10. Guerra santa, circoncisione, nazireato e «nevijìm»
Un foro comune formalmente competente ai fini delle direttive giuridiche per Israele non esisteva, con tutto ciò, all’epoca dell’antica lega. C’era invece soltanto il potere intermittente, di portata variabile, degli eroi guerrieri carismatici, la considerazione di cui godevano oracoli di provata efficacia e antichi luoghi di culto del dio della guerra patrono della lega (innanzitutto Silo), e infine forse anche (ma non è certo) alcuni atti rituali anfizionici che venivano ripetuti periodicamente, quali potevano essere la cerimonia sichemita delle benedizioni e delle maledizioni e la festività annuale di Jahvè a Silo ripetutamente menzionata (Giud., 21, 19 e I Sam., 1, 3). Formalmente la lega diventava un fatto attuale solo nei periodi di guerra della confederazione. Infatti il gedah, come veniva chiamata di solito l’assemblea dell’esercito di tutto Israele, faceva giustizia contro coloro che contravvenivano alle leggi della guerra o ai comandi rituali e sociali di Jahvè. Come mostra l’impiego del termine gedah per dire «ordinanza», essa aveva anche la facoltà di prendere delle disposizioni generali. In ambedue i casi l’esercito si pronunciava per acclamazione, come avviene generalmente in queste situazioni, sulle proposte dei comandanti guerrieri designati dal condottiero tra gli anziani dei contingenti i quali portavano forse il titolo di «Anziani in Israele» che appare di tanto in tanto. E questi a loro volta erano andati in precedenza a chiedere consiglio a un oracolo.
Per quanto riguarda la spartizione del bottino e in particolare la partecipazione ad essa dei non combattenti, esistevano presumibilmente (Num., 31, 27) dei princìpi fissi che tuttavia nel racconto della spartizione del bottino da parte di Davide (I Sam., 30, 26) appaiono come una novità da lui introdotta. Il casus foederis di una guerra della lega, il comandante dell’esercito e lo scopo della guerra venivano determinati in maniera totalmente carismatica e profetica tramite risvegli e oracoli di Jahvè nella sua qualità di capo guerriero della lega. Vero condottiero di una guerra della lega era lo stesso Jahvè. è a lui personalmente, e non solo ai confederati, che gli spergiuri hanno negato l’aiuto, e per questo sono destinati, come Jabes, allo sterminio. Una guerra della lega era quindi una guerra santaa4, o comunque poteva diventare tale in qualsiasi momento, e veniva sicuramente spiegata sempre in questi termini nei periodi di crisi. Il gedah, l’esercito riunito, nel Cantico di Debora (Giud., 5, 11) e nella guerra santa contro Beniamino (Giud., 20) è chiamato semplicemente «uomini di Dio» (^am Jahvè o rispettivamente ’am ha-Elohìm). Da ciò derivano innanzitutto delle conseguenze rituali. All’epoca dei Filistei, secondo la tradizione di Samuele, il tabernacolo portatile da campo, l’«Arca di Jahvè», veniva portato sul campo di battaglia e il Dio veniva esortato ritualmente — secondo una formula conservata nella tradizione sacerdotale — a uscire o a sorgere da quella che era la sua dimora o la sede del suo trono e a mettersi alla testa dell’esercito per poi riprendere il suo posto dopo la battaglia. Anche ì’efod, più tardi un pezzo del vestiario sacerdotale, appare occasionalmente sul campo di battaglia (7 Sam., 14, 3; 23, 6 e 9; 30, 7). Attraverso la maledizione dei nemici, gli oracoli e i voti prima della battaglia, gli incantesimi propiziatori durante la battaglia, si tentava di assicurarsi l’intervento di Jahvè. Tra i mezzi impiegati a questo fine figuravano anche, perlomeno nei periodi di grandi crisi belliche, i sacrifici umani, cui è ricorso ancora per ultimo il re Manasse.
Ma anche a prescindere da quei particolari voti che si trovano diffusi in tutto il mondo, nel corso della guerra santa l’esercito doveva praticare l’ascesi prescritta, in particolare il digiuno e l’astinenza sessuale. Secondo la tradizione, Davide ed il suo seguito poterono mangiare del pane sacro in quanto, nella loro qualità di guerrieri, si erano sessualmente astenuti. Invano Davide, quando appaiono le conseguenze del suo adulterio con Betsabea, fa venire il marito di questa, Uria, dal campo di battaglia, affinché abbia rapporti con la moglie e vada persa così la traccia delPadulterio: Uria, obbediente alla disciplina militare, si astiene dal rapporto. La rottura dell’ascesi, in particolare del digiuno, da parte di un singolo individuo, esponeva tutti alla minaccia dell’ira di Jahvè e comportava quindi la morte del trasgressore: solo con l’immolazione di un altro uomo l’esercito storna tale conseguenza dal figlio di Saul, Gionata.
Una tradizione collega anche la circoncisione come pratica universale alla preparazione dell’invasione di Canaan sotto Giosuè. Questa pratica era comune agli Israeliti e ai popoli circostanti, ad eccezione dei Filistei immigrati d’oltremare; era comune però soprattutto anche agli Egiziani dai quali, secondo Erodoto, l’avrebbero adottata i Siri ed i Fenici. è forse l’unico elemento del rito israelitico preso dagli Egiziani. Il suo significato originario è notoriamente oggetto di controversie non ancora appianate. Forse in origine in Egitto la circoncisione non era universale ma riservata ai nobilib4; in tal caso si collegherebbe o alla consacrazione dei giovani guerrieri o all’ordinazione dei sacerdoti novizi. La sua esecuzione sugli infanti è sicuramente il prodotto di un periodo posteriore. Lo stesso Abramo sottopone Ismaele alla circoncisione quando questi è al tredicesimo anno di etàc4. D’altra parte la leggenda eziologica di Mosè e Sefora nell’Esodo mostra che questa pratica veniva comunque impiegata anche contro gli influssi demoniaci nel rapporto sessuale. Resta assolutamente incerto quanto sia antico il riferimento alla promessa di una numerosa discendenza, che si trova molto spesso nella tradizione rabbinica. Si vede invece come nel pacifico periodo post-esilico la circoncisione non è ritenuta indispensabile, o perlomeno non è prescritta in termini assoluti, per i proseliti. Nel più antico periodo preesilico i gerìm non soggetti al servizio militare — cioè tutta la popolazione senza residenza stabile — non erano soggetti nemmeno alla circoncisione. Occorre tenere ben conto di questo fatto, che potrebbe costituire un argomento essenziale a favore della derivazione della circoncisione dall’ascesi dei guerrieri, che rimane l’ipotesi più plausibile. D’altra parte però, secondo una disposizione di cui a dire il vero s’ignora l’etàd4, ogni membro di una comunità domestica, anche lo schiavo, doveva essere circonciso, e questa era una condizione necessaria per partecipare al pranzo pasquale domestico (Es., 12, 48). I residui di questa origine rimangono quindi abbastanza ambigui. Non si può nemmeno dedurre nulla di certo dall’affermazione secondo cui l’incirconciso (’arei) finisce più tardi in un ade speciale (Ez., 31, 18; 32, 18)e4. In ogni caso lo straniero incirconciso era considerato in senso specificamente rituale come un barbaro ed i prepuzi dei nemici costituivano, come in Egitto, dei trofei, alla maniera degli scalpi indiani. L’ipotesi di gran lunga più probabile, tutto sommato, è che la circoncisione in origine fosse collegata in qualche modo all’ascesi dei guerrieri e all’iniziazione della classe dei giovani. Se oltre a ciò era connessa a qualche orgiasmo fallico in uso nel suo paese d’origine è un punto che rimane oscuro ed è destinato probabilmente a rimanere tale per sempref4. In ogni caso le interpretazioni a base igienica e razionalistica, che continuano pur sempre a sussistere, sono particolarmente improbabili, qui come nella maggior parte dei casi.
Accanto alle disposizioni per la santificazione della guerra figurava anche nella guerra santa il tabù rituale sul bottino, cioè la sua consacrazione al dio della guerra patrono della lega. Questa consacrazione, il cherem, continuò a sussistere anche con la trasformazione postesilica della lega in una comunità confessionale pacificata, sotto forma di scomunica dei membri della comunità che conducevano una vita scorretta. Anche in Israele sembra che si trovino i residui di tabù privati. Ma il tabù e il sacrificio di tutto o di una parte del bottino, uomini e cose, al dio, erano universalmente diffusi e noti in particolare in Egitto dove il re massacrava i prigionieri in virtù di un dovere rituale. Qui come in Israele i nemici erano considerati degli empi; in ambedue i casi non si trova traccia di sentimenti cavallereschi. Il cherem in tempo di guerra poteva avere una portata diversa di volta in volta e in ogni caso le regole sulla spartizione del bottino mostrano che non sempre l’intero bottino — uomini, donne, bambini, animali, case, suppellettili domestiche — veniva dichiarato tabù. Talvolta venivano sgozzati come sacrificio solo i maschi adulti — «tutto ciò che orina sul muro» — o anche solo i principi ed i notabili. All’infuori della guerra santa l’antico diritto di guerra israelitico distingueva, come quello dell’IsIam, tra i nemici che si sottomettevano spontaneamente e quelli che si ostinavano nella lotta, ed ai primi faceva salva la vita (Deut., 20, 11). Questa legge è stata osservata sia all’interno che aH’esterno del territorio cananeo. Solo la teoria sorta sotto l’influenza dei profeti circa lo specifico carattere sacro della terra promessa da Dio, come appare per la prima volta ai tempi di Elia, esigeva che questo territorio venisse completamente epurato dalla presenza di adoratori di idoli (Deut., 7, 23). E solo la teoria della profezia bellica, e più tardi quella dell’esilio e lo sviluppo del giudaismo come confessione propendevano per il principio fanatico secondo cui i nemici del paese dovevano semplicemente venire sterminatig4. A prescindere dal fatto che non tutte le guerre erano guerre sante, ma solo quelle della lega e forse non sempre neanche quelle, il contrasto tra l’atteggiamento di Saul e le esigenze che la tradizione mette in bocca a Samuele mostra come le conseguenze ultime del cherern fossero relativamente recenti. Sono state applicate però con rigore spietato anche nell’elaborazione della tradizione e questo sanguinario diritto di guerra, essenzialmente teorico, ha prodotto un singolare connubio tra una fantasia quasi voluttuosa di atrocità ed il comando di usare clemenza verso i deboli e i meteci che dà la sua impronta a molte parti delle Sacre Scritture.
Insieme all’ascesi generale dei guerrieri, nella tattica bellica israelitica appare anche il fenomeno dell’estasi dei guerrieri nelle sue due forme, diffuse anche nel resto del mondo. Una di queste forme è l’estasi comune prodotta dalla danza di guerra e dalle orge di carne o di alcoolici dei guerrieri. Se ne trovano alcuni residui nella tradizione: il più evidente è il grido di guerra (teru’ah: I Sam. 4, 5), sinistro alle orecchie dei Filistei, che gli Israeliti lanciavano quando l’arca di Jahvè arrivava sul campo di battaglia (presumibilmente intorno ad essa avveniva anche una danza di guerra); e il consumo di carne cruda e sangue (contrario, quindi, al normale rituale) dopo una battaglia vittoriosa, che viene menzionato in qualche occasione (I Sam., 14, 32). L’altra forma di estasi è quella carismatica individuale dell’eroe, universalmente diffusa con eroi del tipo di Tydeus43 o Cuchulain44 o il pazzo «amok»45 e soprattutto, nella sua espressione più tipica, con il Berserker nordico, il guerriero furibondo la cui estasi lo fa precipitare in mezzo ai nemici, ebbro di una furiosa sete di sangue, massacrando quasi privo di sensi tutto ciò che lo circondah4. Un tipico Berserker di questo tipo è il Sansone della leggenda, anche se la sua origine, come sta ad indicare il suo nome (Shemesh), deriva da un mito del sole. Quando lo spirito di Jahvè scende su di lui egli sbrana leoni, incendia campi, demolisce case, uccide masse di uomini a volontà con qualsiasi oggetto gli capiti tra le mani e compie altri atti di selvaggio furore guerriero. Rappresenta sicuramente un tipo ben definito della tradizione.
Tra l’eroe individuale che appare in veste di Berserker estatico e quella che è solo un’acuta estasi collettiva della danza di guerra, figura come via di mezzo l’allenamento ascetico all’estasi bellica di un corpo di guerrieri professionisti. In forma rudimentale, un tale corpo è costituito dai «nazirei», i «separati.i4 che in origine dovevano essere certamente dei guerrieri estatici addestrati con l’ascesi i quali — unico dato certo tramandato — lasciavano il capo intonso e si astenevano dalle bevande alcooliche, e in origine senza dubbio anche dal rapporto sessualej4. Anche Sansone era considerato tale e nella leggenda originale la sua rovina certamente è proprio dovuta al fatto che egli si sia lasciato indurre ad infrangere il tabù sessuale. I nazirei come nerbo dell’esercito figurano nella formula senza dubbio antica della benedizione di Mosè su Giuseppe (Deut., 33, 16) e i «lunghi capelli fluttuanti» degli uomini (‘am) che si sono votati alla guerra (hithnadev) appaiono all’inizio del Cantico di Debora. Nel corso della successiva evoluzione pacifista il nazireato è diventato un’ascesi di mortificazione della carne praticata in virtù di un voto ed accompagnata da una condotta di vita ritualmente esemplare che comportava in particolare l’astensione da ogni forma di contaminazione, tutte cose che sicuramente non erano in origine, poiché il Sansone della leggenda tocca una carogna (quella del leone) ma è considerato un nazireo. Il rituale dei nazirei che ci è stato tramandato (Num., 6) ha già questo carattere. In origine, scopo di queste prescrizioni era, oltre alla preparazione magica per l’estasi, proprio il mantenimento del pieno vigore fisico. Secondo l’ipotesi del conte Baudissin46, l’antico diritto rivendicato da Jahvè su tutti i primogeniti umani, che nei libri della legge è stato sostituito da un tributo di riscatto, in origine avrebbe designato l’obbligo dei confederati di consacrare a Jahvè i primogeniti come guerrieri professionisti nazirei; a ciò si può anche collegare il precetto della doppia parte di eredità per il primogenito, onde renderlo economicamente «libero». Questa congettura, pur restando attraente, non può essere dimostrata con certezza; a suo favore figura soprattutto la stretta connessione tra «nazirei» e «primogeniti» nella benedizione di Mosè per Giuseppe (Deut., 33, 16-17). In ogni caso la menzione dei nazirei in ambedue le formule di benedizione su Giuseppe mettono in luce come probabilmente in questa tribù all’epoca di queste benedizioni esistesse un nucleo di combattenti per la fede jahvisti, una sorta di ordine guerriero di Jahvè (se ci è consentita l’espressione) quale detentore del potenziale bellico. Non è possibile avere dettagli più precisi.
Del pari siamo in grado di conoscere solo in maniera molto vaga i rapporti tra l’antico nazireato e un altro fenomeno che pure ha origine nel periodo dell’antico esercito di contadini: i nevijìmk4. Vi erano strette relazioni tra i due. Nella tradizione Samuele viene consacrato dai genitori ad una specie di servizio di Jahvè che corrisponde al nazireato e secondo una tradizione discutibile a dire il vero — appare come un eroe guerriero contro i Filistei. D’altra parte però figura anche come navi e capo di una scuola di nevijìm. Qualunque valore si dia a questa tradizione, in ogni caso il nazireo, rappresentante dell’estasi guerriera, era vicino al navi, rappresentante dell’estasi magica. La fusione tra nazireo e navi è anche perfettamente conforme al carattere dell’organizzazione dei combattenti per la fede che conosciamo per altre vie.
I nevijìm non costituiscono assolutamente un fenomeno proprio solo a Israele o al Medio Oriente. Il fatto che non si trovino tracce dell’esistenza di forme analoghe di estasi né in Egitto (in epoca anteriore ai Tolomei47) né in Mesopotamia ma solo presso i Fenici è dovuto certamente ed esclusivamente al discredito dei culti orgiastici e alla regolamentazione burocratica della mantica unita alla sua prebendizzazione sin dai primi tempi dei grandi regni, come in Cina. In Egitto erano chiamati «profeti» semplicemente i detentori di determinate specie di prebende dei templi. Ma in Israele, come in Fenicia e nell’Ellade, in seguito alla mancata burocratizzazione l’estasi profetica rimase come in India una forza viva e in Israele in particolare, all’epoca delle guerre di liberazione, si presentava come estasi di massa collegata al movimento nazionale. Sostanzialmente i nevijìm israeliti non si differenziavano in maniera evidente dai mistici di professione formati nelle scuole i quali si trovano diffusi in tutto il mondo. Il loro reclutamento avveniva in base al carisma personale ed era, come si deduce dal trattamento sprezzante che gli riserva la tradizione posteriore, d’impronta fortemente plebea. Si tatuavano, evidentemente, sulla fronte (I Re, 20, 41), come i mendicanti religiosi indiani, e portavano un costume speciale il cui elemento più importante era un tipo particolare di mantello: sembra che il capo della scuola (il «padre») designasse i suoi discepoli o i suoi successori gettandoglielo addosso e questo gesto aveva effetti magici. Compivano insieme le loro pratiche in dimore speciali, talvolta, pare, sulle montagne (così sul Carmelo); tuttavia anche in talune località israelitiche (Gabaa, Rama, Gilgal, Bethel, Gerico) vengono menzionati i nevijìm. Dalla tradizione non risulta che praticassero un’ascesi permanente o si astenessero dal contrarre vincoli familiari (II Re, 4, 1). Qui come altrove la musica e le danze figuravano tra i mezzi per produrre l’estasi (II Re, 3, 15). I nevijìm del Ba’al fenicio, che trovarono favore in Israele del Nord sotto la dinastia degli Omridi, praticavano come maghi della pioggia una danza di zoppi intorno all’altare accompagnata da autolesioni orgiastiche. Le autolesioni e anche (1 Re, 20, 35 e seg.) le lesioni reciproche, insieme all’induzione di stati catalettici e di delirio, rientravano anche tra le pratiche dei nevijìm di Jahvè; non sappiamo però niente di preciso riguardo ai particolari. Lo scopo era l’acquisizione di poteri magici.
I miracoli che vengono attribuiti all’ultimo maestro della corporazione, Eliseo (II Re, 4, 1 e seg.; 4, 8 e seg.; 4, 18 e seg.; 4, 38 e seg.; 4, 42 e seg.; 6, 1 e seg.; 8, 1 e seg.) recano prettamente l’impronta tipica della magia professionale, quale si trova nelle leggende indiane e in altre leggende di stregoni. E come per tutti gli stregoni di questo tipo con doti estatiche si faceva ricorso ai nevijìm — come mostrano queste storie di magia (e quelle tramandate su Elia) — in parte come medici stregoni, in parte come maghi della pioggia; d’altra parte però apparivano anche, come i naga indiani e i dervisci che sono le figure che meglio si possono paragonare a loro, in qualità di cappellani da campo e anche direttamente in veste di crociati in azione. I nevijìm di Jahvè apparvero come profeti della guerra in Israele del Nord all’inizio delle guerre nazionali, e si manifestarono in particolare nelle lotte di liberazione contro i Filistei incirconcisi che erano senz’altro delle autentiche guerre di religione. Ma si è anche manifestata evidentemente in quel periodo la profezia estatica — certamente non per la prima volta, poiché la ritroviamo invece in tutte le guerre di liberazione vere e proprie, di cui la prima è stata la guerra di Debora. Questo tipo di profezia non aveva nulla a che vedere con «predizioni» di sorta (l’oracolo all’epoca di Gedeone lasciava semplicemente la decisione alla sorte); suo compito era, come per Debora, la «madre di Israele», quello di chiamare alla crociata, di promettere la vittoria, di operare incantesimi estatici per la vittoria. Non si può tuttavia dimostrare con certezza che questa profezia di guerra estatica dei singoli fosse direttamente collegata al tipo posteriore di estasi, quello del navi formato nella scuola; il Cantico di Debora ed il Libro dei Giudici ignorano completamente quest’ultimo.
Tuttavia dovevano esserci sicuramente dei rapporti tra di loro. Infatti l’estasi guerriera non era assolutamente limitata all’estasi individuale del Berserker carismatico, ai profeti di guerra dei tempi più antichi e all’estasi di massa delle bande di dervisci del periodo più recente dell’esercito contadino. Dappertutto invece si trovano elementi che si collegano ad essa. Non solo una buona parte, se non tutti, i condottieri della cosiddetta epoca dei Giudici hanno avuto sicuramente il carattere di guerrieri estatici, ma soprattutto questo carattere viene attribuito esplicitamente dalla tradizione anche al primo re di Israele. Ed è proprio messo in rapporto con i nevijìm. Secondo una tradizione che non capiva più le circostanze di una volta, Saul, dopo l’unzione che portava su di lui lo «spirito di Jahvè» e immediatamente prima della sua comparsa pubblica come re, sarebbe capitato «per caso» in una comunità di nevijìm e quindi colto a sua volta dall’estasi del navi (I Sam., io). Ma anche più tardi, nel corso della sua lotta contro Davide, durante una sua visita alla scuola di navi di Samuele — che di nuovo si suppone avvenuta «per caso» — fu colto dall’estasi (I Sam., 19, 24) sicché andò in giro nudo, delirando, e rimase tutto il giorno in stato di impotenza. In un accesso di sacro furore, mandato da Jahvè, alla notizia delle trattative di capitolazione di Jabes, scanna il bestiame e chiama tutta Israele alla guerra di liberazione sotto minaccia della maledizione religiosa contro i ritardatari. I suoi accessi di furore contro Davide sono visti dalla tradizione davidica come dovuti ad uno spirito cattivo ma che tuttavia proviene sempre da Jahvè. Saul evidentemente era un guerriero estatico, come Maometto. Ma come Saul anche Davide dimora nell’abitazione navi di Samuele. Balla davanti all’Arca dell’Alleanza quando questa viene portata dentro in trionfo. Tutte queste notizie, se non possono illuminarci dettagliatamente sui rapporti tra i due tipi di profezie, confermano però che tale rapporto esisteva.
Ma come le estasi di Saul, anche questo atto estatico di Davide viene giustificato dalla tradizione posteriore con una certa circospezione. Questi tratti sembrano poco regali. Mical, la moglie di Davide, dice chiaramente che un re non dovrebbe comportarsi «come un plebeo» e il detto: «Come mai Saul è tra i nevijìm ? chi è il loro padre (dei nevijìm) ?» esprime lo stesso concetto: il disprezzo per questa plebe senza dignità. Da un lato questo punto si collega alla mutata posizione degli strati letterariamente colti nel tardo periodo dei Re rispetto ai vecchi profeti estatici; torneremo in seguito su questo problema. Dall’altro si collega al mutamento subito nel frattempo dalla posizione di questi dervisci come conseguenza del radicale mutamento nella struttura del regno, iniziato con la residenza di Davide nella sua capitale e definitivamente compiuto sotto Salomone. Prima di insediarsi come re di una città Davide era un principe carismatico nel vecchio senso, che solo il successo legittimava come unto del Signore. Perciò quando gli Amalekiti rubarono gli armenti e le mogli del suo seguito corse il pericolo di venire ucciso immediatamente come responsabile dell’accaduto. Le cose cambiarono con l’insediamento definitivo della monarchia ereditario-carismatica con residenza urbana ed il conseguente mutamento nella costituzione dell’esercito. Saiomone importò destrieri e carri dall’Egitto e creò un esercito di cavalieri. L’amministrazione del re provvedeva perlomeno alle truppe che costituivano la sua guardia del corpo e in parte anche, se non totalmente, ai combattenti su carri (I Re, io, 26) che sotto Salomone appaiono dislocati in speciali «città dei carri». è da allora presumibilmente che nella versione della tradizione l’«esercito», per esempio l’esercito di carri del faraone, viene semplicemente chiamato il suo «patrimonio» (chaìl), e il comandante del re è il usar chaialìm». A questo si aggiunsero poi gli artigiani del re tributari di liturgie e le corvées dei sudditi per la costruzione di fortificazioni, del palazzo e del tempio nonché per la coltivazione delle terre del re in continua espansione; i regi funzionari beneficiari di prebende e i feudatari investiti di terre con titolo di ufficiali e, perlomeno nelle città principali, anche di giudici; un regio istruttore per le truppe dell’esercito; un tesoro della corona come mezzo di potere e per le elargizioni ai vassalli fedeli; un commercio particolare del re sul Mar Rosso destinato ai suoi bisogni personali; tributi da parte dei territori stranieri assoggettati ma anche regolari tributi in natura da parte dei sudditi divisi in dodici circoscrizioni destinate a provvedere a turno per un mese alla tavola del re, e infine anche prestazioni di lavoro servile alla maniera egiziana. Le conseguenze immediate del potere regio furono un harem regolare, la formazione di parentele ed alleanze con i capi delle grandi potenze, in particolare l’Egitto e la Fenicia, onde poter condurre una politica a livello mondiale; la conseguente importazione di culti stranieri, talvolta semplicemente sotto forma di cappelle di corte per le principesse stranieri, altre volte però anche tramite l’inserimento degli dèi stranieri nel culto nazionale.
Il regno acquistò in questo modo i tratti tipici delle grandi potenze belliche dell’Oriente. Appaiono il regio scrivano, il cancelliere, il maggiordomo, il capo della tesoreria, e il tipico titolo egiziano per gli uomini di rango, «amico del re» (re’ah ha-melekh). Anche le cariche laiche sono occupate da sacerdoti o figli di sacerdoti (Z Re, 4, 1 e seg.) in quanto capaci di scrivere e ciò ha comportato, qui come ovunque, una crescita del potere dei sacerdoti con formazione scolastica al posto dei profeti estatici carismatici. Ma a questi tratti se ne aggiungono ancora altri. Dall’instabile confederazione di contadini, schiatte di pastori e piccole città di montagna Salomone cercò con tutti i mezzi di creare una struttura politica rigidamente organizzata. Dodici regi distretti amministrativi, come unità geografiche, subentrano al posto delle tribù unite dal patto con Jahvè: quest’ultime divennero ora delle «file» come esistevano in tutte le antiche città-stato ai fini della ripartizione degli oneri statali. La tribù signorile di Giuda, in qualità di casa del re, sembra essere stata in massima parte esonerata da questi oneri, come avveniva nella maggior parte delle formazioni statali monarchiche. Del resto la nuova divisione amministrativa si riallacciava perlopiù ai confini delle antiche tribù. Ad esse si collega forse la divisione della tribù di Giuseppe in quelle di Efraim e le due di Manasse. Solo in questo modo si concluse definitivamente la stereotipizzazione delle dodici tribù di Israele. Le ripetute ribellioni delle tribù del Nord non impedirono che dopo la fondazione di Samaria ambedue i regni conservassero questo carattere. Nello stesso tempo, però, e soprattutto a causa della crescente importanza delle unità di carri da combattimento nell’esercito, era inevitabile che l’antico carisma estatico degli eroi come pure l’antica milizia della lega perdessero importanza. L’esercito permanente composto dalle guardie del corpo e dalle truppe mercenarie del re acquistò un’importanza sempre maggiore a scapito delle antiche leve contadine. I gibborìm di una volta erano semplicemente la «classis» (in termini romani) dell’esercito confederato in grado di provvedere completamente alla propria armatura. Ma ora, con i costi crescenti dell’equipaggiamento, diventarono un corpo di cavalleria che fece retrocedere e sostituì in ordine di importanza la milizia del popolo libero. La base dell’efficienza bellica del re era costituita sempre di più dai magazzini e gli arsenali che vengono menzionati in particolare per Ezechia (II Cron., 32, 28). Nello stesso tempo s’instaurò il processo di smilitarizzazione degli strati contadini, di cui si è già parlato. La situazione creatasi con lo sviluppo urbano stava, rispetto all’antica confederazione israelitica, in un rapporto analogo a quello intercorrente tra l’egemonia dei «Potentissimi Signori di Berna» e l’originaria lega contadina dei primi tre cantoni svizzeri. Ma la situazione di Israele era aggravata dal dominio di una monarchia basata sul lavoro servile. Si sapeva benissimo che l’antica lega con il suo esercito era stata qualcosa di diverso sul piano sociale e la novità delle imposte e della corvée regale era risentita con amarezza dai liberi Israeliti.
Gli antichi propugnatori della libertà, i nevijìm, furono fortemente colpiti dal mutamento avvenuto. Erano stati loro le guide spirituali dell’antica milizia contadina. Miriam, Debora, e, secondo una tradizione posteriore (e incerta) anche Samuele, gli antichi eroi Berserker e le bande di dervisci restavano nel ricordo popolare i portatori dei veri sentimenti eroici, permeati di devozione, in preda allo «spirito» del dio della guerra patrono della lega. Nel passato i nemici erano i cavalieri — Egiziani, Cananei e Filistei — che combattevano su carri, sui quali Jahvè aveva concesso la vittoria all’esercito contadino, tramite il risveglio dell’estasi negli eroi e nei profeti. Ora invece anche l’esercito del loro stesso re era diventato un contingente di cavalieri addestrati a combattere su carri e di mercenari d’origine straniera, in cui non vi era più posto per i nevijìm ed i nazirei. Anche l’estasi del navi e del nazireo fu quindi smilitarizzata, e questo costituisce un tratto molto importante, sul piano della storia delle religioni, dello sviluppo politico interno del paese. Abbiamo già visto come si esprime per bocca di Mical il disgusto provato dalla società cortigiana per la danza estatica di Davide. Un «pazzo» viene definito da un ufficiale di Jehu quel navi mandato dal capo dei nevijìm di Jahvè, Eliseo, per offrire al condottiero l’unzione come anti-re. Nel corso della rivolta jahvista di Jehu, appoggiata dai Recabiti, contro la dinastia degli Omridi, anche i nevijìm estatici, sotto la guida di Eliseo, appaiono ancora un volta come un fattore politico. Colpisce però il fatto che nelle relazioni sui nevijìm di Eliseo i fenomeni estatici appaiano notevolmente attenuati rispetto alla tradizione di Saul e di Samuele: i loro protagonisti non sono bande vaganti, in preda a furori dionisiaci, ma scuole stabili che suscitano l’estasi con la musica. Inoltre è praticamente l’ultima volta che si parla in questo modo dei nevijìm come fattore politico. La seguente menzione che se ne fa è negativa: il profeta Amos, sotto Geroboamo II, ricusa di essere un navi. Con questo si intendeva evidentemente un profeta estatico professionalmente addestrato che faceva di questa attività il suo mestiere. Infatti in altri passi anche Amos adopera il termine navi come titolo onorifico. Ma presso i profeti scrittori torna sempre la lagnanza sulla falsità e la corruzione dei nevijìm. Qui ci si riferisce sempre ai profeti estatici di professione.
