Capitolo primo

Sotto lo sguardo del Cantor

Nell’autunno del 1936 un maestro di musica – aveva trent’anni e veniva da Bad Warmbrunn nella Bassa Slesia – apparve all’improvviso in un villaggio del Dorset con due oggetti nel suo bagaglio: una chitarra e un ritratto a olio di Bach. Come il vecchio Veit Bach, il fondatore del clan, fuggito dall’Europa dell’Est come rifugiato religioso quasi quattro secoli prima, Waler Jenke aveva lasciato la Germania non appena agli ebrei fu impedito di mantenere le cariche professionali. Si stabilí e trovò lavoro nel Dorset settentrionale, prese in moglie una ragazza inglese e, con la guerra alle porte, cercò un rifugio sicuro per il suo quadro. Suo nonno aveva comprato per pochi soldi un ritratto di Bach in un negozio di cianfrusaglie in un momento imprecisato degli anni Venti del XIX secolo. Di sicuro, a quel tempo, non sapeva che quello era, ed è ancora, di gran lunga il piú importante ritratto di Bach esistentea. L’avesse lasciato da sua madre, a Bad Warmbrunn, non sarebbe certamente sopravvissuto al bombardamento o all’evacuazione dei tedeschi dalla Slesia durante l’avanzata dell’Armata Rossa.

HANS RAUPACH, Das Wahre Bildnis des Johann Sebastian Bach (1983).

Sono cresciuto sotto lo sguardo del Cantor. Il celebre ritratto di Bach dipinto da Haussmann1 era stato consegnato ai miei genitori affinché lo tenessero al sicuro per la durata della guerra, e con orgoglio fu collocato su una parete del pianerottolo al primo piano del vecchio mulino nel Dorset dove sono nato. Ogni notte, andando a letto, ho provato a evitarne lo sguardo severo. Ero un bambino doppiamente fortunato, perché sono cresciuto in una fattoria e in una famiglia molto musicale, nella quale cantare era considerato perfettamente normale: su un trattore o a cavallo (mio padre), a tavola (l’intera famiglia intonando la preghiera di ringraziamento prima dei pasti) o nelle riunioni del fine settimana, occasioni speciali nelle quali i miei genitori potevano esprimere tutto il loro amore per il canto. Durante gli anni della guerra, con alcuni amici del luogo si ritrovavano ogni domenica mattina per cantare la Messa a quattro voci di William Byrd. Da bambini, io, mio fratello e mia sorella crescendo abbiamo finito per conoscere una grande varietà di musica corale senza accompagnamento, da Josquin Després a Palestrina, da Tallis a Purcell, da Monteverdi a Schütz e, alla fine, Bach. Rispetto alla polifonia precedente, trovavamo che i mottetti di Bach fossero molto piú difficili tecnicamente – quelle lunghe, lunghe frasi senza punti in cui poter respirare – ma amavo la fitta relazione tra le voci, con tutte quelle cose che accadevano nello stesso momento, e, sotto, quel ritmo pulsante che sosteneva l’insieme. A dodici anni conoscevo quasi a memoria tutte le parti dei soprani dei sei mottetti di Bach. Diventarono parte integrante di ciò che conservavo nella mia testa (insieme a canti folklorici, poemetti licenziosi nel dialetto del Dorsey, e Dio solo sa cos’altro), e non mi hanno piú abbandonato.

Poi, durante l’adolescenza, ho scoperto qualcuno dei suoi lavori strumentali: i Concerti Brandeburghesi, le sonate e i concerti per violino (con i quali, da strumentista mediocre qual ero, ho spesso combattuto – e generalmente perso – tra i nove e i diciotto anni, età in cui passai alla viola), alcuni dei brani per tastiera e molte arie per contralto dalle cantate, alle quali mia madre era molto legata. Ancora oggi non riesco ad ascoltare arie come «Gelobet sei der Herr, mein Gott» («Il Signore sia lodato») o «Von der Welt verlang ich nichts» («Non chiedo nulla al mondo») senza un groppo in gola, ricordando la sua voce che, dall’interno del mulino, fluttuava attraverso il cortile. Il mio primo apprendistato bachiano, però, quello che ha nutrito una relazione che dura ancora oggi con la sua musica, e il desiderio di capire piú a fondo il severo Cantor, lo devo a quattro eccezionali insegnanti – tre donne e un uomo – che mi hanno aiutato a definire il genere di musicista che sarei diventato.

L’uomo era Wilfred Brown, il grande tenore inglese, che venne in visita nella mia scuola quando avevo quattordici anni, e cantò sia la parte dell’Evangelista sia le arie del tenore in una esecuzione della Passione secondo Giovanni di Bach. Ero cosí rapito che, comportamento imperdonabile per il primo dei secondi violini, a un certo punto smisi di suonare, per ascoltarlo a bocca aperta. Come interprete dell’Evangelista, Bill Brown non aveva eguali. Il suo canto era caratterizzato da una straordinaria sottigliezza di inflessioni e dalla capacità di evocare immagini con le parole, unite a un pathos inseparabile dal suo credo quacchero e dall’umiltà che da questo derivava, tratti che riconoscevo in mia madre, educata allo stesso modo. Piú tardi, quando di anni ne avevo sedici, Brown si offrí di darmi lezioni di canto fino a quando ne compii ventidue, a volte venendo apposta da Cambridge e sempre rifiutando di essere pagato.

Imogen Holst, figlia di Gustav e segretaria-amanuense di Benjamin Britten, era una presenza costante in casa dei miei genitori; di tanto in tanto dirigeva i loro fine settimana corali e dava lezioni di canto a me e mia sorella. Piú di ogni altro musicista incontrato in quella prima fase della mia formazione, lei sottolineava con forza l’importanza della danza nella musica barocca. Lo si notava chiaramente nelle sue interpretazioni e nel modo in cui dirigeva Bach, che qualcuno una volta filmò, riprendendola dalla vita in giú, durante un’esecuzione della Messa in Si minore. Oggi, grazie a Imo, credo che il peccato interpretativo piú grave (commesso, purtroppo, con dolorosa regolarità anche ai nostri tempi) sia rallentare Bach. Si butta via l’essenza piú profonda della sua musica se si nega o si resiste all’elasticità ritmica e alla vivacità. Parlando con l’affetto del padre, Imogen sottolineava l’indispensabilità della musica, una parte della vita di cui «non si può fare a meno».

