Capitolo secondo

La Germania all’alba dell’Illuminismo

Senza linguaggio non ci sarebbe per noi ragione, senza ragione nessuna religione, e senza questi tre costitutivi essenziali della nostra natura, neppure spirito né vincolo sociale.

JOHANN GEORG HAMANN1.

La «Germania» in cui Bach nacque nel 1685 era un mosaico politico assai bizzarro: una moltitudine di ducati e principati indipendenti, nonché città imperiali «libere». Rovesciando le tessere sul tavolo non si avrebbe molta difficoltà a ricomporre il puzzle, tanto erano disparate le dimensioni dei Länder, ed eccentrica la loro forma geografica. Il Sacro Romano Impero, esso stesso suddiviso territorialmente e strutturalmente, si era ridotto, nel corso dell’ultimo secolo, alla pallida ombra di ciò che era stato. Nella Taverna di Auerbach, a Lipsia, si cantava:

Il Sacro Romano Impero, tutti noi lo amiamo

Ma come si regga ancora, questo non lo sappiamo2.

Samuel von Pufendorf, filosofo della politica e giurista tedesco, osservò nel 1667, non senza ironia, che non essendo «un regno regolare» né una repubblica «non ci resta che chiamarlo un corpo [politico] “tedesco” anche se non ubbidisce a nessuna regola e assomiglia a un mostro»3. Chissà se Bach pensava a se stesso come a un tedesco, piuttosto che come a un turingio o un sassone. Era nato a Eisenach, nel cuore della foresta della Turingia, ultimo figlio del musico municipale, e probabilmente il suo dialetto era talmente stretto da farlo sembrare uno straniero al suo contemporaneo Händel, nato ad appena sessanta chilometri di distanza in un angolo di Sassonia da poco annesso alla Prussia. Nessuno di questi futuri giganti della musica, dunque, era spaventato, o almeno preoccupato, dal mostro di Pufendorf.

Al tempo della loro venuta al mondo, l’Elettorato di Sassonia era ancora la forza dominante nel Nord della Germania, grazie alla sua ricchezza e alla sua posizione di Elettore in quanto leader del corpo protestante, il Corpus Evangelicoruma. Ma quando Federico Guglielmo (1620-1688) ottenne la carica di elettore di Brandeburgo e Duca di Prussia, nel 1640, il potere dinastico cominciò a spostarsi inesorabilmente dagli Asburgo imperiali in Austria e in Boemia agli Hohenzollern piú a nord, e si solidificò nel momento in cui suo figlio Federico III, contro il parere dei consiglieri piú stretti, si autoincoronò re Federico I di Prussia nel 1701. Nel frattempo, nonostante le sue evidenti assurdità e la natura bizzarra, l’impero sopravvisse, grazie all’abilità con cui gli Asburgo riuscirono a indebolire la divisione tra Stato e società civile, portando i diversi strati del mondo di lingua tedesca all’interno del processo politico.

Legati all’imperatore erano i Cavalieri imperiali, i capi di circa 350 nobili famiglie di proprietari terrieri i quali esercitavano la responsabilità amministrativa per circa 1500 latifondi che si estendevano per quasi 5000 miglia quadrate. Ancora piú potenti – e notevolmente meno docili – erano le aristocrazie terriere e urbane sparse in tutto l’impero, che avevano ottenuto una rappresentanza nel corpo legislativo, il Reichstag. Secondo Pufendorf, «gli Stati della Germania … condividono una quota considerevole della sovranità sui loro sudditi … un ostacolo per l’Imperatore che voglia essere assoluto». Un doppio livello di istituzioni restringeva infatti la sovranità non vincolata dell’Imperatore: il Reichstag stesso, che dal 1663 in poi fu in seduta permanente a Ratisbona, e i piú o meno 300 Reichsstände, quei principati costituenti che avevano voto diretto o indiretto nel Reichstag. La loro piú potente arma costituzionale era il patto elettorale noto come Wahlkapitulation, che un principe elettore giurava di rispettare prima della sua incoronazione e che era costretto a firmare come condizione della sua elezione.

All’interno di ogni Reichsstand, un secondo livello di autorità era rappresentato dai Landständeb, ciascuno con il proprio corpo legislativo locale conosciuto come Landschaft, noto per i suoi elaborati protocolli. L’analisi di Pufendorf cosí si concludeva: «Di certo, la Germania in sé è cosí potente da poter essere temibile per tutti i territori vicini se solo la sua forza fosse unita e ben impiegata; tuttavia questo corpo forte ha anche malattie che lo indeboliscono e ne allentano il vigore: la costituzione irregolare del governo essendo una delle principali cause del suo disordine politico». Una delle «malattie» era dovuta al fatto che la maggior parte delle controversie tra le varie fazioni e lobby all’interno del Landschaft erano condotte per iscritto, il che rappresentava un ostacolo amministrativo. In Sassonia fu proprio questa «costituzione irregolare» – e la continua tensione tra i fedeli all’Elettore (il partito al governo o assolutista), da un lato, e la non facile alleanza tra nobili e borghesi della classe media urbana che puntava a frenarne il potere (il partito cittadino), dall’altro – a rappresentare un fattore costante per tutta la vita lavorativa di Bach a Lipsia.

Il potere imperiale era ulteriormente indebolito dalla cinquantina di città «libere», o Reichstädte, le piú ricche delle quali (come Amburgo e Francoforte sul Meno) formavano enclave autonome e, operando un controllo totale sui commerci, non tolleravano nessuna interferenza esterna. Nei suoi primi vent’anni, Bach avrebbe lavorato come musicista municipale in una di queste città libere (Mühlhausen) e molte altre ne avrebbe visitate. Parallelamente a questo, l’impero aveva prodotto un sistema complesso di norme giuridiche accresciutosi nel corso dei secoli, capace di frenare, quando non addirittura paralizzare, i canali del commercio e della comunicazione fisica (le chiatte che navigavano il Reno, ad esempio, erano tenute a pagare un pedaggio di frontiera in media ogni dieci chilometri). La mentalità burocratica tedesca nacque proprio dalla gestione e interazione di questi principati, e con essa le regole d’etichetta, e le sottigliezze paralizzanti, sulle questioni di rango, una costante nella vita di Bach e oggetto del contendere nelle sue dispute con i datori di lavoroc.

Supponiamo di essere in grado di tornare indietro nel tempo e di visitare quel curioso mosaico che costituiva la Germania al tempo della nascita di Bach. Che cosa ci colpirebbe maggiormente? Le prove del vigoroso rinnovamento urbano? I segnali di ripresa di una società prevalentemente rurale? Le cicatrici ancora ben visibili lasciate dal conflitto bellico? La guerra dei Trent’anni era stata la piú lunga, sanguinosa e distruttiva combattuta sul suolo tedesco, e avrebbe conservato il poco invidiabile primato fino alla fine del XX secolo. Il poeta della Slesia Andreas Gryphius (1616-1664) ne fu testimone, e descrisse l’inutilità dell’esistenza umana. Uno dei suoi sonetti, Menschliches Elendë («La miseria umana»), dalla raccolta Kirchhofs-Gedanken («Pensieri del cimitero»), del 1656, inizia cosí:

Cosa, poi, è l’uomo? Una casa di cupo dolore,

Una sfera di false speranze, una follia di questi tempi,

Un teatro di acre paura riempito di viva sofferenza,

Neve che si scioglie, una candela bruciatad.

A quasi trent’anni da quando la pace di Westfalia (1648) aveva messo fine alla guerra, i suoi orrori erano ancora vividi nella memoria di tutti.