Dalle fonti risulta chiaramente che l’estasi professionale del navi era solo in parte politicamente orientata mentre per il resto costituisce semplicemente l’attività professionale di uno stregone. Questi liberi nevijim non avevano palesemente un carattere nazionale israelitico. In certe circostanze mettevano i loro servizi a disposizione anche di non-israeliti. Eliseo va a Damasco e il nemico di Achab, re Benhadad, lo fa consultare. Anche al suo capitano malato di lebbra Eliseo indica un rimedio magico in seguito al quale questo si converte e diventa un adoratore di Jahvè. Annuncia al comandante del re di Damasco, Hazael, più tardi nemico mortale di Israele, che è destinato alla corona del regno degli Aramei48. Del pari si mette a disposizione del proprio re, a sua richiesta, come stregone estatico, nel corso della guerra contro i Moabiti49. Ma non presta un servizio permanente; per la tradizione è la guida di una comunità di liberi nevijim. In Fenicia c’erano sin da tempi remoti i nevijim al servizio del re. Re Achab aveva al suo servizio i nevijìm di Ba’al della sua moglie fenicia ma, dato che ai suoi figli dà nomi jahvisti, aveva sicuramente anche nevijim di Jahvè. Gli uni e gli altri vivevano come prebendari, alla tavola del re, secondo un costume che da tempo immemorabile era tipico in Siria. Evidentemente però c’era già allora una categoria di nevijìm che aborriva ogni tipo di sfruttamento del carisma estatico a scopi di profitto di qualunque sorta. Questa posizione viene attribuita — in maniera discutibile — ad Eliseo che colpisce di lebbra un discepolo che ha accettato un compenso. Ciò corrisponde all’imperativo dell’onore di ceto che ritroviamo anche presso gli strati intellettuali di altri paesi fino ai filosofi ellenici e da questa concezione trae origine anche il rifiuto di Amos del titolo di navi. Tuttavia tanto i nevijìm professionali del re quanto anche questo strato di liberi nevijìm che si sentivano i custodi della tradizione jahvista pura si videro ora costretti, essendo venuta a mancare con la tecnica dei carri da combattimento la loro immediata importanza militare, e restando loro solo una specie di funzione magica di cappellani da campo, a esercitare soprattutto l’altra dote propria a questo tipo di estatici: la profezia estatica.
Il rapporto tra l’estasi del navi e la profezia è senza dubbio molto antico come sta ad indicare già il nesso esistente tra il termine (non ebraico) navi e il nome del dio dell’oracolo babilonese. La descrizione del viaggio del messo e scrivano egiziano del sacerdote di Ammone50, Wen Amon, per Biblo, all’incirca all’epoca del Cantico di Debora, mostra che i re delle città fenicie, già nel periodo dei Ramessidi, tenevano presso di sé dei profeti estatici e seguivano le loro istruzioni nello stesso modo in cui i re della Mesopotamia seguivano gli oracoli dei sacerdoti del tempio. Uno dei profeti del re in stato di estasi rende un oracolo in cui raccomanda il buon trattamento degli ospiti e viene puntualmente seguito. Gli antichi prìncipi guerrieri carismatici di Israele solevano o chiedere direttamente per conto loro un presagio a Dio o collegare la loro decisione a un segno determinato: è ciò che Gedeone, secondo la tradizione, fa per tre volte di seguito. Oppure venivano chiamati alla guerra da un navi estatico, come in particolare Barak da Debora. Saul è il primo, nella tradizione storica, che chiede di sua iniziativa a un (veggente» (ròeh) che era nello stesso tempo navi (Samuele) un oracolo e una benedizione con effetti magici per il proprio esercito e una maledizione per l’esercito del nemico. Le stesse prestazioni vengono attribuite dalla leggenda, per il passato, al moabita o madianita Balaam, anch’egli considerato un ròeh che operava incantesimi a fini politici e anche un profeta estatico come indicano certi accenni, non molto chiari però, in Num., 24, 1. La leggenda ce lo presenta quando viene chiamato dal re nemico e costretto poi da Jahvè, contro la sua volontà, a benedire Israele. Tuttavia ciò deriva da concezioni posteriori circa il carattere della vocazione profetica. La benedizione di Balaam per Israele e le sue minacce di sciagure contro Amalek, Caino, Edom corrispondono alle tipiche profezie di salvezza diffuse dappertutto.
Poiché la situazione storica che queste profezie presuppongono corrisponde a quella del periodo dei primi re si possono vedere nei detti che gli sono attribuiti le prime tracce sicure di una profezia di salvezza che riguarda tutto Israele. Le accuse che più tardi vengono mosse a Balaam (Num., 31, 16; 25, 1) confermano il nesso esistente tra la sua figura e il tipo di estatico caratteristico proprio d’Israele del Nord. Più indietro nel tempo, rispetto a questa benedizione, ci portano alcune delle altre benedizioni contenute nelle relative raccolte. Innanzitutto quella per la tribù di Giuseppe nella benedizione di Giacobbe (Gen., 49, 22 e seg.), con una versione più antica nella benedizione di Mosè (Deut., 33, 13 e seg.). Ma questa benedizione si distingue da quella di Balaam in quanto evidentemente non aveva lo scopo di esercitare un’influenza magica su determinati eventi politici. Non era una profezia di salvezza ma presumibilmente una canzone encomiastica cantata dai bardi nel corso delle festività della tribù, che celebrava la sua terra fertile, collegata all’implorazione della benedizione di Jahvè che dimora nel roveto ardente per i valorosi nazirei e i primogeniti della tribù. Del pari la formula di Mosè su Giuda (Es., 33, 7), senza dubbio posteriore, invoca la benedizione su questa tribù che appare incalzata dai nemici ma tuttavia destinata ad egemonizzare la lega. Sembra essere tuttavia di carattere essenzialmente letterario. Gli altri detti sulle tribù sono in parte dei generici canti encomiastici sul possesso di terre o l’esercito della tribù, o viceversa dei versetti di biasimo o di derisione o come nel caso di Ruben, Simeone, Levi, delle giustificazioni a posteriori del loro declino; sono sprovvisti comunque nell’insieme di un vero e proprio carattere profetico. Diverso è solo il tono dei versetti che si riferiscono a Giuda nella benedizione di Giacobbe (Gen., 49, 9 e seg.). Contiene accanto all’elogio della terra giudaica benedetta dalle vigne anche l’assicurazione che questa tribù conserverà lo scettro e che da essa verrà il grande eroe di Israele. Questa sentenza è chiaramente il frutto del grande sviluppo della potenza di Davide e costituisce senza dubbio una vaticinano ex eventu. Ma essa ha il carattere della profezia di salvezza insieme alla forma di una profezia per il re e probabilmente si tratta per ora del più antico prodotto di questa specie conservato in Israele.
In tutte le corti orientali, in particolare anche in quella del vicino Egitto, era noto questo tipo di profezia di salvezza a carattere cortigiano e dall’epoca di Davide è stata usata dai profeti israeliti al servizio del re. Nella benedizione su Giuda la salvezza è ancora attribuita alla tribù del re come tribù egemonica. Nelle tipiche profezie destinate al re la salvezza viene identificata direttamente con il monarca. Per quest’ultimo si tratta innanzitutto di assicurare la continuazione della sua dinastia tramite un oracolo non equivoco e insieme efficace. La più antica profezia di salvezza tramandataci per la dinastia di Davide (II Sam., 23, 1 e seg.) esordisce sotto forma di un oracolo reso personalmente a Davide da Jahvè. Qui il profeta del re mette la sua predizione a favore della dinastia in bocca al primo re della dinastia in persona, quello che la tradizione tratta come un estatico sul trono in preda allo spirito di Jahvè. Una tradizione posteriore, favorevole a Salomone e al suo tempio (probabilmente la stessa che cerca di puntellare la dubbia legittimità di Salomone presentando Nathan, che nella tradizione preprofetica è considerato un libero «veggente», come un cortigiano di parte implicato dopo la morte di Davide in intrighi di corte e di sacerdoti) mette invece in bocca al profeta un analogo oracolo di salvezza per Salomone e per l’eterna esistenza del trono di Davide, collegato alla costruzione del tempio (II Sam., 7, 8 e seg.). Se l’oracolo si potesse far risalire a molto addietro, si tratterebbe della più antica profezia di salvezza del tipo posteriore. Per quanto riguarda gli altri re di Israele, la tradizione attribuisce in particolare ad Achab l’impiego dei suoi nevijìm, evidentemente piuttosto numerosi, come elargitori di oracoli e — cosa sempre identica — come dispensatori di promesse di fortuna con effetti magici. Sotto la dinastia rigorosamente jahvista di Jehu si narra per la prima volta (11 Re, 14, 25) del caso di un oracolo di Giona, figlio di Amittai di Gath in Galilea, secondo il quale — senza dubbio durante la difficile guerra contro gli Aramei — sarebbe venuto un re che avrebbe ristabilito le frontiere del regno davidico; predizione puntualmente avverata con le azioni di guerra di Geroboamo II che sarebbe anche stato il re profetizzato. La profezia del re salvatore appare dunque qui non — come nei versetti su Giuda nella benedizione di Giacobbe — come una mera forma letteraria ma come un autentico oracolo. Senza dubbio si tratta anche qui di un profeta di salvezza al servizio del re. L’impiego permanente di tali profeti nei due regni separati è confermato anche da altri fatti ed è attestato sufficientemente dalle aspre parole dei profeti scrittori indipendenti, che vengono dopo, contro i profeti menzogneri dei re.
Come si vede da quanto detto finora, l’attuale versione della tradizione non distingue più tra «navi» e «ròeh». Sostiene anzi esplicitamente in qualche passo che l’ultimo termine è il nome più antico per il primo, e così facendo include nel termine navi i tardi profeti scrittori. Ma senza dubbio le cose non stanno così. La deplorevole confusione in cui ci appaiono oggi figure come Balaam, Samuele, Nathan e anche Elia, non è solo dovuta al fatto che in concreto la transizione da un tipo all’altro fosse fluida, qui come ovunque, ma anche alla tendenziosa opera di epurazione e di censura degli antichi contrasti. Cos’era in origine il tipico «roeh» lo mostra il racconto del citato oracolo di Nathan: era un uomo, cioè, che rendeva oracoli sulla base dell’interpretazione dei sogni; uno che interpretava con successo tanto i propri sogni quanto quelli altrui (come Giuseppe nella tradizione novellistica) oppure — e questa era la sua attività principale — aveva delle visioni mentre era in stato di estasi apatica. Ciò che lo distingue dall’antico navi è soprattutto il suo non ricorrere ai mezzi di inebriamento orgiastici, tipici di quest’ultimo e quindi nemmeno all’estasi di massa. Le sue visioni sono solitarie e i suoi clienti lo cercano per interrogarlo. Non sempre però era ritenuto in possesso di poteri magici: non lo era Nathan, per esempio. Sembra che per un «roeh» di questo tipo, dotato nello stesso tempo di poteri magici, il nome usato fosse «uomo di Dio» (ish ha-Elò- hìm). La posizione di Samuele nella tradizione storica si spiega forse in origine con il fatto che egli per primo, all’epoca delle guerre di liberazione, ha usato ai fini di un oracolo politico le forme da allora recepite come classiche della manifestazione di Jahvè: il sogno e la visione estatica del chiaroveggente. Allo stesso tipo sembra che siano appartenuti Nathan e Gad (II Sam., 24, 11) sotto Davide, Ahia di Silo sotto Salomone e Geroboamo (I Re, 15, 19), Jehu figlio di Hanani sotto Baasa. Più tardi sono stati messi tutti in un mazzo con i nevijìm, liberi o profeti al servizio dei re. Ma l’impartizione di oracoli politici non era evidentemente l’attività originaria dei «veggenti» né può essere stata stabilmente la loro attività principale. E d’altra parte gli oracoli ufficiali dei sacerdoti di Jahvè assegnati a tale incarico erano oracoli politici e processuali, basati sulla sorte e non sui sogni o sulle visioni.
Anche l’estasi del roeh costituiva in un primo tempo un’attività remunerativa privata. La tradizione narra ancora come problemi quotidiani di ogni sorta, per esempio riguardo a dove si trovassero delle asine smarrite, venivano posti al veggente i cui responsi erano compensati con doni (I Sam., 9, 6-7). è vero che secondo la tradizione posteriore l’uomo di Dio e il veggente è innanzitutto un uomo che annuncia la volontà del Dio della lega alle autorità competenti: gli Anziani, o il re, o un eroe di cui deve svegliare il carisma per farne un capo guerriero. Così agivano già Samuele e Nathan. Ma qui la versione attuale, influenzata dalla corrente profetica, e in particolare quella della scuola deutoronomica che esalta Samuele, ha sostituito evidentemente all’autentico «veggente» dei tempi passati una figura completamente diversa. Tutti i tipi trattati finora appartengono cioè alla zona delle tribù contadine sedentarie del Nord. Questo fatto, come vedremo più avanti, non è casuale. Al contrario le tribù allevatrici di bestiame con il loro genuino jahvismo conoscevano — e anche questo non è un caso — altri modi con cui la divinità faceva conoscere il suo volere. Il più antico è l’epifania. Si trova per tutti i Patriarchi; nella tradizione storica figura per la prima volta nella leggendaria assemblea del popolo a Bochim (Giud., 1, 1) e per l’ultima volta con Gedeone. Già allora al posto di Jahvè in persona troviamo un messo divino. Infatti secondo la tradizione posteriore solo Mosè ha visto Jahvè faccia a faccia. In ogni caso però rimane sempre il fatto che colui a cui viene concessa l’epifania, ode la voce corporea di Jahvè o del suo messo e non ha una vera visione. Si tratta quindi ancora una volta di un altro tipo di profetal4. I suoi esponenti sostengono di essere superiori ai «sognatori di sogni», le cui visioni sarebbero incerte e incontrollabili. Ciò che ai loro occhi costituisce il contrassegno distintivo rimane lo stesso anche nel periodo della profezia classica: perché l’oracolo sia valido bisogna aver avuto rapporti personali con Jahvè, essere stati al «consiglio» di Dio e aver udito la voce del Signore in persona. Per la branca della tradizione influenzata da queste concezioni gli oracoli che si pronunciano tramite sogni sono «non classici» e fallaci e i veggenti che si limitano a interpretare i sogni sono sospetti. Anche se l’interpretazione dei sogni, malgrado la guerra spietata mossagli in particolare da Geremia, riguadagnò ancora prestigio in epoca posteriore, postesilica (Gioele, 3, 1; Daniele, 2, 1 e seg.), sotto l’influenza babilonese e comunque non fu mai totalmente respinta, tuttavia perlomeno in epoca pre-esilica la nascita di una dottrina sacerdotale sull’interpretazione dei sogni alla maniera dei libri dei sogni mesopotamici era impossibile. Si trovano combinazioni di «visioni» e «voci»: Amos viene chiamato «choze» dai suoi avversari e le sue ispirazioni sono «visioni» collegate con la loro interpretazione a voce da parte di Jahvè. Ma si tratta di autentiche visioni da sveglio. Anche per lui la preponderanza dell’elemento auditivo è quindi determinante ai fini del suo tipo.
Il temperamento di un profeta «auditivo», ispirato non da sogni visionari che gli appaiono durante l’estasi apatica ma bensì sul piano emotivo dell’ascolto di voci, è naturalmente molto più attivo ed eccitabile di quello di un sognatore visionario. Per questo motivo evidentemente il termine «navi» è entrato in uso anche per questi oracoli. Il loro tipo è quello che ha lasciato la sua impronta nella tradizione. è con loro che l’«uomo di Dio» diventa soprattutto un uomo che annuncia la volontà di Dio ai detentori del potere politico, talvolta su loro richiesta come la nevijiah Hulda sotto Giosia o come Geremia sotto Sedekia, talvolta però, e anzi in misura crescente, senza esserne richiesti; e questo sia che la predizione fosse loro favorevole sia che non lo fosse, anzi anche in caso di predizione funesta. Nella tradizione Samuele è il primo il cui prestigio gli permette di fare questo e le concezioni posteriori diedero una tale importanza alla possibilità che un uomo senza carica specifica e non appartenente alla stirpe dei sacerdoti potesse venir colto da questo spirito profetico di Jahvè — fatto che ovviamente veniva contestato occasionalmente dagli interessati — da creare a questo fine uno specifico paradigma mosaico nell’episodio di Eldad e Medad (Num., n, 29). Nella figura leggendaria di Elia questo tipo raggiunge il suo apice e nello stesso tempo si avvicina già in parte al nuovo tipo di «profeta» (scrittore) che si differenzia dal vecchio «uomo di Dio» per il fatto che il suo vaticinio si rivolge almeno in parte aH’insieme del «pubblico» interessato ai fatti politici e non solo alle autorità costituzionali, re 0 Anziani secondo i casi.
Elia, che la tradizione tendenziosa dei nevijìm collega almeno indirettamente alla scuola nàti di Eliseo — che aveva ancora un carattere del tutto tradizionale — è la prima figura specificamente «clericale» della storia israelitica. A fare di Elia un mago del tipo di Eliseo è stata soltanto la leggenda e la volontà stessa di quest’ultimo, epigone degli antichi nevijìm — volontà che nella tradizione spicca come una forma di «arrivismo» — di potersi presentare come successore di Elia. Al contrario ciò che colpiva nella sua comparsa evidentemente era proprio il fatto che non si serviva di nessun altro mezzo all’infuori della semplice invocazione a Jahvè con la preghiera, all’opposto della magia estatica dei nevijìm di Ba’al. Non a caso Eliseo, per la tradizione, è un contadino sedentario, mentre Elia viene da Tisbe, oltre il Giordano, cioè dalla regione delle steppe, e conduce una vita errante su tutto il territorio in cui si onora Jahvè fino a Horeb, minacciato di morte dalla regina del Regno del Nord, mentre Eliseo funge da mago della guerra di Achab. Elia riceve i suoi ordini da Jahvè nella solitudine e li annuncia personalmente, in qualità di messo del dio, nella stessa veste cioè, che le concezioni jahviste del suo tempo solevano attribuire alle epifanie dell’angelo di Jahvè. Su questo fatto, e sulla mancanza di riguardo sino ad ora inaudita del suo comportamento verso i potenti della politica si fondava il suo prestigio senza pari. Sul piano storico però è importante in quanto è il primo profeta di sventura definibile con sufficiente sicurezza e quindi il precursore di quella serie di grandi figure che nel nostro odierno patrimonio letterario si apre con Amos e si chiude con Ezechiele.
Questi furono i portatori spirituali dell’opposizione alla monarchia e a tutte le novità che (a torto o a ragione) le venivano addebitate, dagli aborriti culti stranieri e cananei fino all’oppressione sociale di coloro che una volta erano il nerbo della milizia della lega. Come per i visionari apatico-estatici, anche per loro il contrassegno distintivo che li differenzia dai nevijìm che praticano l’orgia e l’estasi di massa è la solitudine. Sul piano psicologico questo si spiega in realtà, come già accennato e come verrà precisato in seguito, con tutt’altri motivi. Sul piano sociologico invece il motivo fondamentale di ciò era il fatto che la profezia di sventura non può venire insegnata professionalmente come la profezia di salvezza, che inoltre non può essere sfruttata a fini di lucro perché nessuno compra un augurio funesto — e ogni oracolo di sventura lo era — e perché infine tutte le autorità e le comunità sociali fuggivano il profeta di sventura o addirittura lo additavano al pubblico disprezzo come corruttore del popolo e pervertitore di tutti i presagi favorevoli. La solitudine, come pure il rifiuto di lucrare sui vaticini — elevato qui per la prima volta al rango di principiom4 — erano quindi determinati dalle circostanze e costituivano solo in parte una scelta spontanea da parte dei profeti di sventura. Tuttavia determinarono il sorgere, tra di loro, dei grandi ideologi dello jahvismo che non conoscevano riguardi di sorta e che proprio per questo ebbero quell’influenza di vasta portata che gli era assegnata.
Il re Achab indica Elia come un uomo delle sventure e un corruttore del popolo. Di fatto egli incarna già, anche psichicamente, il tipo di profeta che viene dopo. La tradizione ce lo fa conoscere come un uomo dei più appassionati, posseduto dallo spirito adirato di Jahvè, il quale, dopo il giudizio di Dio che lo vede vittorioso contro i sacerdoti concorrenti di Ba‘al, rialzatesi le vesti corre davanti al carro del re dal monte Carmelo fino alla residenza reale; ma anche come un eroe della fede, che come Mosè lotta contro il suo Dio e lo redarguisce e viene da lui riconosciuto degno di un’epifania molto simile a quella di Mosè; e come l’ultimo grande mago e l’unico tra i rapiti in cielo da Jahvè cui la versione odierna della tradizione abbia concesso questo onore, sicché questa figura ha occupato la fantasia dei credenti con aspettative di ritorno fino a tempo assai recenti. Insieme a questa figura elevata dalla leggenda ad una dimensione sovrumana si trova però nella tradizione, per lo stesso periodo, una figura schiettamente storica che, libera da tutti questi tratti soprannaturali, corrisponde anch’essa in un punto decisivo al tipo dei «profeti» posteriori e viene trattata anche dai redattori della tradizione come uno dei prototipi di questi profeti: si tratta di Michea, figlio d’Imla, il quale prima della spedizione militare di Achab si oppone alle centinaia di profeti di salvezza al servizio del re con una profezia di sventura che poi si compie puntualmente (I Re, 22, 8 e seg.). Questo, cioè la minaccia di sventure politiche, che aveva nello stesso tempo valore magico come presagio di malaugurio, era ciò che appariva tanto ai contemporanei di Elia (I Re, 21, 20) quanto a quelli di Michea e di Geremia (Ger., 26, 18) come il contrassegno distintivo di un tipo particolare di profezia. Questa profezia era particolarmente pericolosa. Ma appariva anche pericoloso toccare i profeti di sventura posseduti da Jahvè. Tale contrassegno venne poi proiettato retroattivamente sulle figure semi-leggendarie degli antichi «veggenti» del passato; sicché il (presunto) moabita Balaam ed Eliseo diventano dei profeti che predicano eventi favorevoli rispettivamente agli Israeliti ed a Hazael contro la loro volontà.
La prima comparsa dei «veggenti» indipendenti, politicamente orientati, i cui successori furono questi «profeti», coincide non a caso in maniera abbastanza precisa con quel grosso mutamento che la monarchia, sotto Davide e Salomone, portò nella struttura politica e quindi anche sociale di Israele. Oggetto dei loro responsi e delle loro critiche perlopiù non richieste, e spesso estremamente aspre, sono le questioni della costruzione del tempio, della successione al trono, i peccati privati del monarca, il culto e le più diverse decisioni politiche e personali; per quanto riguarda Elia per la prima volta emerge anche la questione dell’ingiustizia sociale del re. Questa critica però nella tradizione si fonda in maniera univoca su di un unico parametro: quello del «buon vecchio diritto» dell’antica lega israelitica come lo intendevano coloro che tali critiche formulavano. Il mutamento dello stato in uno stato liturgico, in una «casa di servitù» egiziana, insieme alla tecnica di combattimento su carri e alla grande politica internazionale era per loro la fonte di tutti i mali. Tutto l’apparato burocratico è un’abominazione egiziana; i censimenti della popolazione portano con sé la peste anche se Jahvè stesso vi ha dato impulso, come punizione per i peccati. Tutto ciò corrispondeva alle idee del popolo. I contadini israeliti sapevano di aver combattuto una volta contro i cavalieri per essere liberi dal lavoro servile. Ora sentivano il peso della strapotenza politica ed economica del re e dei patrizi ed il proprio crescente asservimento per debiti. I veggenti e i profeti indipendenti dal re, eredi dello spirito popolare dei nevijìm guerrieri ora messi fuori uso, trasfiguravano quindi il periodo in cui Jahvè stesso stava come duce alla testa dell’esercito contadino e il principe che cavalcava su un asino non faceva assegnamento sui destrieri, sui carri e sulle alleanze ma unicamente sul dio della guerra patrono della lega e sul suo aiuto. è partendo da qui innanzitutto che nella religiosità israelitica è entrato l’alto valore attribuito alla «fede» nelle promesse di Jahvè.
Il nome «]ahvè Zevaoth», Jahvè degli esercitin4, che è estraneo al Pentateuco e al Libro dei Giudici, divenne ora il titolo dato a Dio prima dai veggenti e più tardi, seguendo il loro esempio, dai profeti scrittori — soprattutto (ma non solo) i profeti di sventura — che impiegarono quasi esclusivamente tale denominazione. è vero che gli «zevaoth» erano innanzitutto quelli dei servitori celesti di Jahvè, in particolare l’esercito degli spiriti delle stelle (zavah) che già nel Cantico di Debora partecipa al combattimento, e gli angeli. Nella tradizione profana però il termine zevaoth, come rileva giustamente Kautzsch51, in tutti quei passi (ventisei) in cui appare senza essere collegato al nome di Dio, indica sempre l’antica milizia di Israele. E Jahvè, per i membri di queste cerchie profetiche, era proprio il suo dio — il dio dell’antico esercito israelitico — e di conseguenza tale concezione è implicita, almeno in parte, in questo titolo dato a Dio dai profeti. Inoltre questi passi si trovano anche nella tradizione più recente per un periodo che è stato pacifico sul piano della politica effettiva. Si tratta quindi di una ricostruzione a posteriori, ideologizzante e tendenziosa, del passato confederato di Israele. La profezia di sventura jahvista non usava l’espressione soltanto perché la profezia del buon vecchio tempo era stata una profezia di guerra né solo per sottolineare come Jahvè fosse l’unico legittimo re e signore degli eserciti di Israele (come asserito per la prima volta in Isaia, 6, 5; cfr. 24, 21) ma anche perché le antiche promesse di Dio, come vedremo, avevano avuto per oggetto accanto alla prosperità materiale di Israele, soprattutto il suo successo bellico, e da ciò la profezia non poteva né voleva staccarsi. Accanto alle raffigurazioni pacifiste delle leggende dei Patriarchi che albergavano nella cerchia degli allevatori di bestiame minuto smilitarizzati, e accanto alla trasfigurazione dell’antico diritto sociale, soprattutto del diritto sociale in materia di debiti della lega di Jahvè, al quale i plebei smilitarizzati erano ancora attaccati, si inserì così la leggenda (con tono specificamente da crociata) dei profeti che di fatto erano anche loro smilitarizzati e che solo nella loro fantasia combattevano ancora insieme a Jahvè mentre in realtà, al posto di dervisci guerrieri e terapeuti estatici o stregoni della pioggia, essi si presentavano ora come uno strato di ideologi politici di formazione letteraria. Da un’osservazione occasionale di Amos (2, 11 e seg.) risulta che la règia burocrazia ha combattuto in maniera perfettamente consapevole quegli scomodi crociati democratici che erano i nazirei e i liberi nevijìm. Questo fatto, tenuto conto delle analogie con altri luoghi, è di per sé molto probabile e riceve ulteriore conferma dalla circostanza che nei periodi di governo forte anche la profezia taceva. Ma nei periodi di declino del potere e di minacce esterne si risvegliavano immediatamente gli antichi ricordi democratici. La fantasia utopistica dei fautori di questi risvegli tanto più si saziava di immagini sanguinarie delle eroiche azioni belliche di Jahvè quanto più loro stessi nel frattempo si erano smilitarizzati — proprio come oggi troviamo in tutti i paesi il massimo della sete di guerra proprio in quegli strati di letterati che sono i più lontani dalle trincee e i meno portati per loro natura ad attività guerriere.
La vera pietra dello scandalo per i letterati doveva essere la politica della monarchia che aveva sconvolto in questo modo l’antico ordine militare e sociale. In questa opposizione contro le trasformazioni politiche e sociali tutti — i pastori recabiti ed altri guidati da sacerdoti di Jahvè — si ritrovarono insieme sotto il segno della trasfigurazione del buon vecchio tempo quando c’era la pura devozione a Jahvè e la libera lega di Jahvè. L’indipendenza da vincoli di carattere interno o esterno di questa critica contro il re era favorita dall’assenza di un carattere ierocratico della monarchia. Il re israelitico non aveva dignità sacerdotale. Si trova, è vero, qualche tentativo in questo senso, come quando Davide porta l’efod. è vero inoltre che il re aveva il potere di preporre sacerdoti ai santuari da lui sostenuti e viceversa di licenziarlio4, di trattarli cioè come suoi funzionari, proprio come i grandi proprietari fondiari (vedi Michea) facevano per le loro cappelle. Poteva celebrare i sacrifici, come in origine ogni israelita. Ma non era qualificato per vaticinare, né per amministrare le consacrazioni e le espiazioni. Queste attività erano riservate a chi possedeva la qualifica carismatica: il profeta e più tardi il levita appositamente formato. Il relativo declino dell’importanza del sacrificio comunitario nella tradizione della religione di Jahvè, importanza determinata in origine dall’assenza di un’autorità permanente nella lega e dal carattere del rapporto tra Jahvè e la confederazione, tornò a vantaggio dell’indipendenza del potere ierocratico dei liberi nevijim (come più tardi dei maestri della Torah) nei confronti del re.
