gerusalemme praticavano l’usura nei confronti dei piccoli proprietari esattamente come prima dell’esilio sicché sorse un aspro conflitto (Neem., 5, 7). Neemia, dal canto suo, manteneva se stesso ed una scorta con i suoi mezzi personali, di tutt’evidenza considerevoli, e senza dubbio anche con quelli degli esuli babilonesi; per il resto aveva l’appoggio delle masse. Per costringere gli abbienti di Gerusalemme alla remissione dei debiti convocò (Neem., 5, 7) una «grande assemblea» (kahal ha-gedolah). Del pari Esdra (10, 8) per costringere allo scioglimento dei matrimoni misti convocò «l’assemblea degli esuli» (kahal ha-golah) sotto minaccia di pene spirituali: l’espulsione dall’assemblea della golah e il cherem sui beni di coloro che non vi comparivano. è incerto se il cherem in questo caso implicasse solo la dichiarazione di tabù, quindi il boicottaggio, o l’effettiva distruzione: la faida infuriava nel paese, come mostra la presentazione di Neemia. Negli annali di Esdra (6, 21) si trova il termine nibdolìm («coloro che si erano separati») per la comunità degli esuli ritualmente corretti e per quanti si erano uniti a loro. Questa organizzazione comunitaria era però certamente, in primo luogo, opera di Neemia.

Formalmente l’azione di Neemia toccava due punti: 1) il sinecismo delle famiglie e di una parte liberata della popolazione rurale nella città di Gerusalemme ora fortificata; 2) la costituzione di una comunità che si assumeva determinati impegni minimali tramite un giuramento di fratellanza sottoscritto e suggellato da Neemia, dai rappresentanti dei sacerdoti, dai Leviti e dai «capi» (rashìm) del popolo (ha-am). Questi impegni erano (Neem., 10): 1) sospensione del connubio con i ’ammè ha-arazoth; 2) boicottaggio di tutto il traffico di mercato il sabato; 3) remissione delle entrate di ogni settimo anno e di tutti i crediti nell’anno in questione; 4) imposta pro capite di 1/3 di shekel annuo per il fabbisogno del tempio; 5) fornitura di legname per il fabbisogno del tempio; 6) offerta a redenzione dei primogeniti e delle primizie conformemente alla legge sacerdotale; 7) forniture in natura ai sacerdoti del tempio e decima ai Leviti; 8) mantenimento del tempio stesso.

Nella relazione del cronista questa fraternizzazione si accompagna all’imposizione della legge mosaica, vale a dire la versione sacerdotale delle prescrizioni cultuali e rituali redatta durante l’esilio. Ma benché proprio in questa legge fosse prevista l’importante posizione del gran sacerdote nel culto egli non partecipò in nessun modo a quest’atto e la sua firma non figura tra quelle dei garanti della comunità costituita da Neemia. Il carattere fondamentalmente ambiguo della nuova fondazione appare in tutto ciò e continuò a sussistere per quasi tutto l’ulteriore corso della storia ebraica. Da un lato si trattava formalmente di una libera associazione religiosa comunitaria. D’altra parte questa comunità degli ortodossi esemplari rivendicava in ultima analisi di essere l’unica erede della posizione sacra e quindi anche politica di Israele. Tuttavia l’autentico potere politico stava sempre nelle mani o del satrapo persiano e più tardi del governatore ellenico e dei loro funzionari, o di uno speciale delegato plenipotenziario del re come lo era di fatto Neemia.

Del pari anche la posizione di Esdra formalmente si basava soltanto sull’autorità conferitagli dal re persiano. Possono sussistere dubbi circa l’autenticità dell’incarico scritto del re, riportato dal cronista, di applicare la legge del «Dio del cielo» (Esdra, 7, 23) facendo ricorso, se necessario, alla forza (ibid., 26); ma la sua posizione nei confronti del gran sacerdote non è pensabile senza un’ampia delega di poteri da parte del re. Evidentemente ai funzionari della nuova comunità il re non aveva conferito nessun potere laico, in particolare nessun potere giudiziario. Sembra che all’epoca dell’arrivo di Neemia a Gerusalemme il governatore residente a Samaria avesse la competenza giudiziaria, mentre funzionari distrettuali ebrei si occupavano dell’amministrazione locale. In questa e negli obblighi tributari verso il re non si sono avuti evidentemente mutamenti durevoli. Solo i sacerdoti, i Leviti e i servitori del tempio erano esentati dall’imposizione con la (presunta) lettera del re. Ma di un diritto della comunità all’autogoverno non si parla. Del pari le decime dei sacerdoti e dei Leviti erano prelevate realmente in maniera coercitiva solo in quei periodi intermedi in cui regnava un principe giudaico ritualmente corretto e solo fin dove arrivava il suo potere. Mezzi di coercizione religiosi — l’esclusione dall’associazione di Neemia, più tardi il declassamento come ’am ha-arez di coloro che non pagavano la decima» dovevano garantire le entrate.

La scarsa chiarezza di questa situazione, sempre fonte di nuovi conflitti, si manifesta chiaramente nei documenti. La comunità giudaica era un’associazione puramente religiosa: anche i tributi che si accollava formalmente sembravano essere liberamente assunti. La lettera degli ebrei dell’alto Egitto scritta nell’anno 408-7 con la preghiera di adoperarsi per la ricostruzione del loro tempio di Jahvè è indirizzata sia al governatore residente a Samaria che a quello di Gerusalemme, dopo che in precedenza essi avevano già scritto, per questo stesso motivo, «al gran sacerdote e ai sacerdoti di Gerusalemme, suoi colleghi», senza ottenere una risposta. Evidentemente non era loro ben chiaro quale fosse l’autorità competente. Del resto non è sorprendente che non abbiano ricevuto una risposta dai sacerdoti di Gerusalemme.

Infatti la costituzione della comunità giudaica implicava la separazione rituale dai Samaritani e da tutti gli abitanti del paese, Israeliti o semi-israeliti, non formalmente assunti nella comunità. Soprattutto dai Samaritani, benché questi accettassero tutta la Torah nella versione dei sacerdoti esilici e avessero dei sacerdoti aronniti. Il punto decisivo di discordia, in questo caso, era il monopolio cultuale di Gerusalemme. è caratteristico il fatto che gli esuli babilonesi avessero dato un’importanza determinante a questo monopolio del culto. Tale atteggiamento era proprio solo a loro. La comunità egiziana degli esuli si era costruita un proprio tempio, come mostrano i documenti di Elefantina, e lo stesso gran sacerdote Onia, che durante i disordini delle lotte di partito dei Maccabei era fuggito in Egitto, non aveva avuto scrupoli nel costruire lì un tempio. L’influenza preponderante degli esuli babilonesi, durata un intero millennio, non si manifesta così chiaramente in nulla come nel fatto che in definitiva essi siano riusciti ad imporre i princìpi a cui si erano formalmente attenuti sin dall’inizio. A questo fine è stato della massima importanza il fatto che le principali famiglie di sacerdoti e i componenti dei circoli aristocratici influenzati dalla profezia, che avevano prodotto il Deuteronomio, fossero stati deportati a Babilonia dove avevano assicurato la continuità della tradizione. Questo fatto era più importante ancora della posizione economica preminente degli esuli babilonesi, la quale è stata perlomeno eguagliata, più tardi, da quella della comunità alessandrina. A questo si aggiungevano poi le condizioni etniche, in particolare quelle linguistiche; gli ebrei babilonesi, sulla base della lingua parlata aramaica, rimasero in perfetta comunione con la madre-patria mentre ciò non avvenne per gli ebrei dei territori ellenici. Questo fatto ha avuto un’influenza caratteristica anche sul destino delle missioni cristiane presso i proseliti di ambedue le parti.

Da un punto di vista soteriologico il fatto di stabilire a Gerusalemme il monopolio del sacrificio, congiunto all’esistenza degli Ebrei nella Diaspora, divenne di primaria importanza in quanto adesso per la prima volta il sacrificio assumeva esclusivamente il carattere di sacrificio comunitario. Se da un lato c’era la celebrazione quotidiana del sacrificio a Gerusalemme, dall’altro invece c’era l’individuo che da questo momento cessava del tutto di offrire sacrifici. Chattat e asham perlomeno per gli Ebrei della Diaspora, continuarono a sussistere solo in teoria: l’individuo pagava un tributo fisso a Gerusalemme invece di offrire il sacrificio di persona. Sul piano pratico, però, il trionfo di questa concezione babilonese offriva i massimi vantaggi per la diffusione internazionale del giudaismo. Per gli Ebrei della Diaspora era essenziale che il culto fosse celebrato a Gerusalemme conformemente al rito, come comandato da Jahvè. Ma come popolo-ospite in terra straniera, il fatto di non essere gravati del dovere di costruire templi propri in paesi stranieri conferiva loro naturalmente una libertà di movimento non comune.

Conformemente a questo principio la golah rifiutava ogni altro tempio come illegale. In seguito la sua opposizione contro i Samaritani si acuì sempre di più. All’epoca dei Tolomei troviamo già Ebrei e Samaritani in Egitto in aspra concorrenza tra di loro. Non ci occuperemo qui ulteriormente della sorte dei Samaritani. Sul piano della storia delle religioni presentano un interesse per così dire «negativo», e ciononostante importante: confrontando il loro destino con quello degli Ebrei si può studiare cosa mancava alia religione dei sacerdoti israeliti, fondata esclusivamente sulla Torah, per diventare una «religione mondiale». I bne Jisrael, come chiamavano se stessi, rimasero puramente ritualistici. Mancava loro in primo luogo il collegamento con la profezia giudaica, che rifiutavano: la loro speranza messianica rimase quindi una speranza in un principe intramondano, il ta’eb («colui che ritorna»), priva dello straordinario pathos social-rivoluzionario per il futuro. In secondo luogo mancava loro, malgrado l’esistenza di sinagoghe, il perfezionamento della legge da parte di quello strato plebeo di autorità popolari rappresentato dai rabbini, ed il suo prodotto: la mishnàh129, di cui vedremo più avanti il significato. Essi non svilupparono il farisaismo, dal cui spirito è nato il Talmud; rifiutarono la speranza nella resurrezione, affini anche in questo al partito sadduceo di Gerusalemme con il quale condividevano anche i rapporti amichevoli con l’ellenismo. Mancava dunque, si può dire, lo sviluppo confessionale che era ancorato al contenuto della soteriologia profetica e rabbinica e al razionalismo proprio dei Farisei. I Samaritani hanno conosciuto delle reviviscenze ancora nel Medioevo (xiv secolo) e avevano ancora durante il xvn secolo delle colonie sparse in Oriente (fino in India); non hanno mai sviluppato però un’etica nazionale religiosa in grado di conquistare l’Occidente. Esistono ancora al giorno d’oggi ma solo come minuscole sette (e notoriamente come i peggiori furfanti d’Oriente, delle cui falsificazioni sono stati vittime anche seri studiosi).