Due romanzi di Hans Jakob Christoffel von Grimmelshausen – Der abenteuerliche Simplicissimus («L’avventuroso Simplicissimus», 1669) e Trutz Simplex («Vita dell’arcitruffatrice e vagabonda Coraggio», 1670), dei quali il secondo è un «dettagliato e miracoloso racconto della vita dell’arcitruffatrice e vagabonda Coraggio» – sono quanto di piú vicino abbiamo a un diario di guerra dell’epoca, pieno di atrocità e particolari raccapriccianti. Sulla base delle sue esperienze di prima mano come stalliere nell’esercito imperiale e poi come segretario del reggimento, l’autore fornisce un catalogo di omicidi efferati, stupri e cannibalismo. Anche tenendo conto del quoziente di informazioni fittizie che alimentarono la rappresentazione, fortemente carica di pathos, della guerra resa dagli storici tedeschi del XIX e dell’inizio del XX secolo, l’impressione generale che se ne ricava è comunque desolante: innumerevoli villaggi e borghi rasi al suolo dall’esercito invasore, cittadine medievali devastate da saccheggi e incendi, intere regioni spopolate dai fatti di guerra, famiglie decimate e le vite dei sopravvissuti irrimediabilmente rovinate. La campagna, dove venivano combattute le battaglie, inevitabilmente soffrí le conseguenze della guerra piú della maggior parte delle città, e la Turingia fu una delle zone piú colpite. Dovunque passarono Wallenstein o gli invasori danesi e svedesi – in particolare lungo le vecchie rotte mercantili che collegavano i principali centri commerciali – il processo di ripresa economica si rivelò dolorosamente lento e faticoso.

Ondate di peste seguirono la scia della guerra: indeboliti dalla fame, i corpi delle vittime erano facile preda degli agenti patogeni diffusi dagli eserciti. La peste causò piú morti del conflitto stesso. Circa un terzo della popolazione della Sassonia, e metà di quella che abitava la Turingia, furono spazzate via. Dobbiamo, però, essere cauti: simili perdite demografiche – causate da eccidi, malnutrizione o malattie – potrebbero essere state sovrastimate dalle fonti arrivate fino a noi4. I funzionari locali avevano tutto l’interesse nel gonfiare le cifre, sperando cosí di beneficiare di sgravi fiscali o in un aumento della quota dei fondi statali adibiti alla ricostruzione. Prendiamo il caso di un grande centro commerciale come Lipsia. Durante gli anni di guerra aveva subito tre epidemie – nel 1626, 1636 e 1643 –, ma aveva continuato a organizzare le sue fiere biennali. Piú di trent’anni dopo la fine della guerra, e sulla via della rinascita, la città fu di nuovo travolta da una recrudescenza di peste nel 1680 la quale, secondo il diario tenuto dal rettore Jakob Thomasius, portò via 2200 anime in cinque mesi, molto piú della somma di tutte le epidemie precedenti, e oltre il 10 per cento dell’intera popolazionee.

Dalla nostra prospettiva di uomini del XXI secolo, è facile esagerare e sovrastimare gli effetti della guerra dei Trent’anni nella Germania considerata nel suo complesso, non foss’altro per l’impatto cosí vario e localizzato che questo conflitto prolungato ebbe. In passato, gli storici tedeschi tendevano ad attribuire alla guerra la responsabilità del malessere economico, che ora invece può essere inquadrato in un lento declino globale, e nel cambiamento dei modelli di commercio iniziato anni prima. Il lucroso commercio con l’Italia, un tempo appannaggio di grandi imprenditori come i Fugger di Augusta, era ormai ridotto a poca cosaf. Il centro di gravità demografico, in Europa, si stava spostando verso nord e, parallelamente, il suo futuro commerciale si dirigeva verso i porti anseatici lungo la costa atlantica. L’incremento di commercio e produzione era generalmente piú lento rispetto a quello della popolazione, con recupero piú rapido nelle città, e piú graduale nelle campagne. Non ci vuole molta immaginazione per visualizzare la grande quantità di grano e carne necessaria ad alimentare gli eserciti predatori successivi, che vivevano come locuste procurandosi da mangiare sul territorio. La comunità rurale sopravvisse facendo la fame, nutrendosi, come lo «strano vagabondo» di Grimmelshausen, di grano saraceno, faggiole, ghiande, rane, lumache e di tutta la verdura che poteva essere recuperata5. Ora le cose stavano tornando alla normalità; ma ci sarebbero voluti altri novant’anni prima che il despota illuminato Federico il Grande riconoscesse che «fra le attività umane l’agricoltura viene per prima e senza di essa non vi sarebbero mercanti, né cortigiani, né re, né poeti, né filosofi. L’unica vera forma di ricchezza è quella prodotta dalla terra»g6.

Per tutto quel tempo, la soluzione al problema dell’approvvigionamento alimentare messo alla prova dalla guerra era stata a portata di mano: la comune patata. Originaria delle Ande (da qualche parte nell’attuale territorio di Perú o Bolivia), conosciuta in Europa sin dalla fine del Cinquecento, dove si credeva avesse proprietà afrodisiache, inspiegabilmente non riusciva a prendere piede. Come sa ogni giardiniere, la patata è un tubero miracoloso: facile da piantare, dalla rapida crescita, preda di parassiti ma capace, nelle giuste condizioni, di produzioni spettacolari, cinque volte quella di qualsiasi altra coltura europea e dieci volte quella del grano (un po’ meno della segale), il che ben compensa il suo apporto calorico inferiore. Inoltre, e non meno importante, un esercito potrebbe accamparsi per tutta l’estate in un campo di patate senza danneggiare il raccolto autunnale. Antoine-Augustin Parmentier scoprí la patata per la Francia mentre era prigioniero dei prussiani durante la guerra dei Sette anni, ma si dovette aspettare il 1770 perché venisse coltivata estensivamente in Germania. Anche allora i borghesi di Kolberg non persero occasione per lamentarsi con Federico il Grande: «Non hanno né odore né sapore, neanche i cani le mangiano, cosa mai dovremmo farne?» Alla fine, però, la Kartoffel-mania esplose, in modo che quando, ad esempio, i signori Mayhew trascorsero un anno in Turingia (1864), scoprirono che nel paese natale di Bach:

il quantitativo di patate consumate dal popolo di Eisenach è davvero incredibile, e ciò spiega perché il letame sia conservato diffusamente in tutta la città. Mezzo acro di terra coltivata a patate rende in media 36-40 sacchi da 100 libbre e piú ciascuno, o, complessivamente, un peso tra le 3600 e le 4000 libbre, e questa è la quantità di cui ogni famiglia di Eisenach abbisogna ogni anno per il proprio consumo e quello dei suoi maiali. In effetti, molti dei moderni sassoni non conoscono nessun altro alimento – vivendo in condizioni ancor piú difficili di quanto facciano i piú poveri tra gli irlandesi nel nostro paese; i componenti di una famiglia mangiano non meno di 2000 libbre di patate nel corso dell’anno, il che corrisponde a piú di cinque libbre al giorno7.

Le patate, quasi certamente, non rappresentavano una parte significativa della dieta quotidiana di Bach, ma, mentre è evidente che non soffrí mai di malnutrizione, lo stesso non si può dire di varie generazioni dei suoi antenati piú prossimi, dei quali possiamo lamentare soltanto che non avessero potuto usufruire della banale patata.

Al tempo della nascita di Bach, una caratteristica geofisica prevaleva su tutte: la forestah. Il Thüringerwald era il paesaggio rurale, estendendosi fino ai margini di villaggi e insediamenti (quelli, perlomeno, che non erano scomparsi durante la guerra), e anche di città notevoli come Eisenach, la cui popolazione contava all’incirca 6000 abitanti. Ancor piú grave dei danni che la guerra inflisse agli alberi e alla biodiversità del sottobosco fu la perdita del know-how pratico selvicolturale, ovvero: la cura e la ricostituzione delle foreste. A peggiorare le cose, i principi proprietari terrieri avevano iniziato a interessarsi alla gestione dei boschi, il cacciatore eclissò il boscaiolo esperto (cosí come oggi il fagiano e il guardiacaccia hanno piú influenza di quanta ne eserciti l’autentico guardiaboschi). Dalla fine della guerra, su tutto il territorio tedesco le foreste furono abbattute a ritmi insostenibili, senza alcuno sforzo per conservare, ripristinare o reimpiantare gli alberi, anche se i grandi faggeti del Thüringerwald sembravano esser sfuggiti all’abbattimento per scopi navali avvenuto altrove, dal momento che il faggio è legno poco adatto alla costruzione delle navi. Nel Settecento l’industria mineraria sassone concentrata sui monti Metalliferi aveva consumato grandi distese di foreste e molte altre erano minacciate dalla grave carenza di legname. Quando non è curato con regolarità, un bosco tende a scomparire. L’idea della sostenibilità emerge solo in tempi di crisi e di carestia e, all’epoca, trovò il suo piú strenuo difensore in Hans Carl von Carlowitz (1645-1714), un commercialista e amministratore minerario di Freiberg, nella Sassonia centrale; egli fu il primo a dare una chiara formulazione del concetto di sostenibilità nel settore forestale: come promuovere la rigenerazione naturale, raccogliere i semi dagli alberi da seme, preparare il terreno per la semina su terreno nudo, curare piantine e alberelli, e mantenere il variegato e sottile ecosistema (non che lui lo chiamasse cosí) del ciclo ceduo8. Sebbene sia difficile misurare l’influenza di Carlowitz – ovvero, fino a che punto i proprietari terrieri aristocratici seguirono le sue raccomandazioni, e con quale costanza –, ci sono segni di un lento e doloroso processo di ripresa nella gestione forestale durante la vita di Bach9.