Di conseguenza la tradizione posteriore mette in bocca a Samuele, di cui fa simultaneamente un «roeh», un «navi» e un rappresentante dell’antico diritto, l’illustrazione dei contenuti dell’odiato diritto regio. Poiché il popolo malgrado tutti gli avvertimenti insisteva per scegliersi un re, Samuele avrebbe messo questo diritto per iscritto (I Sam., io, 25), conformemente cioè alla concezione universalmente dominante del berith, alla maniera di un documento costituzionale deposto in archivio (I Sam., 8, 11). Il re nominerà capitani su divisioni di mille e di cinquanta uomini. Sfrutterà i figli degli Israeliti per il servizio sui suoi carri da combattimento, per costruire le sue armi ed i suoi carri; prenderà le loro figlie come preparatoci di profumi, cuoche e panettiere (per la sua tavola e il fabbisogno dell’esercito). Esigerà campi, vigne ed uliveti come feudi per i suoi funzionari, pretenderà prestazioni di lavoro servile per la coltivazione dei campi e la raccolta delle messi, in particolare il servizio forzato di servi, serve, bovini ed asini per le sue terre e l’altro suo fabbisogno, preleverà la decima sul vino, i frutti dei campi e il bestiame minuto per pagare i suoi ufficiali e i suoi soldati. I liberi Israeliti saranno i suoi «servi» (cioè sudditi invece di confederati)p4. A questo la leggenda politica a carattere tendenzioso reagì nella rielaborazione della tradizione. Mentre per esempio la tradizione autentica (li Sam., 21, 19) sa che uno dei cavalieri di Davide, Elchanan di Betlemme, è l’uccisore di Golia di Gath, la leggenda manipolata lo fa uccidere dallo sconosciuto pastorello Davide privo di corazza, con una pietra, alla maniera contadina. Numerosi tratti dello stesso tipo sono stati in parte selezionati dalla tradizione autentica, con la soppressione di altri, in parte inventati ex novo. Alla predilezione di questa tradizione per l’esercito contadino dobbiamo presumibilmente la conservazione del Cantico di Debora scelto tra le antiche raccolte di canti; d’altra parte però le dobbiamo anche le manipolazioni che hanno fatto della conquista di Canaan e delle guerre dell’epoca dei Giudici degli eventi leggendari. Soprattutto però le va addebitata la trasfigurazione dell’uguaglianza fraterna e della semplicità dei confederati dell’epoca del deserto, quello che Budde52 ha felicemente chiamato l’«ideale nomade». Di conseguenza questa tendenza domina anche in maniera molto palese la selezione di quelle norme giuridico-sociali di cui si è parlato in precedenza e che sono le uniche che ci sono state conservate dalle antiche raccolte giuridiche, nonché la loro interpolazione, presumibilmente assai ampia, con teologumeni utopistici.
Sempre coerentemente con questa tendenza i rappresentanti dell’antica tradizione chiedevano che il re «non tornasse nella casa di servitù egiziana» (Deut., 17, 16) per ottenere carri e destrieri. Condannavano lo splendore e la magnificenza della corte e del tempio di Salomone in favore dell’antica libertà dei contadini e dell’antico culto disadorno su di un altare di terra. Tuttavia di fronte ai grossi interessi collegati allo sfarzoso culto regale del tempio non mancavano nemmeno nella cerchia degli jahvisti devoti gli avversari a tali richieste. Di conseguenza la presa di posizione sulle innovazioni radicali di Salomone e sulla monarchia in genere, nelle fonti non è univoca. Una parte della tradizione insegna che all’epoca in cui non c’era re dominavano il disordine e l’arbitrio, e scusa tutto ciò che dal punto di vista del rituale posteriore ed eticamente corretto veniva considerato una trasgressione con il fatto che a quell’epoca non vi era nessun re in Israele e di conseguenza ognuno «faceva ciò che pareva bene ai suoi occhi» (Giud., 17, 6; 21, 25; cfr. 18, 1; 19, 1). L’immenso potere politico soprattutto di Davide ma anche di Salomone, come costruttore del tempio, agiva naturalmente nel senso di una trasfigurazione proprio di questi re a spese tanto del principe contadino Saul quanto dei sovrani dei regni separati venuti in seguito. Anche all’epoca dei grandi successi bellici nelle guerre di liberazione e subito dopo il prestigio della monarchia era molto altoq4. Il re riceveva tramite l’unzione lo «spirito» di Jahvè, non aveva ancora accanto a sé un potere clerico-sacerdotale permanente capace di una concorrenza efficace, offriva personalmente i sacrifici a Dio indossando i paramenti sacerdotali (secondo la tradizione lo faceva Davide) e disponeva in materia di cariche sacerdotali e di luoghi di culto quasi con la stessa libertà di un grande re mesopotamico. Per questa tradizione il re era quindi il «Messia», l’«unto» (ha-mashìah) di Jahvè, come dopo l’esilio il Gran Sacerdote. L’unzione, che apparentemente non era necessaria in caso di normale successione al trono ma che veniva impiegata dai profeti per legittimare gli usurpatori (Davide, Jehu, con l’aggiunta presumibilmente posteriore di Saul, in una delle tre tradizioni) ed era probabilmente un antico uso dei principi indigeni delle città (forse di Gerusalemme), acquistò un significato ritualer4.
Un’altra branca della tradizione risente invece dell’influsso del declino del potere del paese e del crescente prestigio dei profeti. Questa tradizione insegna quindi che prima che Israele si desse un re il Dio della lega in persona e solo lui era stato direttamente il sovrano; che egli non aveva avuto bisogno di quell’apparato fondato sugli uffici, le imposte e il lavoro servile come i re attuali: manifestava di volta in volta la sua volontà al suo popolo tramite i veggenti e gli eroi del passato e quando il popolo gli aveva dato ascolto era sempre venuto in suo aiuto. Più ancora che nel Regno del Sud, dove influiva la vicinanza di Gerusalemme, questa disposizione sembra essere stata quella dominante presso i contadini efraimiti. Tra i profeti Osea fu il primo ad esprimerla. Attentare direttamente al prestigio della dinastia davidica — l’unica che si manteneva saldamente sul suo trono — con la richiesta di abolire la monarchia, difficilmente era possibile nel Regno del Sud. Di conseguenza il programma qui si limitava all’eliminazione delle innovazioni introdotte dalla monarchia. Innanzitutto in campo politico: occorreva abolire il militarismo con i suoi destrieri e i suoi carri, il tesoro della corona, l’harem con le principesse straniere e i loro culti, i favoriti del re come funzionari, il lavoro servile agricolo e edile dei sudditi. Il monarca, diceva il Deutoronomio, doveva abbandonare gli altezzosi atteggiamenti sultaneschi dei grandi re e ridiventare un primus inter pares carismatico senza tanti carri e destrieri, vale a dire un saggio giudice che cavalca su un asino e un difensore della gente semplice. Allora Jahvè, l’antico Dio della lega, sarebbe stato con lui, come era stato in passato con l’esercito contadino contro le forze nemiche, per quanto superiori queste potessero sembrare, a patto però, e questa era la condizione preliminare a tutto il resto, che il re rinunciasse alle pretese di una politica a livello mondiale, causa di tutte quelle innovazioni. Vedremo come gli interessi di potere sacerdotali e le ideologie dei teologi si trovassero d’accordo su questo programma che di fatto la legge deuteronomica cercò di attuare sotto Giosia, alcuni decenni prima della distruzione di Gerusalemme.
La monarchia in Israele non era una monarchia patrimoniale del benessere53 bensì era alleata con il potere dei gibborim. I fautori dell’antica tradizione si opponevano perciò all’una e agli altri. Questa tendenza si manifesta con particolare violenza negli oracoli dei profeti scrittori del periodo preesilico. Della posizione e dell’importanza politica di questi nell’insieme si parlerà più avanti. Qui ci interessano i rimproveri che essi riprendono dalla critica popolare della situazione socio-politica. In testa vengono l’accettazione di doni, la corruzione, l’interprelazione parziale della legge (Amos, 2, 6; Isaia, 1, 23; 5, 3) a causa delle quali «la giustizia è trasformata in fiele» (Amos, 6, 12), viene preso il prezzo del sangue (Amos, 5, 12), viene versato sangue innocente (Isaia, 1, 15; 7, 6; 22, 3), il popolo viene angariato (Michea, 3, 2-3), il giudizio viene distorto a vantaggio degli empi e a danno dei poveri, delle vedove e degli orfani (Isaia, 10, 2) e dei giusti (Amos, 5, 12), al posto della giustizia viene praticata la violenza (Geremia, 7, 6; 22, 3) e la vessazione (Isaia, 5, 7), si accumula casa su casa e campo su campo (Isaia, 5, 8; Michea, 2, 1), i poveri (Amos, 8, 4), in particolare i «poveri alla porta» (Amos, 5, 12), cioè le popolazioni contadine dominate dal patriziato urbano, vengono oppressi, si tolgono loro grosse quantità di frumento (Amos, 5, n), le donne e i bambini vengono cacciati dai loro poderi (Michea, 2, 9), si perpetra l’ingiustizia contro i bisognosi (Amos, 4, 1), i ricchi sperperano in festini il ricavato dei vestiti dati loro in pegno (Amos, 2, 8), malgrado il divieto di pignoramento. I ricchi sono altezzosi (Amos, 6, 4 e seg.; cfr. Isaia, 3, 16), i gibborìm bevono smodatamente (Isaia, 5, 22; cfr. 5, 11) e il vizio capitale è l’avarizia (Amos, 9, 1 e dopo l’esilio anche Abacuc, 3, 9). Si tratta delle accuse sollevate in tutto il mondo ma soprattutto in Occidente in epoca pre-capitalistica — antichità, alto Medioevo dagli strati plebei di volta in volta contro i funzionari di corte o contro il patriziato urbano, che sono espresse per esempio nell’antichità ellenica per bocca di Esiodo. In Israele, come abbiamo visto, la monarchia e le ricche schiatte economicamente atte alle armi erano strettamente legate; i funzionari del re erano scelti perlopiù tra i patrizi. Questi tipici contrasti sociali vengono in luce molto chiaramente nella profezia.
II. Recezione e carattere del Dio guerriero della lega
Sempre e ovunque la tradizione di biasimo per le citta e di ostilita alia monarchia si richiama all’antico patto che Jahve tramite Mose avrebbe concluso in passato con Israele a differenza di tutti gli altri popoli, e a queirevento storico unico ncl suo genere che starebbe alia base di un patto egualmente unico nei suo genere. E di fatto la condizione particolare di Israele — il patto non solo sotto la garanzia di Dio ma con Dio stesso come controparte — evidentemente era davvero prodotto di quell’avvenimento concreto cui tutta la tradizione israelitica fa risalire unanimamente la successiva conclusione del patto. Per tutti i profeti infatti, il segno tanto del potere di Dio quanto dall’eterno debito di riconoscenza di Israele verso di lui era la liberazione dalla servitù egiziana attraverso l’annientamento miracoloso di un esercito egiziano nel Mar Rosso. Il tratto particolare di questo evento sta nel fatto che il miracolo venne compiuto da un Dio fino allora estraneo a Israele che solo dopo venne accolto come Dio della lega con un solenne berith e con l’istituzione del culto di Jahvè sotto la direzione di Mosè. Questa recezione però ebbe luogo sulla base di promesse reciproche tra le due parti sotto la mediazione del profeta Mosè. Le promesse del popolo creavano il suo speciale impegno permanente nei confronti di Dio e le promesse offerte in cambio da Dio facevano di lui in senso eminente, come nessun altro dio che la storia del mondo conosca, il «Dio della promessa» per Israele. Questa è la concezione inequivocabile della tradizione. Essa costituisce l’evidente presupposto di quel concetto di «defezione» da Jahvè come una specifica fatale trasgressiones4, concetto che non si trova in nessun luogo del mondo circostante ma le cui premesse figurano già nel Cantico di Debora. E soprattutto questo concetto costituisce la base ideale indispensabile che ha permesso alla profezia e alla predizione di salvezza di raggiungere un’importanza mai avuta altrove.
È vero che da sempre ricchezza, longevità, una discendenza numerosa e un buon nome hanno formato in tutto il mondo l’oggetto delle promesse dei sacerdoti e dei mistagoghi a chi adorava il loro dio, nonché delle promesse che i re si facevano fare dai profeti di corte. Del pari era ovvio dappertutto che il dio guerriero della tribù o il dio del re stesse al suo fianco contro i nemici. Lo stesso avveniva anche in Israele. Una numerosa discendenza, un popolo che diventa come i granelli di sabbia lungo il mare, la vittoria sui nemici, la pioggia, delle ricche messi ed un possesso sicuro e infine il nome dei grandi antenati leggendari e quello del popolo benedetto usati a loro volta come termini di benedizione: queste erano le cose attese da parte del potente Dio della lega che il popolo aveva recepito. Ma poiché il rapporto con lui si fondava su di un berith questa speranza acquisiva una base estremamente solida e veniva considerata come fondata su una promessa esplicita, un giuramento di Dio. Le promesse in origine non vengono presentate come legate a particolari condizioni e la loro formulazione più antica, nella tradizione, non le fa dipendere da un particolare comportamento, magari specificamente etico, di Israele. Sono invece legate ad una sola, ovvia, condizione e precisamente questa: Jahvè è il Dio di Israele e come tale Israele deve trattarlo; allora sarà dappertutto con il suo popolo. Solo questo importava e questa era l’unica cosa che i portatori militaristici dello «spirito» di Jahvè, i nazirei e i nevijìm, i combattenti della fede, sapevano e — come già il Cantico di Debora — inculcavano alle milizie. La concezione dell’«idolatria» come peccato ?— per il resto totalmente estranea alle religioni antiche — acquistò in questo modo il suo significato incisivo.
Solo il suo giuramento, nient’altro, induce Jahvè — come sottolinea ancora il Deuteronomio (7, 7) — a preferire Israele a tutti gli altri popoli, e non quindi l’eventuale superiorità morale di Israele. Tuttavia già questo non corrispondeva alle concezioni popolari secondo le quali — come per ogni popolo gli altri popoli erano inferiori agli Israeliti e quindi dovevano apparire tali anche agli occhi di Dio. E la loro inferiorità, come dappertutto, si fondava proprio sul fatto che essi avevano altre abitudini di vita e facevano cose che «nessuno ha mai fatto in Israele». E poiché Jahvè, tramite il berith, veniva associato agli ordinamenti rituali e sociali della lega, il motivo dell’inferiorità degli altri popoli agli occhi di Jahvè stava proprio nel fatto che questi non conoscevano i suoi ordinamenti o perlomeno non li osservavano. Questa motivazione negativa della distinzione fatta da Jahvè appare anche nel Deuteronomio unita alla concezione religiosa.
Ma la concezione di coloro che erano interessati alla religione era già allora più avanzata. In tutto il mondo gli dèi proteggono l’ordinamento sociale, puniscono la sua violazione, premiano la sua osservanza. La concezione del rapporto con il Dio della lega come berith doveva fondarsi con particolare intensità su questa credenza non appena qualcosa avesse dato agli uomini motivo di interrogarsi sulla ragione del comportamento di Dio. Questo motivo nasceva con il declino del potere politico di Israele. Si può vedere chiaramente come il ricordo di Mosè e del patto e anche l’importanza del concetto stesso di «patto» avevano conosciuto un temporaneo declino sotto l’influenza dell’abbagliante potere politico della monarchia, risalendo però in seguito fino ad un nuovo apice, poco prima del periodo dell’esilio e poi nel corso della redazione della tradizione sacerdotale durante l’esilio; era la naturale conseguenza del declino del prestigio delle autorità politiche e dell’interrogativo circa i motivi di questa decadenza. L’antico diritto dei tempi del patto e l’osservanza dei comandamenti di Jahvè come condizione della sua grazia venivano in luce adesso con maggior vigore ed improntavano le speranze per il futuro collegate ora al presupposto dell’obbedienza agli antichi comandamenti; l’idea del «patto» veniva in tal modo a costituire, come presso nessun altro popolo, la dinamica specifica delle concezioni etiche della dottrina sacerdotale e della profezia.
La concezione secondo cui il rapporto religioso di Israele con Jahvè sarebbe caratterizzato in modo esauriente dal concetto del «patto» concluso con Jahvè stesso era stata trovata già pronta, come materia certa, dai profeti scrittori. è vero che le minacce di sventura contro Israele, caratteristiche dei profeti, mancavano ancora nelle tradizioni considerate genuinamente «j ah vista» ed «elohista». Anche quella che è presumibilmente la più antica delle grandi promesse fatte da Dio ad Abramo (Gen., 15, 18-21), cioè quella che gli assegna il dominio su tutto il paese Canaan (secondo un’aggiunta: dal confine dell’Egitto fino all’Eufrate!) risale solo a quella che Wellhausen chiama la versione «geovista», cioè all’epoca dei profeti. Anche questa promessa è suggellata da un formale berith rituale di Dio con il patriarca. Il giuramento divino è qui la conseguenza della fede incondizionata di quest’ultimo in Dio il quale gliela «conta come giustizia». Questa è chiaramente una formulazione secondaria, perché molto astratta. Corrisponde alla forma tramandata dalla versione esilica (Gen.,12, 2 e seg.). Ma la concezione dell’importanza della semplice obbedienza in quanto tale deve senz’altro essere più antica. Infatti il racconto, per esempio, del sacrifìcio di Isacco come paradigma dell’autentica fede incondizionata sembra essere stato redatto in epoca preprofetica («elohista») anche se l’esplicito rinnovo della promessa solenne di Dio in questa occasione sembra essere un’aggiunta posteriore. La formulazione del contenuto del berith come promessa che ricompensa l’obbedienza è anch’essa posteriore nella nostra versione. Ma già all’inizio dell’èra dei profeti scrittori il concetto stesso di berith era così radicato che uno dei primi di questi profeti, Osea, poteva interpretare il significato religioso del rapporto con Dio come un matrimonio e ogni violazione dell’impegno di Israele come un adulterio nei confronti di Jahvè. E nulla mostra più chiaramente la piena e stabile validità di questo antichissimo principio fino a tempi più recenti del fatto che i canti d’amore in parte estremamente «liberi» della raccolta inclusa nel canone odierno sotto il nome di «Cantico dei Cantici» potessero acquisire, per un mondo di posteri in verità già fortemente permeato di umori «pietistico-sentimentali», il significato di un’espressione adeguata del rapporto di Jahvè con il suo popolo. La «gelosia» (kinah) di Jahvè nei confronti degli altri dèi era quindi uno dei suoi attributi più stabili presso tutti i profeti da Osea ad Ezechielet4.
È proprio la più antica delle due grandi raccolte di fonti, cioè quella cosiddetta «elohista», a dirci in maniera inequivocabile che Jahvè era un dio recepito di recente dalla lega guerriera israelitica attraverso l’ordinamento mosaico del cultou4. Secondo la più antica tradizione, conservata anche dalla benedizione di Efraim, Dio appare in un’inattesa epifania a Mosè. Mosè è presentato come un pastore israelita al servizio dei Madianiti, e Dio gli appare come una lingua di fuoco tra la sterpaglia di un roveto del deserto presso Horeb. Il Dio, da lui interrogato circa il suo nome, risponde in maniera evasiva, secondo la versione della tradizione, con un gioco di parole etimologico: «Io sono colui che sono», ma facendo nello stesso tempo anche il nome apparentemente non israelitico di «Jahvè»v4. Il Dio dei Patriarchi, con il quale più tardi venne identificato, non portava ancora in questa fonte più antica il nome di Jahvè ma solo il nome «E1» in diverse combinazioni di cui quella più apprezzata nella tradizione posteriore dei sacerdoti divenne «El Shaddaj», che anch’essa, etimologicamente, non è certo un’espressione israelitica. Tanto «Mosè» che «Pinehas» sono nomi egiziani e, secondo la tradizione, Aronne e Miriam rinfacciano a Mosè la moglie «kushita»: si tratta di reminiscenze di antiche discordie tra stirpi sacerdotali in cui tuttavia sopravvive una notizia e cioè che anche più tardi Jahvè e i suoi sacerdoti erano considerati dei mezzi o completi stranieri. è ovvio che per un’epoca in cui l’Egitto dominava la Palestina e il deserto del Sinai i nomi egiziani non possono costituire una prova dell’origine egiziana del fondatore della lega né tantomeno del suo Dio, come i nomi babilonesi o ellenici degli Ebrei dell’epoca posteriore non ci dicono nulla sulla loro ascendenza. Tuttavia a Mosè, a differenza di Giosuè, manca in origine il contrassegno della discendenza da stirpe israelitica (introdotto solo più tardi, e artificialmente); inoltre, anche l’origine levitica della schiatta sacerdotale che con la massima probabilità risale a lui (quella degli Elidi) è una costruzione posteriore.
Comunque sia, l’antica tradizione in ogni caso mostra chiaramente che il Dio in questione era già adorato fuori di Israele quando venne accolto. Evidentemente, tra le tribù di beduini e delle oasi dei territori confinanti a sud con Israele, egli godeva di un culto organizzato. Sin dall’inizio la sua sede era sui monti, tuttavia per la tradizione più antica il suo autentico luogo di culto era l’oasi di Qades nel deserto del Sinai, dove veniva mostrata la tomba della profetessa Miriam e dove si sono svolti presumibilmente atti decisivi della costituzione di Israele. Presso le «acque della contesa» di Qades (Deut., 33, 8), cioè presso la fonte di quell’oasi dove i suoi sacerdoti trasmettevano oracoli processuali, era situato il luogo più importante, per l’origine dei Leviti, del culto organizzato di Jahvè. Il suo sacerdote Ietrow4 che nella tradizione è suocero e consigliere di Mosè viene presentato come madianita. Lo stesso vale per la figura, avvolta nella leggenda, di Balaam il quale profetizza in nome di Jahvè: egli viene presentato come un veggente straniero, talvolta moabita, talvolta ammonita, ma secondo l’interpretazione più corretta senza dubbio edomita o madianita, che gli Israeliti più tardi uccidono in guerra. Resta da vedere come sia possibile conciliare gli eventi di Qades con la residenza stabile di Dio sul Sinai e la conclusione del patto che una tradizione più recente trasferisce in quel luogo.
Gli Edomiti spinsero molto presto le loro conquiste fino ai confini egiziani. Edom, in particolare la montagna selvosa di Seir (dimora di Esaù [Gen., 33, 3], il fratello maggiore di Giacobbe) dove si stabilirono più tardi anche stirpi appartenenti alla tribù precedentemente dispersa di Simeone (I Cron., 5, 41-42), era ancora considerata all’epoca di Geremia e di Abdia l’antica sede della saggezza di Jahvè. La stirpe levitica dei Korahiti (Es., 6, 21) sembra risalire originariamente a Esaù (Gen., 36, 5); sarebbe cioè di provenienza edomitica. Da Seir, nel Cantico di Debora, Jahvè procede verso la battaglia, e di là il poeta autore del bel canto della guardia notturna incluso nell’oracolo di Isaia ode ancora, malgrado l’aspra ostilità che regna allora contro Edom, il richiamo: «quanto durerà ancora la notte?». I Keniti, più tardi adoratori particolarmente zelanti di Jahvè, non appartenevano in origine né alla tribù di Giuda né tantomeno a Israele per il quale Caino, tanto nella leggenda deH’assassinio quanto in quella delle antiche benedizioni e maledizioni di Balaam, era un maledetto. L’ipotesi che il Sinai, più tardi identificato con Horeb, fosse un vulcano sulla costa arabica nord-occidentale, vicino al Mar Rosso, a est dell’odierna cosiddetta penisola del Sinai, incontra molti dubbi. Comunque neppure la leggenda ha mai asserito che il Sinai appartenesse al territorio di Israele. Lo stesso vale per Qades. Ed è altrettanto certo che Jahvè, nell’antica tradizione non è considerato né il Dio originario di Israele, né il Dio di Israele soltanto, né un Dio residente in Israele. Solo la versione finale dell’Esateuco, che fa di Jahvè un Dio universale, dà per scontato che anche i Patriarchi non abbiano adorato nessun altro dio all’infuori di lui. Per l’antica tradizione invece è ancora, nella leggenda di Iefte, un dio accanto ad altri, solo particolarmente potente ed eminente. Inoltre, pur essendo il «Dio di Israele» e per Iefte «il mio Dio», come Kamos54 è il dio del re degli Ammoniti, tuttavia lo è in un’accezione particolare. è un «Dio che viene da lontano», che dalla sua remota sede sui monti, vicino al cielo, interviene a piacere e talvolta personalmente sugli eventi. Questa «lontananza» gli conferisce sin dall’inizio una particolare maestà. è vero che secondo una delle antiche tradizioni gli Anziani in persona si sarebbero seduti alla sua tavola nel Sinai. Ma l’opinione prevalente dell’epoca posteriore era che di tutti gli uomini solo Mosè aveva incontrato Dio faccia a faccia (Num., 12, 6 e seg.) e che in seguito a ciò il suo volto emanava un tale splendore soprannaturale da dover essere nascosto al popolo: una reminiscenza, forse, delle antiche maschere dei terafìm di cui dovremo ancora parlare. Ne consegue anche la particolare opinione (Es., 33, 20) secondo cui Mosè, in seguito alla sua preghiera, potè vedere Dio passare accanto a sé solo di schiena perché chiunque scorgeva il suo volto moriva. Non è stato quindi il vecchio dio familiare di un luogo o di una tribù ma una figura estranea e misteriosa a consacrare la confederazione israelitica.
L’annientamento dell’esercito egiziano, evento al quale la tradizione fa risalire l’enorme prestigio di questo dio, ebbe luogo evidentemente con un improvviso riflusso del Mar Rosso a est della penisola del Sinai seguito da un’altrettanto improvvisa mareggiata; è abbastanza probabile — come indicano le colonne di fuoco e di nubi e le vampe di fuoco sul monte — la loro connessione a fenomeni vulcanici di qualche sorta. Tanto questa catastrofe sul Mar Rosso quanto il soggiorno di Israele in Egitto sono stati più volte messi in dubbio. Ma dalle fonti egiziane risulta che gli allevatori di bestiame della steppa che in caso di siccità o di pericolo cercavano protezione in qualità di meteci non erano un fenomeno inconsueto; è quindi ovvio che venissero adibiti di tanto in tanto a lavori servili per conto del re ed è anche naturale che in determinate occasioni si sottraessero all’onere della corvée. Poiché le fortificazioni lungo la frontiera, alle quali gli Israeliti avrebbero collaborato, sembrano essere state elevate sotto Ramses II, mentre sotto il suo successore Merenptah Israele viene già nominato come un nemico che risiede in Palestina, le date dell’immigrazione e dell’esodo risultano particolarmente difficili da stabilire se nello stesso tempo si identificano i «Khabiru» che appaiono molto prima, sotto Amenofi III55 e Amenofi IV, come nemici in Palestina, con gli ’ivri, «quelli che stanno di là», cioè senza dubbio i transgiordani, come venivano designati nella tradizione gli Israeliti e altre tribù considerate imparentate con lorox4 dal punto di vista degli stranieri. In bocca agli Israeliti stessi però questa espressione, eccetto che per il pastore nomade Abramo che viene sempre chiamato «l’Ebreo», si trova una sola volta nel Libro del Pattoy4 e per il resto quasi solo nei rapporti con gli stranieriz4.
Si può dare per certo che le tribù più tardi riunite nella lega israelitica si sono riversate in ondate successive sulla Cisgiordania e che anche la composizione della lega stessa è mutata includendo da un lato Cananei, dall’altro tribù di beduini. è altrettanto certo che non tutte le tribù che figurano più tardi in Israele, o i loro antenati, hanno soggiornato in Egitto. Secondo la tradizione che dà più affidamento, perché è la più ovvia, la tribù di Giuda, formatasi molto più tardi, penetra da sud e non da est nelle terre dove risiederà. Rimane incerto se dietro la tradizione di Abramo (o Abram) si cela un’immigrazione antecedente, che risale forse all’epoca di Amarna, di una parte degli Israeliti provenienti dalle steppe mesopotamiche. Lo suggerisce l’analogia con i Fenici che (anche se è improbabile) si dice siano immigrati dal Golfo Persico, e quella con una parte dei nomadi Sa Gaz presumibilmente immigrati dalle frontiere della Mesopotamia. Il fatto non appare impossibile. Il nome — Abiram — è frequente a Babilonia. è vero che la religiosità attribuita ad Abramo non contiene tratti babilonesi riconoscibili. Tuttavia la tradizione di Kudur-Laomer56 costituisce una caratteristica sorprendente. Anche altri tratti della tradizione fanno presumere che l’invasione del paese è avvenuta per ondate successive. Ma il nucleo primitivo dell’antica lega israelitica, quella del Cantico di Debora, risale comunque — tanto nelle raccolte di benedizioni quanto nella tradizione sacerdotale — al patto concluso da Mosè, allo scopo di conquistare e mantenere la Cisgiordania, con il Dio che aveva operato il miracolo del Mar Rosso. Sulla storicità della persona di Mosèa5 non vi è motivo di dubitareb5. Si tratta solo di vedere quale carattere particolare vada attribuito alla sua opera.
È assolutamente impossibile fare una ricostruzione veramente valida, sul piano storico, di tale opera. A prescindere da altre difficoltà insormontabili, l’idea che oggetto del berith sia stata una legge (come il Libro del Patto) o una serie di doveri etici (come il Decalogo) è del tutto antistorica e rappresenta una concezione pragmatica. I contenuti più probabili di questo affratellamento, che forse non era nemmeno il primo del suo genere, appaiono essere, per motivi strettamente oggettivi e in base a tutte le analogie ivi comprese quelle islamiche: l’adozione, al posto del culto vigente fino allora, di nuovi riti, evidentemente molto semplici e conformi al mondo circostante (culto senza immagini, forse la circoncisione, senza dubbio l’oracolo per sorteggio) nonché di alcuni semplicissimi ordinamenti socia li di fratellanza appropriati ad una milizia di conquistatori nomadi delle steppe, e infine il prestigio della profezia di guerra in quanto tale. La particolare asprezza con cui il Dio condannava l’omicidio di un membro del proprio popolo o la violazione della legge dell’ospitalità, e il rigido tabù sul bottino si adattano ugualmente a questa presunta origine. Possiamo presumere senza peccare di imprudenza eccessiva che tali erano (esplicitamente o di fatto) gli impegni presi da Israele con il berith. Non contengono in sé nessun elemento che non appaia in veste storica anche altrove in circostanze analoghe.
E Jahvè? Era e rimase sempre il Dio della liberazione e della promessa. Ma il fatto importante è che tanto la liberazione quanto la promessa riguardavano cose politiche e attuali e non cose del mondo interiore. Il Dio offriva liberazione dalla schiavitù egiziana, non da un mondo fragile e insensato; prometteva il dominio su Canaan che si voleva conquistare, ed una libera esistenza in quel paese, non prometteva beni trascendentali. Proprio questo naturalismo primitivo e non intaccato e quelle caratteristiche rituali che risalgono a condizioni culturali primitive sul piano materiale e sociale divennero i fattori importanti. E questo proprio nel processo di fusione, iniziato subito dopo l’immigrazione, con gli elementi diffusi ovunque di una cultura razionale e spiritualmente differenziata. Esiste infatti un fenomeno universale per cui i processi di assimilazione culturale in genere producono forme del tutto nuove e originali proprio laddove si presenta l’occasione e la necessità di una fusione con una serie di rappresentazioni che dal canto loro non sono ancora sublimate né stereotipate dall’impronta sacerdotale, burocratica o letteraria e quindi costringono le antiche strutture razionalizzate ad adattarsi a condizioni completamente nuove e relativamente semplici.