Il risultato dell’evoluzione è definibile in questi termini; i (Giudei «, come la comunità d’ora in poi viene chiamata anche ufficialmente, erano diventati una congregazione confessionale ritualmente segregata che si reclutava per nascita e per ammissione di proseliti. Infatti, parallelamente alla segregazione rituale, veniva favorito l’ingresso dei proseliti. Il vero profeta del proselitismo è il Tritoisaia (Is., 56, 3 e 6). Mentre il codice sacerdotale parla solo dell’equiparazione del ger con l’israelita di vecchio ceppo, mentre esclude esplicitamente lo «straniero» (nekhar) dalla pasqua (Es., 12, 43), il Tritoisaia chiama lo straniero (nekhar) che, sopra ogni altra cosa, osserva il sabato e inoltre gli altri comandamenti di Jahvè, a prender parte al «patto» e quindi alla salvezza di Israele. Sembra che dei proseliti siano stati reclutati già nei primi tempi dell’esilio. Il loro numero dovette accrescersi ancora all’epoca dei Persiani, quando gli Ebrei si elevarono al rango di funzionari di corte. La storia di Eliseo e Naaman sembra essere stata inserita nella versione delle storie dei re come paradigma di un atteggiamento molto rilassato da parte dei cortigiani ebraici nei confronti degli dèi stranieri del regno. Tale prassi a quell’epoca era presumibilmente tollerata; più tardi fu severamente vietata per reazione al culto romano ed ellenico del sovrano. Forse l’ammissione degli eunuchi, precedentemente esclusi, nel Tritoisaia, è tagliata proprio su misura per la persona di Neemia. Il periodo post-esilico ha poi introdotto nella Torah il principio generale che le schiatte straniere che accettano i doveri della legge dopo tre generazioni diventano pienamente equiparate agli ebrei di vecchio ceppo restando escluse solo dal connubio con i sacerdoti. Come vedremo più avanti, si applicavano gli antichi princìpi riguardanti il trattamento dei gerìm a quegli stranieri che senza assumere tutti i doveri della legge si mantenevano amici della comunità. Tra i Giudei stessi il cronista menziona solo tre ceti: i kohanìm (sacerdoti), cioè i discendenti di Aronne, i Leviti, ed i nethinim (servitori del tempio e altre categorie dei bassi servizi del tempio), più tardi scomparsi, che erano nella stessa situazione di una casta declassata. I ceti privilegiati avevano però rapporti completi di connubio e di commensalità con tutti gli altri ebrei di vecchio ceppo; in origine dovevano osservare solo degli specifici doveri di purificazione, relativamente semplici; per il gran sacerdote questi erano più estesi. Vedremo più avanti da un lato come le famiglie nobili di sacerdoti giunsero a differenziarsi socialmente dai semplici Aronniti; dall’altro come il concetto di ‘am ha-arez acquistò un significato rituale diverso da quello che aveva all’inizio dopo l’esilio, quando s’identificava con gli abitanti del paese che stavano fuori dal kahal ha-golah (la congregazione costituita dall’impegno verso un rituale), soprattutto con i Samaritani. In ogni caso gli Ebrei, con l’imposizione della legge rituale portata dalla comunità degli esuli babilonesi e la formazione della comunità della golah, erano diventati un popolo-paria con un centro cultuale e una comunità centrale a Gerusalemme e con delle comunità internazionali affiliate.

Sin dall’inizio la loro particolarità sociale più gravida di conseguenze è consistita nel fatto che un’osservanza veramente piena e corretta del rituale si rendeva estremamente difficile per i contadini. Non solo perché lo shabbàth, l’anno sabbatico e le prescrizioni alimentari erano difficili da osservare in sé, nelle condizioni rurali. Ma soprattutto perché con il crescente sviluppo casistico dei comandamenti determinanti per la condotta lo stesso ammaestramento nel rituale diventava indispensabile per una vita corretta. Naturalmente però la Torah sacerdotale aveva solo un’estensione limitata nelle campagne. Per i contadini, al contrario della popolazione urbana, la piena osservanza dei veri precetti levitici di purezza che più tardi hanno avuto sempre più ampia diffusione da parte dei devoti esemplari era praticamente impossibile. Questa difficoltà non era compensata, per i contadini, da nessun’attrazione. Il calendario delle festività, redatto dai sacerdoti dell’esilio e imposto da Esdra, aveva sottratto a tutte le antiche solennità il loro precedente rapporto con il ciclo dei lavori rurali e dei raccolti. Inoltre era difficile che gli Ebrei viventi tra popolazioni straniere potessero condurre un’esistenza ritualmente corretta in zone rurali. Il centro di gravità del giudaismo doveva spostarsi sempre più verso una sua trasformazione in popolo-paria urbano, com’è puntualmente avvenuto.

6. h ’esilio: Ezechiele e il Deuteroisaia

Senza le promesse della profezia, una comunita di credenti sempre piu «borghese» non si sarebbe mai posta volontariamente in questa situazione di paria ne avrebbe reclutato con successo universale dei proseliti chiamati a condividerla. Il paradosso inaudito di un dio che non solo non protegge il suo popolo eletto contro i nemici ma lo fa precipitare nell’ignominia e nell’asservimento e ve lo spinge lui stesso, solo per ricevere un’ancora piu fervida adesione, non trova nessun altro esempio nella storia e si spiega soltanto con l’immenso prestigio del proclama profetico. Questo prestigio si fondava, come abbiamo visto, in maniera puramente esteriore, suiradempimento di certe profezie o meglio sul fatto che determinati eventi fossero interpretati come un avverarsi della profezia. Si può osservare chiaramente il consolidamento di questo prestigio proprio in mezzo alla comunità esilica di Babilonia. Mentre il partito egiziano aveva trascinato via con sé a forza Geremia e lo odiava — si dice che lo abbiano lapidato — malgrado o forse proprio per via del terribile adempimento del suo oracolo, a Babilonia l’atteggiamento verso Ezechiele, il quale all’inizio era stato deriso come pazzo, cambiò totalmente con la notizia fulminante della caduta di Gerusalemme. Chi non si abbandonò definitivamente alla disperazione vide d’ora in poi in lui un consigliere e consolatore e cercava consiglio da lui. E mentre i Samaritani rifiutavano ovviamente una profezia che non aveva mai annunciato all’antico regno di Samaria altro che sventura e si era interessata solo di Gerusalemme, in seno alla comunità esilica la profezia conquistò definitivamente il suo posto con l’avverarsi di quelle predizioni di salvezza che annunciavano il ritorno dall’esilio, alle quali gli esuli si erano aggrappati durante l’esilio a Babilonia e di cui si vedeva l’adempimento nell’insediamento della comunità della golah di Gerusalemme. Questa comunità appariva come quel «resto» la cui salvezza era stata promessa a partire da Amos e soprattutto da Isaia e il cui futuro aveva costituito, durante l’esilio, l’oggetto della profezia, ora mutata in profezia di salvezza.

Immediatamente, dopo la caduta di Gerusalemme che rappresentava il pieno adempimento delle terribili minacce di Jahvè, si compì in Geremia, e soprattutto in Ezechiele, questo passaggio alla profezia di salvezza. E se per il tenero e malinconico Geremia una calda consolazione e la modesta speranza che un giorno sarebbe stato di nuovo possibile coltivare pacificamente la terra in patria esaurivano sostanzialmente l’intero contenuto delle sue aspettative per il futuro, l’estatico Ezechiele si crogiuolava in sogni di una terribile catastrofe finale dei nemici, di miracoli inauditi e di un glorioso futuro. Non poteva azzardarsi a pronunciare minacce immediate contro Babele come quelle formulate ancora fino alla caduta di Gerusalemme da profeti di salvezza estatici, le quali avevano suscitato l’aspro intervento del governo e l’esortazione di Geremia alla pazienza e alla docilitàb10. I Persiani non erano ancora apparsi. Le speranze di Ezechiele si muovevano quindi tra oscure allusioni. Oracoli di sventura contro i vicini che provavano una gioia maligna per le sciagure di Israele — vale a dire Tiro, Sidone, Ammon, Moab, Edom, le città filistee — nonché contro l’Egitto che si era rivelato un alleato poco fidato, facevano posto alla speranza di una restaurazione di Israele per opera della sola potenza di Jahvè. Nelle minacce contro l’Egitto ricorrono temi mitici di una catastrofe mondiale. Gog, un re barbaro che sembra collegato alla persona di un principe dell’interno dell’Asia Minore (principe di Tubai e Meshech: 38, 2), elevato fantasiosamente a sovrano dei paesi del Nord, antica origine di tutte le migrazioni di popoli, un giorno condurrà tutti i popoli selvaggi contro il risorto popolo santo di Jahvè. Quindi, nel corso di una spaventosa strage nella quale agli Israeliti resterà quasi soltanto il compito di sgomberare la terra santa trasformata in un unico impuro campo di cadaveri, si compirà la sua distruzione, preparata da Jahvè, insieme a quella di tutti i nemici di Israele da lui stesso chiamati (capp. 38 e 39).

