Prefazione

Il musicista Bach è un genio imperscrutabile. L’uomo Bach è fin troppo imperfetto, disperatamente normale e sotto molti aspetti ancora invisibile ai nostri occhi. Ecco perché ci sembra di sapere molto poco della sua vita rispetto a quella di tutti i grandi compositori vissuti negli ultimi quattrocento anni. Ad esempio, a differenza di Monteverdi Bach non ha lasciato una corrispondenza privata con i familiari, e oltre all’aneddotica corrente poco è arrivato fino a noi in grado di aiutarci a disegnarne un ritratto piú preciso, o a dare uno sguardo al Bach figlio, amante, marito e padre. Forse aveva una certa riluttanza a sollevare il sipario e rivelare la sua personalità; contrariamente a molti suoi contemporanei, rifiutò, quando se ne presentò la possibilità, di scrivere il racconto della sua vita e della sua carriera. La versione limitata e assai rimaneggiata che è giunta sino a noi fu da Bach stesso affidata ai figli. Non sorprende piú di tanto, dunque, che qualcuno possa aver concluso che l’uomo Bach fosse piuttosto noioso.

L’idea che, dietro questa apparente dissociazione tra l’uomo e la sua musica, si nasconda una personalità ben piú interessante ha sollecitato i suoi biografi sin dall’inizio, con risultati, però, inconcludenti. Ma abbiamo davvero bisogno di conoscere meglio l’uomo per capirne e apprezzarne la musica? Alcuni direbbero di no. Pochi, tuttavia, si accontentano di seguire il secco suggerimento di Albert Einstein: «Cosa dovrei dire riguardo al lavoro di una vita di Bach? Ascoltalo, suonalo, amalo, adoralo – e stai zitto!»1. Al contrario, in molti di noi alberga la naturale curiosità di dare un volto all’uomo nascosto dietro una musica capace di afferrarci e non mollarci piú. Vogliamo assolutamente sapere che genere di essere umano fu in grado di scrivere musiche cosí complesse da lasciarci totalmente disorientati, e in altri momenti cosí irresistibilmente ritmate da spingerci ad alzarci e ballare, e in altri ancora cosí dense di profondissime emozioni da avvicinarci all’essenza stessa del nostro essere. La statura del Bach compositore è sconcertante e, sotto molti punti di vista, non è comparabile ai normali risultati dell’attività umana, cosicché tendiamo a deificarlo o considerarlo un superuomo. In pochi resistono alla tentazione di toccare l’orlo della veste di un genio, e noi, da musicisti, vogliamo gridarlo ai quattro venti.

Eppure, com’è possibile rilevare dalla Cronologia, i fatti incontrovertibili a supporto di una visione cosí idealizzata del Bach uomo sono deplorevolmente pochi. In aggiunta a questi, come uniche indicazioni dei suoi modelli di pensiero e dei suoi sentimenti di individuo e padre di famiglia, dobbiamo accontentarci di una manciata di lettere, perlopiú goffe e noiose. In esse, spesso in maniera sciatta e opaca, Bach si dilunga in rapporti dettagliatisul funzionamento degli organi da chiesa e in lusinghieri giudizi sui suoi allievi. Non mancano una infinita serie di lagnanze, indirizzate alle autorità municipali, sulle sue condizioni di lavoro, e lamentele sui compensi ricevuti. Ci sono anche seccate autogiustificazioni, dediche adulatorie a personaggi principeschi, sempre, almeno cosí sembra, con un occhio alla grande occasione da cogliere. Percepiamo atteggiamenti radicati, ma raramente un cuore che batte. Anche le schermaglie e gli scontri polemici furono condotti per interposta persona. Non c’è traccia di scambio o di confronto con i suoi colleghi, sebbene la Cronologia ci dica che di tanto in tanto Bach l’abbia fatto, e c’è poco che possa illuminarci sul suo metodo di composizione, o l’atteggiamento nei confronti del lavoro o, piú in generale, della vitaa. La risposta tipica a chi gli chiedeva come fosse riuscito a raggiungere un tale magistero nell’arte della musica era secca e poco illuminante: «Sono stato costretto a lavorare; chiunque lavorerà quanto me, arriverà dove sono arrivato io», come riporta il suo primo biografo, Johann Nikolaus Forkel2.