Le concezioni israelitiche, che risalgono esclusivamente alla fondazione mosaica, misero di fronte a questa necessità gli elementi della cultura orientale diffusi nel paese di Canaan. Ma quali sono stati i loro tratti caratteristici che hanno portato avanti questo processo? E quindi, in primo luogo, quali erano i tratti del Dio che Mosè, secondo la tradizione, introdusse nella lega israelitica (non importa come sia stata creata), e cosa caratterizzava il suo rapporto con Israele?
Nell’antica tradizione Jahvè presenta diverse qualità caratteristiche. Ma ha in comune con gli antichi dèi ellenici e altri dèi di popoli guerrieri il gran numero di tratti antropomorficic5 che gli sono attribuiti proprio nelle parti più antiche della tradizione (quella cosiddetta «jahvista»), e in particolare quelle che provengono dalle regioni del Sud. Vi è un tratto che gli è stato attribuito se non dappertutto e forse non sin dall’inizio, pur tuttavia molto presto, rimanendo poi un suo attributo stabile, e che è difficile trovare in altri contesti con la stessa intensità. Si tratta della vicinanza di Jahvè, o in certe circostanze anche della vicinanza di «uomini di Dio» colti dal suo «spirito» (ruach), vicinanza che è paurosa e pericolosa, mentre il suo sguardo, come abbiamo visto, è mortale. Il concetto di santità, caratteristico in modo particolare per Jahvè, spiega (come oggi viene generalmente assunto in seguito agli studi del conte Baudissin), da solo o come fattore essenziale, questo suo originario carattere inavvicinabile e segregato — dovuto al pericolo di ogni sguardo o contatto con il Dio — rispetto a tutti gli uomini e oggetti non appositamente qualificati sul piano rituale per sopportare la sua vicinanza. Quest’importante qualità si collega in parte evidentemente all’antica esclusione delle immagini dal suo culto, di cui si dovrà ancora parlare, ma soprattutto alla sua natura e al carattere delle sue manifestazioni che esamineremo ora.
Jahvè assomiglia al dio indiano Indra, essendo come questo, perlomeno per Israele, in primo luogo e soprattutto un Dio della guerra. è chiamato «un guerriero» (ish ha-milchamah) in una variante di un antico racconto (Es., 18, 25). è assetato di sangue, il sangue dei nemici, dei disobbedienti, delle vittime. Soprattutto la sua passione è violenta. Nella sua collera distrugge i nemici con il fuoco o li fa inghiottire dalla terra, li precipita nel mare come i carri degli Egiziani secondo i due antichi versi della danza di Miriam, o fa impantanare i loro carri in un torrente gonfiato dalla pioggia, come quelli dei Cananei nel combattimento di Debora, affinché i contadini israeliti li possano massacrare, come accadde una volta ai cavalieri latini in Grecia all’epoca delle ultime crociate. Anche presso i profeti il suo tratto dominante è la sua terribile ira e la sua potenza bellica. Ma anche la sua grazia è grandiosa al pari della sua collera. Infatti il suo cuore appassionato è mutevole. Si pente di aver fatto del bene agli uomini, se questi lo ricambiano in male, poi si pente di nuovo della sua ira eccessiva. La tarda tradizione rabbinica gli mette addirittura in bocca una preghiera (!) che la sua misericordia abbia il sopravvento sulla sua ira. Arriva personalmente nella tempesta per aiutare le milizie. Aiuta senza scrupoli i suoi amici, come Atena aiuta Ulisse, anche con l’astuzia e l’inganno. Ma non si è mai sicuri di non suscitare la sua ira con un’offesa involontaria o di non essere assaliti del tutto inaspettatamente e senza motivo, da un nume divino della cerchia dei suoi spiriti, ed essere minacciati di annientamento. Lo «spirito», il ruach, di Jahvè, in epoca pre-profetica, non è né una potenza etica né una figura religiosa stabile, ma un’acuta forza demoniaco-soprannaturale, di caratteri svariati ma perlopiù spaventosi. I selvaggi eroi guerrieri carismatici delle tribù israelitiche, Berserker come Sansone, nazirei, e nevijìm estatici, si sanno in preda a questa forza e si sentono i suoi seguaci. Tutti i profeti e le profetesse di guerra appaiono in nome di Jahvè; anche coloro che portano un altro nome teoforo (il nome di Ba’al), come Yerubbaal, assumono come capi guerrieri un nuovo nome (Gedeone).
Jahvè, al pari di Indra57, era adatto a qualificarsi come Dio della guerra perché come quest’ultimo era in origine un Dio delle grandi catastrofi naturali. Terremoti (I Sam., 14, 15; Is., 2, 12 e seg.; 46, 7), fenomeni vulcanici (Gen., 19, 24; Es., 19, 11; Salmi, 46, 7), fuochi sotterranei (Is., 30, 27) e celesti, vento del deserto da sud e sud-est (Zacc., 9, 14) e tempeste sono i fenomeni che accompagnano la sua comparsa; come per Indra i fulmini sono i suoi dardi (Salmi, 18, 15): ciò vale ancora per i profeti e i salmisti. Nella serie delle catastrofi naturali, per la Palestina, figurava anche la piaga degli insetti e soprattutto delle cavallette che il vento di sud-est portava nel paese. Di conseguenza Dio tormenta il nemico del suo popolo con le cavallette, manda contro di lui sciami di calabroni per gettarlo nella confusione, e invia masse di serpenti per punire il suo stesso popolo. Infine ci sono le epidemie (Osea, 13, 14). Dio colpisce con la peste gli Egiziani come pure i Filistei e altri che mettono le mani sulla sua Arca Santa (I Sam., 4, 8; 6, 6 e 19). Il caduceo dei suoi sacerdoti nel tempio di Gerusalemme è senz’altro segno del suo antico ruolo di dio della pestilenza. Infatti, come «signore» della malattia aveva anche il potere di tenerla lontano e di curarla, come dappertutto nello stesso caso. Tutti i fenomeni naturali terrificanti e fatali appartenevano quindi al dominio del Dio: riuniva in sé i tratti di Indra con quelli di Rudra.
Accanto a questo carattere selvaggio, da guerriero e da mito naturale, Jahvè presentava poi dei tratti più benigni, già nell’antica tradizione, come Dio della pioggia. Egli richiama insistentemente l’attenzione del suo popolo sul fatto che in Israele i frutti ricavati dalla terra non dipendono, come in Egitto, dall’irrigazione — cioè non sono il prodotto dell’amministrazione burocratica di un re terreno e dello specifico lavoro dei contadini — ma dipendono dalla pioggia elargita da lui, Jahvè, secondo il suo buon volere ed il suo arbitrio. Le violenti piogge temporalesche, proprie in particolare alle steppe confinanti con il deserto, erano opera sua. Sin dall’inizio, la pioggia ha avvicinato Jahvè all’individuo e ai suoi interessi economici e ha facilitato la successiva infiltrazione nella sua immagine dei tratti sempre più salienti di un Dio benigno della natura e del cielo. Questa sublimazione e razionalizzazione dell’immagine di Dio in savio reggitore dell’universo avvenne soprattutto sotto l’influenza delle concezioni intorno alle supreme divinità celesti, diffuse nelle aree culturali circostanti ed anche in Palestina. Vi contribuì anche, come vedremo, la credenza nella provvidenza sviluppatasi presso gli intellettuali israeliti. Non scomparvero però mai dalla sua immagine i tratti del terribile Dio delle catastrofi, derivanti dall’antico Jahvè. Questi tratti hanno un ruolo decisivo in tutti quei mitologemi e quelle immagini influenzate dalla mitologia il cui uso conferisce al linguaggio dei profeti la sua incomparabile grandiosità. I processi naturali retti da Jahvè costituiscono, fino a molto in là nel periodo esilico e post-esilico, le più importanti dimostrazioni della sua potenza, non le prove di un saggio governo. L’insieme delle qualità di Jahvè, immutate fino al periodo post-esilico e che ne facevano il Dio delle terribili catastrofi naturali, non dell’ordine eterno della natura, è determinato — oltre che dalla generale connessione tra questi eventi e la guerra — anche sul piano puramente storico dal fatto che Dio si era servito di questa sua potenza innanzitutto contro gli Egiziani, poi, nella battaglia di Debora, contro i Cananei, e del pari più tardi, in combattimento, contro i nemici di Israele. Gli veniva attribuito il «terrore di Dio» (cherdath Elòhìm, I Sam., 14, 15), cioè il panico suscitato nei nemici da eventi naturali, in particolare terremoti (loc. eh.) e violenti temporali (battaglia di Debora); un panico di questo tipo (quello degli Egiziani), determinato da fenomeni vulcanici, aveva portato alla recezione del Dio. Questo non venne mai dimenticato.
Sul piano pratico però il fatto più importante era che Jahvè, malgrado questo suo carattere, fu sempre, almeno per l’antico Israele, anche il Dio di una formazione sociale. Anche questo va inteso in senso particolare. Egli era, come dobbiamo supporre, sin dai tempi di Mosè, il Dio della lega israelitica e, conformemente allo scopo della lega, era soprattutto il suo dio della guerra. Ma lo era in un modo specifico. Lo era diventato con un patto di alleanza. E questo patto, oltre che tra i membri della lega, si era dovuto concludere anche con lui stesso, perché egli non era un dio già nato o residente in mezzo al popolo, ma un dio fino allora estraneo e che rimase un «dio che viene da lontano». Questo era l’elemento decisivo del rapporto. Jahvè era un dio eletto. Il popolo lo aveva prescelto concludendo con lui un berith come più tardi nominò il proprio re tramite un berith. E viceversa anche Javhè aveva prescelto questo popolo tra tutti gli altri con una libera decisione. Più tardi continuerà a ricordarlo al popolo attraverso la Torah sacerdotale e l’oracolo profetico; per libera e graziosa concessione aveva scelto questo popolo e nessun altro come suo popolo, gli aveva fatto delle promesse che non aveva fatto a nessun altro, accettandone in cambio i solenni impegni. Di conseguenza adesso, ovunque il popolo della lega concludeva in tale veste un berith, lui, il Dio, era la controparte ideale. Ogni violazione dei sacri statuti non era quindi solo un’offesa agli ordinamenti che egli garantiva come facevano anche altri dèi, ma era una violazione dei più solenni impegni pattuiti con lui in persona. Chi non rispondeva alla chiamata alle armi della lega, rifiutava di fornire appoggio militare non solo alla lega, ma a Dio personalmente: costui «non è venuto in aiuto a Jahvè». L’esercito della lega (Giud., 20, 1 e seg.) era chiamato «uomini di Dio» (’am ha-Elòhìm).
In questo modo però Jahvè, oltre che dio della guerra patrono della lega, diventò anche parte contraente dei berith che stabilivano il diritto della lega e innanzitutto i suoi ordinamenti giuridico-sociali. Poiché all’inizio la lega in quanto tale era un’associazione di tribù senza organizzazione statale di sorta, i nuovi regolamenti, non importa se di natura giuridica o cultuale, non potevano sorgere in linea di principio che mediante convenzioni (berith) basate su di un oracolo, proprio come il patto originario. Tutte queste norme stavano quindi sullo stesso piano dell’antico rapporto contrattuale esistente tra Jahvè e il popolo. Sotto questo aspetto proprio nel periodo anteriore alla monarchia il berith aveva valore tutt’altro che meramente teorico dal punto di vista del diritto pubblico. Lo stesso vale però anche per le rappresentazioni religiose. In Geremia (2, 5) Jahvè chiede: quale ingiustizia trovarono in me i vostri padri? E d’altra parte Geremia gli ricorda (14, 21) di non violare il suo patto con Israele.
In Israele questo dio della lega considerato come parte contraente non poteva essere visto come un mero dio funzionale di qualche fenomeno della natura o di qualche istituzione sociale. Né era un dio locale nel senso di quelli che si trovano in tutte le città orientali. E nemmeno un semplice dio del «paese». Secondo la concezione vigente, invece, la comunità di individui che formava l’esercito della lega israelitica doveva essere considerata il suo popolo, legato a lui tramite la comunità della lega. Questa era l’autentica concezione classica della tradizione. Il trasferimento del carattere sacro anche sulla proprietà politica del paese diventato la «Terra Santa» è solo una concezione posteriore, presumibilmente dovuta a rappresentazioni eterogenee di Dio derivanti in parte dal culto di Ba’al, in parte dalla localizzazione di Jahvè come Dio della città di residenza del re. Questa concezione è attestata per la prima volta nel periodo della monarchia, poi si ritrova nel Regno del Nord, in occasione della conversione di Naaman da parte di Eliseo.
Come garante degli ordinamenti della lega Jahvè proteggeva gli usi e costumi. Ciò che in Israele era «inaudito» faceva orrore anche a lui. Conformemente al suo carattere originario, però, non era garante del diritto e del costume della lega nel senso in cui lo erano Varuna58 o dèi analoghi, custodi della santità, già esistente di per sé, di un ordine immutabile, sia esso del diritto o di una «giustizia» rapportata a criteri inalterabili. Al contrario, il diritto positivo di Israele era stato creato da un berith concreto con la divinità; non era sempre esistito, e poteva essere cambiato da nuove rivelazioni e nuovi berith con Dio. Non solo S. Paolo ma anche, seppure occasionalmente, già alcuni profeti come Geremia ed Ezechiele ritenevano che Dio aveva imposto al popolo vari regolamenti come un duro giogo o come punizione, proprio come — nel mito popolare
? aveva imposto a Adamo la fatica del lavoro e la morte. Il diritto non era un tao o un dharma eterno ma un’istituzione divina a carattere positivo sul cui contenuto Jahvè discuteva. è vero che il razionalismo etico della scuola deuteronomica più tardi ha indicato talvolta (Deut., 4, 2) la legge di Dio come «eterna» e ha celebrato l’originaria prefezione etica (Deut., 4, 8) dei giusti ordinamenti di Dio che nessun altro popolo possedeva. Ma queste occasionali argomentazioni parenetiche non contengono la tipica presa di posizione che deriva inevitabilmente dal carattere di berith che riveste il diritto. Le disposizioni di Dio sono nelle sue mani e per loro natura sono mutevoli. Egli si può vincolare ad esse mediante un berith ma in tal caso ciò è il risultato di una libera decisione della sua volontà.
Ordinamenti eterni, infatti, si trovano solo nella versione sacerdotale, e quasi tutti sono norme cultuali o norme relative ai diritti degli Aronniti i quali soltanto nel periodo dell’esilio erano giunti a detenere il monopolio del culto. Proprio perché erano innovazioni, queste norme sono state rivestite, in maniera patetica, dell’attributo di eterne (chukath ‘olam: Ex., 27, 21; Lev., 3, 17; 16, 31; 23, T4-31-41; Deut., 2, 1 riguardano ordinamenti cultuali; Lev., 7, 37; 24, 3; Num., 18, 23 ordinamenti di diritto sacerdotale dell’epoca dell’esilio; 1 Gen., 9, 14; berith ’olam, riguarda cioè le costruzioni teologiche dell’alleanza di Noè). L’unica norma «eterna» a carattere mondano, cioè la disposizione secondo cui è stabilito in eterno che Israele e i gerim debbano avere gli stessi diritti è anch’essa un’innovazione creata dai sacerdoti durante il periodo dell’esilio. Tali innovazioni si riconoscono proprio per l’impiego del termine «eterno». Da nessuna parte nell’antica letteratura di Israele si afferma che questo e nessun altro ordinamento sociale va considerato di per sé quello eterno e immutabile, in virtù della sua perfezione intrinseca, e viene per questo custodito da Jahvè. è altamente indicativo il fatto che Dio, su richiesta di Giobbe di rendergli ragione dell’ingiustizia che governa l’esistenza umana, gli appare nella tempesta e non spreca una parola per difendere la saggezza del suo ordine nei rapporti umani, come sarebbe naturale, ad esempio, per un confuciano, ma si accontenta di dimostrare tutta la sua grandezza e la sua potenza sovrana nei fenomeni della natura. Fino al periodo della nascita dell’antica dottrina cristiana del diritto naturale, questo carattere particolare della divinità, storicamente determinato, è stato gravido di conseguenze.
Sin dall’inizio, nella concezione di Jahvè, o meglio nella concezione del particolare rapporto in cui, per motivi puramente storici, la lega israelitica stava con questa divinità, si trovano certi tratti di una posizione che trascende Israele e quindi, in questo senso, di un certo universalismo. Recentemente si è molto discusso per stabilire quale fosse l’atteggiamento dominante nell’antica rappresentazione di Jahvè: se la monolatria (adorazione esclusiva di un solo dei molto dèi), l’enoteismo (il dio invocato viene trattato di fatto come l’unico potente) o il monoteismo (principio del Dio unico). Così formulata la questione è già posta in modo sbagliato. La concezione di Dio non solo ha subito dei mutamenti, ma era anche totalmente diversa in uno stesso momento presso i vari gruppi sociali. Per il guerriero era chiaro che il dio che invocava era il suo dio e di conseguenza il dio dei nemici era un altro: così vengono concepiti, nel Libro dei Giudici (n, 24) con il racconto di Iefte e nel Libro dei Re (II Re, 3, 27) nel racconto della guerra contro i Moabiti, i due dèi Jahvè e Kamosd5. Per il re e per gli abitanti delle città, in particolare i ceti sacerdotali del tempio e quelli patrizi, era chiaro che la divinità era localizzata nel tempio della città, che quindi altrove c’erano altri dèi, che il proprio dio era legato alla vita e alla morte della città e che chi doveva abbandonare la città (o la provincia che le apparteneva) non poteva servire il proprio dio ma doveva servire dèi stranieri (così Davide: I Sam., 26, 19), che viceversa chi veniva da un paese straniero faceva bene a servire il dio locale il quale altrimenti poteva vendicarsi (così fa Jahvè con i coloni assiri in Samaria, II Re, 17, 25-26). Tutto ciò è il prodotto di una cultura urbana. Per gli Israeliti residenti in una città con un tempio, in particolare a Gerusalemme, Jahvè dimorava nel tempio. Naturalmente sin dai tempi antichi l’Arca di Jahvè dava adito a questo tipo di localizzazione. Il rituale tramandato mostra come il guerriero sul campo di battaglia si raffigurava Jahvè presente in questo santuario da campo.
Totalmente diverso era naturalmente il punto di vista delle tribù semi-nomadi allevatrici di bestiame. Nella tradizione che risente della loro influenza va da sé che Dio è con gli Israeliti anche in terra straniera (Gen., 28, 20). Sanno benissimo che Jahvè viene venerato anche da tribù non israelitiche e di conseguenza le loro leggende attribuiscono il culto di Jahvè, come fatto naturale, non solo a Labano (Gen., 24, 50; 31, 49) che era pur sempre un parente, ma anche a Abimelech di Gerar (Gen., 20, n; 21, 23). Nel racconto di Giuseppe (Gen., 41, 39) si possono trovare anche i residui di quella concezione tipica dei popoli commercianti delle civiltà mondiali come i Romani e gli Elleni: l’ingenua identificazione di determinati dèi stranieri con i propri, che si riscontra anche nel giudaismo postesilico, per il dio di Nabucodonosor (da parte di Daniele) e per quello del re dei Persiani.
Nell’insieme però questo tipo di rappresentazione era estranea all’antico Israele poiché Jahvè mediante un berith era diventato il suo Dio. Secondo la concezione originaria ciò escludeva perlomeno che egli potesse essere, nello stesso senso che per Israele, anche il dio protettore personale di re stranieri, come lo erano gli dèi Marduk59 e Ahura Mazda60. I profeti di Jahvè dei tempi antichi, i nevijim ed i veggenti professionisti, palesemente non erano convinti né dell’unità del dio, né del fatto che egli avesse dimora proprio solo in Israele. Avevano in parte una clientela internazionale e la tradizione di Elia presuppone, almeno in un passo (I Re, 17, 9), che anche la vedova di Sidone ricevesse ordini da Jahvè. Del resto se è vero che il loro Dio non era l’unico, tuttavia era naturalmente il più forte di tutti, gli altri in definitiva erano delle «nullità». Questo poteva venire accettato anche dall’antica tradizione guerriera jahvista (Gios., 2, 9). Per questa contava soprattutto la posizione particolare di Israele in virtù del berith. Era fuor di dubbio, per essa, il principio che anche se altri veneravano Jahvè, Israele tuttavia si trovava sotto la sua speciale protezione. Jahvè non era il nemico dei popoli stranieri: a questa concezione si è avvicinato soltanto, occasionalmente, il fanatismo nazionale confessionale dei sacerdoti dopo l’esilio. Ma, come vedremo più avanti, gli importava solo di Israele, come ci si aspetta, in tutti i tempi, da ogni dio o santo locale e da ogni Madonna localizzata; solo che per Jahvè, le rappresentazioni che appaiono simili nel risultato, derivano in origine non dalla localizzazione ma proprio da un (relativo) universalismo e dal particolare berith con Israele.
Queste diverse concezioni, però, vivevano l’una accanto all’altra e la loro contraddizione logica, come al solito, non veniva percepita. In ogni caso ci si deve guardare dal considerare la concezione «più particolaristica» di Dio come quella necessariamente più antica. In un certo senso, e entro certi limiti, è vero proprio il contrario, e nel caso di Jahvè non poteva essere altrimenti. Nell’antico ritmico discorso di Dio in Es., 19, 5 Jahvè, prima di annunciare il contenuto del patto che sta per concludere e che farà di Israele la sua proprietà, si definisce addirittura il «signore di tutto il mondo». Anche questa concezione si trovava di tanto in tanto accanto all’altra già in epoca pre-profetica. In questo senso anche gli dèi di altri popoli rivestono un carattere universalistico. Soprattutto gli dèi dei grandi monarchi venerati nelle capitali degli imperi. In Egitto il dio Ammone, sotto il dominio sacerdotale del tardo periodo dei Ramessidi, rivendicava un potere universale nell’elargizione delle graziee5. Lo stesso sarà proclamato a proposito di Jahvè dai consiglieri e dai profeti di corte dei re israeliti in ricordo del regno davidicof5. Ma la base storica del particolare universalismo (relativo) di Jahvè era un’altra, e cioè il fatto della sua recezione. Jahvè infatti esisteva già, in senso diverso degli altri dèi, prima che Israele gli offrisse sacrifici, e aveva già dato prova del suo potere. Ciò comportava delle importanti conseguenze sul piano del culto. Anche se i sacrifici erano considerati cosa a lui gradita, e di conseguenza un mezzo appropriato per guadagnare il suo favore, era tuttavia difficile che sorgesse quella concezione, così frequente altrove, secondo la quale l’esistenza del dio dipenderebbe dai sacrifici che gli vengono offerti’g5. Jahvè troneggiava maestoso lontano in cima alla sua montagna e non aveva bisogno di sacrifici, anche se li gradiva.
Bisogna notare però che questo determinava, in tempo di pace, nel periodo anteriore alla monarchia, la mancanza di qualsiasi autorità politica o ierocratica che avrebbe potuto offrire sacrifici in nome della lega; non abbiamo infatti alcuna notizia di un simile organo la cui esistenza sembra sia da escludere. Proprio nei tempi antichi quindi il sacrificio non poteva assolutamente acquistare, nel rapporto con Jahvè, quell’importanza che rivestiva altrove. In questo senso i profeti venuti più tardi avevano perfettamente ragione quando, riferendosi non solo all’epoca del deserto ma a quella della lega israelitica in genere, affermavano che allora non si serviva Dio con sacrifici. Poiché la forma specifica con cui il popolo della lega continuava sempre a entrare in contatto con Dio era il berith, era ovvio che l’adempimento dei comandi santificati dal berith venisse considerato perlomeno altrettanto importante se non addirittura più importante dei sacrifici offerti secondo le occasioni dai singoli individui e più tardi dai re e dai sacerdoti del tempio; tale l’opinione sembre ribadita da una parte dei più ortodossi adoratori di Jahvèh5. Nel tardo periodo dei Re vi è sempre stato in Israele un partito — al quale sono appartenuti i più potenti profeti scrittori, come Amos e Geremia -— che teneva sveglio il ricordo di questa situazione di una volta e presentava ogni e qualsiasi sacrificio a Jahvè come una cosa in definitiva del tutto insignificante. Naturalmente i più attaccati a questa con cezione erano proprio coloro che meno di tutti dimoravano in luoghi di culto stabili, vale a dire gli strati di allevatori di bestiame minuto.
Ciò che il potente principe celeste della guerra desiderava in realtà era palesemente l’osservanza precisa dei suoi riti specifici e per il resto l’obbedienza alle sue rivelazioni. Questa concezione gravida di conseguenze è certamente rimasta viva in Israele sin dall’inizio — ancora una volta sotto l’influenza di determinate condizioni politiche — propro presso i custodi più zelanti dell’antica tradizione. Per quanto barbari e primitivi potessero essere in origine i comandamenti etici imposti da Jahvè alla lega dei guerrieri (e oggi questo fatto non si può più stabilire con certezza), in ogni caso Jahvè era lo stesso, inevitabilmente, molto più degli altri dèi, un dio che perseguiva specificamente il mantenimento di determinati comandamenti consistenti in norme rituali ed etico-sociali nel campo della vita di tutti i giorni. Si noti bene: non un dio che attribuiva valore a un’etica eternamente valida o che veniva lui stesso valutato in base a criteri etici. Questa concezione venne introdotta solo gradualmente come prodotto del razionalismo degli intellettuali. Jahvè agiva come un re, con collera e con passione, quando i doveri che esistevano nei suoi confronti in virtù del berith non erano adempiuti. Si trattava di doveri che il signore eletto esigeva dai suoi sudditi, di impegni del tutto pratici sul cui valore etico assoluto l’uomo all’inizio non disquisiva né era tenuto a disquisire. Il dover essere era quello negativo su ciò che «in Israele era inaudito» e quello positivo stabilito dal berith. Ma al suo adempimento Dio teneva perlomeno altrettanto — o addirittura di più, secondo un’opinione già diffusa in tempi remoti — che all’offerta di sacrifìci. Già tradizioni molto antiche lo presentano in preda a un’ira violenta per offese non solo rituali ma anche etiche. Ed era un presupposto ovvio che la guerra santa della lega, motivata da gravi infrazioni ai doveri etici — da una cosa che «non si è mai vista in Israele» (Giud., 19, 30) — potesse essere decretata contro i membri della lega.
Tuttavia la base di un intervento della lega per motivi di questo genere, la base cioè dello specifico orientamento fortemente etico dell’antico diritto della lega israelitica, stava nella responsabilità religiosa in solido dei membri della lega per tatti i singoli individui. Questa premessa, estremamente importante e ricca di conseguenze, di una responsabilità collettiva per ogni singolo malfattore, tollerato o meno dalla comunità, come il diritto di rappresaglia che regola tutti i rapporti internazionali fino ad oggi, era del tutto ovvia per la fede religiosa di un popolo che, come Israele, si poneva di fronte al suo Dio come un’unione di liberi cittadini. Mentre la responsabilità del singolo per i peccati dei suoi avi e dei parenti della sua schiatta si trova negli inni babilonesi, questa responsabilità in solido di tutto il popolo per ogni singolo individuo — presupposto di tutti gli annunci profetici di sventura — non veniva naturalmente sviluppata concettualmente in uno stato di tipo burocratico puro. La struttura politica aveva quindi anche in questo caso un ruolo decisivo. Come i concittadini l’uno per l’altro, così anche i discendenti fino ai membri più remoti portavano la responsabilità per i delitti degli avi. Era lo stesso principio che regolava la vendetta del sangue e non aveva quindi nulla di sorprendente. E infatti con l’indebolimento della vendetta del sangue mutò anche questo principio: la speculazione deuteronomica vedeva in ambedue le forme di responsabilità per colpe di estranei — che fossero consociati o progenitori — un eccessivo rigore, pur non essendo in grado di eliminare realmente questa concezione. Infatti per Israele si trattava di una conseguenza del rapporto con la divinità fondato su un berith con Dio stesso.
La qualità di dio della guerra patrono della lega accolto in virtù di un accordo particolare e garante del suo diritto spiega anche un’altra caratteristica di Jahvè di grande portata: nonostante tutti i suoi tratti antropomorfici egli era e rimase non ammogliato e di conseguenza senza figli. Anche i bne Elohim del sesto capitolo della Genesi non erano bne ]ahve. Data la sua posizione particolare non si poteva prendere in considerazione un suo complemento femminile. Questo mancava a Jahvè come mancava anche altrove, talvolta, per determinati dèi funzionali (Varuna, Apollo), garanti dell’ordinamento sociale, e per certi dèi d’importazione (Dioniso), per motivi del tutto analoghi. Nel caso di Jahvè però questo fatto contribuì certamente in modo decisivo a fare di lui, sin dall’inizio, una figura speciale e lontana dal mondo, rispetto alle altre divinità; e soprattutto ostacolò ?— come vedremo — un’autentica creazione di miti che è sempre «teogonia». Anche questa caratteristica importante è stata quindi presumibilmente condizionata dalle particolari circostanze che hanno accompagnato la nascita del suo culto.