E dopo? Dapprima Ezechiele aveva pensato al ritorno di Davide o di un davidico (34, 23). Ma la condotta incorreggibile della famiglia reale e il riconoscimento del fatto che solo il potere sacerdotale poteva tenere insieme la comunità mutarono i suoi ideali. Era egli stesso un sadoqita e si formò così, dopo venticinque anni di prigionia, la sua speranza ultima in quella teocrazia razionalmente ordinata di cui si è parlato prima. La speranza monarchica è sepolta. Ma a coloro che sono rimasti fedeli è assicurata una grande prosperità in questo mondo e — come già in Geremia — un nuovo patto eterno di Jahvè con il popolo al quale egli darà un nuovo cuore vivente di carne e di sangue al posto del cuore di pietra che lo ha portato alla rovina (36, 26-27), e a cui concederà un posto ancora più alto e onorato tra tutti i popoli per la gloria del nome di Jahvè. Le selvagge visioni e audizioni estatiche della sua gioventù si sono spente; in immagini svolte con ampiezza Ezechiele dipinge la costituzione futura e conia le sue visioni con arte e pedanteria in un’utopia di stampo intellettualistisco (cap. 40 e segg.): è il primo profeta-scrittore in senso proprioc10.

Ma Ezechiele, come si è già detto, non era solo uno scrittore; nella sua qualità di sacerdote era anche un consigliere di anime e — per così dire — di «politica religiosa», tanto per i singoli esuli quanto per i più importanti rappresentanti dei credenti durante l’esilio: gli Anziani. Egli stesso si vede come un «custode» del popolo. E nella sua esperienza di curatore di anime anch’egli doveva essere strettamente coinvolto dal problema della «colpa» per la sventura inflitta a Israele, e soprattutto dal problema della colpa collettiva e della responsabilità in solido di cui si era occupata la dottrina della Torah. Si può osservare chiaramente come egli cerchi di definire la propria posizione in merito. Nel tormento della sua paralisi patologica si sente talvolta (4, 5) destinato a espiare l’antica colpa collettiva del popolo. D’altra parte nell’ira selvaggia dei suoi oracoli di sventura spesso, come i suoi predecessori, accusa tutto il popolo di un’iniquità senza speranza e sembra annunciare la rovina generale e definitiva. Tuttavia quest’idea era intollerabile anche per lui stesso e data la sofferenza, almeno in parte immeritata, degli esuli, rispetto all’incorreggibilità politica e l’egoismo economico di quelli rimasti a Gerusalemme, la golah sola, contrapposta a questi ultimi, diventa per lui portatrice di tutte le speranze e la salvezza futura (11, 16) mentre quelli che sono rimasti in patria sono cagione di tutta la sventura. Ma dopo la caduta di Gerusalemme anche quest’idea venne a mancare ai fini della teodicea, per quanto da allora tale convincimento abbia fortemente determinato e sostenuto l’autocoscienza religiosa della comunità esilica.

In seno alla comunità degli esuli le differenze economiche esistevano e si accentuarono. Aumentò da un lato la tendenza all’indifferenza e all’adattamento da parte di coloro che erano ben sistemati, dall’altro il risentimento dei devoti poveri. L’idea di dover espiare anche adesso collettivamente i peccati degli avi dei tempi andati era insopportabile e insostenibile. Il bisogno di una ricompensa per la fede in Jahvè divenne imperioso. Così anche Ezechiele, come già precedentemente la scuola deuteronomica, ruppe risolutamente con l’antico concetto di responsabilità in solido (capp. 18 e 33) e insieme con la concezione, suggerita presumibilmente dall’astrolatria, secondo cui Jahvè ripaga inesorabilmente e «i nostri peccati sono su di noi» come un destino; tale opinione infatti avrebbe comportato inevitabilmente delle conseguenze di tipo fatalistico, o conducenti alla magia o alla mistagogia, e quindi nocive per la cura delle anime. Non esiste per l’individuo il peso di una colpa inevitabile, né per peccati propri né per colpa ereditata dagli avi. Jahvè perdona l’individuo a seconda della sua condotta: colui che è giusto, che osserva i mishpatim e i comandamenti di carità di Jahvè e i suoi chukì{ot, vivrà; la conversione sincera cancella anche le più gravi colpe. Quest’idea ha fornito la base religiosa all’umore di penitenza che ha dominato da allora la golah e insieme ha preparato quella distinzione tra gli umili «devoti» solo chiamati alla salvezza e la frivolezza dei ricchi e dei potenti, distinzione che più tardi ha dato la sua impronta alla religiosità giudaica, soprattutto nei Salmi.

Ma il bisogno di segni distintivi con i quali tenere la comunità fermamente nelle mani dei sacerdoti al cui numero apparteneva anche Ezechiele fece sì che le sue esigenze positive in fatto di condotta si volgessero nella direzione del culto e del rituale, come è stato esposto precedentemente. Sicché l’etica dell’intenzione — la bella immagine della trasformazione del cuore di pietra in un cuore di carne e sangue — e il formalismo sacerdotale apparentemente si trovano in lui immediatamente giustapposti: la prima come retaggio dell’antica profezia, in particolare quella di Geremia, e anche come testimonianza della propria esperienza religiosa; il secondo come sedimento degli interessi pratici del sacerdote.

Lo stesso vale per i profeti del primo periodo post-esilico. Aggeo e Zaccaria, i profeti di salvezza del breve periodo di speranza sotto Zorobabel, sono orientati ancora una volta, con spirito prettamente nazionalistico, verso la monarchia e il tempio. Le visioni notturne di Zaccaria, un sacerdote colto, sono una composizione artistica: gli spiriti dei pianeti nei sette occhi (3, 9), l’«accusatore» e l’angelo nel cielo testimoniano di influssi babilonesi; la citazione degli antichi profeti (1, 6) come autorità e dell’angelo di Jahvè come portatore dei comandamenti divini, invece dell’ispirazione immediata ne rivelano il carattere letterario e la soggezione per l’antica corporeità naturalistica. In sostanza tutto si accentra sulla costruzione del tempio al compimento del quale verrà la salvezza.

Viceversa colpisce negli oracoli del Tritoisaia (66, 1 e seg.) il rifiuto del tempio motivato dall’asserzione che il cielo stesso è il tempio di Jahvè. Si tratta di una reminiscenza, modificata, della relativa indifferenza verso il culto propria all’antica profezia e anche del forte accento posto in passato sui doveri sociali ed umanitari (58, 1 e seg.) più importanti di tutti i digiuni. Come prima dell’esilio, l’apostasia ed i culti stranieri sono i peccati decisivi. D’altra parte è proprio questo profeta a sottolineare con maggior vigore la necessità dell’adempimento delle regole di vita esteriori a carattere rituale che rappresentano adesso l’unico segno di appartenenza alla comunità. Ancora una volta esplode in lui la speranza nel giorno di Jahvè (66, 12 e seg.) come giorno di consolazione per Israele e di sventura per i nemici; una terribile sete di vendetta contro i nemici traspare nell’immagine grandiosa del dio arrossato come un vignaiuolo dal sangue degli Edomiti che avanza sulle montagne. Del pari troviamo in Gioele (2, 20) il «nemico che viene dal Nord», una figura ormai già stereotipata, e un giudizio dei popoli dipinto con toni fantastici (4, 1 e seg.).

Nell’insieme però si è compiuto quello spostamento determinato dalla situazione della comunità piccolo-borghese rispetto al patriziato ostile o indifferente: nel Tritoisaia come in altri profeti contemporanei, vedi Malachia (3, 18) i devoti, contrapposti agli empi, sono i portatori delle promesse di salvezza e Dio è un Dio degli umili (Tritois., 57, 15). Nel Deuterozaccaria (9, 9 e seg.) il re del futuro cavalca su un asino perché è un principe dei poveri e degli umili. In Abacuc (2, 4) la giustificazione attraverso la fede corrisponde alle concezioni di Isaia senza raggiungere la loro attuale grandiosità utopistica. Tutto infatti è trasposto in chiave piccolo-borghese. Una grave invasione di cavallette fornisce a Gioele (2, 12) l’occasione per pronunciare un sermone penitenziale concepito in modo originale i cui unici sbocchi però sono il digiuno, il sacrifìcio, un giorno di preghiera e di penitenza; a sua volta Malachia imputa ai matrimoni misti l’ira di Jahvè. Senza dubbio Jahvè ama il suo popo lo (Mal., 1, 1) ma l’uomo pio aspetta il suo compenso (Tritois., 58, 6 e 9) e Malachia (1, 1 e seg.) riprende l’idea persiana di una contabilità di Dio per le azioni degli uomini. D’altra parte nel Deuterozaccaria (11, 4 e seg.) troviamo quella che sembra una ripresa della teoria dei quattro regni universali. In Gioele invece l’antica speranza utopistica, addirittura pre-profetica, di uno stato finale paradisiaco è resa in maniera molto realistica con il quadro di una rigogliosa prosperità che ricalca le antiche aspettative popolari.

Gran parte di questa profezia di epigoni è dominata da un peculiare miscuglio da un lato di cultura letteraria e talvolta di un impressionante calore religioso, dall’altro di adattamento ai costumi e ai bisogni prosaici dei membri borghesi di una comunità vivente nell’insieme in condizioni pacifiche e agiate, seppur modeste. è attestata esplicitamente la pubblica comparsa di profeti sulla scena politica all’epoca di Neemia, il quale ebbe a sostenere delle dure lotte contro i profeti di salvezza del suo tempo. Ma molti oracoli e carmi profetici di quest’epoca hanno un carattere puramente letterario, come già durante l’esilio a partire dal tardo periodo di Ezechiele; lo stesso vale per molti salmi i quali spesso solamente per caso non sono compresi nel novero dei carmi profetici (e viceversa). Con ciò non si vuol dire che essi non abbiano avuto importanza per lo sviluppo religioso, anche se non sempre per quello della loro epoca.