Data la scarsità di materiali, i biografi, da Forkel (1802), Carl Hermann Bitter (1865) e Philipp Spitta (1873) in poi hanno dovuto basarsi sul Nekrolog, il necrologio scritto in fretta e furia nel 1754 dal secondo figlio, C. P. E. Bach, e dal suo allievo Johann Friedrich Agricola, sulle testimonianze di altri figli, allievi e contemporanei, e sulla rete di aneddoti, su alcuni dei quali lo stesso Bach potrebbe aver ricamato. Anche cosí, il disegno che emerge è perlopiú bidimensionale e formale: quello di un musicista a suo dire autodidatta, di un uomo che assolve i propri obblighi con distaccata rettitudine, di qualcuno completamente immerso nella sua musica. Ogni tanto, quando i suoi occhi si sollevano dalla pagina, abbiamo piccoli scatti di collera – la fugace apparizione di un artista distratto dalla stupidità e dalla piccolezza mentale dei suoi impiegati e costretto a vivere, secondo le sue stesse parole, «tra continue vessazioni, invidia e persecuzione»3. Ciò ha dato la stura alle congetture: molti, tra i biografi successivi, provarono infatti a colmare le profondissime lacune delle fonti che avevano spremuto fino all’ultima goccia, con speculazioni e inferenze. In questo esatto momento la mitologia prende il sopravvento: Bach teutone esemplare, artigiano-eroe della classe operaia, quinto evangelista, intellettuale del calibro di Isaac Newton. Ci sembra di dover combattere non soltanto la tendenza ottocentesca all’idolatria, ma anche contro le tendenze particolarmente resistenti del Novecento a dare interpretazioni ideologiche, politicamente connotate.

Nasce allora il sospetto, assai assillante, che molti studiosi, intimiditi e abbagliati da Bach, ancora tacitamente presuppongano una correlazione diretta tra il suo immenso genio e la sua dimensione umana. Nella migliore delle ipotesi, ciò potrebbe renderli particolarmente tolleranti rispetto ai suoi difetti, che sono sotto gli occhi di tutti: una certa irascibilità, spirito di contraddizione, presunzione, timidezza nell’affrontare sfide intellettuali, e un atteggiamento servile nei confronti di reali e di rappresentanti dell’autorità in generale, che mescola la diffidenza con il desiderio di guadagnare. Perché, però, dovremmo presumere che la grande musica emani da un essere umano eccezionale? La musica può ispirarci, innalzarci, ma non ha bisogno di essere la manifestazione di una personalità ispiratrice (che però deve essere ispirata). In alcuni casi, una tale corrispondenza può manifestarsi, ma non siamo obbligati a presumere che sia sempre cosí. È molto probabile che «il narratore può essere ben piú scialbo o meno attraente rispetto alla narrazione»4. Che la musica di Bach sia stata concepita e organizzata con la brillantezza di una grande mente non ci fornisce, direttamente, nessun indizio sulla sua personalità. Infatti, la conoscenza dell’una può portare a una comprensione imprecisa dell’altra. Almeno, con Bach non si corre il minimo rischio, come con molti dei grandi romantici (pensiamo subito a Byron, Berlioz, Heine), di poter scoprire su di loro addirittura troppo o, come nel caso di Richard Wagner, essere tentati di individuare una inquietante correlazione tra la creatività e il patologico.