Es spukt hier! «Che posto inquietante!» Questa sembra essere stata, per diverse generazioni dopo la firma della pace di Westfalia, la reazione consueta davanti al paesaggio della Germania centrale segnato dalla guerra: il vuoto della foresta vergine con le sfumature di potere demoniaco scatenate dalla lunga guerra. Si potrebbe dire che ciò perdurò almeno fino all’inizio dell’era romantica, culminando nella scena centrale della grande opera di Weber Der Freischütz («Il franco cacciatore», 1821) – il furchtbare Waldschlucht (la «temibile Gola del Lupo»), un leggendario abisso nelle profondità della Urwald, dove si nasconde tutto il male, l’orripilante e il vile10. Prevalse l’idea che un danno permanente fosse stato perpetrato non solo sulle caratteristiche fisiche del paesaggio, ma anche sulla psiche collettiva – come se le popolazioni locali che cominciavano a ricostruire le loro vite fossero state costrette a venire a patti con un impercettibile deterioramento del loro ambiente spirituale, in aggiunta alla distruzione delle loro case e proprietà. Questo, ovviamente, è impossibile da descrivere con precisione, essendo il prodotto di una complessa interazione tra luogo fisico e ciò che avviene nella mente e nel subconscio degli abitanti locali, ognuno con il proprio bagaglio privato di credenze, riti e superstizionii. Il nostro modo di pensare, guardare e ascoltare, diviso in compartimenti, può impedirci lo studio di simili modalità interiori del passato. Ma l’esplorazione cognitiva o la scansione di questi «campi» mentali – che miri a identificare le caratteristiche della coscienza passata lasciate nel paesaggio, accanto alle cicatrici fisiche – ci potrebbero aiutare nella comprensione del mondo culturale e psicologico piú profondo in cui nacque Bach. Per quanto ne sappiamo, esistono sufficienti prove circostanziali a suggerire che le zone centrali del territorio germanico rimasero traumatizzate per molto tempo dopo che gli eserciti invasori si erano ritirati dalle sanguinose guerre religiose, e che una zona intensamente rurale come la Turingia, ricca di archeologia e paesaggio – luoghi sacri, fiumi, foreste e colline – regredí in una sorta di provincialismo autoimposto; isolata dal mondo esterno e lontana dal movimento letterario e scientifico che oggi chiamiamo il «secolo dei lumi», sembrava che fosse in attesa di un rinnovamento sia economico che spirituale.

Simbolicamente, a far da padrino al battesimo di Bach, in piedi accanto al fonte battesimale c’era un guardaboschi ducale, Johann Georg Koch. Da ragazzino, il giovane musicista non doveva fare che un passo oltre la soglia della casa di famiglia, in Fleischgasse, e prendere la prima strada, attraverso la folla, i maiali, il pollame e il bestiame, per ritrovarsi nel bosco fitto che circondava il Wartburg, il castello sulla collina che dominava la città. Miti silvani e riti pagani (come il Sommergewinn, la festa della fertilità, di solito celebrata il terzo sabato prima di Pasqua) non potevano essere soppressi senza difficoltà; per i Turingi la foresta, dove abitavano le divinità tribali, conservava l’aura magica della natura selvaggia, ed era fonte di fenomeni meteorologici «naturali» – come le violente tempeste elettriche, dalle quali Lutero era evidentemente terrorizzato, convinto com’era che fossero opera del Diavolo. Cosí, per scongiurare gli uragani e le tempeste si riunivano in chiesa per pregare, cantare gli inni e suonare le campane, mentre in tempo di guerra si inoltravano nella foresta in cerca di un rifugio sicuro.

Nonostante la forte influenza della teologia protestante sulla vita degli abitanti, la foresta restava al contempo misteriosa e minacciosa, come si può vedere nei dipinti di Lucas Cranach, un amico di Lutero, nelle xilografie di Albrecht Dürer, che ne mettevano in risalto la rigogliosità, e nei paesaggi di Albrecht Altdorfer. La musica era lí per dare forza cosí come per placare le divinità tutelari silvane. Non è certo un caso che in una terra in cui il fare musica era pratica comune, siano sopravvissuti cosí tanti canti popolari dedicati alla foresta. In questo caso, il potere del canto non era forse assimilabile a quello degli aborigeni australiani – per i quali rappresentò il mezzo piú importante per segnare il territorio e organizzare la vita sociale – ma non se ne distanziava molto, dato che canto, mitopoiesi, paesaggio e confini erano separati da una membrana sottilissima. Immaginate il giorno in cui il quindicenne Bach partí a piedi per la prima volta dalla sua Turingia, in compagnia di Georg Erdmann: i ragazzi cantano per mantenere alto il morale lungo le duecento miglia di viaggio verso nord, lungo sentieri solcati dalle ruote delle carrozze, in direzione di Lüneburg. Per due coristi in erba, il canto era sia passaporto che buono pastoj.

All’epoca della nascita di Bach, in Turingia le vestigia di questa coscienza superstiziosa coesistevano con un vigoroso risveglio del luteranesimo e, nella sua scia, della musica religiosa. Molti dei canti popolari che avevano allietato il Lutero studente universitario a Erfurt, e che il medesimo aveva accompagnato con il suo liuto, a poco a poco entrarono in chiesa, corredati però da nuovi e piú rispettabili testi: l’immaginario coloratissimo e le suggestioni oscene degli originali, insieme al loro substrato di mitologia pagana e memoria popolare, erano stati sublimati nei robusti inni vernacolari che Bach aveva cantato da ragazzo, e conosceva a memoria. Lutero era fortemente convinto della necessità di rendere viva l’esperienza religiosa dei suoi fratelli tedeschi, attraverso un linguaggio che fosse colloquiale, chiaro e ritmico, capace di innalzare ai piú alti livelli emozionali con frasi improvvise e pressanti, cosí come di rafforzare le identità condivise e di assorbire pienamente la mitologia di un passato collettivo. Un suo cruccio era che, partecipando all’attività musicale liturgica, i cuori e le menti delle persone dovessero essere in armonia con quanto le loro bocche esprimevano: «Dobbiamo stare attenti… nel caso in cui la gente canti solo con le labbra, come flauti o cetre (1 Corinzi 14,7), e senza capire», scrisse11. Egli stesso creò nuovi testi in lingua tedesca per sedici dei ventiquattro inni stampati per la prima volta nel 1524. Uno dei piú toccanti – Ein’ feste Burg ist unser Gott («Il nostro Dio è una fortezza sicura») – è interamente, musica e parole, di Lutero, ed esprime in modo irresistibile la convinzione e la solidità che aveva trovato nella protezione di Dio durante le sue battaglie private con Satana. Il cantare quei corali e salmi in tedesco, sia in chiesa che a casa, divenne il tratto distintivo dei luterani protestanti, come la famiglia Bach, unita in fervente compagnia – un po’ l’effetto che fa oggi il canto collettivo sulle tribune degli stadi di calcio. Secondo il filosofo Johann Gottfried von Herder (1744-1803), i corali mantennero l’efficacia morale (che lui chiamava un «tesoro della vita») che la poesia e la musica popolare tedesca possedevano, anche se quel tempo era ormai andato per semprek.