Lasciar danzare Bach fu una lezione fondamentale; l’altra fu come farlo «cantare». Questo sembra ovvio e molto piú facile di quanto non lo sia nella pratica. Non tutte le melodie di Bach sono, appunto, melodiose o facili da cantare, come accade con, diciamo, Purcell o Schubert. Sono spesso spigolose, scomode a causa della lunghezza delle frasi, speziate con piccoli ghirigori, fioriture e abbellimenti, e richiedono molta applicazione, sostenuta da un ferreo controllo del fiato, prima di poter essere cantate come si deve. E questo vale non solo per le linee vocali, ma anche per quelle strumentali. Me lo insegnò la mia maestra di violino, Sybil Eaton, allieva del celebre violinista e musicologo greco Minos Dounias. Quando suonava, Sybil cantava; e, attraverso il suo insegnamento appassionato e l’amore sconfinato per Bach, era in grado di aiutare i suoi studenti a prendere il volo melodicamente, sia che suonassimo i concerti, le partite per violino solo o le parti obbligate delle arie dalle Passioni o dalle cantate.

Chi cristallizzò per me tutte queste idee fu Nadia Boulanger, a ragione considerata la piú importante insegnante di composizione vissuta nel XX secolo. Quando mi accettò tra i suoi studenti, a Parigi nel 1967, aveva appena compiuto ottant’anni e quasi non ci vedeva piú, ma tutte le altre facoltà erano in perfetta forma. Il suo metodo di insegnamento dell’armonia si basava sui corali di Bach, da lei considerati modelli per la creazione di meravigliose polifonie: ciascuna voce era ugualmente importante, pur giocando un ruolo diverso all’interno della conversazione a quattro, ora venendo in primo piano, ora indietreggiando; in altre parole: un’armonia concepita contrappuntisticamente. Insisteva sul fatto che la libertà di esprimere se stessi in musica – da direttore, compositore o esecutore – esige l’obbedienza a certe leggi e il possesso di inattaccabili capacità tecniche. Uno dei suoi mantra preferiti era: «Il talento [termine col quale credo volesse intendere la tecnica] senza il genio non vale molto; ma il genio senza il talento non vale proprio nulla».

Costretto per due anni a una rigida dieta a base di esercizi di armonia, contrappunto e solfeggio (l’efficace, ma particolarmente odioso, sistema francese di «allenamento dell’orecchio»), scalciavo e graffiavo, metaforicamente, come un animale in gabbia. In almeno un’occasione, per pura frustrazione, il volume Teoria musicale e solfeggio di Hindemith finí nel secchio dell’immondizia, lanciato fuori della finestra del mio monolocale nel quarto arrondissement. Ma nei confronti di Nadia ho un debito colossale. Era davvero spietata nello sfidare ogni preconcetto e nell’esporre con naturale abilità i problemi, tecnici o di altra natura, di chiunque. Vide qualcosa in me che io proprio non riuscivo a scorgere. Fu solo dopo aver lasciato la «Boulangerie» che compresi come quello che in quel momento poteva sembrare una tortura era in realtà un atto gentile, capace di fornirmi gli strumenti e le capacità per evitare imbarazzi professionali in futuro. Nonostante la sua severità, era eccezionalmente generosa, come quando mi lasciò la sua formidabile collezione di copie manoscritte del repertorio rinascimentale e barocco (da Monteverdi a Rameau), comprese partiture e parti delle sue cantate di Bach preferite, tutte meticolosamente annotate. La conservo come uno dei miei averi piú preziosib.

Come sarei riuscito a tradurre tutta questa teoria, assimilata non senza sofferenza, in un suono reale e concreto trovandomi di fronte a un coro e a un’orchestra? Fortunatamente, a quell’epoca (tra il 1967 e il 1968), mentre studiavo a Parigi e Fontainebleau, di tanto in tanto avevo la possibilità, a Londra, di esercitarmi con uno «strumento»: il Monteverdi Choir. Tutto era iniziato nel 1964, mentre ero iscritto al terzo anno del corso di laurea a Cambridge. Il mio tutor, l’antropologo sociale Edmund Leach, mi concesse un anno sabbatico prima dell’esame finale per il conseguimento della laurea in storia, affinché perlustrassi tutte le possibili direzioni che la mia vita avrebbe potuto imboccare e, aspetto di cruciale importanza, perché provassi a capire se davvero avevo in me le capacità, e le potenzialità, per diventare musicista a tempo pieno. In teoria, ero lí per studiare l’arabo classico e lo spagnolo medievale; in pratica, l’obiettivo che mi ero prefissato consisteva nell’eseguire il Vespro della Beata Vergine di Monteverdi, una composizione che, sebbene l’avessi ascoltata quando ero bambino, era ancora poco conosciuta e non era mai stata suonata a Cambridge. Nonostante il doppio svantaggio accumulato fino a quel momento – la mia relativa inesperienza come direttore e l’educazione musicale ancora incompleta –, mi incaponii a voler dirigere uno dei piú impegnativi lavori del repertorio corale. Trascorsi buona parte dell’anno sabbatico a studiare le parti originali in microfilm e, con l’incoraggiamento del professore di musica, Thurston Dart, a preparare una nuova edizione da concerto. Finii col fare anche tutto ciò che era legato al programmare una performance nella Cappella del King’s College, dal mettere insieme e istruire il coro e l’orchestra, ad assicurarmi che i biglietti fossero stampati e le sedie tirate fuori dai magazzini e sistemate per bene.

Vibranti contrasti cromatici e declamazione appassionata: mi sembravano questi gli elementi decisivi di quella musica. La vera sfida, per me, era: sarei riuscito a tirar fuori quelle due caratteristiche del brano da un gruppo di studenti di canto cresciuti in una tradizione totalmente differente? Talmente diversa che il Monteverdi Choir iniziò la sua attività come un anti-coro, in reazione all’eufonia educata e all’armoniosa miscela vocale che caratterizzavano il coro di cappella al King’s quando ero giovane, il cui mantra era: «mai piú forte di amabile». Il loro stile, per me, era esemplificato dall’esecuzione, per il funerale di Boris Ordd, di Jesu, meine Freude – il piú esteso e, dal punto di vista dell’interpretazione, difficile tra i mottetti scritti da Bach – cantato in inglese con fiacchi e affettati effetti di labbra: «Jesu…» (pronunciato Giis-iu), seguito da un’enorme pausa e da un’espressiva inspirazione, «… priceless treasure» (pronunciato tres-iur). Ero indignato. Com’era possibile (mal)trattare in un modo cosí lezioso e senza vigore quella musica meravigliosamente esultante che conoscevo sin da bambino? Non era come aggiungere uno strato di cipria e un paio di nei all’arcigno ritratto del vecchio Cantor?