Non vedo alcuna necessità, per noi, di collocare Bach sotto una luce lusinghiera, o di distogliere lo sguardo da possibili zone d’ombra. Alcune recenti biografie hanno cercato di fare buon viso a cattivo gioco interpretando tutto in una prospettiva rosea, smentita dalle fonti superstiti. Il rischio di una simile operazione è di sottovalutare il tributo psicologico che una vita, piena non tanto di instancabile applicazione e lavoro, quanto di salamelecchi a gente assai meno dotata di lui, avrebbe potuto avere sul suo stato mentale e sul suo benessere. Ogni immagine divina che sovrapponiamo a Bach ci impedisce di vedere le sue difficoltà artistiche, e da quel momento smettiamo di percepirlo come l’artigiano musicista per eccellenza. Cosí come siamo ormai abituati a immaginare Brahms come un vecchio uomo grasso con la barba, dimenticando che un tempo era stato giovane e focoso – «un’aquila del nord», come Schumann lo definí dopo il loro primo incontro –, allo stesso modo si tende a vedere Bach come un imparruccato, paffuto vecchio Capellmeister tedesco e ad assimilare a questa immagine la sua musica, nonostante tutta l’esuberanza giovanile e la vitalità senza eguali che essa cosí spesso veicola. Supponiamo, invece, di iniziare a vedere in lui un improbabile ribelle: «uno che ha minato regole ampiamente accettate e dogmi gelosamente custoditi [in musica]». Questo, suggerisce Laurence Dreyfus, «non potrebbe che esser positivo, dato che ci permetterebbe di trasformare quell’incipiente timore reverenziale che molti di noi provano dopo aver ascoltato le opere di Bach in una percezione del coraggio e dell’audacia del compositore, consentendoci di rapportarci alla sua musica da una prospettiva completamente nuova. … Bach e le sue attività sovversive potrebbero fornire la chiave della sua riuscita, che, come tutta la grande arte, è in sintonia con le manipolazioni piú sottili e la rielaborazione dell’esperienza umana»5. Il correttivo, originale e persuasivo, apportato da Dreyfus alla vecchia idolatria è in perfetta sintonia con la linea di indagine che seguirò nei capitoli centrali di questo libro.

Questo è solo una faccia della medaglia. Perché, nonostante tutta la recente profusione di lavori accademici su singoli aspetti della musica di Johann Sebastian, e le accese polemiche su come fosse eseguita, e da chi, Bach come Mensch continua a sfuggirci. Spulciando tra le stesse vecchie pile di materiale biografico per l’ennesima volta, è facile supporre che ormai abbiamo esaurito la loro capacità di produrre nuove informazioni. Non credo sia questo il caso. Nel 2000, lo studioso americano di Bach Robert L. Marshall, ben comprendendo che una rilettura completa della vita e delle opere di Bach fosse ormai indifferibile, ha affermato che lui e i suoi colleghi «stavano evitando la sfida, e lo sapevano». Era certo che «i documenti superstiti, seppur recalcitranti come sono, possono ancora far luce sull’uomo Bach piú di quanto possa sembrare»6. La fondatezza della sua posizione è stata poi dimostrata dai brillanti e infaticabili segugi che lavorano al Bach-Archiv, a Lipsia, anche se i nuovi materiali da loro riportati alla luce sono stati solo parzialmente assimilati. Come Peter Wollny, il direttore delle ricerche, mi ha spiegato, il processo equivale a «raccogliere un frammento residuo di marmo caduto da una statua: non si sa se faccia parte di un braccio, un gomito o un ginocchio, ma è sempre Bach e, grazie a queste nuove prove, avremo bisogno di modificare la nostra immagine speculativa della statua completa». Forse, quindi, ancora esistono perle inestimabili di informazione nascoste da qualche parte negli archivi? Con l’apertura delle biblioteche nei paesi dell’ex blocco sovietico e la valanga di fonti improvvisamente messe a disposizione degli studiosi tramite l’accesso digitale online, le probabilità che qualcuna possa essere scoperta sono piú elevate oggi che in un qualsiasi momento degli ultimi cinquant’annib.