Eisenach in un’incisione seicentesca, in lontananza il castello di Wartburg.

Eisenach in un’incisione seicentesca, in lontananza il castello di Wartburg.

Un secolo dopo la sua morte, tracce dell’influenza di Lutero si potevano rinvenire ovunque, in Turingia, non da ultimo nella sua vita musicale (vedi cap. V). Anche la piú piccola chiesa parrocchiale poteva vantare un proprio organo a canne, spesso con una intelaiatura, decorata appositamente e incorniciata da una piccola balconata curva per il coro dalla quale artigiani e agricoltori, raccolti in gruppo, potevano cantare durante il serviziol. Sebbene le fondamenta di questo pensiero fossero solide, e sebbene i legami appena forgiati tra musica, linguaggio e la predicazione della Parola di Dio fossero saldamente radicate nella mente dei Turingi, l’intero processo fu gravemente minato dalla spirale di violenza prodotta della guerra dei Trent’anni. Alla paura della morte si accompagnava la paura della vita stessa, corrotta dall’angoscia causata da guerra, malnutrizione e malattie. Con un’aspettativa media di vita crollata a trent’anni, le parole del servizio di sepoltura Mitten wir im Leben sind | Mit dem Tod umfangen («Nel mezzo della vita siamo circondati dalla morte»), non avrebbero potuto esser piú tristemente adatte. Indottrinati dal messaggio proveniente dai pulpiti, ovvero che la guerra era il flagello di Dio per punire un popolo di peccatori, molti dei sopravvissuti credettero che Dio li avesse effettivamente abbandonati12. Le vecchie immagini della Totentanz tardomedievale – quegli impressionanti dipinti di donne nude tra le grinfie di scheletri ghignanti e saltellanti, apparsi sui muri di molte chiese tedesche (almeno laddove le pareti non erano state imbiancate dalla Riforma, come quelle di Bernt Notke, nella Marienkirche di Lubecca, che Bach visitò quando aveva venti anni) – acquisirono una nuova inquietante rilevanza. Molta della musica prodotta negli anni della guerra (compresa quella scritta dagli antenati di Bach) sottolineava con enfasi la vanità dell’esistenza umana. Mentre la produzione musicale casalinga e parrocchiale riuscí a sopravvivere quasi di nascosto, quella piú sofisticata e innovativa degli ensemble nelle città e nelle corti ducali accusò fortemente il colpo. Tipico esempio di musicista tedesco di chiesa, Johann Vierdanck (organista a Stralsund, sulla costa baltica) lamentava il fatto che, a seguito della guerra, «non si ascolta altro che pianti e lamenti» in migliaia di posti, invece dell’abituale musica sacra13.

La prova piú evidente di questo malessere ce la offre il musicista tedesco piú importante del suo tempo, Heinrich Schütz (1585-1672); questi, dopo due periodi di studio a Venezia, prima come allievo di Giovanni Gabrieli, poi con Claudio Monteverdi, trascorse dal trentatreesimo al sessantatreesimo anno della sua vita come Capellmeister alla corte di Dresda, proprio mentre impazzava la guerra (fig. 4). Le sue lettere trasmettono un’immagine di devastazione diffusa e scoraggiamento, ma anche la forza colossale necessaria per mantenere viva la propria fede – o qualsiasi sua espressione artistica – in tali ristrettezze. Tuttavia, anche in condizioni cosí sfavorevoli riuscí a comporre musica di rassicurante e consolante profondità. Quando la corte di Dresda, che aveva fedelmente servito, per qualche anno non assolse i suoi obblighi verso i musicisti sul suo libro paga, per lui fu come un affronto personale. Poiché avevano gli stipendi congelati, Schütz si preoccupò di pagare trecento talleri di tasca propria, dopo aver venduto «titoli, dipinti e argenti». Il caso di Georg Kaiser, il suo basso preferito, gli causò particolare angoscia. Scrisse allora al Duca elettore in persona, nel maggio 1652, e riferí che Kaiser viveva «come una scrofa in un porcile, senza coperte, sdraiato sulla paglia; ha recentemente dato in pegno il cappotto e la giacca e ora si aggira nella sua casa come una bestia nella foresta … per nessun motivo egli deve essere lasciato andare … un altro come lui non lo si trova». L’indignazione per questo affronto portò il compositore all’apice della rabbia: «Trovo né lodevole né cristiano che in una terra cosí stimata non si possano, o non si vogliano, sostenere meno di venti musicisti, e vivo nella piú sublime speranza che sua Altezza Elettorale possa intervenire in merito»14.

Piú a ovest in Turingia, una sorte molto simile avrebbe potuto facilmente toccare alla famiglia Bach, e non era affatto sicuro che nel nuovo secolo avrebbero potuto continuare a guadagnarsi da vivere con la loro professione. Qui, infatti, la condizione degli artigiani – tra i quali erano compresi anche i musicisti – restava assai precaria. Legati a doppio filo al sistema corporativo di patronato, vivevano in misere condizioni, dipendenti, come nel caso di Schütz, dai capricci dei loro datori di lavoro, spesso vittime di tagli di bilancio, e soggetti alla concorrenza sleale dei bierfiedler freelance (i cosiddetti «violinisti della birra»), che offrivano i loro servigi a un prezzo nettamente inferiore. Come professionisti qualificati erano obbligati a mantenere un difficile equilibrio tra il lavoro a corte e quello per la municipalità. Ogni attività prevedeva un proprio sistema di compensi. Eisenach, in quanto sede, dal 1672, di un ducato indipendente, era forse piú fortunata di molte città della Turingia grazie al duca Johann Georg (1665-1698), un appassionato mecenate. Ambrosius, il padre di Johann Sebastian, poteva suonare in livrea per il Duca, come membro della sua orchestra privata, o sul balcone del municipio come trombettiere di città, o ancora in chiesa per abbellire la liturgia. Ci sarebbe voluta una generazione prima che i benefici di questo mecenatismo artistico cominciassero a filtrare attraverso tutti i livelli della società cittadina.

Secondo alcuni studiosi, appena dopo la fine della guerra la Turingia si stava sviluppando come «una regione economicamente e culturalmente fiorente», poiché si trovava geograficamente «tra le piú importanti intersezioni delle vie commerciali nord-sud ed est-ovest del continente», il che rendeva «la regione particolarmente esposta all’influenza straniera … [dove] piú che in qualsiasi altro luogo, si incontravano le multiformi mode europee, dando vita a un’atmosfera unica»15. Non ci sono, però, prove che sostengano quest’ipotesi. Al contrario, la maggior parte degli abitanti, nonostante il patronato ducale, nel Settecento si trovava «in una situazione cosí grave che molti di loro non avevano il pane per sfamarsi ogni giorno, ma avevano troppa vergogna per andare negli ospizi dei poveri, in particolare le molte vedove»16. I giorni in cui Eisenach aveva beneficiato di una fiorente via commerciale interna, che collegava Francoforte, Erfurt e Lipsia, e da lí i porti baltici, erano da tempo passati, mentre il breve periodo del suo sviluppo culturale avrebbe ancora dovuto aspettare l’epoca in cui Telemann avrebbe esercitato una grande influenza come Capellmeister della corte (1709-12). Per tutta l’infanzia di Bach, Eisenach fu come sigillata nell’immobile curvatura spazio-tempo di una città di provincia.