Soprattutto, la profezia letteraria dell’esilio aveva creato la teodicea più radicale e, si può dire, l’unica veramente seria prodotta dall’antico giudaismo. è nello stesso tempo un’apoteosi della sofferenza, della miseria, della povertà, dell’umiliazione e della bruttezza quale non è stata raggiunta, nella sua coerenza, nemmeno nel Nuovo Testamento. L’autore oggi designato come «Deuteroisaia» (Is., 40-55)d10, creatore di questa concezione, scriveva nell’anonimato in considerazione, evidentemente, della censura babilonesee10 che aveva senz’altro motivo di temere per via delle sue speranze assai appassionate (e vane) nell’attesa distruzione di Babele da parte di Ciro.

La posizione verso la povertà e la sofferenza in genere ha attraversato diversi stadi nella religione israelitica senza però che il più recente eliminasse mai del tutto il precedente. L’assunto originario, qui come ovunque, era che l’uomo benestante, in buona salute, stimato, era nella piena grazia di Dio. I patriarchi come Boaz, Giobbe e altri uomini pii sono gente ricca. La perdita dei beni, la malattia, la miseria erano considerati segni dell’ira divina. Ciò va da sé per gli amici di Giobbe e anche i profeti minacciano questa sorte come punizione. Abbiamo visto però come l’atteggiamento nei confronti degli strati sociali è venuto modificandosi con il passaggio alla cultura urbana, quando il contadino e pastore israelita armato si trasformano sempre più in perieco pacifista e in povero (evjon) minacciati dalla schiavitù per debiti; quando al posto dei profeti di guerra compaiono i veggenti devoti, e al posto dei principi rurali patriarcali il re, la corvée, i cavalieri, i creditori e i proprietari terrieri patrizi; e dopo che l’etica caritativa dei regni vicini ebbe influenzato la parenesi dei maestri della Torah. Era palese che il modo di vivere dei ricchi e dei nobili non era ineccepibile né sul piano cultuale né su quello etico. Inoltre il loro prestigio declinò con la decadenza del potere politico dello stato. Già in Sofonia la povertà del popolo rimasto dopo il giudizio viene collegata con la sua devozione. Ma il punto di vista dell’etica pre-esilica non comportava altrimenti questa valutazione positiva dei poveri identificati con i devoti. Il povero, l’ammalato, l’infermo, gli orfani, le vedove, i meteci, gli operai salariati erano oggetto di una carità doverosa ma non portatori personali di una moralità superiore o di una specifica dignità religiosa. Il dominio dei plebei era considerato una punizione. Tuttavia sotto l’influenza della parenesi levitica Jahvè venne considerato sempre di più come un dio che aiuta i miseri e gli oppressi a ottenere giustizia, senza che in ciò vi fosse, naturalmente, l’eco di una qualche rivendicazione giusnaturalistica all’eguaglianza.

È certo però che, in relazione alla concezione profetica e deuteronomica di Jahvè come un dio che odia soprattutto la superbia, la virtù specificamente plebea dell’umiltà era sempre più apprezzata. Partendo da queste rappresentazioni e sulla base della concezione universalistica di Dio da lui portata coerentemente fino in fondo, il Deuteroisaia, nella miseria dell’esilio, trae ora le sue conclusioni ultime. Il ricco in quanto tale, in uno dei suoi passi (53, 9; la lezione tuttavia è incerta), viene identificato così completamente con l’empio, che del Servo di Dio si dice semplicemente che è morto «come un ricco» (nonostante fosse un giusto). Proprio i devoti dell’esilio sono spesso gente oppressa e maltrattata dai nemici. E per spiegare questo, non essendo più accettata la motivazione fondata sugli atti degli avi, il Deuteroisaia creò una nuova teodicea. Jahvè per lui è un dio universale. L’esistenza degli altri dèi non viene negata incondizionatamente, ma Jahvè li convocherà dinanzi al suo trono e distruggerà la loro dignità usurpata. Jahvè solo è il creatore del mondo e il reggitore della storia universale il cui corso si compie secondo le sue intenzioni nascoste. L’ignominioso destino di Israele non è che un mezzo, anzi il più importante per la realizzazione dei suoi saggi piani di salvezza. In primo luogo per Israele stesso è un mezzo di purificazione (Is., 48, 10). Jahvè non purifica i suoi fedeli «come si raffina l’argento» bensì «nel forno della miseria» ne fa il suo «popolo eletto». Ma non solo per il bene di Israele stesso, come in tutto il resto della profezia, bensì anche per quello degli altri popoli.

Questo tema è svolto nei carmi molto discussi del «Servo di Dio» (’eved Jahvè). La particolare concezione di questa figura oscilla evidentemente, perlomeno nella versione definitiva del testo tra un personaggio singolo ed una personificazione del popolo di Israele o piuttosto del suo nucleo devoto. Questa figura è stata identificata, oltre che con varie personalità inaccettabili, con re Joiakin, deportato a Babele in giovane età, graziato dopo lunghi anni di prigione e invitato alla tavola del re; con la sua liberazione dalla cattività si chiude il Libro dei Re. Tuttavia, se non si vogliono mettere i singoli carmi in relazione con portatori ben distinti della qualità di servi di Dio, né questo assunto né alcun altro è veramente coercitivo e anche la controversia tra persona singola e personificazione collettiva non può ricevere una risposta unitaria. L’autore sembra aver legato le sorti e le sofferenze, ben note e usuali per il suo pubblico, soprattutto i malleoli «trafitti» dei prigionieri, ai tratti di una figura escatologica di origine incerta. E quel suo oscillare tra il portatore personale di un destino di dolore e la collettività sofferente è evidentemente una forma artistica intenzionale, sicché perfino nei singoli passi talvolta è difficile dire quale possibile interpretazione l’autore avesse in mente. Israele è il servitore di Jahvè, si dice (49, 3) e già prima è detto (48, 20) che Jahvè ha redento il suo servitore Giacobbe. Ma immediatamente dopo il primo passo il Servo di Jahvè è chiamato a convertire Giacobbe e a restaurare le tribù di Israele (49, 5-6). Infatti Jahvè gli ha dato la lingua di un iniziato per parlare al momento giusto agli sfiduciati (50, 4); e anche più avanti (53, 11: la lezione a dire il vero è incerta) la sua conoscenza è presentata come fonte di salvezza. Era d’uso parlare in questi termini dei profeti o dei maestri della Torah per cui si tende a vedere nel Servo di Dio una personificazione della profezia. Tanto più che la predizione dell’autore, il quale conosce e rifiuta la magia e l’astronomia dei saggi babilonesi, va molto più in là: il Servo di Dio è destinato a essere «luce per le genti «e a portare» salvezza fino all’estremità della terra» (49, 6). Altri passi e la natura stessa della cosa fanno pensare che qui si esprime la potente coscienza di sé della profezia la quale, di fronte aH’imminente adempimento delle antiche promesse per opera di Ciro, si sente ora come una potenza universale sopranazionale. D’altra parte vari altri passi suonano innegabilmente come se si trattasse di un sovrano e non di un profeta. Ma anche l’archetipo della profezia, Mosè, era stato un ierocrate e capo-popolo e proprio durante l’esilio era stata riscoperta la figura del saggio principe-sacerdote Melchisedec.

All’universalismo di Dio faceva riscontro la missione mondiale. Anche se lo stesso Deuteroisaia non se ne occupa dettagliatamente, non è un caso che colui che più tardi ha messo insieme l’attuale Libro di Isaia abbia aggiunto direttamente ai suoi scritti quelli dell’anonimo scrittore post-esilico (Tritoisaia), l’energico sostenitore della propaganda religiosa mondiale e dell’uguaglianza religiosa di tutti i proseliti che accettano gli ordinamenti di Jahvè (Is., 56, 6-7). Il compito e l’onore della missione mondiale di fatto hanno già il loro fondamento ideale nel Deuteroisaia il quale nello stesso tempo, tra i profeti di salvezza, è quello che meno di tutti parla di una superiorità sociale dei Giudei sugli altri popoli come mèta di salvezza o promette la vendetta sui nemici come fanno quasi tutti gli altri, ivi compreso il Tritoisaia (60, 10, 14-15) che ancora una volta fa sperare la sottomissione dei Gentili come compenso per la lunga onta di Israele. è vero che anche il Deuteroisaia annuncia diffusamente la punizione su Babele (cap. 47), l’umiliazione dei nemici di Israele e la loro giusta punizione (49, 23 e 26 et al). Ma questo non è il nucleo della sua profezia di salvezza. Anche per lui Dio ha nascosto il suo volto a Israele a causa dell’empietà dei padri ed egli esorta a cercare il signore, a convertirsi e ad evitare le vie ed i pensieri empi (55, 6-7).

Ma questa valutazione della miseria come punizione per i peccati, come pure le esortazioni alla penitenza, solo occasionalmente accennate da questo profeta, passano del tutto in secondo piano rispetto ad un ben diverso e positivo significato soteriologico della sofferenza in quanto tale. E precisamente — qui sta il contrasto più acuto con la profezia pre-esilica — della sofferenza innocente. Anche qui il modo espressivo, ancora una volta, oscilla in maniera tale che il portatore di questa sofferenza redentrice sembra essere identificato talvolta con Israele o con la profezia, talvolta con una singola figura escatologica. Coloro che conoscono la giustizia e la dottrina (Tornii) vengono esortati a non temere gli oltraggi e le minacce del mondo (51, 7). Il profeta si gloria in prima persona di avere, proprio lui a cui il Signore ha dato il dono della dottrina (50, 4), «consegnato il dorso ai flagellatori, la guancia ai depilatori», di non avere «nascosto la faccia agli oltraggi e allo sputo» ma di averla resa «come una pietra dura» (50, 6-7), poiché sapeva che il Signore era con lui e non l’avrebbe lasciato confondere. Evidentemente in questo caso sembra dunque che il Servo di Dio si identifichi con la profezia in se stessa.