Esiste anche la possibilità che, concentrandoci sulle fonti consuete e cercando accanitamente di aggiungerne altre, si sia sempre guardato in una sola direzione, ignorando la piú rivelatrice delle prove sotto il nostro naso: la musica. È il punto fermo al quale possiamo tornare sempre, e il mezzo principale per confermare o confutare ogni conclusione circa il suo autore. Di tutta evidenza, piú attentamente la si esamina dal di fuori come un ascoltatore, e piú profondamente la si arriva a conoscere dall’interno come esecutore, maggiori sono le possibilità di scoprire le meraviglie che ha da offrire: non solo, ma anche di approfondire la conoscenza dell’uomo che l’ha creata. Nella sua dimensione piú monumentale e imponente – L’Arte della Fuga, ad esempio, o i dieci canoni dell’Offerta musicale – ci scontriamo con membrane cosí impenetrabili da ostacolare anche la ricerca piú accanita del volto del suo creatore. Le composizioni per tastiera di Bach mantengono una tensione – nata dal rispetto e dall’osservazione di regole autoimposte – tra forma (che potremmo variamente definire fredda, severa, inflessibile, angusta o complessa) e contenuto (appassionato o intenso), piú palpabile di quanto non faccia la sua musica con un testoc. Molti di noi possono solo ammirare e indietreggiare, cedendo al fiume carsico di pensiero che scorre piú profondo e piú immutabile, nella sua spiritualità priva di passione, che in quasi ogni altro tipo di musica.

Quando invece sono presenti le parole, l’attenzione è spostata dalla forma al significato e all’interpretazione. In parte, lo scopo di questo libro è mostrare come il metodo di Bach in cantate, mottetti, oratori, Messe e Passioni riveli chiaramente il suo cervello al lavoro, le sue preferenze temperamentali (tra cui, quando accade, l’atto stesso di scegliere un testo rispetto a un altro), cosí come la sua ampia prospettiva filosofica. Le cantate di Bach non sono, ovviamente, pagine di diario, composte a voler semplicemente scrivere un racconto personale. Intrecciate nella musica, e poste dietro il guscio esterno della loro forma, ci sono le caratteristiche di quest’uomo profondamente riservato e dai molti volti: devoto in un certo momento, ribelle il momento dopo, estremamente riflessivo e serio per la maggior parte del tempo, ma illuminato da lampi di umorismo e simpatia. La voce di Bach a volte può essere percepita nella musica e, fatto ancor piú importante, nel modo in cui le tracce delle sue stesse esecuzioni si intrecciano in essa. Sono i timbri di qualcuno in sintonia con i cicli della natura e le stagioni, sensibile alla cruda fisicità della vita, ma sostenuto dalla prospettiva di una vita dopo la morte, da passare in compagnia degli angeli e di angelici musicisti. Tutto ciò ha suggerito il titolo del mio libro, che descrive la realtà fisica – a Weimar l’«Himmelsburg» è stato il luogo di lavoro di Bach per nove anni formativi – e fornisce una metafora per una musica ispirata da Dio (vedi infra). Una musica ci regala lampi di comprensione delle esperienze strazianti che deve aver sofferto come orfano, adolescente solitario e marito e padre addolorato. Ci mostra la sua feroce avversione per l’ipocrisia e la sua insofferenza per la falsità di qualsiasi tipo, ma rivela anche la profonda empatia che provava nei confronti degli afflitti e dei sofferenti, o di chi lottava con la propria coscienza o le proprie convinzioni. La sua musica esemplifica tutto questo, e questo è in parte ciò che le conferisce autenticità e una forza immensa. Ma, piú di ogni altra cosa, percepiamo la sua gioia e il senso di delizia nel celebrare le meraviglie dell’universo e i misteri dell’esistenza, cosí come l’emozione dei suoi exploit creativi. Basta ascoltare una sola delle sue cantate di Natale per sperimentare l’euforia della festa e il giubilo di proporzioni ineguagliabili, una musica che nessun altro compositore avrebbe mai potuto realizzare.

Scopo di questo libro è «rencontrer l’homme en sa création»7. Il suo obiettivo è quindi molto diverso da quello di una biografia tradizionale: dare al lettore un’idea reale e concreta di ciò che l’atto del fare musica avrebbe potuto rappresentare per Bach, la possibilità di condividere le stesse esperienze, le stesse sensazioni. Con questo non sto proponendo una correlazione diretta tra le opere e la personalità, tanto piú che la parte musicale è in grado di rifrangere una vasta gamma di esperienze di vita (molte delle quali non possono in sostanza essere tanto diverse dalle nostre), come una cerniera che collega vita e opere. La personalità di Bach si è sviluppata e affinata come diretta conseguenza del suo pensiero musicale. I suoi modelli di comportamento reali erano secondari rispetto a esso, e in alcuni casi possono essere interpretati come il risultato di uno squilibrio tra la sua vita di musicista e quella domestica quotidiana. Studiando i processi, strettamente connessi, del comporre ed eseguire la musica di Bach possiamo metterne in rilievo alcuni tratti, un’impressione che può essere rafforzata solo dall’esperienza di ri-crearla e ri-eseguirla oggi.