Per individuare i centri musicalmente piú attivi negli anni che precedettero la nascita di Bach non si deve guardare alla Turingia, ma ai porti anseatici e baltici dove il commercio aveva ripreso vigore piú velocemente, o alle corti di Gottorf e Wolfenbüttel, nel Nord della Germania. Era lí, paradossalmente, che la passione per la musica italiana aveva maggior diffusione. L’influenza della musica della Chiesa cattolica, in primo luogo attraverso i compositori veneziani Monteverdi e Grandi, e piú tardi attraverso il romano Giacomo Carissimi, funzionò come una trasfusione di sangue per la musica della Chiesa luterana. Ispirò un’intera generazione di compositori di eccezionale talento, tutti nati intorno agli anni centrali del Seicento, dei quali Buxtehude era solo il piú famoso. I nomi di Bruhns, Förtsch, Meder, Theile, Geist, Österreich e Schürmann oggi sono poco conosciuti (ancor meno di quelli della generazione precedente: Förster, Weckmann, Bernhard, Krieger, Rosenmüller e Tunder); tutti però avevano studiato in Italia, incontrato musicisti italiani nel Nord Europa, o si erano imbattuti nella musica italiana grazie alle antologie manoscritte che circolavano all’interno della comunità musicale. Della loro opera oggi soltanto una piccolissima parte esiste in forma di partitura, ma è sufficiente perché si desideri che venga eseguita e proposta molto piú frequentementem. Questi compositori diedero un nuovo impulso creativo al processo di innesto dello stile italiano nella musica sacra nativa, fondendo il vigore della declamazione vernacolare con il colore e la passione delle sonorità italiane. Operazione assolutamente formidabile, se si considera l’astio tra cattolici e protestanti, e la profonda paura germanica della forza corruttrice della cultura italiana, le cui tracce si rinvengono dall’umanista rinascimentale Conrad Celtis risalendo fino a Taciton. Ma è tipico del pragmatismo curioso e tollerante dei musicisti creativi di tutte le età il desiderio di reperire e acquisire nuove tecniche compositive, indipendentemente dalla loro provenienza. In questo modo tre generazioni successive di compositori tedeschi, a cominciare da Schütz, avrebbero riconosciuto l’Italia come die Mutter der edlen Musik («la madre della musica nobile»), sia di chiesa che in teatro. Un simile scambio di idee attraverso frontiere politiche e amministrative, e attraverso divisioni religiose, richiama alla mente quello che George Steiner definisce «communitas delle scienze … l’ideale di un commonwealth di valori positivi e benefici che trascendesse i conflitti cruenti e infantili nati da odi religiosi, dinastici ed etnici … Come avrebbe detto Keplero, in mezzo ai massacri delle guerre religiose, le leggi del movimento ellittico non appartengono a nessun uomo o principato»17. Lo stesso potrebbe dirsi della musica.

Ancor piú notevole fu il modo attraverso cui questi compositori riuscirono ad aggirare le tensioni ideologiche che si erano create tra i due movimenti contrapposti formatisi all’interno del luteranesimo, ortodossia e pietismo, con quest’ultimo che emerse con forza come una corrente di rinnovata spiritualità sulla scia della guerra dei Trent’anni. La loro musica mostrava sufficiente vigore retorico per ottenere l’approvazione del clero ortodosso, mentre l’adozione di testi devozionali riuscí a cogliere il favore di alcuni pietisti. A un livello superficiale, il pietismo potrebbe essere visto come «antimusicale» in quanto disapprovava, per principio, la musica concertata in chiesa – a eccezione dell’esecuzione congregazionale degli inni e di un tipo piuttosto sentimentale e blando di canzone spirituale, e anche in quel caso dibatterono aspramente se limitare gli inni a quei cantori che ne condividessero il tenore emotivo del testo, o anche abolire l’uso di canti cristiani nelle funzioni aperteo. Gottfried Vockerodt, preside di una scuola a Gotha, sintetizzò la loro posizione. Sostenendo che i primi cristiani conoscevano soltanto musica che onorava Dio, ribatté sul fatto che il canto dovrebbe ispirare devozione e sgorgare dal cuore, e non essere prodotto per piacere mondano o ostentazione. Indicando l’esempio di alcuni imperatori romani dissoluti (Nerone, Claudio e Caligola), ammoní che «l’abuso di musica … è la scogliera piú pericolosa, lungo la quale molte giovani anime, come ammaliate da sirene … cadono in dissolutezze ed empietà»18. Simili dichiarazioni erano parte di una guerra combattuta a suon di pamphlet tra lui e Johann Beer, scrittore prolifico che era anche primo violino e bibliotecario presso la corte di Weissenfels. Prendendosi gioco delle idee di Vockerodt nei suoi Ursus murmurat («L’orso ringhia») e Ursus vulpinatur («L’orso che si trasformò in una volpe») Beer, invece, insisteva sulla validità del fare musica come attività puramente secolare e come ricreazione adatta ai principi, sostenendo che i musicisti dovrebbero essere giudicati non sulla base dei loro comportamenti o delle convinzioni religiose, ma esclusivamente per le loro competenze musicali19.

Ogni volta che la loro influenza era in ascesa, i membri del clero pietista erano pronti a eliminare eventuali diavolerie e sperimentazioni che conferissero un ruolo di primo piano agli strumenti nell’abbellimento della musica liturgica. Ai loro occhi, ciò distraeva la congregazione impedendo ai fedeli di lasciarsi coinvolgere piú profondamente e di concentrarsi sulla parola di Dio. Aderivano fermamente al nucleo emotivo del luteranesimo che, dopotutto, scaturí dalla crisi psicologica di un monaco profondamente nevrotico il quale trovò la pace nell’affidare il suo problema a Cristo (il «leone di Giuda» che «termina la sua lotta vittoriosa» su tutti i nemici della piena umanità), il che gli consente di recuperare la sua propria umanità. Questo nucleo psicologico ed emotivo del luteranesimo era ciò che lo distingueva dal calvinismo, che dalla sua nascita è stato sistematico e intellettuale (essendo il suo fondatore un avvocato), e i pietisti restarono fedeli alla vecchia ingenuità radiosa di Lutero nel momento della sua conversione, convinti com’erano che l’ortodossia avesse perso il contatto con le esigenze dei luterani ordinari. Ci si potrebbe aspettare, quindi, che avessero favorito la letteratura puritana inglese, ma, ironia della sorte, l’accento che ponevano sulle forme meditative di culto li rese alleati naturali della stessa specie di poesia mistica latina che veniva rivalutata dai loro acerrimi nemici, i gesuiti, nei paesi del Sud segnati dalla Controriforma: autori come san Bernardo di Chiaravalle e Tommaso da Kempis, cosí come il Cantico dei Cantici, saturo di immagini erotiche, dal Vecchio Testamento. Per questa strada, compositori come Buxtehude o Bruhns riuscirono a legittimare il loro uso potentemente espressivo di testi sacri, introdotti, per cosí dire, dalla porta di servizio.

Ci volle una notevole ingegnosità per placare l’appassionato impegno pietista nel rendere piú sobria l’edificazione spirituale, e al tempo stesso costruire un’agenda ortodossa, che considerasse la musica concertata come parte indispensabile del culto, difendendo cosí vigorosamente l’articolo V della Confessione di Augusta (1530), secondo cui la fede passava attraverso la predicazione del Vangelo e la somministrazione dei sacramenti, non già attraverso qualche ispirazione indipendente dello Spirito Santop20. Un calderone musicale era stato riscaldato nel piú gelido e meno promettente dei climi. Sarebbe fuorviante presentare i successi artistici di questi compositori esclusivamente come il necessario preludio a quelli di Bach, come una sorta di «anticipo» teleologico, ma certamente costituirono il fondale per il suo arrivo sulla scena musicale nella Germania del Nord.