Questi tratti di preminenza del dio della lega non costituiscono però necessariamente, come abbiamo già visto, la base per rivendicare una sua autorità esclusiva. Si è già parlato dei rapporti verso l’esterno con gli dèi d’altri popoli: Iefte tratta come cosa ovvia l’esistenza e il potere del dio ammonita, e più tardi anche moabita, Kamos. Anche sotto Achab troviamo ancora la stessa concezione: il re dei Moabiti è in grado, tramite il sacrifìcio del proprio figlio, di rafforzare il dio Kamos affinché la sua rabbia contro Israele e il suo dio abbia il sopravvento. Ma — ed è questo che conta qui — anche all’interno quest’esclusività di fatto non esisteva. Per quanto riguarda i semi-beduini delle steppe, in realtà, è abbastanza probabile che il grande dio della guerra patrono della lega sia stato per loro sin dall’inizio l’unico dio da considerare. Questa monolatria si spiega molto semplicemente con il fatto che presso di loro non esisteva una cultura differenziata, la quale produce dèi funzionali, e che la loro comunità politica non doveva praticamente occuparsi di altro che della protezione armata verso l’esterno delle zone di pascolo e delle conquiste. è probabile quindi che sin dall’inizio proprio queste tribù semi-nomadi, in particolare quelle meridionali, siano state le esponenti della «unicità» di Jahvè, nel senso che si dà alla monolatria. E da loro questa concezione è passata ai profeti di guerra, cioè ai rappresentanti professionali di quella funzione che sin dall’inizio è stata propria a Jahvè. Il più antico documento nel quale la venerazione di «nuovi dèi» da parte di Israele viene menzionata con biasimo è il Cantico di Debora (Giud., 5, 8). Tutte le guerre contro il patriziato urbano, quello cananeo come quello filisteo, sono state condotte in nome di Jahvè e in tali occasioni è emersa naturalmente la concezione secondo cui la venerazione esclusiva del dio che aveva promesso di aiutarli in guerra era uno dei doveri imposti agli Israeliti dal patto. Tutti i condottieri non laici ma profetici — uomini o donne — delle guerre di liberazione erano nemici di tutti gli altri dèi o lo erano diventati nel corso della guerra. Ma per il resto è perfettamente certo che gli Israeliti sedentari avevano anche «altri dèi» all’infuori di Jahvè. L’avere altri dèi significava esclusivamente che esistevano altri culti non dedicati a Jahvè e questo, anche a prescindere dai numi stranieri importati, è un fatto che nemmeno la versione sacerdotale della Sacra Scrittura ha potuto far sparirei5.
12.I culti non jahvistì
La tradizione parla anzitutto di culti di schiatte e di santuari domestici. Davide si scusa di non poter assistere alla cerimonia del sacrificio di Saul adducendo una ricorrenza cultuale della sua schiatta che l’ordinamento del culto di Jahvè ignora. Inoltre, non solo Labano ma ogni israelita membro di una schiatta con pieni diritti aveva in origine un luogo sacro nella sua dimora e un idolo domestico (come risulta dalle prescrizioni del Libro del Patto sulla riduzione in schiavitù ereditaria e dal racconto della fuga di Davide dalla sua casa). Cosa fossero in realtà questi terafim (forse delle maschere o dei fantocci che il capo della famiglia o della schiatta doveva portare nel corso di una rappresentazione mimica orgiastica) può essere addirittura impossibile da accertare in base alle nostre fonti né verrà discusso qui. Tuttavia il modo in cui spariscono dalle versioni purgate dimostra come non avessero nulla a che fare con un «culto domestico di Jahvè» (estremamente improbabile), e lo stesso vale presumibilmente per le celebrazioni delle schiatte. Nei dettagli però tutto ciò rimane estremamente incerto.
Su un piano estremamente problematico si trova anche l’importante questione circa l’esistenza o meno e l’eventuale genere di un culto dei morti nell’antico Israele e il quesito circa la misura in cui la sua totale assenza in epoca posteriore sia connessa al declino dell’importanza sociale e cultuale delle schiatte.
L’ingegnosa elaborazione di Stade e Schwally circa un originario culto degli antenati in Israele non ha potuto reggere alle critiche incalzanti in particolare di Gruneisen. è vero che l’anima dei morti sembra essere stata, nell’antica magia palestinese, una potenza tenuta molto in considerazione. Ma in epoca posteriore diventa una figura alquanto problematica. La concezione israelitica secondo cui l’anima non è necessariamente qualcosa di unitario è comune a molte altre rappresentazioni, anche a quella egiziana che attribuisce perlomeno al re una pluralità di anime. Ma la concezione unitaria del kaì, già dominante nei tempi più remoti della speculazione filosofica egiziana, non è stata recepita in Israele né sembra avervi esercitato alcuna influenza. La concezione posteriore, che ha origine nella fusione tra diverse rappresentazioni israelitiche più antiche, ed alcuni concetti presumibilmente importati, divideva l’uomo in tre elementi: i) il corpo (basar); 2) l’anima (nefesh) che ha sede nel sanguej5, come portatrice dei normali affetti, dell’«individualizzazione» come diremmo noi e di tutti i fenomeni usuali della vita in genere; 3) lo «spirito», il «soffio vitale» (riiach). Il riiach è quindi un alito di vento divino, insufflato nell’uomo da Jahvè, la cui presenza trasforma un corpo del tutto inanimato o solo dotato di vita vegetativa in un uomo: «dai quattro venti», come una parola magica, Jahvè procura a Ezechiele la visione di quel soffio che fa tornare in vita le ossa dei morti sparse sul suolo di Israele. Il ruach però è anche e soprattutto quella particolare forza divina che corrisponde ai mana e agli orenda e si manifesta come carisma di opere sovrumane negli eroi, nei profeti e negli artisti e viceversa come invasamento demoniaco nelle passioni violente e negli stati che escono dal normale.
Nefesh e ruach non vengono sempre rigorosamente distinti nelle fonti. Sembra che il dualismo — presente nella versione posteriore della storia della creazione (Gen., 1) — tra il respiro vivente di Dio (il «soffio» della divinità) e il caos inanimato sia stato mutuato da antiche rappresentazioni fenicie con la mediazione della speculazione intellettuale ed abbia reso possibile la creazione di un dualismo ruach-basar. Questa concezione veniva incontro alle tendenze ostili dei sacerdoti nei confronti del culto dei morti. Secondo rappresentazioni posteriori, infatti, il riiach, sostanzialmente simile al vento, torna ad unirsi, con l’ultimo respiro, al fiato del cielo; scompare quindi come individualità e di conseguenza viene anche a mancare un regno dei morti costituito da anime individuali.
Tutto ciò però non corrispondeva affatto all’antica credenza popolare. La concezione originaria circa il destino della nefesh non è sempre del tutto chiara, tuttavia comportava la convinzione palese di una continuazione dell’esistenza dopo la morte. In un passo di Geremia si trova l’idea, diffusa in origine anche nell’antico Egitto, secondo cui l’anima dimora nella tomba. Tuttavia si tratta qui dell’anima di un’eroina (Rachele) e il motivo di questa concezione stava senza dubbio nell’esistenza in questo caso di un antico culto legato a questa tomba. Non sembra invece che esistano prove di un «paradiso degli antenati» per i membri della schiatta. Esistono tombe di famiglia per alcune stirpi nobili, anche in tarda epoca, per esempio per i Maccabei e, secondo la tradizione, per i patriarchi. Tali sepolture erano possibili solo presso tribù sedentarie. In ogni caso l’espressione presumibilmente antica: «essere riunito ai suoi padri» significava più probabilmente: riunione con i membri della schiatta inumati in una sepoltura comune, che non: riunione in un particolare paradiso degli antenati, tanto più che si alternava all’espressione: «essere riunito alla sua gente (’am)» che può significare tanto i membri della propria schiatta quanto i compagni d’arme. Neppure l’esistenza di un paradiso dei guerrieri è dimostrabile sul piano storico. Gli eroi religiosi che godevano di una grazia particolare venivano rapiti, secondo la rappresentazione popolare, da Jahvè: continuavano ad esistere tra le sue legioni celesti, cioè (secondo un’analoga concezione egiziana) in un luminoso esercito di stelle o forse anche nel suo consiglio celeste; mentre l’opinione corretta probabilmente era che Jahvè li faceva spegnere dolcemente tra le sue braccia, come nel caso di Mosè.
Una parvenza di vita è invece quella che le nefesh di tutti gli altri conducono nell’ade, lo sheol. Qui non vi è, come nell’ade degli Egiziani, un luogo riservato all’esistenza felice dei beati, né è aperta una possibilità di rinascita. Invece, tutti gli spettri dei morti sono «fiacchi» (refaim) come presso gli Elleni. Non per questo però sono innocui. La lapidazione di un uomo e di un animale posseduto da uno spirito del male o coperto dal cherem aveva senza dubbio lo scopo di ostruire così bene la via dell’anima irrequieta del morto da impedirle di aggirarsi per la terra. Mentre in Egitto, partendo da princìpi analoghi, si è sviluppata la dottrina del kaik5, la concezione israelitica dell’anima è rimasta fondamentalmente contraddittoria. Il severo divieto rituale del consumo di sangue viene occasionalmente motivato, dall’interpretazione posteriore, deuteronomica e sacerdotale, con il fatto che non si deve mangiare nemmeno l’anima di un animale; ciò provocherebbe incantesimi maligni e forse l’invasamento. Ma una dottrina sul destino delle anime degli animali e degli uomini non si è mai sviluppata. Nell’ade la nefesh vive solo come un’ombra dell’essere vivente, poiché non ha né sangue né respiro. Laggiù, anche secondo la concezione dei salmisti, non si viene a saper nulla delle gesta di Jahvè e non lo si può lodare: il pensiero è spento. Come Achille, l’uomo desidera essere preservato il più a lungo possibile da questo destino e non percepisce in questa esistenza una «sopravvivenza nell’aldilà». Inoltre non si conosceva nessuna forma di «retribuzione nell’aldilà», come quella rappresentata dal tribunale dei morti sviluppato dai culti ctoni, in Egitto, dove costituiva la base dell’influenza sacerdotale sull’etica. è vero che presso i tardi profeti si trova qualche abbozzo di costruzione di un Tartaro per i malfattori, il quale però, come per gli Elleni e i Babilonesi, non ha avuto nessuna ulteriore eleborazione.
Il carattere confuso di tutte queste concezioni si spiega nel modo più semplice con il fatto che tanto lo sheol quanto la nefesh erano antichi elementi costitutivi delle credenze dell’esercito e del popolo; gli esponenti dello jahvismo lasciarono da parte sia l’uno che l’altra operando dal canto loro con il concetto di riiachl5, mutuato senza dubbio in un primo momento dalle rappresentazioni animistiche sulla rinascita proprie all’ascesi dei guerrieri, poi collegato al fiato universale divino, al vento di Jahvè. Né d’altra parte questi jahvisti volevano ammettere l’esistenza di una vita futura dell’«anima» nell’aldilàm5. Per loro, ciò che sopravviveva, e che doveva sopravvivere era tutt’altro, e cioè il buon nomen5 dell’eroe, che continuava a sussistere tra i suoi compagni e i suoi discendenti. Il buon nome costituisce, come abbiamo visto, un valore tipico dei beduini. Dominava tuttavia anche in Egitto. Come lì anche in Israele vigeva la concezione che ogni nome fosse qualcosa di essenziale tanto alla cosa che alla persona, qualcosa di concreto in qualche modo. L’espressione con cui il peccatore viene minacciato di eterno annientamento è che Jahvè cancellerà il suo «nome» dal suo «libro» (Es., 32, 32-33 e seg.). L’importanza del carisma personale e della gloria militare dell’eroe insieme alla struttura dominante per schiatte e alla denominazione delle schiatte nobili con il nome dell’antenato-eponimo hanno contribuito a rafforzare questa concezione. Il nome di un uomo che in vita è stato visibilmente colmato delle benedizioni di Dio può diventare un «termine di benedizione» che anche le generazioni future impiegheranno in tal senso. Che questa sorte toccherà al suo nome è la più grande promessa che Abramo riceve da Jahvè. Infatti l’unica versione antica (jahvista) del termine (Gen., 12, 2-3) più tardi trasformato (Gen., 18, 18; 22, 18; 26, 4; 28, 14), suona così: il nome di Abramo «diventerà una benedizione» e in futuro «tutte le stirpi della terra si diranno benedette nel suo nome». In sé questo significava soltanto che lui stesso ed i suoi avrebbero avuto una vita colma di benedizioni e nota per questo in tutto il mondo. La formula era lontana da qualsivoglia accenno «messianico». Per via di questo valore del nome, affinché il nome di Israele non venisse cancellato, esisteva l’aspirazione ad una numerosa discendenza (Deut., 25, 6-7, 10; Ruth., 4, 5 e 10; I Sam., 14, 22; II Sam., 14, 7)o5
Questa aspirazione non era invece motivata, come altrove, dal bisogno di ricevere sacrifici mortuarip5. è vero che questi esistevano. Ma nulla, almeno nelle fonti che ci sono accessibili, indica che il sacrificio fosse particolarmente importante per il destino del morto o per quello del sacrificanteq5. Questo silenzio non è collegato, almeno in origine, come si potrebbe credere, a una battaglia consapevole dei sacerdoti contro un potere già esistente delle schiatte allacciato al culto dei morti. Senza dubbio in epoca posteriore il contrasto tra le direttrici lungo cui si muove l’influenza della religione sacerdotale e del potere ielle schiatte è indiscutibile, come si vedrà a più riprese. Ma anche allora rimase sostanzialmente latente e non è stato comunque il punto di partenza della posizione totalmente estranea dello jahvismo rispetto al culto dei morti. Il potere delle schiatte e il culto dei morti procedono spesso di pari passo, ma non sempre tuttavia, e non necessariamente. In Egitto il culto dei morti praticato con intensità sconosciuta altrove non ha mai portato alla formazione di gruppi parentali uniti da legami magici o cultualir5, i quali anzi sono mancati completamente, come quasi in nessun altro luogo, perché la burocrazia patrimoniale dello stato fondato sul lavoro servile aveva già eliminato l’importanza delle schiatte prima che il culto dei morti giungesse alla sua elaborazione definitiva e prevalente. D’altra parte invece l’antica organizzazione israelitica per schiatte, pur essendo fortemente sviluppata, non ha tuttavia fatto sorgere nessun autentico culto degli antenati di tipo cinese o indiano e nemmeno un culto dei morti di stampo egiziano. Certamente questo avrebbe potuto nascere facilmente partendo dalla posizione di sacerdote domestico del capofamiglia e dai culti delle schiatte, e se si fosse sviluppato avrebbe accresciuto il potere e il prestigio rituale delle schiatte in maniera considerevole preparando così dei seri ostacoli alla diffusione della fede jahvista pura. L’organizzazione dei popoli-ospiti avrebbe allora potuto forse portare alla formazione di caste. In questo senso certamente non è stato di scarsa importanza il fatto che la fede jahvista abbia avuto sin dall’inizio una posizione di rifiuto verso il sorgere di un culto dei morti o degli antenatis5. Sembra infatti che le premesse tipiche per il sorgere di un tale culto siano esistite. Anche se non si può accertare con sicurezza l’esistenza di un culto di autentici o presunti eroi tribali, tuttavia la menzione delle tombe di alcuni di essi rende probabile il sussistere di tali culti che in seguito sono stati volutamente reinterpretati dalla versione sacerdotale. Più ancora dell’alto valore attribuito alla pietas per le salme nel libro (apocrifo) di Tobia che forse è frutto di influenze persiane, la menzione dei sacrifici mortuari e i residui di un oracolo dei morti mostrano come la via al culto dei morti venisse effettivamente imboccata. E lo conferma, ancora di più di tutti questi residui, il rigido rifiuto, palesemente consapevole, di tutti questi elementi da parte della religione jahvista, la quale tolse loro ogni possibilità di sviluppo. Infatti questa opposizione ha un carattere chiaramente tendenzioso. Non è decisiva in questo senso l’impurità di tutto ciò che è morto o che ha un rapporto anche indiretto con la sepoltura, come ad esempio il pane del lutto. Infatti il morto e tutto ciò che lo riguardava era «impuro», cioè fonte di contaminazione magica, anche laddove era oggetto di un culto, come per esempio in Egitto. Ma il fatto che al sacerdote di Jahvè fosse proibita ogni partecipazione al lutto per i morti eccetto che per i parenti più stretti va al di là di questi condizionamenti. Lo stesso vale per l’assoluta impurità rituale di tutte le provviste di cui anche solo una parte era stata impiegata per i sacrifici ai morti e consumata nel corso di banchetti funebri: era addirittura oggetto della «confessione negativa dei peccati», che l’individuo doveva fare quando «compariva davanti a Jahvè», che la vittima per questo riguardo fosse ritualmente pura (Deut., 26, 14).
Nello stesso ordine di cose rientrava l’esecrazione per l’oracolo dei morti. Questa non era dovuta, come nel caso di varie altre pratiche divinatorie proibite, al fatto che tale oracolo fosse ritenuto fallace; al contrario sussisteva benché l’oracolo in questione avesse dato prova di efficacia nello svelare la verità, come mostra l’esempio dell’evocazione di Samuele. Il vero motivo di tale esecrazione era che questo oracolo rappresentava una concorrenza per le forme di oracolo manipolate dai sacerdoti di Jahvè e derivava da culti che costituivano evidentemente una pericolosa rivalità per loro. Accanto ai culti ctoni indigeni, proprio il culto dei morti egiziano, nell’immediato vicinato, era palesemente un nemico contro il quale erano diretti i divieti di ogni forma di servizio dei mortit5. I numerosi scarabei trovati in Palestina servivano notoriamente da protezione magica per i morti nei confronti del giudice dei morti e fanno ritenere probabile che il culto dei morti di tipo egiziano non fosse sconosciuto. Nulla però dimostra più chiaramente il profondo disagio con cui la religione di Jahvè, al di là di questo antagonismo rintracciabile ovunque nei confronti dell’esoterica egiziana e dei misteri ctoni, si poneva di fronte a tutte le pratiche dell’«aldilà», che l’immediata interruzione di tutte le forme di ragionamento che sembrano inevitabilmente condurviu5, in tutta la letteratura dell’Antico Testamento, ivi compresi tutti i profeti, i salmisti e i poeti delle leggende. Per i profeti (Is., 28, 15) un’alleanza politica con l’Egitto significava un patto con lo sheol, cioè con gli dèi dei morti: ciò spiega la loro ostinata ostilità contro l’avvicinamento a questo paese in particolare.
Resta però ovunque l’impressione che la credenza nella resurrezione, esistente a Babilonia in forma esoterica e condizionata da miti astrali, che improvvisamente nel Libro di Daniele appare come una rappresentazione già pienamente elaborata e dopo il periodo dei Maccabei (periodo farisaico) diventa una credenza popolare, non fosse sconosciuta neppure in epoca preesilicav5. La religione ufficiale babilonese, in realtà, recepisce altrettanto pochi elementi di tale credenza quanto quella israelitica. La morte, per la religione babilonese, è un male inevitabile per tutta l’umanità. Infatti la pianta della vita è nascosta nel profondo del regno dei morti, che anche qui è un regno di pure ombre, sotto la custodia di dèmoni maligni. E, come in Israele, solo alcuni mortali vengono rapiti, per grazia divina, in un’esistenza di beatitudine.^ In Israele però è possibile individuare non solo un’ignoranza ma un rifiuto. Tutta la sfera del regno dei morti e del destino dell’anima conserva un carattere inquietante per la religione ufficiale sacerdotale e profetica. Fino al periodo dei Farisei, che introdussero un mutamento in questo campo, i rappresentanti di questa religione ufficiale, e proprio i maggiori tra di loro, non hanno mai operato con il concetto familiare alla religione egiziana e a quella zoroastriana di una retribuzione nell’aldilà. La pietas nei confronti dei genitori viventi era oggetto di grandi elogi e la sua violazione rigorosamente proibita, ma da nessuna parte si parla di un destino nell’aldilà degli avi, per quanto gloriosi, benché ciò che il credente jahvista sperava dal suo dio fosse proprio la retribuzione e l’equo compenso, pur fermo restando il principio della solidarietà della schiatta, con la responsabilità dei discendenti per i peccati dei padri.
In epoca posteriore, come abbiamo visto, le promesse dei profeti, con il loro carattere particolare, hanno a loro volta condizionato il rifiuto di ogni retribuzione individuale nell’aldilà a favore delle speranze terrene collettive. Nei tempi più antichi tuttavia, questo rifiuto di ogni speculazione sull’aldilà, egualmente caratteristico per le raccolte giuridiche e per gli storiografi, non era casuale, soprattutto data la vicinanza dell’Egitto che era molto ben conosciuto. Certamente gli avversari più vicini ed immediati dovettero essere i culti orgiastici dei numi ctoni cananei. Anche l’enumerazione degli usi di lutto vietati (scalfirsi per produrre ferite, radersi il capo e simili) nei vari profeti (Amos, Isaia, Michea) e nella Torah (Lev., 19, 28; Deut., 14, 1) non presenta tratti specificamente egiziani ma generici tratti ctoni. E il divieto è motivato dal rapporto con Jahvè, ossia da ragioni cultuali. Jahvè, per quanto ne sappiamo, non ha rivestito mai e in nessun luogo i tratti di un dio ctonio. Risiede sempre sulla montagna o nel tempio, mai sotto terra. Lo sheol, l’ade, non viene mai presentato come opera sua; è l’unico di tutti i luoghi dell’universo di cui non gli si attribuisce la creazione. Non è mai il dio dei morti o di un regno dei morti. I culti degli dèi ctoni e delle divinità dei morti hanno ovunque delle caratteristiche molto specifiche, di cui non si trovano tracce nel culto di Jahvè. Né è mai stato un dio della vegetazione o delle stelle: i culti di questo tipo di divinità sono soliti produrre le speranze di resurrezione. Questa opposizione in materia di culto è stato senza dubbio l’elemento decisivo per la presa di posizione dei sacerdoti di Jahvè e dei maestri della Torah.
Tuttavia delle concezioni di resurrezione legate al culto dei morti non dovevano essere sconosciute nemmeno in Palestina. Solo che il corpo sacerdotale di Jahvè non aveva né voleva avere nulla a che fare con queste perché le sue usanze rituali erano altrettanto inconciliabili con culti siderali che con culti ctoni. E oltre all’opposizione esteriore contro i sacerdoti dei morti e gli interpreti dell’oracolo dei morti deve essere stato decisivo per l’atteggiamento dei sacerdoti jahvisti anche il timore che ogni concessione a qualsiasi forma di speculazione sull’aldilà avrebbe portato alla loro sopraffazione o al loro soffocamento da parte di culti che godevano di una immensa popolarità come il culto egiziano di Osiride61 sia che ciò avvenisse attraverso questo culto stesso, o attraverso misteri esoterici di resurrezione ad esso collegati. Giocò certamente a loro favore, nel rifiuto di ogni forma di culto dei morti e degli avi, il fatto che la trasfigurazione della saggezza degli avi fissata nei libri, un prodotto della struttura dell’ordinamento sociale egiziano, non entrava in gioco in questa forma nell’antico Israele. Nello stesso senso giocò anche il mancato sviluppo di una vera e propria nobiltà con venerazione individuale dei propri antenati. Perché se un «culto degli antenati» già sviluppato non dava adito all’ostilità dei sacerdoti di Jahvè contro gli usi del lutto, tuttavia l’accostamento del divieto della mortificazione della carne, sotto forma di incisioni sul proprio corpo, come espressione di lutto, alla pratica del tatuaggio (Lev., 19, 28) — senza dubbio un tatuaggio che riproduceva i segni distintivi della schiatta e della tribù tramandati dal capostipite — mostra come agli effetti pratici l’opposizione si estendesse anche all’importanza cultuale delle schiatte in quanto tali. La lotta dei credenti jahvisti ortodossi contro il sorgere di associazioni di culto delle schiatte ha ostacolato anch’essa, dal canto suo, il sorgere di un culto degli antenati a cui le formazioni parentali avrebbero fornito il terreno. Infatti le festività delle schiatte più tardi sono totalmente scomparse.
13. Lo «shabbàth»
Il culto di Jahvè, in un primo tempo, aveva invece dovuto adattarsi al fatto che nelle regioni agricole della Palestina continuassero a sussistere i consueti dèi dell’agricoltura con i loro culti: culti siderali e culti tipici di dèi della vegetazione. Accanto ai culti fenici preesistenti o importati (soprattutto quelli di Moloch62 e Astarte63) e alle divinità mesopotamiche (Tammuz64, il dio della luna Sin65) che non sono mai stati riconosciuti dai sacerdoti di Jahvè, la leggenda della figlia di Iefte sembra comprovare l’esistenza di lamentazioni annuali per la morte di un’antica divinità femminile della vegetazione. Questi dèi stranieri non hanno avuto però nessuna importanza decisiva nel plasmare la religione di Jahvè e non interessano qui. Infatti la loro influenza, pur operando su numerosi dettagli, non si è estesa ai riti decisivi per le forme fondamentali della condotta di vita. Vi è solo un’eccezione. L’importantissima istituzione dello shabbàthw5 è palesemente connessa al giornoshabattu del culto della luna che predominava anche a Babilonia. Come mostra l’etimologia del termine ebraico per «giurare», cioè «farsi sette», il carattere sacro del numero sette vigente a Babilonia, e senza dubbio anche la «settuplice divinità», hanno origini antiche anche in Palestina. è tuttavia improbabile che il valore attribuito allo shabbàth in ambedue i casi sia frutto di una vera e propria importazione di tale usanza; esso sembra piuttosto dovuto ad una tradizione comune. Già nelle più antiche menzioni dello shabbàth vengono in luce le differenze.
In Mesopotamia il giorno shabattu era rigorosamente legato al ciclo lunare: novilunio, plenilunio, più tardi i giorni del mese divisibili per 7 ed il 7 x 71110 giorno. In Israele il settimo giorno di volta in volta era giorno festivo in maniera regolare e continua, a prescindere dalle fasi della luna e benché anche lì fosse antico il carattere sacro del noviluniox5 e sembra che vi siano tracce di un’antica sacralità anche del plenilunio. Forse in origine il nome sabato significava giorno del plenilunio, come suppone Beer, e solo più tardi è stato usato per il «settimo giorno» (Es., 23, 12; 34, 21). Solo l’impiego del numero sette era quindi in comune con Babilonia mentre differenti erano le modalità di tale uso. In Mesopotamia inoltre, lo shabattu, in epoca storica, era un giorno di penitenza. In Israele il settimo giorno era innanzitutto, come appare chiaro, un giorno lieto di riposo dal lavoro in cui l’uomo si occupava di altre cose che del consueto lavoro quotidiano, in particolare andava anche a trovare gli uomini di Dio (II Re, 4, 23). Come mostra però soprattutto la cronaca di Neemia (13, 15), era anche il giorno in cui i contadini si recavano in città, al mercato e alle sagrey5, come avveniva per le nundine romane, e come nel giorno a ciò destinato nella settimana più breve, di cinque giorni, vigente in vari paesi produttori di ortaggi.
L’accusa del profeta Amos (8, i) contro quei venditori di cereali per i quali lo shabbàth che turba il loro commercio è troppo lungo, mostra che già a quell’epoca il riposo festivo veniva applicato perlomeno ai commercianti (che dal contesto ci appaiono come commercianti professionisti residenti in città). Del resto all’origine di ciò vi era già la necessità di tener conto della concorrenza dei gerìm che altrimenti veniva favorita (cfr. il passo del tutto analogo in Neemia, 13, 16 e seg.). Schiavi e bestiame, stando alla leggenda profetica che risale al periodo della dinastia di Jehu (Z Re, 4, 22), a quell’epoca non erano ancora inclusi nel precetto e lo furono solo nel periodo deuteronomico. è probabile infatti che lo scopo caritativo sia stato messo in risalto solo allora. Infine, solo nel periodo dell’esilio il precetto fu elevato a massimo segno di riconoscimento di Israele accanto alla circoncisione, e acquistò il carattere di un dovere puramente rituale di astensione da ogni attività che superasse i limiti ritualmente prescritti; questo per le tendenze dei sacerdoti a creare dei doveri «confessionali» irrinunciabili che servissero a distinguere Israele. Poiché la mera circoncisione non offriva la garanzia di un sincero modo di vivere gradito a Dio questo precetto divenne uno dei massimi imperativi rituali di Israele, inculcato ripetutamente e sempre con maggiore pathos, e paragonabile per importanza al divieto di omicidio, di idolatria e di consumo di sangue. Acquistò anche uno sfondo cosmico, con la redazione del mito dei sei giorni di lavoro di Dio. Secondo la concezione sacerdotale di quell’epoca l’infrazione del riposo sabbatico era un delitto che meritava la pena di morte (Es., 31, 14 e seg.).
Comunque l’origine dello shabbàth sicuramente non va cercata presso gli allevatori di bestiame del deserto o delle steppe — dove il riposo sabbatico è praticamente inattuabile o senza significato e le fasi della luna hanno scarsa importanza — ma nelle regioni agricole; per cui riguardo al problema se il numero sette vada riferito ad un computo planetario o alla divisione in quattro del ciclo lunare, si tende ad avvalorare, sicuramente a ragione, la seconda ipotesiz5. Il fatto che in Israele il giorno festivo, contrariamente a quanto avveniva a Babilonia, divenne (o rimase) un giorno ricorrente a intervalli regolari e continui, si spiega semplicemente con la forte prevalenza degli usi ed interessi economici contadini orientati verso il locale mercato cittadino, rispetto a quella della nobile scienza astronomica coltivata dai sacerdoti presso i Babilonesi. Qui la correttezza astronomica era essenziale sul piano rituale mentre presso gli Israeliti, all’epoca dell’instaurazione dell’uso dello shabbàth, era determinante l’interesse dei contadini e degli abitanti di piccole città ad un giorno di mercato ricorrente in maniera regolare. Il ricorso regolare dello shabbàth deve essersi stabilito definitivamente proprio con il rafforzamento dell’economia di mercato; la legge specifica della città-stato, il Deuteronomio, non fa più accenno alle antiche festività lunari. Gli Israeliti d’altronde non erano in grado di elaborare per conto loro dei calcoli siderali corretti: occorre ricordare la fatica che costava ancora ai rabbini in epoca posteriore l’accertamento corretto di diversi fenomeni astrali di per sé molto semplici.
Se il rito sabbatico fu facile da staccare dal contesto del culto lunare per essere inserito nella religione di Jahvè e diventare addirittura uno dei suoi principali precetti rituali, altri culti agricoli presentavano invece, alla lunga, difficoltà ben maggiori; si tratta di culti che gli Israeliti della lega di Jahvè, con l’adesione alla lega di tribù sedentarie ed il loro stesso passaggio alla sedentarietà, in parte ritrovarono già in mezzo a loro e in parte adottarono. Come nelle tavolette di Amarna gli dèi dei Khabiru vengono chiamati ilàni, così le divinità dei Cananei e degli Israeliti residenti nel Nord si chiamano elohim, un nome che forse veniva ancora talvolta inteso come plurale anche per gli dèi israeliti: l’attributo viene frequentemente messo al plurale. Nella versione attuale però, quando si parla della religione israelitica, viene sempre inteso come singolare. è vero altresì che proprio un passo del Libro del Patto (Es., 22, 8) sembra costituire un’eccezione a ciò e anche la forma grammaticale nell’allocuzione di Abramo all’epifania divina dei tre uomini fa apparire probabile che l’uso del singolare nell’apostrofe non escluda una concezione politeistica come fonte. Il plurale per designare un essere supremo eminente e insieme astratto che siede maestoso nei cieli remoti era un uso diffuso proprio nella vicina Fenicia, ma apparentemente anche in Palestinaa6 e nell’uso linguistico posteriore di Babilonia il plurale ilàni proprio come elohim in Israele, designa la «divinità». Resta tuttavia probabile che una qualche sorta di pantheon stesse in origine alla base di tale espressione. Ma Hehn in particolare ha avvalorato la tesi che già al momento dell’immigrazione gli Israeliti hanno trovato una designazione preesistente, in forma collettiva, per la «divinità» e il «Dio supremo».