Cerco cioè di trasmettere quello che si prova ad avvicinarsi a Bach dalla posizione di un esecutore e direttore d’orchestra in piedi di fronte a un ensemble vocale e strumentale, proprio come lui stesso abitualmente faceva. Naturalmente, mi rendo conto che questo è un terreno insidioso, e che qualsiasi «prova» cosí ottenuta può essere facilmente liquidata come soggettiva e non valida: solo «una versione aggiornata della visione romantica della musica come autobiografia», che pretende «un’autorità impossibile» per le sue speculazioni8. Naturalmente, è forte la tentazione di credere che si possano comprendere gli scopi di un compositore, mentre si è sotto l’influenza delle emozioni che la musica evoca, anche se questo potrebbe non essere il casod. Ma ciò non significa che la soggettività di per sé sia nemica della verità oggettiva o ne comprometta le conclusioni. In definitiva, tutte le verità, in un modo o nell’altro, sono soggettive, tranne forse quelle della matematica. Nel passato, gli studi su Bach hanno subito l’allontanamento, o in alcuni casi la rimozione, del soggetto (l’autore) dall’oggetto (il compositore) della ricerca. Ma una volta che la soggettività di un autore è praticamente cancellata o rimane non conosciuta, ne consegue che le sfaccettature della personalità di Bach siano inaccessibili. Nel capitolo introduttivo spiego il contesto, e la natura, della mia particolare soggettività. Mi si scuserà, spero, e forse altri dovrebbero, di conseguenza, trovare il coraggio di analizzare le proprie risposte soggettive al compositore, e di considerare la misura in cui tali risposte hanno dato luogo alla concezione che abbiamo di lui.

Scrivere questo libro nel corso di diversi anni ha significato ricercare i modi in cui studio analitico ed esecuzione possono cooperare e, unendosi, dare frutti insperati. Si è trattato di cercare in profondità gli elementi che potessero gettare nuova luce sul suo background, mettendo insieme i frammenti biografici, riesaminando l’impatto e le conseguenze del suo essere stato orfano e i fatti della sua vita scolastica, analizzando la musica e mantenendo le antenne ritte per cogliere quei momenti, durante un’esecuzione, in cui la sua personalità sembra emergere attraverso il tessuto della notazione. Nonostante l’enorme debito che ho verso gli esperti e gli studiosi che mi hanno guidato, e forse distolto dal disastro, ciò che qui viene presentato è essenzialmente una visione personale. Ho immaginato una struttura semplice (anche se non sempre articolata in ordine strettamente cronologico): quattordici diversi punti di vista, quattordici raggi di una ruota, tutti collegati a un asse centrale, ovvero Bach come uomo e musicista. Ogni raggio, anche se ha una relazione con i suoi vicini e opposti, è lí per guidare il lettore da un punto a un altro all’interno del suo argomento specifico. Ognuna di queste «costellazioni» (termine con cui Walter Benjamin descrive qualcosa di analogo) esplora un diverso aspetto del suo carattere e propone una prospettiva nuova da cui osservare l’uomo e la sua musica.