Nel frattempo, questa nuova prospettiva di vita religiosa in Germania si scontrò rumorosamente con la nascita simultanea e i rapidi progressi della scienza moderna, e viene da supporre che fossero in totale disaccordo, un po’ come Galileo e i suoi avversari. Nei suoi Dialoghi sopra i due massimi sistemi del mondo, Galileo insiste sul come le cose accadono, mentre il suo avversario Simplicio risponde con una teoria pronta all’uso sul perché le cose accadano. L’ambizione di Galileo, naturalmente, era elaborare e perfezionare la scoperta di Copernico secondo la quale il sole era al centro dell’universo e la terra e i pianeti ruotano intorno a esso. Dal momento in cui i sette cardinali che componevano il tribunale dell’Inquisizione incaricato di processare Galileo nel 1633 dichiararono in modo inequivocabile «che il sole sia il centro del mondo e imobile di moto locale è proposizione assurda e falsa in filosofia, e formalmente eretica, per essere espressamente contraria alla Sacra Scrittura», la Chiesa cattolica si confermò un baluardo reazionario contro la ricerca scientifica. Anche i protestanti si scagliarono contro Copernico, portando Erasmo a commentare che le scienze erano cadute in rovina ovunque era prevalso il luteranesimo. Il che, però, non è del tutto corretto, visto che il mondo protestante, nonostante le sue divisioni, permise alla filosofia naturale margini di manovra negati dalla Chiesa cattolica. Una generazione dopo Galileo, Isaac Newton poteva ancora credere fermamente come anglicano che le sue scoperte «indicavano le operazioni di Dio», mentre sia Gottfried Leibniz (1646-1716) che il suo allievo Christian Wolff (1679-1754) diedero un prezioso impulso all’ortodossia cercando di convincere i principi e gli intellettuali tedeschi che le leggi meccanicistiche della nuova scienza erano compatibili con la «necessità morale» di un Dio che coscientemente ed eternamente sceglie il massimo grado di perfezione.

Quando si cerca di ricostruire un contesto culturale e intellettuale per l’apparizione di Bach sulla scena musicale europea, una delle domande piú elusive cui dar risposta è la determinazione della misura in cui lui, o uno qualsiasi dei suoi coetanei, fosse consapevole della rivoluzione scientifica del XVII secoloq. Nel caso di Bach, la capacità di trattare col pensiero astratto e da esso trarre chiari schemi deduttivi gli avrebbe fornito il trampolino per la sua immaginazione come compositorer. Isaac Newton nacque l’anno dopo la morte di Galileo (1642), esattamente cento anni dopo che Copernico aveva pubblicato il suo De revolutionibus. Da queste basi emerse un sistema coerente di pensiero scientifico, formulato da matematici per matematici, con Newton come punta di diamante. Nel suo Philosophiae naturalis principia mathematica (1687) egli mostrò come il principio di gravitazione universale da lui teorizzato fosse valido per il moto dei corpi celesti e per la caduta dei corpi sulla terra: ogni corpo attrae ogni altro corpo con una forza proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato della distanza tra loro. Gettò le basi per una meccanizzazione di cielo e terra, poiché, sebbene Dio mantenesse ancora il suo posto in un universo postnewtoniano, era solo come creatore originale del meccanismo che poi avrebbe funzionato per una semplice legge naturale che non richiede applicazione continua della forza. Inizialmente le idee di Newton furono accettate solo da una élite intellettuale, e ci volle almeno una generazione prima che acquisissero circolazione tale da permettere ad Alexander Pope di scrivere il seguente epitaffio per la lapide di Newton nell’Abbazia di Westminster:

La natura e le leggi della natura giacevano nascoste nella notte;

Dio disse: Che Newton sia! E luce fu.

In una visione cosí meccanicistica dell’universo non c’era posto per la superstizione; eppure stregoneria e magia persistettero manifestamente in Europa per tutto il Medioevo, oltre la Riforma e nel corso del XVII secolo. Paradossalmente, sia Newton che il suo contemporaneo Robert Boyle, oltre ai loro esperimenti scientifici, che minavano le fondamenta della stregoneria e di tutte le altre forme di magia, erano essi stessi alchimisti. Newton scrisse migliaia di pagine su teologia e alchimia, e mostrò un vivo interesse per l’astrologia. Boyle sfidò la chimica tradizionale in Sceptical Chymist; or, Chimico-Physical Doubts and Paradoxes («Il chimico scettico; o, dubbi e paradossi chimico-fisici»), pubblicato nel 1661; praticò anche l’alchimia e non abbandonò mai la sua fede nei miracoli. Nonostante la diffusione della conoscenza empirica, le streghe furono ancora processate, torturate e giustiziate in alcune zone della Germania fino almeno al XVIII secolo. A Lipsia, e nei dintorni, si tennero dieci processi, con prove documentate, per stregoneria tra il 1650 e il 175021. Lo stesso Bach potrebbe aver assistito a uno di questi, nel 1730, intentato da un medico di Lipsia nei confronti di due donne con l’accusa di ciarlataneria e pratica di arti magiche. Ciò dimostra come superstizione e «illuminismo» potessero coesistere anche in una città universitaria, e fino a che punto una visione eliocentrica e meccanicistica dell’universo incise lentamente sui normali cittadini, sulla società sassone nel suo complesso e, come stiamo per vedere, sull’insegnamento nelle scuole.

Se potessimo sbirciare nelle aule di una tipica Scuola Latina in Turingia tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo e origliare il modo in cui venivano tenute le lezioni, cosa noteremmo? Per prima cosa, forse il nostro occhio sarebbe attratto da dieci quadri appesi alle pareti – raffiguranti animali fantastici, tra i quali un drago, un grifone e un cerbero, ogni creatura a rappresentare un millennio, o un secolo, e disposta in rigoroso ordine alfabetico. Non era l’arredamento scolastico a richiederne la presenza, ma erano parte di un ingegnoso metodo sviluppato da Johannes Buno (1617-1697), teologo e pedagogo di Lüneburg, per allenare la memoria degli alunni attraverso l’interconnessione simultanea di animali, lettere, numeri e specifici personaggi storici, o epoche (fig. 3b). Poi, non potremmo non essere colpiti dall’enorme quantità di musica in classe. Nella sua famosa poesia intitolata Frau Musica, Lutero aveva personificato la musica e il canto come una signora «che dà a Dio piú gioia e allegria | di tutti i piaceri della terra»22. Piú importante del «prezioso usignolo», la Musica fu creata da Dio per essere la Sua vera cantante e amante, che instancabilmente gli renda grazie:

Canta e balla giorno e notte

Mai stanca [di innalzare] la Sua lode.

Il canto divenne l’elemento principale nell’insegnamento musicale all’interno del sistema scolastico luterano dell’epoca. Al mattino, le lezioni iniziavano alle 6, in estate, e alle 7, in inverno, e cominciavano con il canto collettivo della Katechismuslied, i suoi sei principî di base ripartiti per ciascuno dei sei giorni della settimana, messi in musica da compositori del XVI secolo come Vulpius, Calvisius, Gesius e, piú tardi, Johann Hermann Schein, che fu Cantor della Thomaskirche di Lipsia. Il canto corale era in programma cinque volte alla settimana, nella prima ora dopo il pasto di mezzogiorno (presumibilmente su consiglio dei medici tedeschi, i quali ritenevano che il canto favorisse la digestione)23. Il Cantor locale era visto soprattutto nel ruolo di insegnantes. «Che cos’è la musica?» chiedeva agli scolari. «La scienza del canto», era la risposta, da dare in coro24.

Canone circolare a cinque voci di Johann Hermann Schein (1586-1630) del tipo usato per insegnare agli scolari il canto polifonico.

Canone circolare a cinque voci di Johann Hermann Schein (1586-1630) del tipo usato per insegnare agli scolari il canto polifonico.

Come diceva Lutero, «un maestro di scuola deve saper cantare; altrimenti non lo riconosco come tale»25. Oltre al Cantor, anche altri membri del personale scolastico dovevano avere una preparazione musicale. In una versione aggiornata del quadrivium medievale, la musica nelle scuole luterane era considerata un complemento allo studio di grammatica, logica e retorica, mentre il canto era considerato una tecnica consolidata attraverso cui imparare dati e nozioni a memoria26. Agli studenti venivano impartite lezioni sui rudimenti pratici della musica – chiavi, pause, intervalli, lettura a prima vista e canto d’insieme – attraverso, perlopiú, l’uso di canoni. La bellezza del canto a canone risiedeva nella semplicità dei mezzi impiegati. Bastava una singola linea melodica, distribuita alla classe o cantata dal docente. Iniziava la prima voce, o il primo gruppo, poi, in un dato punto, entrava la seconda ripetendo la stessa melodia, e cosí via, fino a rivelare l’indipendenza delle linee vocali e, attraverso la loro combinazione, la capacità di creare polifonia. Dalla stratificazione e dalla distanza delle entrate melodiche emergeva miracolosamente un brano armonicamente compiuto, e ciò ben illustrava il modo in cui, secondo un teorico del XVII secolo, la musica poteva essere considerata: «un atto divino … il suo canto e il suono … sono una campanella che permea ogni piccola vena del cuore e i suoi Affekte (a meno che l’uomo non sia uno stoico o un tronco immobile)»27. Forniva, inoltre, un vivido equivalente auditivo dell’armonia pitagorica delle sfere e del posto dell’uomo nell’universo.