Per gli adoratori di Jahvè la supremazia del dio della lega Jahvè era naturalmente fuori di dubbio. Era per loro «Elohlm» poiché era semplicemente la loro «divinità»b6. La sua posizione è parallela a quella del massimo dio celeste a Babilonia e nelle regioni sotto la sua influenza, e la lettera del cananeo Achijam (xv secolo) designa il Dio altissimo come « Bèl ilanuy>, «Signore degli dèi». Naturalmente era facile fondere Jahvè con queste massime divinità celesti. In passi di epoca relativamente tarda viene ancora chiamato «Dio degli dèi». Che questi una volta erano dèi indipendenti rispetto a lui viene ricordato, oltre che nelle critiche irate di Isaia contro glielim, anche nei nomi di alcuni di loro e nella loro identificazione, avvenuta chiaramente in un secondo tempo, con Jahvè. Secondo una tradizione a dire il vero piuttosto tarda, nella versione attuale, il «Dio altissimo», E1 ’Eljon — che secondo altre fonti sarebbe un nome fenicio per il dio celeste alla sommità del pantheon — viene venerato all’epoca di Abramo, a Gerusalemme (?), dal re-sacerdote Melchisedec, e Abramo in seguito usa la stessa espressione per Jahvèc6. L’attuale denominazione Elshaddaj, che secondo Delitzsch66 è connessa a shadu, montagna (in babilonese), indica la stessa cosad6. Gli altri esseri celesti, secondo una concezione posteriore, sono a lui sottomessi in qualità di messaggeri o assistenti. Ma in origine certamente anch’essi erano dèi come sembra mostrare ancora una volta il modo molto incerto con cui vengono trattate le tre figure dell’epifania ad Abramo nel boschetto sacro di Mambre, nonché l’espressione «noi» che si trova frequentemente nella Genesi in riferimento alle deliberazioni divine. I «figli degli elòhìm», nell’antico mito mutilato dei Titani (Gen., 6), trovano piacevoli le figlie degli uomini e con loro generano i Nephiltm (Num., 4, 13), i giganti (delle grandi costellazioni), da cui sono discesi i figli di Enak (Num., 13, 23.29) e quei cavalieri (gibborim) della dimenticata antichità cananea, contro cui gli antenati dovettero combattere e che secondo il contesto originario furono annientati dal dio celeste nel diluvio universale.
L’esercito delle stelle, come abbiamo visto nel Cantico di Debora, rappresentava in Israele del Nord il nerbo di quel seguito celeste da cui Jahvè è circondato anche più tardi nelle visioni profetiche. Numi che non sembrano identificarsi con Jahvè insidiano gli eroi e una di queste divinità viene vinta nella lotta da Giacobbe. Un’influenza diretta della religione solare di Ekhnaton sulla religione di Jahvè appare molto improbabile, anche perché la sua diffusione in Palestina, di cui non si è nemmeno sicurie6, certamente non era molto intensa e si trovava ad uno stadio molto arretrato. Al contrario la denominazione astratta nord-israelitica di Dio, «E1»f6, corrisponde a quella babilonese, e l’adorazione del Dio supremo sul Garizim o su altre cime di monti richiama il tentativo dei Babilonesi di essere il più vicino possibile al Dio celeste rendendogli omaggio sulle terrazze di torri gigantesche.
Quasi tutte queste divinità del Medio Oriente avevano carattere astrale e perlopiù connesso alla vegetazione, ed erano molto simili tra di lorog6. Come dappertutto esse svilupparono solo gradualmente una loro personalità: in origine lo spirito della stella non era separabile dalla stella stessah6 e solo gli dèi funzionali della cultura, come per esempio il dio babilonese della scrittura Nabfi, erano concepiti sin dall’inizio in maniera completamente personalizzata. Ma una certa tendenza a ricadere nell’impersonale rimase attaccata alla maggior parte di essi; proprio i massimi dèi celesti (come Anu67 e Ba’al) erano ovunque astratti ed estranei al culto popolare. Dappertutto esisteva la tendenza al sincretismo e alla promozione del dio del sole a dio supremo, fondamentalmente unico agli occhi degli intellettuali. Di ciò tuttavia si trovano solo scarse tracce in Palestina, anche se l’astrazione degli elohim andava in questa direzione.
14. Ba’al e ]ahve. Gli idoli e l’Arca
La più importante concezione di dio realmente in concorrenza con quella di Jahvè era di origine cananea, con forti influssi fenici, e rientrava in un tipo che aveva già subito delle profonde trasformazioni nella religione babilonese più sviluppata. Si tratta del tipo di Ba’al. La rappresentazione concreta originaria, o meglio quella vigente nel periodo dell’occupazione, era la seguente: un dio particolare era il «signore» di particolari oggetti o fenomeni della natura o della vita sociale, secondo una concezione diffusa in tutto il mondo nelle sue forme primitive presso i popoli viventi allo stato di natura, e a cui corrisponde anche il «signore delle preghiere» indiano o l’antica divinità cinese rurale. Oggetti o processi «appartenevano» al Ba’al in questione, come possono appartenere ad un uomo un pezzo di terra, del bestiame, o una «professione» da lui monopolizzata. Da questo derivavano due principali categorie di dèi. Da un lato c’erano gli dèi funzionali: uno di questi era forse il «Ba’al-Berith», il signore del patto che era «competente» per le conclusioni delle alleanze, le proteggeva e vendicava le loro violazioni. Un altro era il Ba‘al-Zebul di Ekron, il «signore» delle mosche che diffondevano la pestilenza. E ancora c’era il «signore» dei sogni, o dell’ira, ecc. D’altra parte vi erano gli dèi cui apparteneva la terra fertile: gli «dèi locali» in questo senso specifico. Mentre il dio della lega israelitica, Jahvè, era il dio della collettività nazionale degli individui, simile al Bèl del popolo guerriero assiro, ma plasmato ancora di più sul modello di un re dell’esercito, il Ba’al palestinese di un determinato luogo era signore della terra e di tutti i suoi prodotti alla maniera di un proprietario terriero patrimoniale, più simile al Bèl babilonese, il signore della terra fertile. Vedremo più tardi la grande importanza rituale di questo carattere ctonio se non di tutti, certamente però dei culti più importanti, all’atto pratico, di Ba’al.
A Ba’al spettavano le primizie di tutti i frutti della terra, i primi nati del bestiame ed i primogeniti degli uomini che vivevano dei prodotti di questa terra: usanza che i sacerdoti, ai quali in origine era ignota, trasferirono in seguito su Jahvè. Il motivo religioso del dovere di cui si è parlato prima, di non mietere completamente la terra (Lev., 19, 9 e 23, 22), deriva dalle stesse rappresentazioni, come dimostra la motivazione: «Io sono Jahvè vostro dio». Due rappresentazioni non necessariamente contraddittorie, ma tuttavia fortemente divergenti, costituiscono la distinzione tra la concezione di Jahvè e quella di Ba’al: uno è il dio della comunità di individui, l’altro quello dell’unione locale; sono rispettivamente dio del cielo e dio della terra. Nel paese cananeo questa seconda rappresentazione, conseguenza immediata dell’inurbamento e della proprietà fondiaria patrizia, è sicuramente molto antica. Ogni città aveva i propri dèi locali di questo tipo. All’epoca di Amarna i governatori lamentano al re che gli dèi della città di cui il faraone è signore per grazia divina l’hanno abbandonata sicché è caduta in mano ai nemici. Sembra che gli Israeliti abbiano aggiunto il nome di Ba’al ad un gran numero di dèi con nomi diversi, come il dio Hadad venerato sotto l’immagine di un toro, ed il fenicio Milk o Melqart importato sotto la dinastia degli Omridi.
In ogni caso la figura più importante, perché investita di funzioni più generali, tra i concorrenti di Jahvè, era il Ba’al locale, il proprietario della «terra» in senso economico e politico. Nel corso delle annessioni pacifiche o violente di città a Israele questi Ba’al rimasero naturalmente in possesso delle città e dei loro santuari. Secondo la concezione originaria questo non costituiva un torto per il grande dio guerriero della lega. Certamente, con il crescere del suo prestigio, la sua posizione rispetto agli altri dèi andava in qualche modo regolata. Poteva assumere il ruolo di dio del cielo alla sommità del pantheon, e questa concezione sembra riecheggiare nella denominazione di Elohim. In tal caso però correva il rischio di sbiadire, come tutti i supremi dèi celesti di questo tipo, a meno che non avesse luoghi di culto permanenti per i bisogni quotidiani. I Ba’al restavano allora i signori del culto vivo. D’altra parte il dio della lega poteva anche venire semplicemente identificato con i Ba’al o legato a loro in qualche modo nella venerazione. Fino al periodo posteriore all’esilio Jahvè è stato addirittura venerato dagli Ebrei insieme a dèi totalmente estranei, in uno stesso tempio, con la massima imparzialitài6.
Data questa combinazione di Jahvè con il dio locale Ba’al era quindi naturale che nei periodi di pace e prosperità la preminenza dovesse toccare a Ba’al mentre nei periodi di grande crisi bellica nella divinità mista (o nella venerazione combinata) doveva prevalere Jahvèj6. Questo è quanto di fatto avveniva e spiega il fenomeno per cui più tardi i profeti puritani di Jahvè, in acuta polemica contro Ba’al, si trovarono in posizione difficile proprio nel periodo di pace e prosperità, mentre al contrario ogni guerra nazionale e ogni oppressione o minaccia straniera tornava immediatamente a beneficio di Jahvè, l’antico dio della catastrofe del Mar Rosso. Si può supporre tuttavia che per lunghi periodi vi è stata una coesistenza pacifica tra le due divinità, con una forte prevalenza dei Ba’al che però non erano visti in termini di opposizione contro Jahvè. Anche tra gli eroi nord-israelitici più celebrati troviamo nomi con Ba’al: così in particolare Yerubbaal, che in seguito come eroe guerriero di Jahvè acquistò, in maniera caratteristica, un nuovo nome (Gedeo-ne);lo stesso vale per i figli del buon re jahvista Saul, i cui nomi hanno subito nella tradizione posteriore un mutamento significativo.
Come conseguenza della sua frequente identificazione con Ba’al locali o funzionali il culto di Jahvè assunse anche i loro attributi cultuali. E soprattutto le immagini del culto. In base alle prove fornite dalla tradizione, nonché dagli scavi, si può ritenere che con ogni probabilità l’originario culto della lega israelitica era privo di immagini ed evidentemente è stato tramandato in questa forma. Tuttavia questo non era certamente il prodotto di speculazioni particolarmente «elevate» intorno all’antica concezione di Dio. Al contrario, era la conseguenza di mezzi di culto primitivi i quali, dato il particolare carattere sacro dell’antico rituale di guerra della lega, furono molto presto stereotipati, e in maniera definitiva. Il dio rimase privo di immagine semplicemente perché lo era ancora all’epoca della sua recezione, per via del livello di cultura materiale del paese in cui venne adottato. Per lo stesso motivo i più antichi libri della legge prescrivono un semplice altare di terra e pietre non squadrate, come usava una volta. Il mantenimento di questa assenza di immagini anche in epoche di largo sviluppo artistico non costituisce assolutamente un fenomeno specifico del culto di Jahvè. è ampiamente riscontrato, per esempio in vari culti proto-ellenici e cretesi antichi, e si trova anche presso gli Iraniani influenzati, come Israele, da Babilonia. Decisive per il suo mantenimento presso alcuni dei più importanti luoghi di culto sono state senza dubbio quelle forme di culto che ivi erano state introdotte in tempi remoti e per la loro antichità erano considerate particolamente sacre; queste rendevano difficile la recezione di icone, con il timore di incantesimi maligni in caso di mutamento.
Di specifico nello sviluppo israelitico c’era solo l’intensità del fenomeno, comparabile tutt’al più, in maniera approssimativa, agli sviluppi islamici da esso influenzati e in parte a quelli zoroastriani. Altrove la proibizione delle immagini era limitata ad alcuni luoghi di culto o alle rispettive divinità, lasciando per il resto piena libertà all’espressione artistica all’interno come all’esterno della sfera religiosa. In Israele Jahvè diventò l’unico Dio e gli esponenti del culto privo di immagini hanno sostenuto non solo simultaneamente alla crescente pretesa di Jahvè alla monolatria la proibizione di raffigurazioni di Jahvè, ma anche il rifiuto di tutti i paramenti di tipo figurativo, portando questa posizione al punto di opporsi, quasi in linea di principio, all’esercizio di ogni arte figurativa, secondo la formulazione definitiva del secondo comandamento. Ciò ha avuto una grande portata nella repressione della pratica e del senso dell’arte nel tardo giudaismo. Tuttavia quest’ultima radicale elaborazione teologica è stata in primo luogo un prodotto degli sforzi compiuti dai sacerdoti per creare dei «comandamenti distintivi) di assoluta efficacia. Non se ne trova traccia nelle fonti più antiche nelle quali è addirittura incerto se il puritanesimo jahvista proibiva solo statue fuse, che sono prodotti della cultura urbana, o anche (e soprattutto) statue intagliate o immagini di tutti i tipi: i tre «Decaloghi» si trovano qui in contrasto tra di loro; in queste fonti del resto le doti artistiche degli artigiani che fabbricano i paramenti sono considerate un carisma divino. La concezione teologica in questione acquistò il suo particolare rigore solo nel corso della lotta estremamente violenta, che gli esponenti dell’antico culto privo di immagini dovettero sostenere contro le immagini di Jahvè e gli altri paramenti cultuali sorti sul terreno culturale di Canaan.
Di che tipo fossero questi paramenti è una questione resa molto confusa dalla tradizione posteriore. In particolare l’efodk6assume una posizione indeterminata. Come per i terafim, non si può stabilire con certezza cosa fosse in origine. Il carattere fallico che gli è stato talvolta attribuitol6 è difficilmente dimostrabile. Varie notizie potrebbero far supporre che si trattasse di un’immagine, secondo altre poteva essere una mantella con tasche per le tavolette degli oracoli, secondo altre ancora un pezzo di vestiario. è molto probabile che vi sia stato un mutamento del suo significato sotto l’influenza della posteriore concezione del culto senza immagini. Se all’inizio era un paramento a carattere figurativo, si può presumere che sia stato estraneo al culto originale di Jahvè. Le notizie che più avvalorano questa interpretazione sono nord-israelitiche. Si può accantonare qui il problemadi vedere se il «tabernacolo» di Jahvè fosse qualcosa di più di una costruzione teoretica posteriore. Ben più importante infatti, come paramento specifico del culto senza immagini di Jahvè, era l’«Arca di Jahvè» portatile.
Probabilmente non sarà mai possibile scoprire con certezza se quest’Arca, come suppone in particolare Ed. Meyer, era in origine una cassetta porta-feticci e quindi di derivazione egiziana o se, come appare più probabile secondo M. Dibeliusm668, era in origine un trono celeste a forma di cassetta, e quindi di derivazione pre-israelitica-palestinese; se, pur essendo una cassetta, conteneva in origine una pietra sacra, forse con rune o se — come suppone Schwally per analogia con un santuario da campo islamico (il Machmal) — era sin dall’inizio una cassetta vuota in cui era stato relegato il dio. Comunque Dibelius, risalendo alle notizie più antiche (Num., io, 35-36, collegato a I Sam., 1, 10 e 4, 4 e all’immagine di Geremia, 3, 16), mostra che molto probabilmente all’epoca delle guerra di liberazione contro i Filistei l’Arca doveva essere un trono ornato di cherubini su cui Jahvè sedeva invisibile e che in caso di difficoltà durante una battaglia veniva portato in campo su un carro. Jahvè veniva allora esortato, prima del combattimento, con un’invocazione ritmica, a sollevarsi contro i nemici e, dopo la vittoria, a riprendere il suo posto (Num., 10, 35-36).
Nella leggenda (posteriore) di Samuele Jahvè appare localizzato nell’Arca o meglio sopra PArca nel santuario. Questo è forse il prodotto di concezioni posteriori sviluppatesi nel periodo di totale sedentarietà, anche se la coesistenza di rappresentazioni di Dio inconciliabili tra di loro secondo la logica è di per sé frequente. La credenza che Jahvè durante la battaglia sedesse invisibile sull’Arca era, se non affine, forse non del tutto inconciliabile con l’idea, che troviamo per esempio nel Cantico di Debora, del suo calare tempestoso dalla sua sede sui monti silvestri di Seir. Comunque non è un caso che i Persiani —che come gli Israeliti erano un popolo montanaro circondato da popoli della pianura che combattevano su carri — portassero anch’essi con sé, secondo Erodoto (7, 40), il loro dio invisibile Ahura Mazda in combattimento su di un carron6. Certamente in origine si voleva opporre ai re guerrieri che andavano sui carri e agli idoli dei nemici il re celeste anch’egli sul carro. Troni vuoti di divinità sono segnalati a più riprese da Reichel, anche in territorio ellenico.
Un dio, il cui culto tramandato dall’antichità era privo di immagini, doveva normalmente essere invisibile e trarre proprio da questa invisibilità la sua specifica dignità ed il suo carattere inquietante. Anche qui, la forma di culto del dio della lega, che era un dato puramente storico, dava luogo nello stesso tempo a quella spiritualizzazione del dio non solo resa possibile ma incoraggiata proprio da queste qualità. L’Arca nella tradizione è legata a Silo e all’antica stirpe sacerdotale eliade del posto; è quindi nord-israelitica. Del pari è strettamente collegata alle qualità di dio della guerra e signore degli eserciti (Zevaoth) proprie a Jahvè. Tuttavia il Cantico di Debora e le storie di guerra anteriori all’epoca dei Filistei non ne sanno nulla e anche in seguito la sua comparsa è effimera sicché il periodo, l’occasione e l’ampiezza del suo primo riconoscimento come paramento del culto jahvista e insegna di guerra rimangono incerti. Fu la teologia deuteronomica che per prima ne fece l’«Arca dell’Alleanza», cioè il luogo di custodia delle tavole della legge; non accettava più infatti la concezione di dio, legata all’Arca, che localizzava la divinità dentro o sopra quest’ultima. In ogni caso l’Arca vuota ed il suo significato era un sintomo e senza dubbio anche una causa di quella relativa spiritualizzazione della rappresentazione antropomorfica della divinità, direttamente determinata dall’assenza d’immagini nel culto. La sede del dio della lega sulla montagna selvosa di Seir era naturalmente del tutto priva di immagini e templi; di questi non si conoscono tracce.
Dagli annali di Ezechia risulta che un caduceo, il cosiddetto«serpente» di bronzo, figurava tra i paramenti del culto posteriore di Gerusalemme; veniva fatto risalire a Mosè — contrariamente alle lussuose suppellettili salomoniche — e, poiché il suo significato era ignoto e fornito di un’interpretazione eziologica leggendaria, evidentemente era davvero antico. Mosè nella tradizione viene anche presentato come un taumaturgo terapeuta, in particolare come salvatore nel corso di un’epidemia di peste. Ciò si accorderebbe bene con il fatto che tra gli specifici mezzi di lotta di Jahvè contro i suoi nemici figurano anche le epidemie. Secondo un’ipotesi pertinente rispetto alla leggenda eziologica, ma naturalmente non dimostrabile, il caduceoo6 sarebbe stato un emblema di una particolare categoria di sacerdoti di Jahvè che erano medici-stregoni e più tardi sono scomparsi. Con questo però si esaurisce la lista degli autentici paramenti antichi del culto di Jahvè.
Con l’intima mescolanza tra Jahvè e Ba’al l’idolatria delle civiltà vicine penetrò nel culto nord-israelitico di Jahvè il quale veniva ora raffigurato in particolare sotto forma di toro, cioè come dio della fertilità degli agricoltori. A re Geroboamo, che portava un nome jahvista e aveva al suo fianco un profeta di Jahvè, viene fatto un meritop6 dell’aver eretto, con lo scopo dell’emancipazione da Gerusalemme, delle statue dorate di tori in alcuni luoghi di culto nord-israelitici dedicati a Jahvè, una di queste a Dan che era un luogo di culto considerato particolarmente ortodosso, retto da una stirpe di sacerdoti che si presumeva discendesse da Mosè. Da parte dei profeti nord-israelitici sotto gli Omridi, Elia ed Eliseo, avversari spietati del culto di Ba’al che sotto l’influenza fenicia conosceva un forte sviluppo, non viene riferita la minima protesta contro l’uso notorio di tali immagini di Jahvè. E tuttavia non c’è dubbio che proprio dalla lotta allora aperta contro i culti stranieri importati dalle principesse straniere e dalle alleanze, che erano tutti culti idolatri, abbia preso le mosse la lotta contro gli idoli in quanto tali anche in senoallo jahvismo. Questa lotta si poteva collegare a quei luoghi di culto esistenti nel paese in cui Jahvè veniva venerato senza immagini, come senza dubbio avveniva anche negli antichi luoghi di culto del deserto, fuori di Israele. I sacerdoti di questi luoghi di culto dovevano essere inclini a considerare ortodossa soltanto questa forma di venerazione ed erano in grado di mobilitare a loro favore la preoccupazione crescente intorno alla correttezza formale nel culto di Jahvè, che andava di pari passo con le crescenti minacce dall’esterno e si richiamava all’epoca delle antiche vittorie di Israele. Dove l’Arca di Jahvè costituiva l’oggetto più sacro al culto e cioè, fino all’avvento di Davide, a Silo, non può essere esistito, da tempo immemorabile, che un culto privo di immagini.
Del pari non vi è motivo di dubitare che a Gerusalemme, dopo il trasferimento dell’Arca, il culto in un primo tempo fosse del tutto privo di immagini. La tradizione però ci fa sapere che l’Arca Santa, prima della fondazione del luogo di culto a Gerusalemme da parte di Davide, era rimasta per un lungo periodo semi-dimenticata in una casa privata, dopo che i Filistei se ne erano impossessati nel corso della battaglia e presumibilmente avevano distrutto Silo. Il trasferimento, da parte di Davide, proprio di questo emblema della venerazione senza immagini del dio della lega, e la sua promozione a forma di culto della città di residenza del sovrano hanno quindi segnato probabilmente una prima svolta decisiva a favore della posizione di potere del culto senza immagini di Jahvè. Presumibilmente l’alleanza con i sacerdoti Elidi, cacciati da Silo, ha procurato sin dall’inizio il loro appoggio a Davide contro Saul, che era bensì jahvista, ma nord-israelita, e orientato verso il culto combinato di Jahvè e Ba’al. Fu per questo motivo che Saul perpetrò tra i sacerdoti in questione un famigerato massacro di cui la tradizione lo ha ripagato con un odio i cui effetti si fanno ancora sentire nella sua versione attuale.
Il Sud diventa ora il centro della credenza nell’ortodossia esclusiva della venerazione senza immagini. è vero che il tempio di Salomone implicava già in sé un passo indietro rispetto a questo culto puritano. Non solo portava, a quanto pare, una formula di consacrazione che lascia dedurre l’esistenza dell’adorazione del sole, diffusa come culto regio presso molte dinastie su tutta la terra — più tardi viene anche menzionato un carro del sole con destrieri — ma contravveniva palesemente anche all’antica prescrizione di venerare Jahvè su un semplice altare di terra senza pietre squadrate. E senza dubbio molti particolari non erano conformi all’esigenza posteriore di evitare in maniera assoluta paramenti di tipo iconico. La caduta del sacerdote elide Abiatar è certamente collegata a queste innovazioni del regno fondato sulle prestazioni di lavoro obbligatorie e orientato verso l’Egitto e la Fenicia.
Ma tali innovazioni a quell’epoca non costituivano evidentemente il centro dell’interesse. La lotta vera e propria contro di loro cominciò solo molto più tardi. Da molto tempo i più diversi paramenti erano diventati sospetti in quanto sintomi di accoglienza di culti stranieri, e tuttavia non appare nessuna opposizione di principio contro tutte le immagini indiscriminatamente. Questa opposizione incominciò a manifestarsi all’epoca di Osea e conseguì il suo primo successo sotto Ezechia. Quella volta non si fermò nemmeno davanti all’antico simbolo sacro del caduceo che si faceva risalire a Mosè e che venne distrutto da Ezechia.
La crescente preoccupazione politica di prevenire tutti i possibili motivi di ira dell’antico dio della guerra, quello della tradizione, venerato in passato senza immagini, agiva nello stesso senso del concetto di Dio, nel frattempo sublimato, che era proprio dei circoli intellettuali. Per le concezioni di questi ultimi era prezioso proprio il carattere invisibile e senza effìgie della divinità; su questa base deridevano adesso il lavoro degli artigiani nei culti idolatri stranieri come opera dell’uomo contrastante con la maestà soprannaturale della divinità. Il culto di Ba’al venne ora perseguitato come fonte della penetrazione di questa abominazione in Israele. Ma la crescente asprezza della lotta contro il culto di Ba’al era legata anche a profonde caratteristiche interiori della venerazione di dio, inseparabilmente connesse all’antico culto cananeo di Ba’al ma in totale contrasto con l’autentica religiosità jahvista. Per capire ciò dobbiamo partire da più lontano, e in primo luogo dobbiamo occuparci dei titolari delle funzioni cultuali: i sacerdoti.
15. Sacrificio ed espiazione
È stato provato con sufficiente certezza che nella più remota antichità israelitica non esisteva un ceto sacerdotale riconosciuto in maniera generale dalla legaq6 e soprattutto non c’è stato nessuno che abbia detenuto il monopolio del sacrificio destinato al dio della lega in nome della lega in quanto tale. L’importanza posteriore del sacrificio doveva necessariamente essere assente nel rapporto tra la lega israelitica e Jahvè. Infatti prima della monarchia non esisteva, come si è già detto, nessun organo della lega competente per la regolare offerta di sacrifici in tempo di pace. Solo in tempo di guerra vigeva un’effettiva unità della lega e in questo caso, secondo la tradizione, l’interdizione come tabù di parte o anche dell’intero bottino costituiva lo specifico mezzo rituale per rendere a Dio il suo. Inoltre questa disposizione aveva il vantaggio di interessare Dio alla vittoria di Israele molto più di un sacrificio anteriore alla battaglia. Naturalmente i sacrifici venivano offerti a Jahvè, come agli altri dèi, per guadagnare la sua benevolenza. In tempo di guerra venivano offerti anche da parte della lega, in tempo di pace dai singoli individui secondo le occasioni. La teoria della tradizione dice che per ogni pasto, o comunque per ogni pasto a base di carne, nel senso, molto lato a dir il vero, di «pranzo sacrificale», il dio doveva ricevere la sua parte sotto forma di offerta. Prima della battaglia, o nei vari luoghi di culto a seconda della necessità, i sacrifici gli venivano offerti dai principi e talvolta anche dai capi-schiatta. Solo l’aspersione di sangue sull’altare sembra essere stata riservata, secondo una tradizione attendibile, a Mosè, vale a dire ai sacerdoti professionali.
Non si sa però con certezza se questa forma di culto fosse diffusa fuori da Silo e a quando risalisse. è vero che la teoria sacerdotale posteriore presenta già in maniera paradigmatica il sacrificio di Saul senza l’intervento di Samuele (che qui figura come sacerdote) come un’intromissione nelle attribuzioni dei sacerdoti che porta Saul alla sua rovina. Tuttavia ciò non trova riscontro, nemmeno molto più tardi, nel diritto vigente. Davide, nel Libro di Samuele, porta vesti sacerdotali e pronuncia benedizioni. Sotto re Uzzia si svolge nella tradizione dei Re rimaneggiata dai sacerdoti lo stesso conflitto che oppose presumibilmente Saul a Samueler6. Si può comunque ritenere certo che i principi e i grandi proprietari fondiari tenevano presso di sé dei sacerdoti ritualmente addestrati. In origine però li sceglievano con la massima libertà; nella tradizione più antica, soppressa in seguito dal cronista, Davide fa sacerdoti due dei suoi figlis6. Lo stesso fa, nel Libro dei Giudici, un grande proprietario fondiario del Nord, Michea, sul quale torneremo presto in un altro contesto. I santuari allestiti in questo modo da principi e privati erano considerati loro proprietà privata. Vi godevano del diritto di supremazia domestica: così i re nord-israeliti nel santuario di Geroboamo a Bethel (Amos, 7, 13). I loro ordini venivano eseguiti dai sacerdoti da loro insediati, che erano i loro funzionari, come per esempio, secondo la tradizione, la costruzione a Gerusalemme di un altare sul modello di quelli stranieri (II Re, 16, 10). Un’organizzazione generale della categoria dei sacerdoti addetti ai sacrifici mancava, non fosse che per via della concorrenza tra i luoghi di sacrificio; naturalmente nel Regno del Nord le «chiese personali» private non si trovavano altrettanto svantaggiate, rispetto alle fondazioni regie, che nella città-stato centralizzata del regno giudeo.