Come contrappunto, ho introdotto una serie di note a piè di pagina, nello spirito del biografo Richard Holmes: «come una sorta di voce fuori campo, che riflette sul modo in cui si sviluppa l’azione, e suggerisce linee di esplorazione attraverso alcune delle questioni biografiche o critiche»9. Tuttavia, non cerco di essere esaustivo, tutt’altro. Se siete alla ricerca di un’analisi delle opere monumentali per cembalo e organo o per strumenti solisti qui non la troverete: non potrebbero mai essere trattate a fondo assieme alla musica vocale, sarebbe necessario dedicare loro un volume a partee. La mia attenzione si è concentrata sulla musica che conosco meglio: quella legata alle parole, a un testo. Spero di dimostrare che, per la loro connessione con le parole e i testi, ci sono cose dette nelle cantate, nei mottetti, nelle Passioni e nelle Messe che sono insuperabili nella produzione di Bach, cose che fino a quel momento nessuno aveva mai provato, o osato, o potuto dire, con i suoni. Trovo che la familiarità concreta che ciò porta con sé possa indicare nuove prospettive sul perché e il come certe composizioni si siano evolute in un determinato modo, o sul come siano state cucite insieme, e su quello che sembrano raccontarci sull’uomo che le compose. Per me, l’emozione di provare ed eseguire queste opere – di fatto vivendo dentro di esse in un arco di tempo molto concentrato – ha acceso un fuoco che ha continuato a bruciare con ardore crescente dal primo momento che le ho incontrate. È questo ricco, sonoro mondo e la gioia che mi procura, sia come direttore d’orchestra che come eterno studente di Bach, ciò che piú desidero trasmettere.

Come ascoltatore, critico o studioso normalmente si ha un margine di tempo per misurare e riflettere sulla risposta di ciascuno alla musica di Bach. L’analisi della struttura musicale ha la sua utilità, ma è solo una parte: identifica i pezzi meccanici, descrive l’ingegneria dei componenti, ma non ti dice che cosa è che fa vibrare e ronzare il motore. Come per molti compositori, ma in particolare nel caso di Bach, è molto piú facile registrare le procedure puramente artigianali che ha usato per elaborare e trasformare il materiale musicale, piuttosto che definire o raggiungere la sostanza delle sue iniziali formulazioni creative. Sebbene nel secolo scorso l’analisi musicale ci abbia permesso di fare passi da gigante nella comprensione dell’abilità di Bach, le tecniche che abitualmente usiamo per analizzare la musica sono di scarsa utilità quando è presente anche la dimensione verbale di un testo. Abbiamo bisogno di attrezzi diversi.

L’esecuzione, d’altra parte, toglie l’ultima possibilità di essere spettatori: al fine di presentare al pubblico un lavoro con piena convinzione, si è obbligati a individuarne una visione personale e una interpretazione originale. Cerco di comunicare ciò che si prova a essere nel bel mezzo di tutto questo, connessi al motore e ai ritmi di danza della musica, presi nell’armonia sequenziale e nell’intricata rete contrappuntistica dei suoni, le loro relazioni spaziali, le caleidoscopiche variazioni di colore di voci e strumenti (singolarmente e separatamente, cosí come nelle loro collisioni). Questo è forse il tipo di compito che gli astronauti avrebbero dovuto affrontare nel descrivere la luna se non avessimo visto le loro immagini sui nostri teleschermi sulla terra; o che si presenta a chi, avendo assunto droghe allucinogene, emerge da un mondo di sogno con (quello che immagino essere) sensazioni strane che ronzavano dentro di lui, lottando per cercare di dare un’idea di quello che ha provato sotto la loro influenza in una dimensione parallela.

Immaginate, invece, come ci si sente a stare a galla sulla superficie dell’oceano, in attesa di fare snorkeling. Ciò che percepiamo sono le poche caratteristiche fisiche visibili a occhio nudo: la terra, l’orizzonte, la superficie del mare, forse una barca o due, e forse il contorno sbiadito di pesci o coralli appena sotto di noi, ma non molto altro. Poi, indossate la maschera e vi inabissate in acqua. Subito si entra in un mondo magico, indipendente, pieno di miriadi di tinte e colori vivaci, con il sottile movimento del passaggio di banchi di pesci, l’ondeggiare di anemoni di mare e coralli: una realtà viva, ma del tutto diversa. Cosí è per me l’esperienza e lo shock di eseguire la musica di Bach: il modo in cui espone il suo spettro di colori brillanti, la nitidezza dei contorni, la profondità armonica e la fluidità essenziale dei suoi movimenti e dei loro ritmi sottostanti. Sopra l’acqua c’è il sordo rumore quotidiano; sotto la superficie c’è il magico mondo dei suoni musicali di Bach. Ma una volta che l’esecuzione è finita e la musica si è sciolta di nuovo nel silenzio da cui è iniziata, siamo ancora presi dalla forza, dall’impatto di quell’esperienza, che resta a lungo nella memoria. Forte, anche, è il senso del rispecchiamento, in quella musica, dell’uomo che l’ha creata, che riflette vividamente la sua complessa e robusta personalità, la sua voglia di comunicare e condividere la sua visione del mondo con gli ascoltatori, e la sua capacità unica di infondere invenzione sconfinata, intelligenza, arguzia e umanità al processo di composizione.