Nei carmi seguenti tuttavia la figura ancora una volta riceve un’impronta esplicitamente personale e soteriologica. Il servitore di Jahvè farà inorridire molta gente perché il suo aspetto è troppo sfigurato rispetto agli altri (52, 14: molti studiosi lo ritengono una glossa). è il più «disprezzato, reietto degli uomini», pieno di dolore e sofferenza, «uno davanti al quale ci si copre la faccia» perché non lo si tiene in nessun conto e perché è ritenuto «un castigato, percosso da Dio e umiliato» (53, 3-4). «Lo abbiamo ritenuto tale», è detto, sicché in questo caso la personificazione può essere quella di Israele disprezzato o dei suoi profeti disdegnati dal loro stesso popolo. Che il Servo di Dio interceda per i malvagi (53, 12) non è un concetto nuovo per la profezia (Ger., 15, 1; Ez., 14, 14). Che egli dia la sua vita perché «portò i peccati di molti» potrebbe essere un’idea ancora al limite — seppure con qualche difficoltà «di quanto veniva attribuito anche agli antichi uomini di Dio israeliti, come Mosè che offre la propria vita se il suo popolo non deve essere perdonato (Es., 32, 32).

Il sacrificio espiatorio per i peccati altrui era in sé un concetto familiare nell’antico Israele. Già in relazione agli stati estatici di convulsione di Ezechiele troviamo (4, 5) la concezione secondo cui il profeta deve espiare i molti anni di scelleratezza di Israele con altrettanti giorni di paralisi per via del suo popolo il quale sarà esposto allo scherno dei gentili (5, 15). Nel Deuteroisaia però tutta l’enfasi viene posta (53, 12) sul fatto che il Servo di Dio per via della sua sofferenza è stato «computato tra gli empi» e seppellito tra i malvagi benché non appartenesse al loro novero. Ha portato i peccati di molti essendo stato «trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità» e «Jahvè ha fatto ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti» (53, 5-6); la sua opera redentrice si manifesta nel fatto che nel tormento «non ha aperto bocca come agnello condotto al macello» e ha offerto la sua anima cioè la sua vita, in espiazione (53, 7 e 10). Il massimo della sofferenza, come più tardi per Giobbe, non sta nel fatto che è stato o si è sacrificato, ma che oltre ciò fosse considerato un peccatore sotto l’ira di Dio.

In relazione al contesto concettuale adottato dal Deuteroisaia queste concezioni non sono tanto eterogenee da implicare l’assunto di rappresentazioni di derivazione straniera. In sé appaiono semplicemente come una raccolta coerente ed una reinterpretazione razionale di elementi preesistenti. Le descrizioni puramente esterne, in particolare il «trafiggere» in sé fanno solo pensare ad un tipo di martire ebraico. Tuttavia non si può certo ritenere impossibile l’implicazione parallela di qualche figura escatologica della mitologia popolare che in questo caso deriverebbe a sua volta da qualche culto diffuso, sia esso di Tammuz (come spesso si ritiene), sia di qualche altro dio morente, forse Adad-Rimmon130 di Megiddo, menzionato nel Deuterozaccaria (12, 10) con la stessa immagine del «trafitto». Ma anche se si desse realmente questa mutuazione o influenza, il che rimane estremamente dubbio, la radicale trasformazione del significato non sarebbe che più impressionante ancora.

A questi dèi morenti infatti mancava ogni rapporto con i peccati di una comunità e con lo scopo soteriologico di espiarli. Ben diversamente stanno le cose nel nostro caso. Il dio o figlio di dio che muore per motivi cosmici o teogonici mitologicamente strutturati è diventato, conformemente all’essenza dello jahvismo, un Servo di Dio che si offre egli stesso come capro espiatorio. Il redentore non è il morente Servo di Dio, ma Jahvè stesso (54, 8) il quale adesso, conformemente alle promesse di altri profeti, stringe con il suo popolo un patto di pace, eterno più delle montagne (54, 10), rinnovando i privilegi promessi a Davide (55, 3). Il martirio innocente del Servo di Dio è il mezzo che permette a Jahvè di fare questo. In ciò vi è qualcosa di profondamente estraneo alle concezioni tradizionali. Perché c’era bisogno di questo mezzo? «Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (55, 8). Si tratta quindi di un mistero comprensibile solo per la cerchia degli iniziati: questo suggerisce ancora una volta che la fantasia del profeta sia stata influenzata da qualche mito escatologicof10. Solo che, come si è rilevato prima, l’orientamento etico di questa soteriologia mancava a tutti i mitologemi finora conosciuti della morte o resurrezione di divinità della vegetazione o altri dèi o eroi. Tutti questi miti solevano essere perfettamente non-etici. Questo orientamento, a quanto risulta, era quindi una proprietà spirituale del profeta.

La sua forma e la sua natura vanno però correttamente inquadrate. Non riguardano, se non in via del tutto secondaria, la funzione della sofferenza come punizione per peccati precedenti, funzione che è conforme alla tradizione profetica e menzionata anche dal Deuteroisaia. Al contrario, più la figura del Servo di Dio appare in primo piano, con tanta più enfasi viene sottolineato che la sua sofferenza era immeritata. Di fatto gli altri popoli, e gli empi, certamente non erano migliori del popolo eletto, sofferente, di Jahvè. Meno peso viene dato da questo profeta rispetto agli altri anche alla violazione dell’antico berith. Egli si ricollega invece alle promesse fatte ad Abramo (51, 2) e Giacobbe, il che accadeva raramente per i profeti precedenti. Ma anche questo è marginale. Il suo problema non sono le promesse e il berith, ma la questione della teodicea della sofferenza di Israele dal punto di vista universale di un saggio governo divino del mondo. In questa problematica, qual è per lui il significato della trasfigurazione della sofferenza, della bruttezza, dell’essere disprezzato? Evidentemente non è per caso bensì volutamente che il profeta fa ripetutamente scivolare la persona escatologica in una personificazione di Israele o della profezia e viceversa, e che di conseguenza Israele appare ora come portatrice, ora come oggetto, della redenzione. Il significato dell’insieme è quindi la trasfigurazione della situazione di popolo-paria e la paziente perseveranza in essa. In questo modo il Servo di Dio, e il popolo, di cui è l’archetipo, diventano portatori di salvezza per il mondo. Quindi anche se il Servo di Dio fosse stato concepito come un salvatore personale, sarebbe stato tale solo prendendo volontariamente su di sé la posizione di paria del popolo in esilio e sopportando senza lagnarsi e senza resistenza la miseria, la bruttezza, il martirio. Sono qui presenti tutti gli elementi dell’utopistica predica evangelica: «non resistete al male con la violenza». La situazione di popolo-paria in se stessa e la sua paziente sopportazione vennero così elevate al grado più alto di dignità e onore religioso davanti a Dio per il fatto di ricevere il significato di una missione storica mondiale. Questa entusiastica trasfigurazione della sofferenza come mezzo per servire alla salvezza del mondo rappresenta evidentemente per il profeta l’ultima e a suo modo la massima sublimazione della promessa ad Abramo: che il suo nome un giorno sarà «una parola di benedizione per tutti i popoli».

La specifica etica miseristica della non-resistenza rivive nel Sermone della Montagna e la concezione della morte espiatoria dell’innocente Servo di Dio martirizzato ha contribuito alla nascita della cristologiag10. Non da sola, ovviamente, ma in connessione con l’apocalittica posteriore: la dottrina del Figlio dell’uomoh10 del Libro di Daniele e altri mitologemi. Tuttavia la parola della croce: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato» è l’inizio del Salmo 22 che dal principio alla fine elabora il tema del miserismo e la profezia del Servo di Dio del Deuteroisaiai10. Se veramente non è stata la primitiva comunità cristiana ma Gesù stesso a riferire a sé questo versetto, ciò non dovrebbe portare alla conclusione di un suo profondo stato di disperazione e di delusione — secondo la singolare interpretazione spesso data di questa parola sulla croce — ma al contrario alla certezza di un’autocoscienza messianica nel senso del Deuteroisaia e delle speranze espresse alla fine del Salmo.

Tuttavia nella letteratura canonica giudaica questo salmo è l’unico prodotto il cui contenuto è completamente orientato secondo la soteriologia del Deuteroisaia, mentre singole citazioni ed accenni ad esso si trovano in vari salmi. è vero che la disposizione deuteroisaica, il «sentimento di essere un verme» (41, 14) e la valutazione positiva dell’autoumiliazione e della bruttezza, ha avuto una profonda influenza nel giudaismo, come più tardi le sue conseguenze si sono fatte sentire nel cristianesimo fino al pietismo. Al contrario la concezione del Servo di Dio che soffre e muore per i peccati degli altri in un primo momento cadde nell’oblìo più assoluto e, sembra, immediato in seno al giudaismo. Ciò si spiega con gli eventi. Secondo il Deuteroisaia la redenzione e quindi la ricompensa per l’obbedienza sofferente dovevano essere imminenti. Egli vedeva (45, 1) l’unto del dio universale, Ciro, davanti alle porte di Babele che avrebbe distrutto. Ma Babele rimase in piedi e Ciro si comportò come il suo legittimo re. Certo, il ritorno dall’esilio ebbe luogo. Ma non in condizioni tali da essere percepito come uno stato di redenzione. Inoltre era impossibile anche in sé che questa teodicea di un pensatore teologico diventasse bene comune di una comunità di credenti, proprio come ciò non poteva capitare alle concezioni di redenzione degli intellettuali indiani. è vero che l’immagine del giusto ingiustamente trafitto e ricompensato alla fine dei giorni si trova nel Deuterozaccaria e nei Salmi come simbolo di Israele. Nel Libro di Daniele (11, 33 e 12, 3) e soprattutto nell’apocrifo Libro della Sapienza si fa largo uso del Deuteroisaia. Conformemente alla posizione dell’autore, le predizioni di sofferenza e poi di elevazione del Servo di Dio sono qui riferite ai maestri della Torah o al popolo giusto di Israele. Ma questa utilizzazione è molto incompleta; in particolare non vi è nulla che indichi l’accettazione della figura di un martire che con la sua sofferenza volontaria e senza recriminazioni espia i peccati del popolo di Israele o addirittura del mondo intero.