Il Gran Sacerdote era chiamato «il sacerdote» (ha-kohen); solo più tardi troviamo a Gerusalemme (Il Re, 25, 18) il titolo di «sacerdote capo» (kohen ha-rosh)’, l’esistenza del titolo postesilico di «sommo sacerdote» (kohen ha-gadol) è incerta (i passi 11Re, 22, 4 e 8; 23, 4 sono sospetti come glossa; cfr. 11 Re, 11, 9 e seg. dove per lo stesso Gran Sacerdote, Jehoiadat6,figura il titolo ha-kohen). In ogni caso però i sacerdoti del culto addetti al tempio del re erano contati tra i regi funzionari (II Sam., 8, 16 e seg.; 20, 23 e seg.), accompagnavano il re in campo e, con l’unica eccezione di Jehoiada sotto Athalia, non hanno mai avuto in epoca pre-deuteronomica un ruolo politico autonomo degno di qualche attenzione. Né tantomeno erano considerati i capi di una «comunità» religiosa. Questa non esisteva. In tempo antico la milizia costituiva la comunità, anche per le cose religiose, più tardi ci fu la comunità locale di tutti gli Israeliti con pieni diritti. Il tribunale che giudica Geremia è composto dai regi sarìm e zekeriim il cui ruolo nella pronuncia della sentenza rimane incerto. Gli ’am (uomini) costituiscono la «circostanza» di questa comunità giudiziaria (kahaT), i sacerdoti sono gli accusatori ma non siedono in tribunale. Il re (Giosia), non il Gran Sacerdote (Hilkia), convoca la comunità, anche quando si tratta di un berith religioso. Resta incerta la posizione dell’antica monarchia sacerdotale di Gerusalemme, che si vuole scorgere nella dubbia tradizione in Gen., 14 e nell’interesse di chi questa tradizione è stata ripristinata. In ogni caso per l’antica tradizione il principe era legittimato e ritualmente qualificato per offrire sacrifici a nome della sua lega. è altrettanto certo però che esistevano fin dai tempi più antichi dei luoghi di culto dove la gente affluiva da lontano e dove stirpi di sacerdoti qualificati per carisma ereditario officiavano in maniera esclusiva, secondo regole antiche, delle cerimonie particolarmente solenni per conto sia dei principi che dei privati. Tra questi innanzitutto la stirpe degli Elidi nel luogo di culto di Silo considerato dai profeti (Geremia) come particolarmente antico e di puro rito jahvista.
Per quanto riguarda le pratiche sacrificali, certamente molto antiche, vigenti in quei luoghi, dalla tradizione sembra risultare che i clienti, insieme alle preghiere individuali per la realizzazione di determinati desideri, portavano anche offerte di carne, da cui il sacerdote prelevava la sua parte; inoltre sembra che non fossero rari nemmeno i banchetti sacrificali con partecipanti in stato di ebbrezza. Ci occuperemo più avanti del significato dei banchetti sacrificali, senza approfondire in termini generali la complicatissima storia dell’antico sacrificio israeliticou6. Qui ci atteniamo per ora ai doni sacrificali e vediamo come questi, in Israele come dappertutto, erano considerati innanzitutto dei mezzi appropriati per conferire maggiore efficacia all’appello con preghiere fatto alla divinità. I più antichi ordinamenti del culto, come sono conservati nelle appendici cultuali del Libro del Patto, prescrivono soltanto, in termini generali, che l’israelita dovrà comparire tre volte all’anno davanti a Jahvè e «non a mani vuote». Altre disposizioni la cui antichità sia certa non esistono, e non è possibile determinare la portata pratica di questo comandamento.
L’importanza dell’offerta-sacrificio si spostò anzitutto sul piano quantitativo con il crescente prestigio del dio della guerra patrono della lega che accompagnò l’espansione del paese, e soprattutto, con la fondazione del regno. I Davidici, e Geroboamo nel Nord, fondarono dei luoghi di culto regi con sacrifici regolari.
Molto più importante però fu lo spostamento del significato dell’offerta-sacrificio che accompagnò la situazione politica sempre più critica del paese nel corso ulteriore della monarchia. Infatti doveva sorgere adesso la domanda: da cosa derivavano questi sviluppi sfavorevoli della situazione politica e militare di Israele? La risposta poteva essere soltanto una: l’ira di Dio pesava sul popolo. Il concetto israelitico di «peccato» si collega, come mostrano gli antichi termini derivati perlopiù da chatah, «sbagliare», a fatti puramente oggettivi. Un errore, evidentemente in primo luogo e soprattutto un errore rituale, suscita l’ira del Dio. Il timore di errori rituali e delle loro conseguenze era quindi, qui come dappertutto, il motivo più antico di ricerca dell’espiazione.
Ma Jahvè era anche contraente del berith con Israele e l’antico diritto sociale costruito sul cameratismo e sull’aiuto fraterno era quindi considerato vincolante verso di lui. Il concetto di peccato doveva quindi estendersi molto presto a imperativi di contenuto «etico», e in primo luogo ai comandamenti eticosociali. Soprattutto la critica jahvista ai mutamenti sociali determinati dall’inurbamento e all’atteggiamento della monarchia ha esteso il concetto di «peccato», qui come altrove in circostanze analoghe, per esempio nell’iscrizione sumerica di Urukagina, dal campo rituale a quello etico-sociale. Appariva evidente che il potente dio della guerra collegava la sua grazia all’osservanza dei suoi comandamenti solennemente accettati tramite berith, oltre che all’osservanza di certe prescrizioni ritualiv6, in particolare riguardo al mantenimento dell’antico diritto della lega di cui era garante. Era naturale quindi che in caso di insuccesso e di crisi politica tutti si chiedessero quale delitto a carattere socialmente rilevante poteva aver suscitato l’ira del Dio e come fosse possibile placarla.
Dopo il ix secolo però grossi travagli affliggono in maniera cronica ambedue i regni. Con ciò il significato del sacrificio come mezzo per espiare la colpa, quale risulta chiaramente dalle fonti, passa sempre più in primo piano fino a raggiungere un’importanza preponderante. Tra i tipi presumibilmente molto diversi di sacrifici espiatori dei singoli luoghi di culto solo due, chattat e asham, sono più tardi diventati canoniciw6, per circostanze senza dubbio puramente casuali. Nello stesso tempo però crebbe anche la necessità di poter ricorrere a sacerdoti di Jahvè esperti in rituale e diritto che sapessero esplorare la volontà del Dio e scoprire gli errori da espiare. Con la crescente razionalizzazione della vita dappertutto, anche in Mesopotamia, cresceva la domanda di mezzi per accertare ed espiare i peccati e in Israele quest’esigenza, sotto la pressione del destino politico del paese, acquistò una forza particolare. Con la crescente importanza del sacrificio espiatorio e deH’ammaestramento circa la volontà di Jahvè crebbe anche la domanda di portatori della conoscenza di Jahvè e dei suoi comandamenti. Infatti ciò che andava perseguito innanzitutto non era l’offerta del sacrificio in sé, per quanto corretta potesse essere, ma bensì la ricerca della volontà di Dio e delle infrazioni perpetrate contro questa. Tanto le associazioni politiche e locali quanto i singoli individui venivano a trovarsi in questa posizione. Le preoccupazioni dell’associazione politica in quanto tale riguardavano soprattutto l’influenza delle fortune belliche e la produzione di pioggia abbondante. Troviamo vicine l’una e l’altra cosa nelle promesse di Jahvè in cambio dell’obbedienza e del retto comportamento. A ciò si aggiunge, per il singolo individuo, l’aiuto nei casi di travagli personali di ogni sorta. Mosè come anche Elia, nella tradizione, compiono sia miracoli politici, soprattutto riguardo alla guerra, la pioggia, il cibo, sia miracoli privati di guarigione; ricercano la volontà di Dio e le infrazioni contro di essa. Quest’ultimo era e divenne sempre più il vero compito degli esponenti professionali dello jahvismo.
Le fonti ci mostrano come per la ricerca della volontà di Dio quasi tutti i mezzi conosciuti nelle zone culturali circostanti esistevano anche in Palestina. Ma non tutti erano considerati ugualmente legittimi dalla tradizione israelitica. Le forme considerate ortodosse dal punto di vista della religione jahvista più rigorosa erano solo tre: i. la rivelazione diretta di Jahvè ad un autentico veggente e profeta investito del suo mandato che parli a suo nome: vedremo più avanti come si distingueva un «vero» da un «falso» profeta; 2. in determinati casi, l’oracolo per sorteggio dei sacerdoti oracolari professionisti con l’aiuto delle tavolette dell’oracolo (urini e thummìm) e forse in origine anche dell’oracolo con frecce; 3. infine anche, ma con crescenti riserve in proposito, la visione onirica. Tutte le altre forme di esplorazione sia dell’avvenire, sia di fatti rilevanti per l’azione
o altrimenti considerevoli, sia infine, e soprattutto, della volontà di Dio erano considerate, secondo un’opinione sempre più diffusa, come magia esecranda, in certi casi degna di morte, oppure semplicemente come un’impostura. Solo per pochi casi, in particolare per provare la fedeltà coniugale della donna, l’ordalia è stata mantenuta fino in epoca deuteronomica.
L’oracolo per sorteggio, il cui antico carattere sacro, proprio come l’assenza di raffigurazioni di Jahvè era del tutto fondato sulla sua semplicità, conforme all’arretratezza culturale delle steppe, è esistito fino in tardo periodo post-esilico, ma perdendo importanza rispetto alla consultazione di veggenti, profeti e altri saggi. Secondo la tradizione esilica esso scompare con la perdita delle tavolette che servivano per il sorteggio. Del pari, malgrado la proibizione rigorosa, l’oracolo dei morti e tutte le altre forme di divinazione hanno continuato naturalmente a sussistere. La loro importanza però è andata palesemente declinando. In sé l’incremento delle consultazioni di veggenti, profeti ed esperti in rituale, a spese sia dell’oracolo per sorteggio che di altre forme irrazionali di decisione, era una conseguenza del tutto ovvia della crescente complessità delle domande da porre cui era sempre meno facile rispondere con un mero «sì» o «no» e con un semplice sorteggio.
Ma a questo aggiungeva, per lo jahvismo genuino, un altro motivo, fondato sul carattere peculiare del rapporto con Jahvè: se Jahvè si adirava e negava aiuto alla nazione o all’individuo, la colpa di ciò doveva risiedere in una violazione del berith con lui. Le autorità ufficiali come i singoli individui dovevano quindi porsi la domanda; quale dei suoi comandamenti era stato trasgredito? A questo non potevano dare risposta i mezzi irrazionali di divinazione ma solo la conoscenza dei comandamenti stessi e l’esame di coscienza. Così il concetto del berith, vivo negli ambienti genuinamente jahvisti, convogliò tutta l’indagine intorno alla volontà di Dio sulla via di una problematica almeno relativamente razionale e di mezzi razionali di risposta. Di conseguenza la parenesi sacerdotale che si trovava sotto l’influenza degli strati intellettuali si volse con grande asprezza contro indovini, àuguri, cronomanti, astrologò negromanti poiché ricorrevano a mezzi tipicamente pagani per interrogare Diox6.
I profeti scrittori e i rigorosi circoli jahvisti a loro vicinihanno poi anche contestato, come vedremo, la fidatezza della divinazione onirica: ciò si collegava in parte alla specifica qualifica professionale di questi profeti, in parte alla loro concezione della natura e delle intenzioni di Jahvè. La lotta condotta in periodo anteriore contro le forme irrazionali di divinazione e di magia si fondava naturalmente, oltre che sui motivi razionali dichiarati, anche semplicemente su motivi puramente storici inerenti alla concorrenza delle diverse categorie di sacerdoti e indovini tra di loro e al livello tecnico a cui si trovavano allora gli esponenti della forma vittoriosa dell’arte divinatoria. Dappertutto, in Cina, in India e nelle antiche città- stato sumeriche troviamo lo «stregone» come concorrente — illegittimo e accusato di eresia — del ceto sacerdotale legittimo recepito in congiunture spesso molto fortuite; la sua messa al bando investe allora anche le sue pratiche. L’oracolo per sorteggio in sé non era certo più razionale dell’esame del fegato in uso a Babilonia: è vero però che, a differenza di quest’ultimo, non offriva nessun punto di allacciamento per speculazioni cosmiche. Anche il fatto che siano stati adottati proprio quei mezzi di indagine della volontà di Dio che abbiamo menzionato non è stato soltanto casuale in quanto è stato condizionato dall’eliminazione di tutte le pratiche connesse ai culti ctoni e al tipo di estasi loro propriay6. Vedremo tra poco questo aspetto del dissidio.
Ma chi erano i titolari dell’incarico di interrogare Jahvè?
Si è già parlato del ruolo piuttosto incerto degli antichi «veggenti». Più tardi questi sono scomparsi del tutto. Ma poiché l’antico jahvismo della lega guerriera aveva conosciuto sia i guerrieri estatici che i profeti di guerra emotivi nonché la consultazione di veggenti apatico-estatici, mentre non aveva avuto un culto federale ufficiale, non è stato possibile ai sacerdoti — fatto importante — sollevare adesso la pretesa di concentrare nelle loro mani il monopolio dell’arte divinatoria. Hanno dovuto ammettere sin dall’inizio, senza dubbio abbastanza malvolentieri, che i doni profetici potevano esistere ed erano diffusi anche fuori dalla loro cerchia. La tensione tuttavia continuò a sussistere, perlomeno per quanto riguarda tutti quei profeti i quali non erano al servizio del re, come gli stessi sacerdoti delle grandi città residenziali dei sovrani. Il fatto che il culto fosse un culto legato al re discreditava il «sacrificio» agli occhi degli ambienti scettici nei confronti della monarchia. I sacerdoti dovettero accontentarsi di estirpare tutte quelle pratiche che erano oggetto di una vera e propria attività corporativa e rituale e quindi entravano in diretta concorrenza con loro. Cercarono quindi di monopolizzare l’esercito regolare del culto di Jahvè e tutte le pratiche ad esso connesse. Il nostro problema adesso è questo: chi erano i sacerdoti?
16. I Leviti e la «Torah»
Non è possibile accertare come fossero veramente organizzati i sacerdoti negli antichi luoghi di culto. L’antica stirpe sacerdotale degli Elidi di Silo fu trapiantata da Davide a Gerusalemme, poi degradata da Salomone. Un uomo cui solo la tradizione posteriore ha fornito un albero genealogico corretto, dal suo punto di vista, ma che nell’antica tradizione non porta un patronimico israelitico, Sadoq, divenne Gran Sacerdote a Gerusalemme. La monarchia evidentemente disponeva a sua discrezione sia per la nomina a queste cariche sacerdotali che per il mantenimento dei sacerdoti e in un primo tempo rivendicava anche il diritto di offrire i propri sacrifici. Solo sotto Joas il re instaurò un nuovo ordinamento in materia di prebende sacerdotali sotto il controllo dello stato. Questo cambiò formalmente solo con la riforma deuteronomica negli ultimi tempi del regno di Giuda. A quell’epoca il ceto sacerdotale di Gerusalemme si sentiva abbastanza forte da presentare come universalmente valido per tutto il territorio di Israele — vale a dire, allora, il regno giudaico — il diritto alla decima e altri tributi rivendicati dal Dio, che erano stati probabilmente privilegio di alcuni luoghi di culto, forse proprio di Gerusalemme (stando alla tradizione di Melchisedec) per un territorio limitato. Inoltre, come vedremo, i sacerdoti si sentivano in grado di avanzare nello stesso tempo delle pretese tendenti a un considerevole incremento del proprio monopolio cultuale. Tutto ciò deve essere stato preceduto da un forte incremento del prestigio del ceto sacerdotale. Ora quel ceto sacerdotale, che il Libro della Legge deuteronomico considera come l’unico da sempre legittimo, viene indicato in questo compendio come quello dei «sacerdoti leviti».
Il nome «Levi» non ha un’etimologia ebraicaz6. è possibile che i Leviti esercitassero anche al di fuori di Israele al servizio del dio tribale mineo Wadda769. Non sappiamo con certezza a quando risale la diffusione di questi sacerdoti qualificatib7. Di sicuro sappiamo soltanto che pochi di loro in origine erano insediati in Israele del Nord, che vi si sono diffusi tramite immigrazioni individuali e che comunque non erano riconosciuti, perlomeno dalla dinastia di Geroboamo — ma presumibilmente anche più tardi — come l’unico legittimo ceto sacerdotale di Jahvè. Praticamente tutti gli indizi fanno pensare a un’origine meridionale, nelle steppe ai margini del deserto, nell’oasi di Qades e a Seir. Secondo una tradizione abbastanza antica i Leviti sono stati anzitutto il seguito personale di Mosèc7, a cui egli fece appello contro avversari renitenti e disobbedienti, e che consolidarono la sua autorità con un massacro tra i membri delle proprie schiatte. Da questa tradizione, ma anche dalla benedizione di Mosè risulta, stando all’interpretazione illuminante di Ed. Meyer, che i Leviti comunque non erano noti a questa branca della tradizione come una casta ereditaria: al contrario, secondo la benedizione di Mosè, occorreva rinnegare padre e fratello per essere un levita. Secondo questa concezione costituivano quindi un ceto professionale qualificato. Ilfatto che più tardi appaiano come una tribù gentilizia investita del carisma ereditario non costituisce in sé una prova contraria: questo tipo di evoluzione si ritrova continuamente sia all’esterno che all’interno di Israele.
Tuttavia in altre parti della tradizione figura una «tribù di Levi»d7 guerriera, non sacerdotale, che è l’alleata politica delle tribù di Israele, in particolare delle tribù di Simeone e Giuda; e la benedizione di Giacobbe ignora che si tratta di un ceto sacerdotale o anche che vi siano sacerdoti leviti in genere. Le fonti narrano assai di più degli atti di violenza da questa compiuti nelle imprese militari insieme a Simeone e la benedizione di Giacobbe predice a Levi la dispersione per via di un delitto: hanno ucciso uomini e «mutilato tori». Saranno dispersi «in Giacobbe» e «in Israele», come Simeone. Secondo la tradizione sacerdotale posteriore Mosè è un semplice membro della tribù di Levi. Forse nella tradizione più antica, più tardi tendenziosamente soppressa, era considerato il capostipite o perlomeno l’archegeta di quelle schiatte della tribù di Levi che erano o diventarono di Leviti nel senso rituale della parola. Infatti all’epoca della benedizione di Giacobbe devono esserci stati senz’altro i membri di una tribù di Levi che non erano «Leviti» nel senso posteriore del termine. Vi è quindi la scelta tra due ipotesi. O i membri di una tribù di Levi, dispersi da catastrofi politiche o mutamenti economici, si sono dedicati completamente o in parte alla cura dei sacrifici e dell’oracolo di Jahvè, diventando sacerdoti di Jahvèe7. O viceversa esisteva un ceto professionale, prima basato sull’addestramento personale, poi ereditario-carismatico, di schiatte laiche, interetniche, di «Leviti» sparsi nel Sud, presso le quali la preparazione rituale e la tradizione erano cadute in disuso; queste vennero considerate come una «tribù», o si sono realmente costituite come tali, alleandosi alla tribù di Simeone e disgregandosi più tardi insieme a questa.
Troviamo presso i brahmani in India, come presso i Leviti, la lotta tra qualifica basata sul carisma personale e sul ceto professionale e qualifica basata sul carisma ereditario e il ceto di nascita. Anche qui non ogni brahmano di nascita era o è ritualmente qualificato per tutti i privilegi dei brahmani: sacrificio, insegnamento dei Veda, prebende; tutt’altro. Lo è solo colui che ha condotto la vita ritualmente prescritta e dopo il noviziato richiesto ha ricevuto la consacrazione. Anche in India vi sono interi villaggi abitati soltanto da brahmani ivi infeudati, i quali in parte hanno rinunciato del tutto o quasi alla preparazione vedica. è quindi possibile che un fenomeno analogo sia esistito anche presso i Leviti. La maniera in cui nel Deuteronomio le espressioni «Leviti» e «sacerdoti» sono combinate potrebbe essere d’appoggio alla tesi che anche allora esistevano discendenti di Leviti non addestrati e non ritualmente puri, quindi non qualificati all’esercizio dell’ufficio, che non erano «sacerdoti» (o non potevano esserlo). Sul piano pratico non vi è praticamente nulla che permetta di respingere questa ipotesi. Sarebbe concepibile allora che la vita dispersa di questi «Leviti laici» che anche allora non rientravano in nessuna delle altre tribù abbia permesso alla tradizione di coinvolgerli insieme a Simeone nel delitto di Sichem.
In epoca deuteronomica i sacerdoti leviti erano articolati in caste ereditario-carismatiche e costituivano un ceto separato; rivendicavano il monopolio di determinate forme di oracolo, della dottrina sacerdotale e delle cariche sacerdotali, con successo, perlomeno nel Sud. Nel Nord troviamo i sacerdoti leviti menzionati soltanto due volte nel Libro dei Giudici (cap. 17 e seg., per Dan e Efraim); sembra che all’epoca in cui fu redatta questa parte, di età incerta, i Leviti fossero ancora un ceto professionale, non un ceto per nascita. Appaiono invece come tale nell’esposizione della storia del deserto e della conquista, influenzata dalla tradizione sacerdotale, e nel Deuteronomio. Questa tradizione presenta senza ambiguità i Leviti come i sacerdoti addestrati ed ereditari di Jahvè. Inoltre qui i singoli leviti hanno proprietà private, anche proprietà fondiarie e immobiliari di ogni sorta. è assegnato loro il monopolio dell’esecuzione dei sacrifici, nella misura in cui un sacerdote deve collaborarvi; sono inoltre detentori di un diritto esclusivo sull’oracolo per sorteggio e sulla dottrina, nonché su tutti i tributi e diritti casuali prelevati per queste prestazioni e, secondo la teoria della versione attuale del Deuteronomio, sulla decima di tutti i prodotti della terra.
Per la tradizione più antica, i Leviti sono giuridicamente dei gerìmf7. Anzi costituiscono proprio il tipo più compiuto di «tribù-ospite» in seno alla comunità israelitica. Hanno conservato questa posizione nel modo più schietto nella versione attuale. Troviamo nel racconto del delitto di Gabaa un levita come meteco degli Efraimiti. Senza dubbio viveva di diritti casuali. I Leviti vivevano al di fuori dell’associazione dei proprietari di possedimenti rurali militari. Erano esentati dal servizio militare (Num., i, 49; 2, 33) e i loro servizi, come mostra il termine ’eved che li designava, erano considerati liturgie di meteci alla comunità politica. La loro posizione giuridica fu regolata in maniera sempre più vincolante e la loro articolazione interna per casate patriarcali (Es., 6, 25; Num., 3, 14 e seg.) corrisponde tanto al tipo delle tribù-ospiti indiane quanto a quello in cui si articolavano le tribù israelitiche di allora. La prescrizione che si trova in una branca della tradizione (Num., 35, 2 e seg.) circa le città levitiche da assegnare lorog7 non è necessariamente fittizia; potrebbe fondarsi sul fatto che in varie città il mantenimento dei Leviti era assicurato dall’assegnazione a loro favore di pezzi di terra con abitazione e di zone di pascolo, oltre a una quota del gettito fiscale di determinate località. Ciò esisteva già anche per i principi (Giosuè) e corrisponde a vari casi analoghi in India. Secondo un’altra tradizione, ancora più dubbia a dire il vero (Lev., 25, 32 e seg.), che parla di appezzamenti di terreno agricolo di proprietà dei Leviti, questi appezzamenti sarebbero stati del tutto inalienabili — probabilmente in quanto gravati di liturgie — e anche le case dei Leviti non sarebbero state liberamente alienabili in perpetuo come quelle degli altri Israelitih7. Si può comunque presumere che i tipi di dotazione di cui i Levitidisponevano variavano considerevolmente da un luogo all’altroi7.
L’analogia con i brahmani in molti punti va ancora più lontano. La situazione dei Leviti come tribù-ospite con una posizione rigidamente regolata non era l’unica né presumibilmente l’originaria forma del loro rapporto con Israele. La tradizione, come abbiamo già visto, narra che principi e proprietari fondiari insediavano uomini di bassa nascita — come viene riferito con riprovazione per Geroboamo (Z Re, 12, 31) — o addirittura i propri figli e parenti come sacerdoti nelle loro cappelle private («chiese personali» nel senso di Stutz70). Un’antica tradizione danita narra la stessa cosa per il proprietario fondiario Michea in Israele del Nord. Sul conto di quest’ultimo però si narra anche, in seguito, di come egli entrò in rapporto con un levita immigrato da Giuda, gli affidò la cura del suo santuario e fece di lui il suo «padre» (corrispondente al guru indiano), e come infine i Daniti in viaggio verso il Nord portarono via con loro l’immagine del santuario ed il levita e investirono quest’ultimo del sacerdozio ereditario presso il tempio della città appena fondata in territorio sidonico «fino a questo giorno». Ciò corrisponde in maniera abbastanza precisa al modo in cui i brahmani si sono diffusi in India. Del pari i cappellani di corte leviti, di epoca posteriore, sono il parallelo del purohita brahmano. Vediamo qui chiaramente quali motivi hanno portato alla diffusione dei Leviti: è stata evidentemente la loro superiore preparazione rituale in materia di celebrazione di sacrifici, ma soprattutto di «cura delle anime», cioè di consulenza sui mezzi per disporre favorevolmente Jahvè e stornare la sua ira.
I principi ed i proprietari fondiari insediano i Leviti non solo per il loro bisogno personale di tale consulenza ma senza dubbio anche per il prestigio che ne ricavano in qualità di signori di luoghi di culto e per gli introiti che la fama di un santuariocurato da un sacerdote istruito fruttava al suo proprietario: abbiamo già visto come Gedeone impiegasse la sua parte di bottino per erigere una cappella con un’immagine. Più tardi vedremo anche intere comunità in quanto tali chiamare questi sacerdoti e provvedere al loro mantenimento, come nel caso dei Daniti. Accanto a ciò essi esercitavano liberamente la loro attività professionale.
In questo modo, attraverso una diffusione graduale, i Leviti avevano conseguito quel monopolio che era loro sostanzialmente riconosciuto in epoca deuteronomica all’interno del territorio giudaico. Il Deuteronomio presuppone che in ogni luogo risieda un levita che vive degli olocausti. Questa diffusione non è avvenuta senza incontrare resistenza, come mostra la maledizione di Mosè contro «coloro che lo odiano» (Deut., 33, 11). Nella tradizione, la rivolta dei Korahiti (che appaiono più tardi come Leviti degradati) insieme ai discendenti di Ruben contro lo strapotere dei sacerdoti dimostra nella versione sacerdotale come ci fosse all’interno di Israele un potente strato che si ricordava che in origine una simile preponderanza clericale, e in particolare il monopolio dei sacrifici e degli oracoli da parte di una casta ereditaria, fossero del tutto sconosciuti. Jahvè aveva manifestato la sua volontà attraverso profeti e veggenti. Sembra che proprio questa fosse la posizione dell’antica egemone della lega, la tribù delle steppe di Ruben. La sua dispersione potrebbe allora ascriversi forse anche alla mancanza di uno strato sacerdotale solidamente organizzato, proprio come l’esistenza del medesimo è stata una delle condizioni determinanti della forza di Giuda. La preparazione dei Leviti che davano oracoli e soprattutto il crescente potere della monarchia che stava dietro di loro hanno ridotto questi attacchi al silenzio. Tuttavia per il periodo che precede il crollo del Regno del Nord rimane estremamente problematica la misura di potere politico conquistato dai Leviti nella lotta concorrenziale che là si svolgeva.
17. Lo sviluppo del sacerdozio e il monopolio cultuale di Gerusalemme
Sul piano rituale i Leviti, come i brahmani, sembrano essersi distinti dai «laici» sin dall’inizio mediante l’osservazione di determinate prescrizioni in fatto di purezza. Tra queste ci interessa qui esclusivamente quella, particolarmente rigorosa, che imponeva di evitare il contatto con i morti e con tutto ciò che aveva a che fare con il culto della sepoltura: evidentemente questa categoria sacerdotale era la principale esponente dell’opposizione al vicino culto egiziano dei morti. Per quanto riguarda le specifiche prestazioni dei Leviti nel periodo in cui erano universalmente riconosciuti, la benedizione di Mosè (Deut., 33, 8 e seg.) ce ne informa in maniera inequivocabile. Non viene menzionata in questo passo nessuna funzione terapeutica dei Leviti, anche se allo stesso Mosè veniva attribuita una magia terapeutica, come abbiamo visto, e il caduceo era forse il residuo di un’antica terapeutica magica. Più tardi inoltre verrà attribuito ai sacerdoti il compito di accertare la presenza della lebbra. Ma per il resto non ci giunge notizia di alcuna terapia dei Leviti e più tardi i lebbrosi sono stati di competenza del loro foro essenzialmente in quanto ritualmente impuri. (Quale fosse la situazione dell’arte medica nell’antico Israele ci è del tutto ignoto. La raccomandazione del medico e della farmacia da parte del Siracide rispecchia le condizioni del periodo ellenistico). Si deve quindi supporre che in epoca storica i Leviti non avevano più in mano una vera e propria terapia magica. Dei malati apparteneva loro soltanto la «cura delle anime» di cui si parlerà più avanti. Non sembra che facessero uso di mezzi terapeutici irrazionali.
Nella benedizione di Mosè (v. 8) è ricordato innanzitutto l’oracolo per sorteggio delle «acque della contesa» (la fonte dell’oracolo processuale) di Qades, poi viene il compito dell’insegnamento dei mishpatīm e della Torah e solo per ultimo l’offerta di incenso e degli olocausti. Mosè (secondo il v. 8) ha strappato con la lotta l’oracolo a Jahvè: s’intende qui l’oracolo processuale. Inoltre la legge deuteronomica favorevole ai Leviti esorta a «portare davanti a Jahvè» gli affari giudiziari e la tradizione ci mostra Mosè occupato tutto il giorno in questioni processuali — salvo particolari casi in cui vien fatto ricorso a lui come mago — finché su consiglio di Ietro non trasferisce questo compito sui sarìm dell’epoca della monarchia che vengono presentati come a lui subordinati. Anche una tradizione posteriore (Deut., 17, 8; 19, 17) propone tribunali misti di laici e sacerdoti. Queste disposizioni sono i residui di un conflitto che ritroviamo anche altrove tra giurisdizione mondana e ierocratica. A Babilonia la generazione precedente a Hammurabi aveva escluso i sacerdoti dai tribunali a favore dei laici, circoscrivendo la funzione dei primi all’esecuzione meramente tecnica di oracoli nel corso di processi istruiti da giudici laici.
Il codice di Hammurabi fa menzione di tali funzioni per i casi di sospetta stregoneria o di sospetto adulterio da parte della donna. In Israele l’oracolo in giudizio è limitato al secondo di questi casi. Giudici laici — gli Anziani o i funzionari del re — sono i soli a pronunciarsi nei processi, perlomeno in Israele del Nord.