Anche la teologia sembrava permeare ogni lezione e ogni materia. Filippo Melantone, stretto collaboratore di Lutero, aveva definito il piano di studi di base nel 1522, avvertendo: «Se la teologia non è l’inizio, la metà e la fine della vita, smettiamo di essere uomini, torniamo allo stato animale»28. Tutto, quindi, doveva essere indirizzato verso «la pratica dei timorati di Dio» (die Übung des Gottesfürcht) e la memorizzazione degli articoli ufficiali della Chiesa luterana, la cosiddetta Formula della Concordia. Questi dovevano essere recitati fino a quando non erano perfettamente mandati a memoria. Lutero sottolineò sempre la necessità che la sfera fisica e quella spirituale fossero unite. Nei suoi Tischreden (Discorsi a tavola), di cui Bach in seguito ebbe almeno una copia, disse: «La musica è un dono cospicuo di Dio e prossimo [per importanza] alla teologia. Non rinuncerei mai alla mia scarsa conoscenza della musica in cambio di una grande considerazione. Ai giovani dovrebbe essere insegnata quest’arte; perché fa bene, rende le persone migliori e piú abili». Cosí, invece di abolire le Scuole Latine come quella che lui stesso aveva frequentato a Eisenach tra i quattordici e i diciotto anni, lui e Melantone preferirono riorganizzarle, mettendo la musica al centro delle materie di studio. Se, ragionava Lutero, ai bambini fosse stata insegnata la nuova musica a scuola – la sua musica (e quella del suo collega Johann Walter)t, con i suoi testi –, essi sarebbero stati in grado di condurre le congregazioni nella nuova innodia, e di cantare l’arrangiamento polifonico di quelle melodie in alternanza all’unisono congregazionale. Se Lutero riuscí nel suo intento, è difficile da stabilire.

Sedici lezioni della durata di un’ora erano assegnate ogni settimana allo studio di circa duecento pagine stampate dal Compendium locorum theologicorum (1610), di Hutter, un testo che sintetizzava l’essenza della teologia luterana. I trentaquattro articoli che definivano i punti dottrinali fondamentali erano presentati in forma di domanda e risposta, e dovevano essere studiati e recitati a memoria. Gli articoli erano calibrati in ordine di difficoltà – a cominciare dalle Scritture come fonte di verità, attraverso Cristo e la Trinità, la Provvidenza, il Peccato originale, predestinazione, libero arbitrio, la giustificazione, le buone opere, la natura dei sacramenti, e, infine, le concezioni del Giudizio universale e della vita eterna. Ancora una volta la musica era utilizzata per aiutare a memorizzare questi principî fondamentali della teologia e i cosiddetti fatti del mondo: cantandoli e ripetendoli a sufficienza era certo che si fissassero nella memoria. Altrettanto sorprendente è quanto precisamente la loro disposizione rispecchiasse la costruzione dell’anno liturgico luterano (vedi cap. IX e fig. 14). La facilità con cui Bach seppe gestirli, e i sottostanti ritmi stagionali nella produzione delle sue cantate, forse si generarono nella sua mente nel momento in cui, a dieci anni, iniziò a imparare a memoria il Compendium di Hutter come allievo della Klosterschule, a Ohrdruf.

Con musica e teologia che insieme rappresentavano quasi la metà del piano di studi, ed erano insegnate dallo stesso maestro, non sorprende il trovare le tre Ru relegate al terzo posto, con fisica, latino, greco e storia a riempire l’offerta formativa. Stilato secondo i precetti di Andreas Reyher, rettore del Gymnasium nella vicina Gotha, questo divenne il programma di studi di Bach a Ohrdruf. Secondo Reyher, erano necessari solo otto libri di testov, mentre per gli esercizi di lettura consigliava il quarto libro di Mosè e il capitolo undici del Vangelo di Matteo. Testi dai quali, affermò il rettore, «un ragazzo può imparare tutta la letteratura che gli serve». Parallelamente alle competenze di base in lettura e scrittura, logica e retorica, tutte materie presentate dalla stessa prospettiva teologica, nell’ottica di quella che è stata chiamata «l’appassionata posizione antirazionale»29 di Lutero, si insegnavano anche alcuni autori classici, attentamente selezionati. Anche le abilità numeriche venivano insegnate in connessione con la Bibbia, per mezzo dell’Hauptschlüssel über die hohe Offenbarung S. Johannis («La chiave principale per l’Apocalisse di San Giovanni»), di Caspar Heunisch, di cui Bach avrebbe posseduto una copia. In pratica, non sembra che negli ultimi duecento anni l’insegnamento dell’aritmetica fosse progredito molto oltre le capacità di base per contare, addizionare, sottrarre e calcolare facili divisioni. Per quanto fossero inserite nel programma di studi, le scienze naturali venivano insegnate utilizzando la prospettiva luterana, aderendo quindi a un modello postaristotelico. Autori come Pitagora, Euclide, Galeno, Tolomeo e Boezio erano ancora considerati adatti all’illustrazione della cosmologia, della fisica e della matematica, sebbene i fondamenti delle loro teorie scientifiche fossero stati recentemente demoliti.

Canone retrogrado a sei voci a forma di croce di Adam Gumpelzhaimer (1559-1625), dal Compendium musicae latino-germanicum (1625).

Canone retrogrado a sei voci a forma di croce di Adam Gumpelzhaimer (1559-1625), dal Compendium musicae latino-germanicum (1625).

Anche l’insegnamento della storia era impartito a partire dalla stessa prospettiva, parziale e parrocchiale, luterana. Il libro di testo consigliato era Historia universalis (1672), dello stesso Johannes Buno, la cui sequenza illustrata di creature mitologiche abbiamo notato, in precedenza, sulle pareti dell’aula30. Buno si concesse delle libertà straordinarie nel selezionare solo quei frammenti del passato classico che piú facilmente si adattavano alla sua visione provvidenziale della storia, ignorando tutto il resto. Buon per lui, James Ussher (arcivescovo anglicano di Armagh e primate di tutta l’Irlanda tra il 1625 e il 1656) aveva di recente stabilito, senza ombra di dubbio, attraverso una complessa correlazione tra storie del Medio Oriente e Sacra Scrittura, che la Creazione si era verificata nella notte precedente la domenica, il 23 ottobre del 4004 a. C.31. Adamo visse fino a 930 anni di età. «Non è successo niente», Buno dichiara categoricamente, sia nel VI che nel X secolo. E che Historia nihil repraesentat quod Christianus («la storia non è altro che la dimostrazione della verità cristiana»). Cosí, in maniera prevedibile, la storia della Chiesa è predominante: i santi – Agostino, Basilio, Gregorio e Ambrogio – sono lodati per i loro scritti «gloriosi», mentre i peccatori – manichei, montanisti, pelagiani e ariani – sono alla gogna per gli «errori» commessi in quanto eretici, insieme al profeta Maometto e a una lista di papi erranti. La figura di Luigi XIV fa solo una fugace apparizione, prima che Buno riprenda il suo veloce trotto attraverso la storia nel 1672.