Decisamente, l’uomo Bach era tutto fuorché noioso.

a. In un discorso tenuto in occasione del bicentenario della morte di Bach, Paul Hindemith fa riferimento alla reticenza del nostro autore a parlare del suo lavoro – diversamente da Beethoven o Wagner, dei quali conosciamo l’atteggiamento verso molte delle proprie creazioni. Come ha detto giustamente Hindemith: «Avere sempre davanti agli occhi questa statua [la banale figura di un uomo in redingote con una parrucca che non toglie mai] ha alterato la nostra visione della vera statura di Bach, sia dell’uomo sia del suo lavoro» (PAUL HINDEMITH, J. S. Bach. Ein verpflichtendes Erbe. Festrede am 12 September 1950 auf dem Bachfest in Hamburg, Insel, Frankfurt a. M. 1953, pp. 6-7).

b. Ad esempio, il Bach-Archiv di Lipsia (in collaborazione con la Staatsbibliothek di Berlino, il centro di calcolo dell’Università di Lipsia, e altri partner, e finanziato dalla Deutsche Forschungsgemeinschaft) sta lavorando a un progetto denominato Bach Digital «finalizzato alla digitalizzazione di ogni autografo di Bach esistente nel mondo, mettendo quindi a disposizione di una cerchia piú ampia di utenti la piú culturalmente preziosa raccolta di fonti bachiane».

c. Ma, come Robert Quinney mi ha fatto notare, per Bach gli strumenti a tastiera erano basilari, e la musica per organo e cembalo ci può far comprendere il funzionamento della sua mente. Come in ogni improvvisatore esperto, il cervello e le dita di Bach erano collegati con un’istantaneità febbrile (lavorando insieme letteralmente ex tempore); possiamo facilmente credere che la musica per tastiera mantenga una carica di questa creazione «in tempo reale», non mediata da quel doloroso processo compositivo che tanti altri compositori subiscono – malgrado l’abitudine di Bach di rivedere la sua musica. E il testo non è mai lontano dalla sua musica per organo, sia quello dei corali su cui elaborare i preludi, sia nel sorprendente profilo «colloquiale» di molti soggetti delle sue fughe.

d. Peter Williams, uno dei piú acuti tra i recenti biografi di Bach, ci mette in guardia: «Lo splendido mondo dell’immaginazione generato da ogni musica potente è di per sé problematico, perché invoglia gli ascoltatori a tradurre in parole i sentimenti che suscita in loro, fino a immaginarsi le priorità e persino la personalità di un compositore. Sono poche le persone che dopo aver suonato, cantato, ascoltato o scritto sulla musica di Bach non sentano di avere con lui un’intesa speciale, un rapporto personale, unico, ma che in ultima analisi, proviene dalla loro idea di ciò che la musica è e fa. E che potrebbe essere molto diversa da quella del compositore» (PETER WILLIAMS, The Life of Bach, Cambridge University Press, Cambridge 2004, p. 1). Ha completamente ragione.

e. La bibliografia sull’argomento è comunque molto vasta, innanzitutto si veda: LAURENCE DREYFUS, Bach and the Patterns of Invention, Harvard University Press, Cambridge-London 1996; DAVID SCHULENBERG, The Keyboard Music of J. S. Bach, Schirmer, New York 1992 e PETER WILLIAMS, The Organ Music of J. S. Bach, Cambridge University Press, Cambridge 20032.