Il mio primo tentativo di eseguire il capolavoro monteverdiano ebbe luogo nel marzo del 1964, con alcuni di quegli stessi esecutori. Anche se la risposta dei presenti fu incoraggiante, addirittura entusiastica, non andò neanche lontanamente come speravo che andasse. Per me non si trattò solamente di un test di capacità, ma dell’epifania che stavo inseguendo. La decisione era presa: meglio seguire una passione travolgente, sebbene richiedesse anni di studio e pratica senza alcuna garanzia di successo, piuttosto che perseguire una piú sicura carriera per la quale avrei già potuto avere una rudimentale qualifica tecnica. Mi sentii incoraggiato a perseverare nella mia ribellione contro le vestigia della performance in stile vittoriano e a cercare una posizione piú solida per il Monteverdi Choir. Oggi come allora, il mio punto di partenza era aggiungere passione ed espressività alla musica vocale del Barocco, e che ciò fosse aderente alla nazionalità, al periodo storico e alla personalità del compositore. In un programma abituale, come quello che eseguimmo al Cambridge Festival del 1965, dedicato alla musica di Monteverdi, Schütz e Purcell, volevamo che l’ascoltatore fosse in grado di cogliere l’approccio idiosincratico di ogni maestro cantato nella sua lingua, di seguire ogni autore nel suo sperimentare con della musica basata sulla declamazione sostenuta da una linea di basso numerato, godendo del nuovo spettro espressivo che essa offriva. Era una cosa inebriante, e i nostri sforzi furono senza dubbio ancora grezzi e sproporzionati; ma, perlomeno, non suonarono raffazzonati o indistinguibili dalle devozioni anglicane durante un vespro in un novembre piovoso.

Ero però disperatamente a corto di modelli cui ispirarmi. Nadia Boulanger non dirigeva piú da tempo. Neanche Thurston Dart, il cui approccio investigativo alla musicologia (quasi à la Sherlock Holmes) mi aveva tanto aiutato durante il primo anno di perfezionamento nella sua classe, quando si era trasferito al King’s College. Ebbi, tuttavia, la fortuna di vedere all’opera il grande virtuoso del clavicembalo, nonché direttore, George Malcolm. George sapeva come tirar fuori dal suo coro della Cattedrale di Westminster esecuzioni abbaglianti, attraversate da un ardore per niente inglese. Sorprendentemente, si prese il disturbo di viaggiare fino a Cambridge per ascoltare i miei Vespri monteverdiani. Era un vero maestro e, come capii, un’anima gemella; l’approvazione e l’incoraggiamento da parte sua, in quel particolare momento, furono fondamentali, sebbene avesse praticamente smesso con la direzione del coro.

Poi, su invito di un amico, andai ad ascoltare Karl Richter alla testa del suo Münchener Bach-Chor nel 1967. In quei tempi, Richter era considerato il piú importante interprete della musica corale bachiana, ma nemmeno l’ascolto delle sue muscolari registrazioni delle cantate poté prepararmi al volume sonoro oppressivo e all’incredibile aggressività del mottetto Singet dem Herrn eseguito da settanta robusti bavaresi posti nella galleria della Markuskirche. Era indubbiamente un mondo a parte rispetto all’approccio «leziosamente bigotto» del coro del King’s o del Bach Choir di Londra nella loro annuale esecuzione della Passione secondo Matteo alla Royal Festival Hall nel giorno del Venerdí santo, ma poco piú incoraggiante. Né il fragoroso approccio alle Variazioni Goldberg del giorno dopo, eseguite da Richter su un clavicembalo Neupert truccato al Conservatorio (antica residenza di Adolf Hitler), poté molto per ristorare la mia fede. Il problema era che lí, come in molte incisioni o esecuzioni dal vivo che avevo ascoltato, il Bach che veniva fuori era lugubre, scuro, triste, privo di spirito, umorismo e umanità. Dov’erano la gioia festosa e l’entusiasmo di questa musica impregnata di danza? Pochi anni dopo ascoltai una Passione secondo Giovanni diretta da Benjamin Britten, un maestro assai elegante, capace di separare i differenti strati dell’elaborato contrappunto bachiano davanti alle mie orecchie, rivelando dall’interno il dramma raccontato dall’opera. Eppure, anche cosí, quel Bach mi sembrò fatalmente troppo «inglese». Un simile disappunto lo provai quando ascoltai per la prima volta suonare Mozart a Salisburgo e Vienna, nel 1958: l’elegante superficie dell’esecuzione sembrava sovrapporsi e nascondere la vita interiore, cosí emotiva e tumultuosa, della musica.

Il mio inizio fu tutt’altro che promettente. Nell’estate del 1967, quando la maggior parte degli studenti di composizione di Nadia Boulanger se la svignavano da Parigi per andare al Palais de Fontainebleau, dove avrebbero incontrato la crème de la crème delle due scuole piú importanti d’America, Juilliard e Curtis, lei decise che era arrivato il momento che io dirigessi qualcosa sotto il suo vigile sguardo. Mi assegnò un compito difficile: la toccante cantata pasquale Bleib bei uns (BWV 6) di Bach, in cui si narra dell’incontro di due discepoli col loro Maestro risorto sulla strada per Emmaus. L’American Conservatory di Fontainebleau non era certo come l’università di Cambridge, con le sue considerevoli riserve di studenti di canto corale e affamati apprendisti cantanti. A parte un mezzosoprano abbastanza talentuoso, non c’erano dei veri cantanti, ma un branco di recalcitranti «penisti» (come abitualmente si autodefinivano). Ecco, furono proprio loro che dovetti reclutare, blandire e trasformare in un ensemble a quattro voci capace di eseguire passabilmente il magico coro di apertura, in modo da rafforzare le mie credenziali da direttore agli occhi della mia insegnante. Fino a quel momento Mademoiselle, come tutti la chiamavano, non mi aveva mai visto né sentito dirigere, sebbene non perdesse occasione per ricordarmi che i miei esercizi di armonia e contrappunto erano «una tragédie indicibile». Se vi è mai capitato di ascoltare un gruppo di pianisti americani (in grado, non vi è dubbio, di sciorinare uno studio di Chopin o un preludio di Liszt senza il minimo indugio) cercare disperatamente di cantare a quattro voci, per di piú in tedesco, capirete quali pene soffrimmo, sia io che loro. L’«orchestra» era costituita da un solo musicista: il collega di studi e mio connazionale Stephen Hicks, impegnato a suonare un organo poco intonato (la prima volta che l’avevo visto, nella classe di Mademoiselle, si era presentato come «Stephen ’icks, il miglior organista di West Molesey»). Oltre a dirigere l’eterogeneo ensemble, dovevo anche cantare il recitativo del tenore e suonare la viola nell’obbligato dell’aria del contralto, mentre Stephen riempiva risolutamente tutto il resto con l’organo. Arrivò il giorno del concerto e la sala del Jeu de Paume era piena di studenti accaldati. Un paio di signore molto piú anziane, in nero, sedevano in prima fila, con la mia Venerabile Insegnante in mezzo a loro. L’esibizione ebbe inizio, e la Venerabile Insegnante si addormentò subito, profondamente. Credo non abbia sentito una sola nota; il che, tutto sommato, forse fu un bene.