Giobbe non sapeva assolutamente nulla della forma deuteroisaica di teodicea della sofferenza e del suo essere gradita a Dio. Inoltre le ingenue speranze messianiche della fede popolare non si sono mai collegate a questa teodicea. Lo stesso vale per la prima letteratura rabbinica. Questa conosce indubbiamente un Messia che cade in guerra ma non uno che soffre come salvatore. Solo nel Talmud (b. Sanh. 98 b) troviamo una tale figura e solo a partire dal ni secolo d. C. la dottrina del Messia sofferente e del carattere meritorio della sofferenza in se stessa sembra tornare in primo piano in seguito a gravi oppressionij10. Fino allora rimase solo, ad esercitare un effetto duraturo, il contenuto emotivo della posizione ben nota (come risulta dalle ripetute citazioni) del Deuteroisaia nei confronti della sofferenza silenziosa, mediata e rafforzata in particolare tramite alcuni salmi. Il paziente pathos carico di aspettative della situazione di paria e gli occhi da estranei con cui gli Ebrei attraversavano il mondo hanno avuto in questo libro straordinario il loro più forte sostegno interiore fino a che questo prodotto del periodo dell’esilio è diventato il fermento più attivo della fede cristiana in formazione.

Il fatto che i profeti del periodo dell’esilio e anche buona parte di quelli post-esilici fossero degli scrittori religiosi e non più dei demagoghi della politica religiosa contemporanea (né potevano più esserlo, date le condizioni della loro epoca) ha avuto le sue conseguenze non solo sulla forma stilistica ma anche sulla concezione del carisma profetico. La profezia più antica in generek10 non parla, secondo la terminologia dei vecchi estatici nord-israeliti, di un’immanenza dello «spirito» (rùach) di Jahvè nel profeta. Abbiamo visto che questa rappresentazione le era estranea. Dio parla ai profeti con voce corporea, oppure parla con la loro voce, attraverso loro per così dire, come strumenti che non possono opporsi alle sue parole; e se Dio stesso è chiamato uno «spirito» ciò avviene per caratterizzare la sua grande distanza dall’uomo. La «mano» di Jahvè afferra direttamente il profeta ed egli pronuncia, come Isaia, la «Torah di Dio». L’atteggiamento che caratterizza tutti i profeti, pur non essendo l’unico predominante, è quindi determinato nelle sue interpretazioni e controllato nelle sue manifestazioni da certe rappresentazioni del rapporto tra Dio e gli uomini; è orientato verso il momento attuale e altamente estatico-emotivo. Da questo punto di vista si produsse un mutamento con l’eliminazione delPattualità politica. Già negli ultimi oracoli di Ezechiele tutto il suo impeto primitivo è scomparso. Nel Deuteroisaia non si trova traccia di estasi emotiva. Nel Tritoisaia (61, 1) il profetico «spirito del Signore Jahvè» (rùach Adonai Jahvè) è una condizione permanente «sopra» il profeta e lo spinge a insegnare.

Stati emotivi attuali si ritrovano continuamente quando si tratta di influenzare decisioni politiche dell’immediato presente o quando si scarica la sete di vendetta contro i nemici politici come nella visione del vignaiuolo del Tritoisaia. Ma anche la profezia di salvezza attuale dell’epoca di Zorobabel si distingue nel suo atteggiamento dalla profezia pre-esilica. Le visioni notturne, cioè i sogni, che quest’ultima aveva rifiutato o perlomeno considerato di minore importanza, ricompaiono in primo piano come per gli antichi «veggenti»: Zaccaria infatti era un sacerdote e non un demagogo. E lo «spirito» che di nuovo ha un ruolo con Aggeo, poi con Gioele e il Deuteroisaia, in parte è un teologumeno per evitare le antiche rappresentazioni corporee adesso percepite come imbarazzanti; in parte però è diventato una speranza profetica del futuro.

Soprattutto, portatrice di questo spirito è la comunità. La spiegazione di Jahvè in Ezechiele (39, 29), forse frutto di una rielaborazione — che egli ha infuso il suo spirito sulla casa di Israele e perciò in futuro dopo l’avvento della salvezza non lo abbandonerà più — è trasformata dal Deuteroisaia (44, 3) in una promessa per il futuro: Dio infonderà il suo spirito, cioè lo spirito della profezia (come indica 42, 1) sulla discendenza di Israele. L’intero «popolo nel paese» è portatore dello spirito. Se il Tritoisaia (63, 10-11) parla dello «spirito santo», infuso da Jahvè sul popolo all’epoca di Mosè, che sarebbe offeso per i misfatti del popolo, e se già in Aggeo (2, 5) viene promesso il ritorno dello spirito di Jahvè, in riferimento alla promessa di Jahvè durante l’esodo dall’Egitto, il tenore del testo indica chiaramente che il riferimento qui non è fatto ai settanta Anziani colti dallo spirito della profezia estatica (Num., 11, 25) ma alla specifica santità del popolo fedele al patto (Es., 19, 5) come atteggiamento permanente. è vero però che la teoria korahita del periodo pre-esilico, ostile ai sacerdoti, ne aveva dedotto l’uguale santità e qualificazione carismatica di tutti i membri della comunità e non solo dei sacerdoti.

Nei profeti del tardo periodo post-esilico, Gioele (3, 1) e il Deuterozaccaria (12, 10), ancora una volta la concezione dello spirito assume forme sostanzialmente diverse. è vero che il Deuterozaccaria annuncia alla comunità — gli «abitanti (joshev) di Gerusalemme» con in testa i Davidici — per il giorno di Jahvè, soltanto lo spirito di preghiera. Questo però dovrà manifestarsi nel lamento appassionato per il «trafitto» — modellato sui culti della vegetazione — che, evidentemente è anco ra una volta la figura escatologica del Servo di Dio e martire del Deuteroisaia: lo spirito quindi si esprimerà in scoppi di penitenza estatica. In Gioele invece torna l’antico spirito estatico-emotivo della profezia che, prima dell’inizio del «giorno di Jahvè» quando solo coloro che invocano il nome di Jahvè saranno salvati, verrà infuso su tutti i membri della comunità, i loro figli, le loro figlie, i loro servi e serve; susciterà sogni negli anziani, visioni nei giovani, e darà il dono della profezia ai fanciulli. Qui si torna senza dubbio alle antiche tradizioni dell’estasi laica e la speranza finale viene quindi collegata al ritorno del dono universale della profezia. Tale concezioni è diventata importante per lo sviluppo del cristianesimo. Il miraco

lo della Pentecoste viene narrato (Atti, 2, 16 e segg.) con riferimento a questo passo che viene citato per esteso. Evidentemente la missione cristiana dava tanto peso a questo miracolo solo perché in base ad esso l’imminenza del giorno «del Signore» (nella concezione cristiana) come lo aveva annunciato Gioele pareva certa. Per la devozione cristiana primitiva questo passo, e solo questo, nella letteratura profetica giudaica, legittimava lo «spirito» come fenomeno estatico di massa, caratteristico per la comunità cristiana in pieno contrasto con la profezia pre-esilica.

7. 1 sacerdoti e la restaurazione confessionale dopo l’esilio

Nello sviluppo del giudaismo questi passi mostrano soltanto che il genuino «spirito» dell’antica profezia stava scomparendo. Non scomparve in modo misterioso, per via di qualche legge psichica «immanente». Ma scomparve perché il potere poliziesco dei sacerdoti in seno alla comunità giudaica riuscì a dominare la profezia estatica proprio come l’ufficio vescovile e presbiteriale si era imposto alla profezia pneumatica nella comunità protocristiana. Il carisma della profezia estatica è continuato a sussistere nel giudaismo. Le visioni attribuite a Daniele ed Enoch sono di carattere estatico così come pure numerose esperienze di altri apocalittici, anche se gli stati psichici, come pure la loro interpretazione, si scostano molto dall’antica profezia; inoltre la forma artistica letteraria prende nettamente il sopravvento sull’attuale esperienza emotiva. Ma tra tutti questi scritti posteriori solo il Libro di Daniele si è guadagnato il riconoscimento ufficiale che ha costretto ad includerlo nel canone. Tutti gli altri sono stati tollerati ma considerati lavori privati non-classici o addirittura eterodossi. L’attività di questi veggenti diventò quindi un affare di sètte e comunità misteriche. Del pari è esistita fino alla fine del secondo tempio una profezia che si occupava degli affari politico-religiosi del momento.

Nell’opinione popolare il dono profetico conservava fermamente il suo carattere divino e tutti i profeti avevano un pubblico. Ma i sacerdoti erano sempre in contrasto con loro. I rappresentanti della profezia politica erano ostili alla riforma sacerdotale di Esdra e Neemia. Degli oracoli di questi profeti non è stato conservato nulla: i sacerdoti recepivano soltanto ciò che si adattava all’organizzazione sacerdotale della comunità. Il discredito del carisma profetico era in certa misura facilitato dal fatto che gli oracoli si contraddicevano a vicenda. Già il contrasto tra gli oracoli di Isaia e Michea, Isaia e Geremia, Geremia e Ezechiele, doveva aver scosso la credenza che ogni estasi profetica in sé offrisse la garanzia intrinseca di essere portatrice di messaggi divini. Come si poteva riconoscere, allora, l’autenticità della profezia? L’esperienza mostrava che anche falsi profeti avevano posseduto poteri miracolosi (Deut., 13, 3). A partire dai deuteronomisti (18, 22) la risposta data alla domanda era: con l’avverarsi della predizione. Ma questo non era un criterio utile per il periodo di attesa di questa verifica, che era proprio il periodo che importava. Di conseguenza Geremia (23, 22) ha fornito un secondo criterio: il profeta è autentico solo se corregge i peccatori, legando quindi la comunità a Jahvè e alla sua legge; altrimenti è un profeta di menzogna. Questo concetto ancora una volta trova il suo parallelo nel ruolo crescente del criterio etico nella comunità protocristiana. Il rispetto fermamente inculcato per l’opera della Tor ah levitica portava qui i suoi frutti nella comunità giudaica come più tardi la recezione dell’«Antico Testamento» nella comunità cristiana.