Nel Sud, come si è già accennato prima, stando all’importanza di Qades e all’attività processuale dell’oracolo nella benedizione di Mosè, la posizione dei sacerdoti nei processi, secondo ogni apparenza, deve essere stata molto più importante. Come si è già detto, non è possibile dimostrare che i sacerdoti qui abbiano mai avuto veramente la funzione di giudici ordinari, come si è talvolta supposto. Fungevano però senz’altro da arbitri e oracoli cui facevano ricorso le parti e i giudici bisognosi di ulteriori delucidazioni. La loro posizione più forte nei Sud si spiega facilmente. Se da un lato le associazioni politiche delle tribù semi-nomadi usavano restare stabili solo in qualità di leghe religiose, così d’altra parte solo l’oracolo sacerdotale — parallelo al potere dello sceicco legato al prestigio personale — esercitava su di loro un potere realmente coercitivo che andava al di là dell’individuo. Nei mishpatīm del Libro del Patto che proviene da Israele del Nord, riconoscibili dalla formulazione ipotetico-astratta della fattispecie: «se…», sentiamo, come si è già accennato, la ripercussione di un’antica giurisprudenza laica influenzata dai modelli babilonesi. Solo occasionalmente degli imperativi puramente profani rivestono la forma di devarìm: «dovrai…» o «non dovrai…». Tale forma è quella propria, se non in maniera esclusiva tuttavia di gran lunga prevalente, di quei comandi e divieti che sono di carattere rituale o etico-religioso e che certamente non risalgono a giuristi profani ma o a oracoli profetici o a imperativi che portano il marchio deH’erudizione sacerdotale. Torneremo sul modo in cui sono sorti questi ultimi — non i precetti profetici, cioè, ma quelli sacerdotali. Vi hanno comunque partecipato i Leviti ai quali la benedizione di Mosè assegna il compito deH’ammaestramento del popolo sia in materia di diritto (mishpatīm) che nella Toroth. I mishpatīm (da shafat: giudicare) di per sé profani avevano una notevole importanza religiosa dal punto di vista jahvista perché, e in quanto, erano considerati parte del berith con Jahvè. L’incarico di insegnare i cholQm, le tradizioni (rituali), viene affidato ai Leviti (io, n).
Comunque, in linea di principio, il maestro levita aveva soltanto a che fare con i comandamenti rituali che riguardavano la condotta di vita. Ma qui la distinzione tra jus e fas è stata portata ancora meno a compimento che in altri ordinamenti sociali sottoposti a influenze ieroct atiche. Risulta che nell’attività pratica dei Leviti all’epoca della benedizione di Mosè l’oracolo per sorteggio veniva impiegato proprio per le controversie giudiziarie (come indica il nome Meriba). E dopo che la Torah diventò insegnamento religioso razionale la distinzione si fece estremamente fluida. Infatti i Leviti decidevano, in base alla Torah, cosa andava considerato come parte costitutiva degli antichi ordinamenti della lega garantiti da Jahvè. In origine però «Torah» non significava «legge» — come occasionalmente viene ancora tradotto — bensì «dottrina». Certamente il concetto si collegava anche all’antico oracolo per sorteggio dei Levitij7. Nelle fonti di regola torah si riferisce all’insieme di tutte le disposizioni che vanno insegnate dai sacerdoti. Tuttavia nella benedizione di Mosè, dove torah viene distinto da mishpat, significa evidentemente in modo specifico i comandamenti rituali ed etici, ma soprattutto etico-sociali, e comunque non giuridici, del dio della lega. Anche se il v. io della benedizione di Mosè, che riguarda la Torah ed è piuttosto fuori posto (dopo il v. 9, cioè, e separato dal v. 8), può essere stato introdotto successivamente, tuttavia ci mostra chiaramente (insieme al v. 8 e al resto della tradizione) su quali prestazioni si fondava l’espansione e il potere dei Leviti; e cioè su responsi a quesiti non processuali della loro «clientela».
È vero che il vaticinio è stato fin dall’inizio la forma specifi-ca dell’attività dei Leviti. Ma il sorteggio puramente meccanico avrebbe potuto essere imparato, per i bisogni privati, anche da persone non addestrate ritualmente e di fatto abbiamo visto, nei racconti su Gedeone e Gionata, come i presagi e il tiro del dardo venissero impiegati anche da non Leviti per scoprire la volontà di Jahvè come per accertare situazioni di fatto. Nell’interrogare Jahvè, la correttezza rituale del procedimento era l’elemento decisivo. Soprattutto le autorità ufficiali, giuridiche e politiche, dovevano dare il massimo peso, nelle consultazioni, a questa correttezza rituale e di conseguenza per loro l’oracolo per sorteggio levitico rimase di importanza permanente. Per quanto riguardava però la clientela privata, questa forma primitiva di oracolo, malgrado il prestigio che gli derivava da tutti i riconoscimenti ufficiali (ancora all’epoca di Esdra, quando non esisteva già più da molto tempo), non poteva far fronte a lungo andare alle sue necessità. I rapporti sociali si complicavano, e con essi le domande da porre. Nella tradizione (Giud., 17) che risale all’epoca della fioritura dei luoghi di culto nella regione di Dan abbiamo visto come il proprietario fondiario Michea fa del levita immigrato, presumibilmente discendente di Mosè, il suo «padre», gli affida cioè, oltre al culto dell’immagine, l’incarico di dispensare insegnamenti circa i suoi doveri (cioè quelli del fondatore) verso Jahvè (come in India il padre confessore brahmano). Parimenti si è già parlato dell’importanza sempre crescente dei sacrifici chattat e asham, accanto agli antichi sacrifici-offerte (sacrifici propiziatori). Questo crescente bisogno di espiazione dei peccati andava di pari passo con il declino dell’importanza dell’oracolo meccanico della sorte, soppiantato dall’esigenza di una risposta razionale alle domande poste. Naturalmente questo ammaestramento sempre più razionale si estese anche al vaticinio destinato ai privati. Il rapporto tra profezia e sacerdozio cultuale era vago. è vero che Geremia fa una distinzione tra la Torah che è affare dei sacerdoti, e il datar di Dio, che è affare dei profeti. Ma in Isaia (1, 10 e 8, 16 e 20) troviamo Torah con il significato di «oracolo» (sinonimo quindi di davar ]ahvè) e in un passo (8, 16) viene indicato con questo termine il rotolo sigillato contenente l’oracolo del profeta che viene consegnato ai discepoli. Geremia (2, 8) chiama «maestri della Torah» (Thosefé ha-Torah, gente che ha a che fare con la Torah») oltre ai sacerdoti, anche i kohanìm: senza dubbio i sacerdoti addetti al culto del tempio di Gerusalemme.
In ogni caso però i Leviti non guadagnarono il loro prestigio per la loro preparazione in materia di culto sacrificale per la comunità, ma bensì per essere versati nella conoscenza puramente razionale dei comandamenti di Jahvè e nei mezzi rituali — chattat, asham, digiuno o altri — per riparare le infrazioni contro questi comandamenti e allontanare così la sciagura imminente o far retrocedere quella già in atto. è vero che ciò interessava tanto il re quanto la comunità. Tuttavia interessava soprattutto la clientela privata. Con la situazione politica sempre più critica di Israele questo bisogno aumentò in maniera generale. Aiutare il levita nell’istruire la clientela: questo divenne adesso il significato esclusivo della Torah levitica. Le indicazioni venivano date contro remunerazione (Michea, 3, 11). I peccati venivano confessati al levita (Num., 5, 6) che poi «riconciliava» il colpevole con Jahvè (Lev., 4, 20 e 31; 5, 10; 6, 7): era questa la sua prestazione più importante per la clientela privata. Parallelamente al retrocedere degli antichi profeti di guerra e nevijìm estatico-irrazionali si sviluppava questa influenza dei Leviti che — per quanto il suo contenuto potesse essere primitivo — tuttavia era perlomeno relativamente razionale, poiché basata sull’istruzione.
La Torah levitica fu spinta sulla via di un metodo razionale anche dal particolare carattere tecnico dei suoi mezzi divinatori. Rispetto all’esame delle viscere, all’osservazione del volo di uccelli o di altri comportamenti di animali ma soprattutto rispetto a ogni tipo di mantica estatica, lo stesso primitivo sorteggio della risposta tra un «sì» o un «no» a domande concrete era già gravato di un onere assolutamente minimo di esoterismo, di irrazionalismo mistico o emotivo. Esso non dava adito al sorgere di teoremi sul tipo di quelli che ci offre la letteratura babilonese sugli auguri. Poneva al contrario un’altra costrizione: affinché le circostanze di fatto e la concreta volontà del Dio potessero essere accertati con un semplice sorteggio, era necessario che la domanda venisse posta in modo giusto. Tutto dipendeva quindi da questo e di conseguenza il levita doveva appropriarsi di un metodo razionale per ridurre i problemi sottoposti al Dio a un’espressione cui era possibile rispondere con «sì» o «no». Tuttavia era anche inevitabile che sorgessero sempre più frequentemente delle questioni non suscettibili di venir risolte per mezzo del sorteggio o genericamente con un «sì» o un «no». Prima di sottoporle al Dio occorreva dirimere importanti questioni preliminari e in moltissimi casi dopo averle risolte non restava praticamente nulla da accertare mediante l’oracolo per sorteggio. Una volta accertato, mediante la consultazione, quale fosse stato il peccato del cliente, il tipo di espiazione era già fissato tradizionalmente. Solo quando la persona del peccatore era dubbia bisognava ricorrere all’oracolo per sorteggio come mostra in maniera paradigmatica il racconto di Achan. Proprio nel campo dei bisogni privati però l’oracolo per sorteggio è retrocesso inevitabilmente sempre di più in ordine di importanza a favore della casistica razionale dei peccati, finché il razionalismo teologico del Deutoronomio (18, 915) di fatto ha discreditato completamente il sorteggio, o perlomeno non ne ha fatto menzione lasciando, per i casi in cui fino allora era stato usuale e inevitabile — in particolare dove le tradizioni facevano difetto agli studiosi della Torah — l’interrogazione dei profeti come unico mezzo.
Il prestigio della Torah levitica ha subito varie oscillazioni. All’inizio, se si può prestar fede alle rievocazioni in proposito, già all’epoca dell’antica lega questo prestigio era cresciuto inevitabilmente con l’ingresso delle tribù giudaiche del Sud nella confederazione, poi forse si era di nuovo indebolito con la divisione dei regni ricrescendo però a misura che declinava il prestigio del Regno del Nord fino a raggiungere praticamente il dominio assoluto nel Regno del Sud.
Sembra che in Egitto il sacrificio espiatorio non fosse conosciuto. Qui i maghi occupavano il posto conquistato in Israele dai Leviti. I motivi e le occasioni di un insegnamento razionale sui doveri etici sembra siano stati forniti, in epoca posteriore comunque, essenzialmente dal culto dei morti dei sacerdoti di Osiride, il più popolare di tutti. Al contrario troviamo l’espiazione dei peccati tramite sacrificio in Mesopotamia, in particolare in occasione della malattia che viene considerata conseguenza dell’ira divina. Il peccatore, sotto direzione del sacerdote, doveva recitare gli antichi salmi di penitenza (in parte pre-babilonesi) onde togliersi di dosso l’impurità rituale (in assiro: mamìtu). Ma anche qui, come in Egitto, il carattere del provvedimento era magico, non etico-parenetico. E l’oracolo per sorteggio — che Ezechiele (21, 26) cita in riferimento a Babilonia ma che, per quanto ne sappiamo finora, era scomparso da molto tempo dalla tecnica sacerdotale — non era stato sostituito qui da una Torah razionale, ma dalla raccolta e la sistematizzazione degli auguri e da una speciale scienza sacerdotale sulla loro interpretazione che ci è stata conservata in una letteratura straordinaria e mostruosak7. Discuteremo più avanti su quali motivi si fondava questa importante differenza nello sviluppo delle due civiltà.
Nel corso della loro espansione i Leviti si adattarono alle circostanze esistenti. Come mostra l’esempio di Michea, i Leviti in tempi più antichi si erano conformati senza esitazioni al culto degli idoli nel Regno del Nord; presumibilmente appartenevano agli esponenti della concezione secondo cui gli idoli sarebbero anche idoli di Jahvè. Tuttavia la loro origine, indubbiamente meridionale stando alla tradizione, fece sì che quando cominciò la lotta delle immagini il grosso dei Leviti si schierò con gli avversari delle raffigurazioni sacre. Molto probabilmente una parte di loro più tardi degradati, come vedremo, a membri non atti all’ufficio sacerdotale e a inservienti del tempio derivavano da stirpi di Leviti che praticavano l’idolatria. Lo sviluppo della casta brahmanica in India ci offre un esempio analogo.
Come per i brahmani, anche per i sacerdoti leviti l’autentica fonte del loro prestigio stava nella a scienza» dei precetti fondamentali di Jahvè. E poiché per motivi politici il culto aveva un’importanza molto più limitata, era molto meno antico e mancava un libro sacro del tipo dei Veda, tale scienza era semplicemente quella di comandamenti positivi etici o rituali e del modo in cui l’individuo conformandovisi poteva disporre il Dio favorevolmente o viceversa poteva placare la sua ira provocata dall’infrazione dei medesimi. Era come se in Indiafossero esistiti solo Grihyasūtra71 e Dharma’sàstra e genericamente solo pochi semplici precetti riguardanti comandamenti rituali. In ciò consisteva la notevole differenza dei Leviti rispetto ai brahmani; e inoltre nella mancanza di ogni esoterismo in senso indiano. Questa ondata che dal Sud risaliva lentamente sommergendo il paese non portava con sé né una scienza libresca né una scienza segreta astrologica, terapeutica o di altro tipo. La mistagogia poteva svilupparsi solo sul terreno dell’estasi del navi e vi si è in effetti sviluppata come ci mostrano i miracoli di Eliseo. La tradizione, a cominciare da Gen., 20, 7, testimonia in numerosissimi punti del fatto che gli «uomini di Dio», oggetto di sparuto timore e di fervente venerazione, apparivano non solo come santi ausiliatori dotati di poteri magici ma anche come intercessori presso Jahvè che ottenevano il perdono dei peccati. Ma da ciò non si è sviluppata, come in India, una venerazione antropolatrica di salvatori viventi. La Torah levitica lo ha impedito. Questi uomini del Sud con i loro alleati recabiti ed altri sapevano solo una cosa: che il buon vecchio diritto della confederazione di Jahvè era stato stabilito in passato attraverso un berith tra Jahvè e la milizia israelitica in seguito alla proclamazione da parte di Mosè e ogni violazione di questi ordinamenti doveva suscitare la collera di Jahvè. Accanto alla schietta serietà della loro prassi sacrificale, come ce la mostra il Deuteronomio, si trovano presso di loro i comandamenti rituali allora ancora semplici e la dottrina razionale dell’etica privata e sociale.
I Leviti, come i brahmani, devono avere assimilato diversi antichi ceti sacerdotali locali. D’altra parte non si può mettere in dubbio che vi siano state violenti lotte con le stirpi sacerdota li dei singoli luoghi di culto. I sacerdoti che partecipavano ai culti reietti venivano declassatil7. L’originario rapporto tra i Leviti immigrati dal Sud e le stirpi sacerdotali del culto insediate da lunga data è problematica. L’antica stirpe sacerdotale degliElidi a Silo, che stando al nome egiziano (Pinehas) ricorrente tra i suoi membri risale con ogni probabilità a Mosè, viene trattata più tardi come una stirpe di Leviti. Lo stesso vale per la stirpe sacerdotale danita. Non sembra però che in origine gli Elidi fossero considerati Leviti e rimangono estremamente confusi i rapporti originari di questa stirpe con le due grandi stirpi sacerdotali che hanno il ruolo decisivo, l’una in periodo deuteronomico, l’altra in periodo post-esilico: i Sadoqiti e gli Aronniti. I loro alberi genealogici posteriori, levitici, sono naturalmente ambedue falsati. I Sadoqiti, dal periodo di Salomone in poi, sono stati la principale stirpe di sacerdoti al servizio della monarchia a Gerusalemme. Il Deuteronomio li considera Leviti; ciò significa che già in precedenza debbono aver considerato abile il fondersi con i Leviti, una prova dell’antico e storico prestigio che già allora era attributo consolidato di questi ultimi. Resta invece assai problematica la posizione originaria degli Aronniti e la stessa figura di Aronnem7. Nelle più antiche notizie, pre-deuteronomiche (Es., 24, 1 e 9; 18, 12), Aronne sembra essere considerato il più importante degli anziani di Israele: non un sacerdote quindi. Nelle versioni posteriori, in particolare quelle del periodo dell’esilio, è sacerdote e sale continuamente di rango, da portavoce di Mosè (il quale è impacciato nel parlare) a fratello della profetessa Miriam, poi a fratello, anzi fratello maggiore, di Mosè stesso. E infine, nella versione più recente, risulta anche che egli riceve da solo e direttamente delle rivelazioni sui diritti e doveri suoi e della sua stirpe (Lev., 10, 8; Num., 18, 1-9-20)n7.
I Sadoqiti, qui, vengono visti come una branca degli Aronniti. Con sorprendente sfacciataggine si sottrae a Mosè la sua discendenza che figura nell’antica tradizione e in cui si riconosceva, oltre alla stirpe sacerdotale degli Elidi, soprattutto quella di Dan e la si attribuisce ad Aronne. Poiché la versione jahvista sembra non aver conosciuto affatto Aronne il quale d’altra parte viene collegato al culto del toro, se ne è dedotta la suaorigine nord-israelitica. Poiché la versione aronnita della leggenda di Abramo (Gen., 17) mostra Dio che si presenta ad Abramo come «El-Shaddaj», è possibile che gli Aronniti fossero un’antica stirpe sacerdotale di E1 e quindi molto interessati a stabilire l’identità del loro Dio con Jahvè che nel corso dell’esilio era stato elevato a unico Dio universale. Le notizie nell’ultimo versetto del Libro di Giosuè potrebbero far presumere l’esistenza di un legame con Beniamino, il figlio prediletto così fortemente privilegiato nella versione posteriore della leggenda di Giacobbe. Comunque tutto ciò rimane incerto.
I violenti conflitti tra stirpi sacerdotali si riflettono nella tradizione non solo attraverso i numerosi ritocchi al testo ma anche nelle reciproche formule di maledizione. Alla benedizione presumibilmente antica, esaltata, per Pinehas, l’antenato della stirpe sacerdotale elide di Silo, si contrappone dopo la caduta degli Elidi sotto Salomone la minaccia di sventura contro questa stirpe registrata nel Libro di Samuele. Avversari dell’autorità sacerdotale, come i Korahiti, vengono inghiottiti dalla terra: più tardi saranno schiatte degradate di cantori. Anche l’opposizione alla costruzione del tempio salomonico e alla preponderanza così attribuita a questo luogo di culto deve essere stata molto forte, non solo da parte dei sacerdoti jahvisti in senso puritano ma soprattutto da quelli interessati ai luoghi di culto del Nord, come risulta dai residui del testo rielaborato della tradizione. E certamente il distacco del Regno del Nord è stato anche determinato, in maniera sostanziale, da questi dissidi tra i vari gruppi sacerdotali ed i loro regolamenti cultuali, come mostrano le disposizioni di Geroboamo a favore di Dan e Bethel, ma soprattutto la loro motivazione da parte del re. L’asprezza di questi contrasti si rivela con la massima chiarezza nel fatto che nelle leggende reciprocamente tendenziose le figure dei capostipiti non vengono risparmiate. La leggenda dei sacerdoti aronniti attribuisce ad Aronne e alla profetessa Miriam delle pesanti accuse contro lo stesso Mosè, soprattutto per via del suo matrimonio misto. Secondo la tradizione la sua esclusione dall’ingresso nella terra promessa era la conseguenza dei suoi peccati. D’altra parte però Miriam, nella leggenda mosaica, viene colpita dalla lebbra per i suoi peccati. Ma è incerta soprattutto la posizione di Aronne al quale, accanto ad altri errori, viene rimproverata principalmente la partecipazione al culto del toro — un’offesa degna di morte all’epoca della redazione finale di questa tradizione — ma a cui non accade nulla di male, nella tradizione, per questi peccati.
Questa lotta dei gruppi sacerdotali tra di loro dovette rafforzarsi quando il gruppo sacerdotale di Gerusalemme (allora i Sadoqiti) dopo l’annientamento politico del Regno del Nord trasse le conseguenze ultime e accampò un’esigenza del tutto inaudita rispetto alla limpida tradizione antica: e cioè che da ora in poi solo a Gerusalemme doveva esserci un tempio e un luogo di sacrifici pienamente valido sul piano rituale mentre doveva cessare l’antica venerazione di Jahvè sulle alture e sotto gli alberi e presso gli antichi luoghi di culto rurali e provinciali a Bethel, Dan, Sichem e presso altri luoghi. La richiesta probabilmente non era del tutto nuova ma sorse presumibilmente subito dopo la caduta del Regno del Nord. Sembra infatti che già Ezechia, in periodo di gravi difficoltà belliche contro Sennacherib, si fosse avviato alla sua realizzazione. Ma a quell’epoca l’opposizione di coloro che erano materialmente o idealmente interessati ai luoghi di culto rurali — i contadini e i proprietari fondiari — doveva essere troppo forte. Sotto Manasse, che dal canto suo come vassallo degli Assiri praticava a Gerusalemme il culto del toro, non se ne parlava più affatto. Il suo successore consenziente Amon fu eliminato da una rivolta militare, presumibilmente su istigazione del partito jahvista, nello stesso modo in cui a loro tempo lo erano stati gli Omridi nel Regno del Nord. A quell’epoca però la forza delle opposizioni contro le rivendicazioni dei sacerdoti si manifestò nel fatto che la rivolta fu domata dagli interessati ai luoghi di culto rurali, che qui appaiono per la prima volta sotto il nome partitico di ‘amme ha-arez, «gente di campagna», che poi ritornerà molto spesso.
Ma i sacerdoti, con l’alleanza delle schiatte nobili legate al partito jahvista, riuscirono a guadagnare influenza sul re minorenne Giosia e mentre si preparava la grande coalizione contro l’impero assiro, che portò il re alla rovina, riemerse questa rivendicazione. Essa costituisce l’esigenza fondamentale del Libro della Legge deuteronomico, un prodotto letterario degli strati intellettuali raggruppati intorno al ceto sacerdotale di Gerusalemme. Lo si fece «scoprire» da addetti del tempio. La speranza utopistica di ottenere l’aiuto di Jahvè contro il faraone Neco che stava marciando attraverso la Palestina, se fossero stati osservati i comandamenti contenuti in questo rinvenimento che si presumeva rappresentare l’autentico antico sefer ha-Torah mosaico, fu chiaramente il motivo che indusse re Giosia a impegnare il popolo, nel corso di un solenne berith su questa legge, a distruggere gli antichi luoghi di culto e a contaminarli ritualmente mediante ossa di morti (621 a. C.). La sconfitta e la morte del re nella battaglia presso Megiddo pose fine però a tutte queste speranze e anzi inflisse un terribile colpo al partito levitico di Jahvè. L’evidente pretesa del compendio, di subentrare al posto di tutte le altre raccolte giuridiche, venne quindi messa in disparte per allora. Continuò tuttavia a sussistere come esigenza ideale del ceto sacerdotale di Gerusalemme, l’unico che allora fosse solidamente organizzato.
I redattori del compendio avevano abilmente collegato alla rivendicazione del monopolio cultuale altre richieste che tornavano a vantaggio della loro potenza ma nello stesso tempo erano molto popolari. In primo luogo c’era l’antica protesta contro la monarchia salomonica basata sulla corvée. Non era mai stato dimenticato che anche la dinastia davidica, che godeva di altissimo prestigio, aveva ottenuto il trono tramite un berith con gli Anziani, e che l’antico principe israelitico era stato un principe popolare carismatico, che cavalcava su un asino, non possedeva un parco di carri da guerra, un tesoro, un harem, non imponeva tributi e prestazioni servili e non aveva velleità di una politica mondiale. Tutto ciò doveva ora essere ristabilito sul serio. La decisione sul merito dei re doveva spettare all’antico oracolo per sorteggio dei sacerdoti, il re doveva essere vincolato alla legge mosaica deuteronomica che avrebbe dovuto leggere ogni giorno. Delle notizie conformi, sulla maniera in cui Saul fu fatto re da Samuele, vennero ora introdotte nell’antica tradizione, come pure la leggenda della vittoria del pastorel
lo Davide su Golia al posto della tradizione autentica. Nel rifacimento della tradizione del periodo monarchico ogni re riceve ora il suo apprezzamento a seconda della sua posizione rispetto al culto degli idoli e delle alture. Per gli stessi motivi l’antico diritto sociale del Libro del Patto fu ripreso nel nuovo compendio con le corrispondenti trasformazioni. Poiché il signore feudale babilonese di Sedekia aveva interesse all’indebolimento del potere monarchico è perfettamente credibile che sotto questo principe tali rivendicazioni siano state prese per qualche tempo sul serio.
Dal periodo esilico questo compendio fu tramandato, accanto alle altre raccolte di leggende e tradizioni solo parzialmente e imperfettamente unificate, come l’unica teologia completa in sé. L’esigenza della legge deuteronomica che ha avuto la più ampia portata pratica è stata sin dall’inizio quella che rivendicava il monopolio cultuale di Gerusalemme e del suo ceto sacerdotale. Certamente è stata anche quella che ha creato le maggiori difficoltà. Anche a prescindere dall’opposizione degli interessati laici non abitanti a Gerusalemme, che ne doveva essere di quei Leviti ed altri sacerdoti che fino allora avevano prestato servizio presso gli altri luoghi di culto ? La legge deuteronomica, più tardi notevolmente manipolata, contiene in proposito nell’attuale versione due disposizioni contraddittorie. Da un lato vi è l’ammonizione a tutti gli Israeliti a non lasciare senza sostentamento i «Leviti entro le loro porte»: questi dovevano quindi diventare titolari di rendite senza diritti cultuali dividendo con i sacerdoti solo il diritto all’«insegnamento» della legge. D’altra parte vi è la disposizione secondo cui questi sacerdoti potevano trasferirsi a Gerusalemme e ivi prendere parte al culto, una disposizione che comunque non è stata introdotta nella legge dagli stessi sacerdoti e la cui attuazione, anche se si faceva sul serio, non è stata concessa dai sacerdoti di Gerusalemme.
Su ciò venne l’esilio e questo significò la deportazione di tutte le stirpi sacerdotali. Per motivi di forza maggiore l’intero ceto sacerdotale aveva adesso interesse ad andare d’accordo. Ezechiele era ancora stato l’esponente del monopolio dei Sadoqiti di Gerusalemme e conformemente alla teoria deuteronomica aveva tenuto distinti da loro i «Leviti» come sacerdoti di secondo grado privi del diritto di offrire sacrifici. Ma il monopolio dei Sadoqiti non era evidentemente in grado di imporsi.
Il compromesso finale, all’epoca dei Persiani, il cui contenuto è stato probabilmente determinato anche dal grado di influenza a corte delle singole stirpi sacerdotali, è stato evidentemente trovato dal sacerdote e scriba Esdra, in quanto tratta i Sadoqiti come un ramo degli Aronniti e attribuisce a tutti questi l’idoneità alla celebrazione dei sacrifìci a Gerusalemme, unico luogo di culto; degrada viceversa i membri di tutte le altre stirpi, riconosciute come levitiche e a loro subordinate, a funzionari subalterni del culto, e quelli di alcune altre a «schiavi del tempio» (nethiriim) tributari di liturgie, a cantori e a custodi delle porte. La tripartizione della ierocrazia in sacerdoti, Leviti e nethiriim e, dopo la scomparsa di questi ultimi la divisione in sacerdoti e Leviti, che si trova ancora nei Vangeli, deriva da questa regolamentazione. Il mezzo per renderla accettabile era quello della sistemazione delle condizioni materiali: venne applicato l’obbligo universale della decima per tutto il suolo sacro e il ricavato di questa e di alcuni altri tributi che qui non ci interessano fu suddiviso tra gli aventi diritto della casta ierocratica. Da un lato le particolari condizioni della comunità in esilio, dall’altro i particolari rapporti politici con la corte persiana, di cui si parlerà più avanti, e che sono stati decisivi per il nuovo ordinamento, hanno determinato questo tipo di componimento dell’antico conflitto, legittimato da una massiccia manipolazione delle antiche istituzioni e tradizioni e dalla nuova codificazione delle disposizioni del cosiddetto «codice sacerdotale» imposta da Esdra alla comunità sinecizzata tramite un impegno solenne. Non esamineremo in dettaglio i particolari di questo regolamento esterno. Torniamo invece ancora una volta al periodo pre-esilico per esaminare le conseguenze interiori e la forza motrice del suo particolare sviluppo.
La monopolizzazione del culto a Gerusalemme ha avuto anzitutto un’importantissima conseguenza: la sconsacrazione della macellazione domestica e dei pasti a base di carne che fino allora erano considerati, almeno in teoria, rispettivamente «olocausto» e «pasti sacrificali». Adesso che i sacrifici potevano aver luogo solo a Gerusalemme, persero completamente questo carattere. Rimase solo la riserva, dal significato in un primo momento problematico, secondo cui perlomeno i tributari che non abitavano troppo lontano dovevano consumare la loro offerta nella città santa stessa, mentre agli altri era permesso di tramutarla in denaro. Questa sconsacrazione di tutti i pasti privati è stata, dopo il rifiuto del culto dei morti, l’ultimo colpo inflitto dallo jahvismo ad un possibile significato sacrale della schiatta: da questo momento non potevano più esserci pasti cultuali presieduti dal capo della schiatta. Il pranzo della Pesach, da molto tempo, non era più un pasto che riuniva la schiatta ma una festa familiare domestica. Il rapido declino dell’importanza delle schiatte in periodo post-esilico è collegato senza dubbio anche a questo fattore. Certamente è difficile concepire questa disposizione come un provvedimento diretto intenzionalmente contro le schiatte: essa era una conseguenza collaterale del monopolio cultuale, come mostra anche il carattere parziale delle norme create per il consumo delle offerte. In realtà il pasto cultuale in quanto tale già in epoca preesilica era stato lentamente ma tenacemente spogliato del suo significato di una volta. è proprio questo passato significato, e il processo del suo mutamento, strettamente collegato alla penetrazione dei Leviti, che dovremo ora esaminare. Troviamo qui infatti delle caratteristiche profondamente radicate nella religione puritana jahvista che sole possono rendere comprensibile la posizione dei suoi esponenti nei confronti degli altri culti.