Alla «Boulangerie», nonostante tutto, la vita iniziava a farsi soffocante; bruciavo dalla voglia di applicare tutta quella rigorosa e disciplinata teoria a qualche concreta esperienza da direttore nel mondo reale della musica professionale. Per il disgusto di Mademoiselle, la quale si aspettava che, come molti dei suoi studenti americani, rimanessi con lei per studiare il Traité d’harmonie di Théodore Dubois per almeno altri cinque anni, feci domanda per un posto da apprendista direttore alla Bbc Northern Orchestra di Manchester. Era una compagine eccellente, forse a volte un po’ cocciuta, che mi fece subito capire quanto un giovane direttore fosse fortunato a stare di fronte a quei musicisti: nessun favore da parte loro, o la va o la spacca. Il mio compito era quello di dirigere un pezzo sempre diverso all’inizio di ogni programma. Se il brano durava, diciamo, dodici minuti, potevo contare su un massimo di nove minuti per provarlo prima della trasmissione. Il trucco, quando si lavora con una meravigliosa orchestra di musicisti dalla formidabile lettura a prima vista come quella, è sapere con esattezza a cosa dare la priorità, quando intervenire e cosa lasciare al caso e all’effetto dell’adrenalina e della concentrazione una volta che si fosse accesa la luce rossa. Fu un apprendistato prezioso, che m’insegnò i rudimenti di come usare al meglio il costoso tempo delle prove.

Di ritorno a Londra, anche per il Monteverdi Choir iniziava a muoversi qualcosa. Estendendo il nostro repertorio in avanti, cronologicamente, e a settentrione, geograficamente – dai compositori veneziani (i Gabrieli e Monteverdi) ai tedeschi (Schütz e Buxtehude) e a quelli della Restaurazione inglese (Blow, Humfrey e Purcell) –, ci stavamo inesorabilmente dirigendo verso il confronto con i due colossi gemelli, Händel e Bach. Nei dieci anni successivi (1968-78) ebbi la fortuna di riuscire a formare un eccellente ensemble da camera da affiancare al coro – la Monteverdi Orchestra – composto da alcuni dei migliori musicisti freelance della scena londinese. Questi musicisti mi dimostrarono la loro massima fiducia attraverso la voglia di sperimentare e di mettersi in gioco, non solo intraprendendo viaggi verso le selvagge coste del Barocco con lo studio e l’esecuzione di oratori e opere allora virtualmente sconosciute, ma anche attraverso esplorazioni stilistiche che coinvolgevano l’uso di archi barocchi curvati all’infuori, notes inégales, mordenti, mordenti rovesciati, coulés e complicati abbellimenti di ogni specie e sorta.

Poi, all’improvviso, picchiammo contro un muro. Non fu colpa loro, né mia, ma degli strumenti che utilizzavamo, gli stessi che ogni altro musicista aveva utilizzato nel corso dei precedenti centocinquant’anni. Per quanto li suonassimo con gusto e stile, non si poteva nascondere il fatto che erano stati progettati o adattati per emettere una sonorità del tutto differente, strettamente connessa con lo stile espressivo di fine XIX e inizio XX secolo (dunque, anacronistico). Con le loro corde metalliche, o rivestite d’acciaio, erano semplicemente troppo potenti, e certo questa musica, con la sua rigogliosa gamma espressiva, non può essere eseguita riducendo gli organici o suonando in maniera trattenuta, col freno a mano tirato. Per svelare i codici del linguaggio musicale dei grandi maestri del Barocco, per accorciare la distanza tra il loro e il nostro mondo, e per liberare la sorgente della loro fantasia creativa bisognava coltivare una sonorità radicalmente differente. Per farlo, c’era un solo modo: ricominciare daccapo usando strumenti originali barocchi, o copie. Era come imparare una lingua completamente nuova, o iniziare a suonare uno strumento senza nessuno in grado di dirti come si fa. È difficile raccontare il tumulto, la delusione e l’eccitazione che tutto ciò comportò. Per alcuni fu un terribile tradimento; per altri, tra i quali molti cantanti del Monteverdi Choir, un inspiegabile passo indietro. Qualche anima coraggiosa decise di buttarsi insieme a me: comprarono, si fecero prestare o elemosinarono strumenti barocchi, e cosí diventammo gli English Baroque Soloists.

Questo accadeva nel 1978. Prima di noi, naturalmente, erano arrivati alla stessa meta pionieri molto piú intrepidi. Allora potevo averlo creduto, però la mia non era una voce isolata. Tra i miei coetanei a Cambridge c’erano sia Christopher Hogwood – piú tardi riconosciuto come uno dei piú influenti promotori del movimento filologico per quel che riguarda la musica antica – sia il carismatico «Pifferaio magico» David Munrow il quale, in una carriera durata appena dieci anni, fece piú di chiunque altro per diffondere la musica antica in Gran Bretagna. Trevor Pinnock, il grande clavicembalista, e Hogwood formarono i loro gruppi con strumenti d’epoca: l’English Concert (1972) e l’Academy of Ancient Music (1973). I veri Amundsen, però, furono gli olandesi, gli austriaci e i fiamminghi: esploratori come Gustav Leonhardt, Nikolaus Harnoncourt e i fratelli Kuijken, ognuno dei quali aveva già alle spalle anni di sperimentazione con strumenti d’epoca. Nella loro scia, poi, si mosse un manipolo di musicisti inglesi freelance, che sono tra i piú flessibili e pragmatici al mondo: scorsero l’opportunità e subito ci presero gusto.