In seno alla comunità post-esilica i sacerdoti riuscirono ad infrangere completamente il prestigio dell’antica estasi del navi. Il risultato appare nello scherno del Deuterozaccaria per i profeti come portatori dello spirito «d’impurità» (13, 1 e segg.). Il giorno di Jahvè, insieme agli idoli anche i profeti saranno cacciati dal paese. Chi assume il contegno del profeta sarà smascherato e trafitto dai propri genitori come truffatore, si vergognerà delle sue visioni, non indosserà più il mantello di pelo (manto profetico), ammetterà di essere un contadino e che le sue presunte stimmate provengono dalle unghie delle meretrici. Sotto questa forma di sprezzante autoderisione della profezia la versione sacerdotale costrinse questa pericolosa concorrente a togliersi da sé la vita. Come nella Chiesa cristiana burocratizzata, così d’ora in poi anche nel giudaismo ufficiale l’epoca profetica venne considerata chiusa, lo spirito profetico estinto: è lo stesso sviluppo che si verifica dappertutto con il pieno sviluppo della gerarchia sacerdotale che si assicura così contro le innovazioni religiose.

L’espressione rtiach ha-kodesh (nella Septuaginta πνεῦμα τὸ ἅγιν, «spirito santo «) che compare per la prima volta nel Tritoisaia in uno dei più rigorosi sermoni di penitenza profetici (63, 10-11) viene di nuovo concepita in un salmo di penitenza profondamente pessimista (51, 13), come una disposizione di colui che sta nella grazia di Jahvè. La colomba, simbolo di Israele perseguitato (Salmo, 74, 19), viene utilizzata nello stesso tempo dai rabbini come portatrice di questa disposizione che è altrettanto profondamente diversa, interiormente, dal pneuma emotivo cristiano quanto dall’antico spirito profetico che secondo la dottrina posteriore non è più stato ottenuto da nessuno dopo Malachia. è vero che anche adesso, se Dio vuole, si può udire una misteriosa voce celeste (bath kol) sotto forma di forte appello o lieve mormorio. Ma udirla non è un dono profetico. Infatti essa si fa sentire secondo le circostanze dai peccatori come dai giusti e dai maestri, così come avviene pure nel Nuovo Testamento, annunciando la sventura o la felicità e la grandezza o chiamando alla conversione. Udirla non è privilegio di un individuo; non la si può «possedere» o esserne posseduti, come una volta i profeti erano posseduti dallo spirito di Jahvè. Udirla (Yoma131, 9 b) è sì un dono di grazia per Israele, ma inferiore a quello dell’antico spirito profetico.

Il crescente razionalismo borghese di un popolo integrato nel mondo relativamente pacificato del regno persiano prima, dell’ellenismo dopo, ha reso possibile ai sacerdoti questa soffocazione della profezia. A ciò va aggiunta la definizione per iscritto della tradizione ufficiale e le conseguenti modifiche della dottrina e della disciplina morale. Di conseguenza quando gli eventi politici dell’epoca dei Maccabei provocarono di nuovo la comparsa di capi del demos contro il clero aristocratico e l’ellenistica indifferenza dei ricchi e dei colti, questi demagoghi furono di tutt’altro stampo che i profeti del passato.

Ancora una volta la forma di devozione della comunità giudaica ormai priva del carisma profetico venne sostanzialmente determinata dalla struttura sociale, quale ci è nota attraverso le relazioni di Neemia. I «devoti», i chasidìm come erano chiamati in particolare nel primo periodo dei Maccabei, o ’anawìm come vengono anche chiamati nei Salmi, sono prevalentemente (anche se certo non esclusivamente) un demos urbano di contadini residenti in città, artigiani, mercanti e sono spesso, secondo il tipico modello antico, in aspro contrasto con le famiglie urbane e rurali benestanti, sia laiche che sacerdotali. Questo in sé non era nulla di nuovo. Erano nuove solo la forma e l’intensità con cui questa lotta si manifestava adesso. E questo nasceva dal carattere essenzialmente urbano del demos. Mentre nella profezia pre-esilica i devoti erano ancora esclusivamente oggetto della carità predicata dai circoli profetici e levitici, in particolare dai deuteronomisti, cominciavano adesso a esprimersi per conto loro e a sentirsi il popolo eletto di Jahvè, in contrasto con i loro avversari. Nelle nostre fonti il luogo in cui la loro disposizione religiosa trova la sua più chiara espressione sono i Salmi.

APPENDICE

I FARISEI

1. Il farisaismo come religiosità di setta

A partire dall’epoca dei Maccabei si compì nel giudaismo quella trasformazione altamente significativa che finì per imprimergli il suo carattere definitivo: si tratta dello sviluppo del farisaismo. I suoi precursori risalgono all’epoca stessa dell’insurrezione nazionale dei Maccabei. In un primo tempo al centro della ribellione vi era la reazione contro l’ellenismol10 al quale avevano ceduto gli strati superiori. I Salmi parlano dei Chasidìm, cioè i devoti, come coloro che tengono fede ai costumi dei padri. Erano i seguaci di Giuda Maccabeo i quali da un lato — in contrasto con l’interpretazione più rigorosa della legge — combattevano anche lo shabbàth, mentre dall’altro ponevano l’accento con particolare energia sull’antica fede alla legge. Sembra errato vedere in questi «santi del tempo antico» (Cha- sidim ha-rishoriinì), come li chiama il Talmud, una setta con un’organizzazione particolare, anche se alcuni passim10 lo suggeriscono; la συναγωγή Ασιδαίων dei Libri dei Maccabei senza dubbio è semplicemente la kahal Chasidim dei Salmi, l’assemblea del popolo pio di sentimenti antiellenici che sosteneva il movimenton10. Anche le 18 benedizioni, accanto ai Zaddikìm, ricordano i Chasidīm il che parla già contro il loro carattere di setta. Tuttavia vengono attribuite loro alcune particolarità come l’uso di riunirsi per un’ora di meditazione prima della preghiera rituale. Il movimento morìo10 quando il governo dei Maccabei, spinto dalla necessità, si accomodò ai bisogni di un piccolo stato laico e assunse i tratti di un piccolo regno ellenico. Il riconoscimento dell’inevitabilità politica di questa situazione aveva fatto nascere proprio allora tra i devoti il convincimento che il dominio straniero fosse da preferirsi a quello di un re sedicente giudaico, che godeva quindi del prestigio nazionale ma era inevitabilmente infedele alla rigida legge. Questa convinzione si esprime ancora nella petizione indirizzata dai devoti ad Augusto dopo la morte di Erode, pregandolo di non far regnare Archelao132. A quell’epoca al posto del movimento chissidico subentrò quello «farisaico»p10.

Si chiama parush (plurale perushìm, in aramaico perishaya da cui il greco ψαρισαίοι) colui che si «tiene lontano», dalle persone e dalle cose impure, ovviamente. Questo era anche il significato dell’antico movimento dei Chasidìm. Ma i Farisei diedero al movimento la forma di un ordine, una «fratellanza», chavurah, in cui era ammesso solo chi si impegnava formalmente davanti a tre membri all’osservanza della più rigorosa purezza levitica. Naturalmente non ogni individuo che viveva di fatto come un fariseo entrava anche nell’ordine, come chavèr. Ma l’ordine costituiva il nucleo centrale del movimento. Aveva le sue ramificazioni in tutte le città in cui vivevano dei Giudei. Poiché vivevano con la stessa purezza i suoi membri rivendicavano una santità personale uguale a quella dei sacerdoti viventi correttamente e superiore a quella dei sacerdoti dalla vita scorretta. Il carisma del sacerdote in quanto tale venne svalutato a favore della qualificazione religiosa personale dimostrata dal modo di vivere. Questo mutamento, naturalmente, è avvenuto gradualmente. Nel n secolo, all’epoca della compilazione del Libro dei Giubilei133 i dottori e i maestri erano ancora le guide religiose della cittadinanza ed erano, perlomeno di regola, membri di famiglie di sacerdoti e Leviti. Gradualmente l’atteggiamento dell’aristocrazia mutò radicalmente questa situazione. Infatti, rispetto alle acquisizioni nazionali e religiose dei devoti, tale atteggiamento era oscillante e spesso destava scandalo perché inevitabilmente costretto e nello stesso tempo incline al compromesso politico.

L’aspetto decisivo, per il giudaismo, nel movimento di fratellanza, era la sua segregazione non solo dagli Elleni ma anche dai Giudei che non vivevano santamente. Sorse il contrasto tra i «santi» farisei e il ’am ha-arezq10, la «gente di campagna», gli «ignoranti», che non conoscono e non osservano la legge. Il conti asto si acuì al massimo fino al limite della segregazione rituale di casta. Il chaver doveva impegnarsi a non ricorrere ai servizi di un sacerdote o Levita che fosse un ebreo non ritualmente osservante, cioè un ’am ha-arez; a non tenere comunità di tavola con i Gentili e con i ’am ha-arez, ad evitare il connubio e l’associazione con loro e genericamente a limitare al massimo i suoi rapporti con loro. Una delle innovazioni stava proprio in questa rigidità. Molto spesso, naturalmente, anche se non sempre, la conseguenza di ciò era la nascita di un odio terribile tra i chaverìm e il ’am ha-arez: i discorsi lampeggianti d’ira di Gesù di Nazareth contro i Farisei ne danno una testimonianza sufficiente.

Siamo dunque qui in presenza della setta. E precisamente della setta interlocale, che al chavèr che arrivava in un luogo estraneo fornito di lettere di raccomandazioni della fratellanza dava immediatamente diritto di cittadinanza in una comunità di persone dagli stessi sentimenti. Per questo motivo la setta lo favoriva sul piano sociale e anche, di fatto seppure non volutamente, su quello economico, come le sette hanno sempre fatto ovunque (e soprattutto nell’ambito delle sette puritane e battiste dell’era moderna). Dai Farisei, Paolo imparò la tecnica della propaganda e della creazione di una comunità indistruttibile. Il potente slancio della diaspora ebraica a partire dall’epoca dei Maccabei e l’inattaccabilità della sua esistenza nell’ambiente estraneo da cui i suoi membri si segregavano erano in buona parte opera del movimento di fratellanza dei Farisei. La sua importanza storica proprio per la diaspora e per la formazione del carattere ebraico appare ancora più chiara se esaminiamo le realizzazioni pratiche dei Farisei.

L’avversario dei Farisei era l’aristocrazia del sangue giudaica: le grandi casate sacerdotali e soprattutto la nobiltà sacerdotale dei Sadoqiti («Sadducei134») e quanti dipendevano immediatamente da loro. Naturalmente questo dissidio non traspariva nella forma e nel contegno esteriore: il fariseo devoto insisteva proprio sulla rigorosa osservanza di tutto ciò che era conforme alla legge sacerdotale. Ma di fatto si manifestava già nell’esigenza che il sacerdote vivesse correttamente, nel senso farisaico, se voleva trovare impiego. A questo si aggiungevano le istituzioni comunitarie create dai Farisei in parte ufficialmente in veste di fratellanza, in parte sotto la loro pressione ed influenza. Infatti, portatrice della religione era adesso la «comunità» e non più il carisma ereditario dei sacerdoti e dei Leviti. A prescindere da una serie di piccole differenze rituali questo si manifestò con la massima chiarezza nelle seguenti nuove istituzioni.

Le fratellanze tenevano le loro eucarestie («banchetti d’amore») che erano di carattere del tutto simile alle posteriori istituzioni cristiane dello stesso tipo a cui sicuramente hanno servito da modello. Anche la benedizione dei pasti esisteva già in forma analoga. I Farisei crearono inoltre la popolarissima processione delle acque, simile alla processione dei guru caritoniti in India. Crearono soprattutto la sinagoga, l’istituzione centrale del tardo giudaismo sulla quale ritorneremo tra poco, che sostituì per gli Ebrei della diaspora il culto sacerdotale; e crearono l’insegnamento superiore e inferiore della legge che divenne fondamentale per la formazione del giudaismo. Inoltre, lentamente ma profondamente, mutò il significato del sabato e delle festività. Al posto della cerimonia sacerdotale nel tempio subentrò la cerimonia domestica o nella sinagoga che comportò un’inevitabile svalutazione del sacrificio e del sacerdozio prima ancora che cadesse il secondo tempio. Abbiamo già notato la presenza di un processo analogo in India come sintomo dell’emancipazione dai brahmani. In particolare l’individuo, adesso, quand’era in preda a bisogni esteriori o interiori, o al dubbio, andava dal dottore esperto nella legge e non più dal sacerdote. Le decisioni dei soferìm di formazione farisaica valevano come legge per l’ebreo, e la morte era la conseguenza della loro trasgressione.

Ma il sofer rivendicava anche il diritto di accordare l’esonero dalla legge e dai voti in determinati casi: una funzione, com’è comprensibile, altamente popolare. E il modo in cui proprio il sofer di cultura farisaica emetteva le sue decisioni si adeguava sostanzialmente all’interesse degli strati borghesi, nonostante tutto il rigore delle esigenze di purezza rituale. Questo valeva in particolare per i piccoli borghesi tra cui le fratellanze, come sempre, avevano prevalentemente le loro radici. La speculazione filosofica, naturalmente, era rifiutata come pericolosa e soprattutto in quanto greca. Non bisognava lambiccarsi il cervello sui motivi delle prescrizioni rituali, ma semplicemente adempiervi: «il timore del peccato supera la saggezza». Ma a questo rifiuto del razionalismo filosofico si affiancava un razionalismo etico-pratico di quel tipo che gli strati piccoio-borghesi sogliono coltivare. La discussione e la soluzione delle controversie sono dominate dai bisogni pratici della vita quotidiana e dal «buon senso». Proprio nel periodo decisivo per la formazione del giudaismo — cioè nei due secoli prima e dopo l’inizio della nostra èra — queste controversie avevano carattere molto scarsamente «dogmatico», sicché l’esistenza e perfino la possibilità e l’ammissibilità religiosa di una dogmatica giudaica è rimasta fino ad oggi controversa in linea di principio. I problemi che sorgevano erano prettamente orientati verso questioni della vita quotidiana. Come i profeti nel Talmud sono altamente stimati per via della loro «comprensibilità» per tutti, così anche tutta la dottrina del Talmud è immediatamente comprensibile, adattata al pensiero medio borghese e, in questo senso, «razionale». La prassi sadducea era sempre aderente alla lettera: per esempio all’adempimento testuale della legge del taglione «occhio per occhio». La prassi farisaica invece, come rappresentata per esempio da R. Simon ben Jochai, entrava nella «ratio» delle prescrizioni e cambiava o reinterpretava le prescrizioni assurde (per esempio al posto del taglione era ammessa la penitenza dopo la conciliazione).

La prassi farisaica veniva incontro agli interessi economici dei devoti, i quali vi aderivano come esponenti di una devozione interiorizzata; sembra in particolare che l’adozione delle prescrizioni ketubah135 e altre misure di protezione giuridiche del patrimonio personale dei coniugi siano state opera sua. Il razionalismo etico si manifesta nel modo di trattare la tradizione. Il «Libro dei Giubilei», un’opera specificamente farisaicar10, ha ritoccato tutta la storia della creazione e dei Patriarchi eliminandone i tratti scandalosi. D’altra parte però ci si adattava all’originaria credenza negli spiriti che si ritrova in tutto il mondo. L’angelologia e la demonologia, determinate in parte dall’influenza persiana e comuni a tutto l’Oriente, che esistevano anche nell’antico tardo-giudaismo, vennero sostanzialmente accettate sotto l’influenza farisaica, in pieno contrasto con gli strati colti aristocratici. E non solo per accomodamento a determinate credenze di massa ma anche per motivi «razionali»: il Dio supremo veniva perlomeno in parte sgravato dalla responsabilità per la fragilità e l’imperfezione del mondo.

L’incremento della fede nella provvidenzas10 e il forte accento posto sulla «grazia» di Dio derivano per altro verso da motivi analoghi e corrispondono alle tendenze religiose diffuse dappertutto negli strati plebei. Il carattere borghese degli strati che erano i portatori principali della religiosità spiega anche il grande rafforzamento delle aspettative nel Salvatore e nell’aldilà sotto l’influenza dei Farisei: la speranza messianica e la credenza nella resurrezione dei morti ad una vita migliore erano sostenute a fondo dai Farisei mentre quest’ultima, almeno, era pienamente e incondizionatamente rifiutata dai nobili sadducei.

D’altra parte però le esigenze dei Farisei nei riguardi degli ebrei devoti erano molto consistenti. Il «regno dei cieli» doveva essere annunciato e chi voleva avervi parte doveva prendere su di sé il «giogo»t10 di questo regno (’ol malhuteh shamajim) o il «giogo dei comandamenti» (’ol ha-mizwoth). Questo è possibile solo attraverso un rigoroso allenamento come quello al quale si sforzavano i rabbini farisaici nelle istituzioni dottrinali del tardo giudaismo. Si esigeva la «santità» di vita. I comandamenti dovevano essere osservati esclusivamente perché tale era la volontà di Dio, non in vista di una ricompensa o di vantaggi. Soprattutto però andavano osservate quelle leggi che servivano alla più rigida distinzione dei devoti dai Gentili e dagli «anche-ebrei». La circoncisione e il riposo sabbatico diventarono adesso, per via del loro particolare carattere segregativo, dei comandamenti fondamentali per distinguersi dagli altri; il precetto del sabato, stando al severo giudizio sulle sue trasgressioni, evidentemente era stato notevolmente inasprito.

È anche chiaro, e importante per il nostro contesto, quale direzione abbia assunto questo inasprimento. Il farisaismo era fondamentalmente di carattere urbano-borghese. Naturalmente ciò non significa che fossero tali tutti i suoi singoli componenti. Al contrario, un numero considerevole dei più importanti rabbini talmudici erano proprietari fondiari. Ma il tipo di santità praticato dai Farisei e l’importanza data alla cultura (ebraica: vale a dire fondata su una lingua sempre più «straniera»), non solo dalle autorità ma da tutti, escludeva sempre più che tra i loro seguaci potesse trovarsi una prevalenza di contadini. Non è un caso che il ’am ha-arez, il non-fariseo, in origine sia precisamente l’«uomo di campagna», e che anche le piccole città giudaiche non possano avere comunque un ruolo di guida: «cosa può venire di buono da Nazareth»? è vero che la chavurah, l’ordine farisaico, era un sostituto dell’associazione rurale di vicinato per gli ex contadini inurbati e come tale era adeguata ai loro interessi esterni e interni. La trasformazione del popolo giudaico in un popoloospite interlocale, sostanzialmente urbano e comunque in prevalenza non più residente nelle campagne, si è sostanzialmente compiuta sotto la guida dei Farisei.

Lo spostamento, molto forte nell’insieme, della religiosità giudaica, è stato ottenuto dai Farisei solo in parte tramite il controllo delle forze tradizionali. Sotto Giovanni Ircano136 erano un potente partito; Alessandra Salomé137 (78-69) consegnò loro il sinedrio; Aristobulo138 li cacciò di nuovo; mentre Erode cercava di mettersi in buoni rapporti con loro. Il loro dominio definitivo cominciò con la distruzione del tempio: da quel momento tutto il giudaismo diventò farisaico e i Sadducei diventarono una setta eterodossa. Ma già prima era iniziata una trasformazione dell’autorità religiosa, decisiva per il loro dominio. L’aristocrazia di nascita dovette cedere il passo all’aristocrazia della «cultura»: i discendenti di proseliti spesso sono stati i migliori cervelli tra i Farisei. Ma soprattutto l’ascesa di potere dei rabbini è un prodotto dello sviluppo farisaico-borghese del giudaismo. I rabbini, all’epoca decisiva dello sviluppo del giudaismo, erano uno strato quale si ritrova soltanto nel cristianesimo primitivo e nelle sètte cristiane, anche se si tratta di una somiglianza sempre molto lontana.