Il gusto, ma non la tecnica: una carenza subito colta dai veterani tradizionalisti, soprattutto delle orchestre sinfoniche, i quali, percependo una leggera brezza di sfida nei confronti del loro monopolio, con grande soddisfazione trovarono un facile bersaglio sul quale indirizzare le critiche. La gente, però, fu svelta nel capire che c’era una bella differenza di risultati tra chi si era impegnato a ri-fare musica riabitandola, e coloro i quali erano determinati a eseguirla soltanto con efficienza e abilità tecniche. Inizialmente, come in tutti i movimenti secessionisti, i pionieri – molti dei quali autodidatti – erano inclini a sovrastimare la loro causa, facendo passare l’idea fuorviante che utilizzando gli strumenti giusti si sarebbe arrivati alla «verità» della musica. Ancora una volta, il problema riguardava i modelli, o meglio, la mancanza di essi. Era un momento inebriante, l’aria era attraversata da polemiche e autodifese appassionate. Nessuno sapeva, con sicurezza, come si dovessero suonare (ed essere suonati) quei vecchi strumenti. Mai, prima d’allora, i musicisti avevano avuto bisogno di tanta erudizione. Ma due esecutori potevano leggere assiduamente lo stesso manuale o trattato di violino risalente al XVIII secolo e giungere a interpretazioni drammaticamente divergenti. Questo solo per dire che l’attività di ricerca nel campo delle prassi esecutive è separata dalle prassi esecutive stesse e, come ha acutamente notato Richard Taruskin, una sana dottrina non sempre si traduce in un corretto modo di fare musicaf. Inevitabilmente, c’era molta imitazione e molta contestazione: l’audace sperimentazione di qualcuno poteva essere stroncata da alcuni e considerata vangelo da altri. Il manierismo era all’ordine del giorno, con stucchevoli crescendi e rigonfiamenti in abbondanza, in particolare tra gli strumenti ad arco. (Mi venne spesso in mente un interrogativo che Mademoiselle pose a uno dei suoi studenti incline a un fraseggio esagerato: «Perché suoni come se fossi sdraiato su un’amaca, mio caro?»)

Per una gran parte di quei pochi anni, trovai l’esperienza snervante. Rimpiangevo la fluidità tecnica e il passo sicuro della mia disciolta Monteverdi Orchestra, con i suoi musicisti senza pregiudizi. Ero sbigottito dalla fallibilità di quei nuovi «vecchi» strumenti, che per molti aspetti erano poco affidabili. Squittii e stridii erano la norma, mentre il suono prodotto da igroscopiche e schioccanti corde di Mi in budello riempiva l’aria. Dirigerli, poi, era come guidare una vecchia automobile con freni e sterzo non funzionanti e sempre sul punto di fermarsi. Lentamente, però, quegli strumenti iniziarono e svelare i loro segreti agli esecutori, guidandoci su sentieri fatti di nuovi suoni e nuovi gesti. Alcuni osservatori arrivavano quasi a idolatrarli, come se fossero l’unica risorsa per attingere al sacro Graal dell’autenticità, gli unici a custodirla e difenderla. Però, mentre mi deliziavo con le nuove potenzialità espressive e la varietà di sfumature timbriche, non potevo certo dimenticare che utilizzarli non era il fine della nostra musica, ma un mezzo per avvicinarci il piú possibile al suono trasparente dei compositori barocchi e (per usare l’ormai consunta analogia, molto amata dai critici musicali) per rimuovere gli strati di polvere e sporcizia accumulatisi nel corso degli anni.

A ogni buon conto, fu proprio con quell’ensemble, grezzo, acerbo e alle prime armi che accettai il primo invito a esibirmi, nel 1979, alla Bachwoche di Ansbach, all’epoca considerata la Mecca, o la Bayreuth, delle esecuzioni bachiane in Europa. Aveva rappresentato il trampolino di lancio per Karl Richter, nella Germania del Sud, e ora quella piattaforma veniva offerta a un relativamente inesperto signore inglese e al gruppo che dirigeva. Il nostro approccio fu percepito come radicalmente «differente», e provocò aspre polemiche. Sin dal XIX secolo, Bach in Germania era riverito come il quinto evangelista, la sua musica sacra confinata nel ruolo di supporto del moderno luteranesimo evangelico. Quegli ascoltatori, difensori di una tradizione esecutiva bachiana, largamente fittizia e autocelebrativa, trovarono il suono dei «vecchi» strumenti estraneo al loro gusto, il che era evidentemente prevedibile e costituí una reazione alla quale, nel corso dei successivi venti anni, ci saremmo abituati. Forse ciò che li meravigliò maggiormente fu la cura e la concentrazione che dedicavamo alla pronuncia e alla proiezione del testo – con l’idea di far emergere la retorica e il dramma dalla declamazione delle parole tedesche – e quello che alcuni ascoltatori identificarono come un senso di adesione nelle nostre esecuzioni. Fu bello contribuire, in maniera positiva, alla demistificazione dell’immagine di Bach proprio nella terra che gli aveva dato i natali. Fummo immediatamente invitati a tornare alla Bachwoche Ansbach per cinque concerti nel 1981, e subito dopo a incidere tutti i capolavori corali di Bach per la piú importante etichetta tedesca, la Deutsche Grammophon.

Piú o meno allo stesso tempo ci imbarcammo in un ambizioso incarico decennale, fatto di visite annuali al Festival di Göttingen, del quale ero stato nominato direttore artistico. Si trattava di rinverdire gli oratori e le opere di Händel, la cui musica, ancor piú di quella di Bach, aveva subito un sorprendente processo di estromissione nel corso degli anni – anche una parziale appropriazione da parte dei nazisti negli anni Trenta come veicolo di propaganda patriottica – e aveva urgente bisogno di una rivalutazione. Anche qui incontrammo un tiepido scetticismo, all’inizio, ma subito scoprimmo che l’atteggiamento tedesco nei confronti di Händel era meno radicato e intransigente di quanto non accadesse nella sua terra adottiva, l’Inghilterra (e di quanto non fosse nei confronti di Bach). La nostra riproposizione di quel magnifico, e ancora in parte inesplorato, repertorio fu salutata con graduale apertura e con sempre meno pregiudizi, una miscela di stupore e orgoglio patriottico. Parallelamente a queste esibizioni in Europa, le nostre incisioni discografiche – dai vecchi cavalli di battaglia come il Messiah e l’Oratorio di Natale, a capolavori dimenticati come Les Boréades di Rameau e lo Scylla et Glaucus di Leclair – ottennero buona accoglienza tra il pubblico e iniziarono a guadagnarsi visibilità e riconoscimenti internazionali.

Sebbene fossi sempre piú impegnato come direttore ospite in produzioni operistiche e sinfoniche, tornare alla base, a casa, per me equivaleva a una ricarica di entusiasmo: gli English Baroque Soloists rappresentavano un laboratorio pulsante e vivace nel quale testare nuove teorie, scambiare approcci e punti di vista; inoltre, mostravano la ferma convinzione di voler intraprendere nuovi percorsi interpretativi, lontani da ciò che si stava trasformando in una stanca ortodossia della riproposizione musicale con strumenti d’epoca. D’improvviso, sembrava che la musica saltasse via dal suo guscio. Nel momento in cui quei vecchi strumenti furono lasciati liberi di esprimere la musica che un tempo era stata esclusivo appannaggio di una moderna orchestra sinfonica in formazione ridotta, ciò che sembrava vecchio e distante ora risuonava come nuovo di zecca. Se per riuscire a scoprire e condividere nuove idee e prospettive sulla musica cui tanto tenevamo avevamo fatto arrabbiare qualcuno, o indispettito qualcun altro, ne era valsa la pena.

Dagli anni Ottanta in poi il nostro repertorio si è costantemente allargato. Il bicentenario dello scoppio della Rivoluzione francese segnò la nascita dell’Orchestre révolutionnaire e romantique, che utilizzava molti degli English Baroque Soloists, alle prese però con strumenti di fine Settecento e prima metà dell’Ottocento. Abbiamo intrapreso insieme un nuovo percorso – da Haydn, Mozart e Beethoven a Weber, Berlioz, Schubert, Mendelssohn, Schumann e Brahms, toccando addirittura anche Verdi, Debussy e Stravinskij. Si è trattato di un affascinante e coinvolgente processo di riscoperta, capace di smantellare la vetusta idea di una sola, inesorabile tradizione di sviluppo all’interno della musica classica occidentale, e la snervante tendenza, tipica della metà del XX secolo, ad appianare le cruciali differenze stilistiche e di temperamento dei vari compositori suonando tutta la musica con lo stesso «strumento»: la moderna orchestra sinfonica standard. Il nostro obiettivo è stato sempre quello di rimuovere gli strati di prassi esecutive accumulatisi per riportare in superficie ognuno di questi compositori – e ogni opera significativa di ciascun autore – nella propria specificità individuale, testando la capacità di questa «vecchia» musica di sopravvivere nel nostro tempo. La ricerca era (ed è) indirizzata al riscoprirne i colori nitidi e vivaci, a vivificarne quello slancio vitale che tanto ci affascina. Cosí, molto spesso, e in maniera sorprendente, musica con secoli di vita alle spalle si è rivelata piú moderna di moltissima altra musica scritta negli ultimi cento anni.

Sempre piú spesso, però, mi sentivo attratto dalla musica di Bach, come fosse una calamita. Proprio com’era accaduto facendo i conti con Monteverdi, grazie al quale avevo compreso in che modo musica e testo possano essere utilmente combinati in tutte le forme di musica drammatica, mi rendevo conto che per fare progressi come direttore d’orchestra avrei dovuto, necessariamente, prima d’ogni altra cosa studiare e imparare a dirigere la sua musica, fondamento di ciò che, genericamente, chiamiamo musica classica. Senza una profonda comprensione dell’opera di Bach avrei sempre brancolato nel buio interpretando Haydn, Mozart, Beethoven e i loro successori dell’epoca romantica, pochissimi dei quali riuscirono a resistere alla sua influenza. Anche se ero stato a rimuginarci su per anni, fu soltanto nell’autunno del 1987 che trovai l’occasione (e il coraggio) di dirigere la Passione secondo Matteo per la prima volta. Accadde a Berlino Est: tra il pubblico, i soldati della Ddr non riuscirono a trattenere le lacrime. Forse, da quella parte del confine la musica si era sclerotizzata in qualche prescritta – e in gran parte spuria – tradizione locale. Affrontandola in maniera del tutto nuova, liberandola dai cliché di rito, stavamo inconsapevolmente preparandola a una nuova ricezione emotiva.

Non fu, però, una reazione a senso unico. Due anni prima, alcuni cantanti del Coro della Radio di Lipsia vennero a una prova dell’Israele in Egitto di Händel, che stavo preparando con il Monteverdi Choir nella galleria occidentale della Thomaskirche di Lipsia. La loro presenza fece sí che i due cori si producessero in una performance totalmente improvvisata del mottetto di Bach Singet dem Herrn, impressasi indelebilmente nella memoria di tutti i presenti. Poi, nel 1987, portammo la Messa in Si minore in Giappone, e fu memorabile l’accoglienza di un pubblico in gran parte buddista e scintoista.

Sempre piú, però, sentivo che c’era qualcosa di incompleto nell’idea che avevo su quale relazione vi fosse tra l’uomo Bach e la sua insondabile musica. Anche dopo aver frequentato, studiato ed eseguito per cosí tanto tempo i suoi capolavori corali, nel puzzle c’erano ancora troppe tessere mancanti. Fossi stato un bravo pianista, avrei certamente trovato quello che cercavo nel vasto e infinitamente affascinante repertorio che comprende le Variazioni Goldberg e il Clavicembalo ben temperato. Ma, da uomo di coro, e da persona da sempre sensibile alle parole di un testo cantato, sentivo che per me la chiave di tutto doveva essere nelle quasi duecento cantate sopravvissute; ero sicuro che nascondessero molti tesori, sebbene fino a quel momento fossi stato capace di scoprirne solo alcuni. Per avere un’idea dell’importanza delle cantate nella considerazione di figli e allievi del compositore, basta dare un’occhiata alla lista delle opere non pubblicate che appare nel suo necrologio: essi scelsero di collocare « 1) Cinque annate di cantate da chiesa per tutte le domeniche e le altre feste consacrate»2 quasi come fossero il titolo, in testa alla lista. Mi chiesi come mai Bach avesse dedicato cosí tanta cura e tempo per comporle, e perché, all’inizio di un biennio di sfrenata creatività, ne avesse scritte ben piú di un centinaio a Lipsia, rifiutando testardamente di dividere con altri il peso della composizione settimanale. Dato che furono composte con cadenza settimanale, quasi à la Dickens, verrebbe da chiedersi quanto buone fossero, in termini di qualità complessiva: se, come disse Adorno, «Bach ha sublimato per primo l’idea dell’opera d’arte realizzata razionalmente»3, anche le cantate contano? Sono davvero significative? Possono sfuggire all’origine letteraria e liturgica e colmare il distacco tra la sua cultura e la nostra? Trovare risposta a queste domande mi fece pensare a quale fosse il modo piú efficace di eseguirle: come, cioè, liberarle dalla fredda mano dell’evangelismo luterano del XIX secolo e dell’inizio del XX, da una parte, e dalla devozione secolare del tipico pubblico di una sala da concerto, dall’altra.

Mi riesce difficile determinare esattamente quando nacque l’idea della serie che chiamai Bach Cantata Pilgrimage. Ciò che era iniziato come un’intuizione nata dalla fascinazione per Bach che mi portavo dietro da tutta la vita prese forma e sostanza gradualmente prima di trasformarsi in una vera e propria idea esecutiva coerente, e nella sua realizzazione praticag. Sembrava che nessuno, prima di allora, avesse mai provato a eseguire le cantate all’interno del calendario religioso di un singolo anno, nella loro esatta collocazione liturgica. Nel 2000 si sarebbero celebrati la nascita di una delle religioni piú praticate al mondo e il duecentocinquantesimo anniversario della morte di Bach. Quale modo migliore per farlo se non attraverso il lavoro di uno dei suoi piú grandi sostenitori, con l’esecuzione di tutte le cantate concentrata in un singolo anno? La fede luterana di Bach è incapsulata nella sua straordinaria musica. Offre un messaggio universale di speranza che arriva a tutti, senza distinzione di credo religioso, cultura o conoscenza musicale. Sgorga dalla profondità dell’animo umano, e non da credenze geograficamente o storicamente determinate.

Altri elementi illuminati, peraltro, avremmo potuto ricavarli replicando i ritmi di lavoro di Bach. Pensammo di elaborare un itinerario che egli stesso, teoricamente, avrebbe potuto percorrere (sebbene, naturalmente, in realtà viaggiò molto meno di Händel, ad esempio). Avrebbe dovuto iniziare in Sassonia e Turingia, dove Bach trascorse la sua vita lavorativa, e comprendere tutti i luoghi e le chiese dove sapevamo aveva cantato, composto e suonato, per poi, a ventaglio, indirizzarci a nord, ovest ed est seguendo la diffusione della Riforma e ripercorrendo le vecchie tratte commerciali dei mercanti avventurieri e la Lega anseatica. Conseguí da questa decisione quella di esibirci soltanto in chiese di eccezionale bellezza architettonica, spesso in luoghi lontani dalle abituali rotte concertistiche, e presso comunità che mostravano un particolare interesse per la musica di Bach, con le quali potevamo entrare in piú stretto rapporto invitandole a cantare con noi i corali di chiusura delle cantate. Nel visitare alcuni dei piú antichi luoghi di culto – come l’Abbazia di Iona, nella costa occidentale della Scozia, o Santiago di Compostela, nella Spagna settentrionale, o l’ex tempio pagano che poi divenne Santa Maria sopra Minerva a Roma – il viaggio si costituiva come un pellegrinaggio musicale.

E cosí alla fine nacque il Pellegrinaggio delle Cantate di Bach (Bach Cantata Pilgrimage, BCP). Sebbene le sue origini risiedessero nei primi tour concertistici col Monteverdi Choir, e ne condividesse la medesima mentalità, il BCP aveva proporzioni diverse da qualsiasi impresa – e forse qualunque altra organizzazione musicale – avessimo affrontato in precedenza. Per la sua portata, e per il modo in cui fu realizzato, frantumò ogni regola e convenzione della normale organizzazione concertistica. Era un impegno epico, segnato da problemi logistici e, sin dall’inizio, finanziari, eppure sembrava risuonare nell’immaginazione dei partecipanti man mano che l’anno trascorreva. Nessuno di noi aveva mai intrapreso un viaggio musicale lungo un anno, o affrontato un’immersione musicale della stessa durata nell’opera di un solo compositore, prima d’allora. Era un’esperienza del tutto nuova, e richiedeva che i pensieri e gli sforzi di tutti fossero indirizzati alla sua realizzazione, e guidati dalla sua forza d’inerzia. Il fatto di seguire per un intero anno la collocazione stagionale e ciclica delle cantate di Bach ci forní una immagine grafica e musicale della ruota del tempo cui siamo tutti connessi. Questo, in fondo, era un modo per risolvere l’enigma di come questa musica traboccante vitalità e fantasia potesse essere sgorgata da sotto la parrucca di quel Cantor dallo sguardo impassibile, il cui ritratto aveva dominato la mia visione di lui come uomo sin da quando ero un ragazzino.

Finito il BCP, il mio approccio alla direzione delle piú celebrate composizioni corali di Bach – le due Passioni, l’Oratorio di Natale e la Messa in Si minore – era stato influenzato da quella profonda immersione nelle cantate sacre. Nel momento in cui si considera che quei grandi lavori appartengono allo stesso mondo delle cantate, in quanto emanazioni della stessa mente creatrice, essi smettono di intimidire e iniziano a rivelare qualcosa in piú del carattere di chi li ha scritti. Studiando le mie reazioni e grazie alla mia crescita come musicista, il mio coinvolgimento con Bach è diventato piú forte, una devozione cresciuta parallelamente alle ricerche effettuate in preparazione di questo libro. Negli ultimi vent’anni ho assimilato l’affascinante materiale tornato a disposizione grazie all’apertura degli archivi dell’ex Germania dell’Est, e usato questi preziosi ritrovamenti per penetrare ancora piú a fondo le origini e il contesto storico in cui la musica di Bach si è manifestata.

Una delle premesse implicite al BCP era una sensazione che, avevo scoperto, condividevo con molti altri musicisti: il nostro bisogno di studiare, ascoltare e aggrapparci alla musica di Bach è forse maggiore oggi di quanto non lo sia mai stato in passato. Molti di noi speravano che enfatizzando questa particolare manifestazione della nostra comune eredità culturale avremmo potuto rallegrare lo spirito di quanti sarebbero venuti ad ascoltarci, e non aveva importanza che avessero già ascoltato quella musica, o noi l’avessimo già suonata, per la prima, la seconda o la ventesima volta. Milan Kundera, in un suo libro, descrisse l’intrinseca elusività dell’attimo presente:

Non c’è, in apparenza, nulla di piú evidente, di piú tangibile e palpabile dell’attimo presente. Eppure, esso ci sfugge in modo totale. La tristezza della vita è tutta qui. In un solo secondo, la nostra vita, il nostro udito, il nostro odorato registrano (consapevolmente o no) una massa di eventi, e la nostra testa è attraversata da uno stuolo di sensazioni e di idee. Ogni istante rappresenta un piccolo universo, irrimediabilmente dimenticato l’istante successivo4.

Il miracolo della musica sta nel permetterci di allontanarci, momentaneamente, dall’evanescenza temporale di Kundera. Una composizione musicale, come ad esempio una cantata di Bach, è senza dubbio un viaggio che da un inizio attraversa una zona centrale e va verso una fine, ed è proprio alla fine che la luce proiettata nella memoria lungo quel percorso ci dà la sensazione di essere costantemente in uno stato di arrivo, il che ci rende consapevoli, e dunque in grado di valorizzare la nostra consapevolezza, sia nel momento presente sia in tutto quello accaduto precedentemente. Se accettiamo il fatto che una parte della psiche umana cerca uno sbocco spirituale (e, anche, una dimensione spirituale), per quanto materialista la nostra società possa essere diventata – e agnostico lo Zeitgeist, lo spirito del tempo –, per chi ha orecchie per sentire la musica fiduciosa e immensamente affermativa di Bach può contribuire molto a questa esigenza. Bach è uno di quei compositori, dal 1700 in poi, la cui intera opera è orientata, in un modo o nell’altro, verso la dimensione spirituale e metafisica: celebrare la vita, ma anche accogliere ed esorcizzare la morte. Colse pienamente la natura religiosa sia dell’essenza musicale che della sua pratica, e capí che quanto piú perfettamente una composizione è realizzata, sia concettualmente che attraverso la sua esecuzione, tanto piú Dio è immanente nella musica. «NB», scrisse a margine della sua copia della Bibbia commentata da Abraham Calov: «Dove c’è della musica devota, Dio è sempre presente con la sua grazia»5 (fig. 13). Un principio al quale molti di noi musicisti si attengono automaticamente e aspirano ogni volta in cui si incontrano per fare musica, indipendentemente da quale sia il Dio in cui crediamo.

La nostra decisione di eseguire le cantate di Bach in chiesa, nel momento in cui le chiese in Occidente hanno da tempo perso il loro potere di attrazione, sottolinea il carattere vivente di questa musica. L’avventura del BCP è una storia che necessita di un altro luogo per essere raccontata; piú volte, però, nel corso di quell’anno, ci siamo chiesti se lo scopo originale di Bach (e forse anche il suo effetto), oltre a soddisfare un bisogno urgente di ispirazione e conforto, fosse quello di scuotere i suoi primi ascoltatori dal loro autocompiacimento, mettendo in luce gli aspetti ingannevoli della loro vita e dei loro comportamenti. Bach, l’artigiano supremo, disprezzato da alcuni intellettuali di Lipsia per la mancanza di formazione universitaria, e consapevole del posto ricoperto nella storia della sua famiglia, affinò le sue abilità al punto che la sua arte, il suo talento creativo e la sua empatia umana si trovarono in perfetto equilibrio. Il resto era nelle mani di Dio.

a. Si tratta del meglio conservato, e leggermente piú tardo, dei due ritratti di Bach realizzati da Elias Gottlob Haussmann (1746 e 1748, vedi figg. 18 e 19): mostra il compositore imparruccato che regge una copia del suo canone a sei voci BWV 1076 (vedi infra, cap. XIV). Dal 1950 il ritratto si trovava nella biblioteca William H. Scheide, Biblioteca di Princeton, New Jersey [fino al giugno 2015, quando è stato trasferito allo Stadtgeschichtliches Museum di Lipsia, con il patrocinio di J. E. Gardiner. N. d. R.].

b. Queste, insieme a molte altre partiture e trascrizioni che Nadia Boulanger mi ha lasciato in eredità, sono ora in prestito permanente alla Royal Academy of Music di Londra.

c. Boris Ord (1897-1961) fu organista e maestro del coro del King’s College a Cambridge. (N. d. R.).

d. All’epoca in cui in Inghilterra, soprattutto tra alcuni esecutori di musica antica, si andava diffondendo la moda di una certa «sottointerpretazione», Taruskin è stato anche uno dei primi a mettere in discussione quella che lui definiva «l’ingenua ipotesi secondo cui ricreare tutte le condizioni esterne dell’esecuzione di un brano, riportandolo alle condizioni originali, potrà ricreare l’esperienza interiore del compositore, permettendogli di “parlare per sé”, cioè senza l’impedimento costituito dalla soggettività dell’esecutore». Stesso pericolo ha individuato anche nell’attitudine reverenziale verso il concetto di Werktreue (verità dell’opera), che instaura «una dimensione soffocante attraverso la sorveglianza quasi militare di un confine, quello tra compositore ed esecutore, che invece è sempre stato fluido e attraversato con facilità» (RICHARD TARUSKIN, Text and Act, Oxford University Press, New York 1995, pp. 93, 10). Piú recentemente, John Butt ha analizzato in maniera brillante i due mondi della performance e dello studio storico-musicologico nel suo Playing with History. The Historical Approach to Musical Performance, Cambridge University Press, Cambridge - New York 2002.

e. L’innesco potrebbe essere stato la lettura casuale, in una rivista, dell’annuncio secondo cui avrei registrato tutte le duecento cantate per la Deutsche Grammophon. All’epoca, incidevo un Cd di cantate all’anno, dunque calcolai che con tre cantate in ogni disco avrei terminato l’opera alla veneranda età di centoventi anni.