È facile mettere in ridicolo l’approccio di Buno, vivace e attraente nel creare una narrazione pittorica nella mente dell’alunno, intrecciando storia sacra e profana in un unico raccontow. La sua ingenuità era del tipo che Cartesio senza dubbio aveva in mente quando sostenne che lo studio della storia, come i viaggi, mentre rappresenta una innocua forma di intrattenimento – un composto di «azioni memorabili» che potrebbero plausibilmente «elevare la mente» o «aiutare a formare il giudizio» –, non era certo una professione adatta a chiunque fosse seriamente interessato all’aumento della conoscenza32. Nel guazzabuglio di Buno, fatto di favole, avvenimenti e racconti di viaggiatori, scelti appositamente per la, e adattati alla, credulità dei suoi lettori, Cartesio non avrebbe trovato alcuna traccia di metodologia coerente. Di fronte a questo tipo di genialei corbellerie, destinate ovviamente a sostenere le istituzioni fondamentali della società in generale e della Chiesa luterana in particolare, non c’erano regole chiare o premesse da cui poter dedurre conclusioni valide, nessun materiale che si sarebbe potuto esaminare secondo norme ragionevoli.

Oltre al Buno, quel poco di storia antica che si insegnava nella Scuola Latina dell’epoca proveniva da Flavio Giuseppe (ca. 37-95 d. C.), i cui scritti di storia ebraica e teologia erano stati sfruttati dal clero protestante come elementi di prova per spiegare la caduta del Tempio di Gerusalemme come Gesú aveva predetto. Un breve elenco di autori classici, scelti non per la loro qualità letteraria, ma per la loro padronanza della grammatica e della sintassi latina, era guidato da Cicerone – le sue lettere, i trattati De Officiis e De inventione, e le orazioni contro Catilina –, testi giudicati assai adatti per affinare l’ingegno dialettico dei futuri difensori della fede. La lista comprendeva anche opere di Orazio, Terenzio e Virgilio, cosí come la vita avvincente di Alessandro Magno di Quinto Curzio Rufo – completa di succulente storie di coraggio eroico, esotici costumi orientali e orpelli romantici. Il Nuovo Testamento, non a caso, era usato come libro di testo principale per l’apprendimento del greco.

Nonostante tali racconti occasionali e le varie divagazioni musicali, da un programma di studi siffatto si percepisce una generale assenza di gioia. Nelle classi dei maestri piú pedanti e privi di immaginazione si trasformava facilmente in fatica. Altrove, nelle scuole dove gli insegnanti avevano subito l’influenza del riformatore moravo Giovanni Amos Comenio (1592-1670), era possibile, almeno teoricamente, che potessero penetrare raggi di sole. La Klosterschule di Ohrdruf (in precedenza una scuola monastica), presso la quale Bach si trasferí da Eisenach dopo la morte dei suoi genitori, e frequentò per quattro anni e mezzo, fu una scuola del genere, famosa nel distretto per aver adottato le riforme curricolari di Comenio. Il suo metodo sottolineava l’importanza di coltivare un ambiente favorevole per l’apprendimento, di incoraggiare il piacere cosí come l’istruzione morale attraverso lo studio, e di aiutare gli studenti a imparare progressivamente da esempi concreti, tappa per tappa – da una conoscenza materiale delle cose (tra cui canzoni e immagini) piuttosto che soltanto attraverso le parole. Era la riproposizione contemporanea della tesi di sant’Agostino, secondo il quale «noi godiamo appieno di quella “cosa” che amiamo per se stessa». Oltre a ciò, Comenio sostenne l’insegnamento in lingua volgare: la sua grammatica latina, per esempio, forniva una formazione simultanea in tedesco e latino, con i testi disposti in colonne parallele33. Cosí, invece di dividere le discipline, cercò dei punti di contatto tra esse, provando a portare tutti i rami del sapere in uno schema coerente di sapientia universalis.

Come in molti altri lodevoli sforzi da parte di educatori successivi nel corso dei secoli, qui c’era un abisso tra aspirazioni e realtà. Anche con una parziale applicazione delle riforme di Comenio, vi è ogni ragione di dubitare che all’interno delle classi a Eisenach e Ohrdruf vi fossero le condizioni favorevoli all’acquisizione della sapientia universalis, per tacere dell’«illuminazione», come molti dei biografi di Bach vorrebbero farci credere. Tutto dipende da quali fonti si leggonox. Christoph Wolff, per esempio, sostiene che «l’eccellente direzione e l’alta reputazione» della Scuola Latina di Eisenach «attiravano studenti provenienti da una vasta regione»34, e Martin Petzoldt insiste risolutamente sulla «sostanziale stabilità e qualità della scuola», al tempo di Bach, «garantite» dal triumvirato amichevole del Rektor (cioè il preside), dell’Ephorus (vale a dire l’ispettore scolastico) e del Cantor35. Tuttavia, la ricerca iniziata negli anni Trenta negli archivi cittadini da Hermann Helmbold, e proseguita negli anni Novanta da Rainer Kaiser, dipinge un quadro molto diverso, suggerendo che i ragazzi di Eisenach del tempo fossero dei perfetti farabutti: chiassosi, sovversivi, teppisti, bevitori di birra e vino, donnaioli, noti per aver infranto le finestre e per brandire i pugnali a scopo intimidatorio36. Il problema non era nuovo. Nel 1678, Georg von Kirchberg segnalò al concistoro di Eisenach un globale «lassismo e disprezzo per la buona disciplina»37. Ancor piú inquietanti erano le voci di un «abbrutimento dei ragazzi», legate all’evidenza che molti genitori tenevano i figli a casa, non perché fossero malati, ma per paura di quello che succedeva dentro o fuori la scuola. Ciò costrinse il concistoro a emettere una norma che rendeva obbligatorio per tutti i bambini di età superiore ai cinque anni il frequentare una delle otto scuole (primarie) tedesche prima di passare alla Scuola Latina. I genitori colpevoli rischiavano una multa salatissima, o addirittura la reclusione. Le frequenti assenze di Bach dalla Scuola Latina di Eisenach, 96 giorni nel suo primo anno, 59 nel suo secondo e 103 durante il terzo, sono tradizionalmente attribuite alla malattia di sua madre, all’apprendistato non ufficiale svolto a fianco di suo padre, che gli chiedeva di aiutarlo in un’ampia serie di attività – dal sostituire le corde ai violini al lucidare gli ottoni, al controllare e aiutarlo nel copiare le composizioni di suo cugino – e alla sua partecipazione alle frequenti riunioni musicali famigliari, che assomigliavano alla convocazione dei membri di una corporazione. Questo non è del tutto convincente, e potrebbero esserci spiegazioni alternative, e piú inquietanti.

Dal 1688 – tre anni dopo la nascita di Bach – le condizioni prevalenti nella Scuola Latina avevano toccato il loro punto piú basso, tanto che il concistoro dichiarò che la scuola «era caduta in un totale declino»38. Passarono altri cinque anni prima che trovassero l’accordo per la nomina del vicecapo, Christian Zeidler, come sostituto del preside in difficoltà, Heinrich Borstelmann, e fosse redatto un documento con le sue indicazioni per migliorare la situazione. Ciò accadde nell’anno in cui Bach si iscrisse alla quinta. Una delle principali preoccupazioni di Zeidler sembra fossero le turbolenze nelle classi, causate, in primo luogo, da una generale carenza di libri; dall’uso simultaneo di diverse grammatiche e lessici come libri di testo; e, infine, da un grave sovraffollamento. Quest’ultimo era diventato cosí critico che nel secondo anno di frequenza di Bach i ragazzi iscritti alla scuola erano 339 (senza, a quanto pare, un parco o un cortile in cui potessero sfogarsi). In chiesa i ragazzi erano stipati tutti insieme nella cantoria o seduti sui banchi di penitenza (Schwitzbäncken). Contribuivano talmente alla confusione generale che i parrocchiani si lamentarono perché il loro chiasso li distraeva dal sermone. Zeidler individuò una serie di rimedi pratici, ma privi di fantasia, tra cui un sistema per il quale ogni insegnante aveva la responsabilità diretta per la sua classe sia a scuola sia in chiesa. Gli alunni erano incoraggiati a cantare gli inni con il coro. I bambini piú piccoli, di quinta, furono autorizzati a lasciare l’aula dopo le letture dalla Bibbia. Richiese e ottenne l’ampliamento della cantoria, anche se i lavori dovettero essere rinviati per molti anni. Alla ricerca di una «giusta ricreazione» per tenere i ragazzi occupati, nel 1693, contro il parere del parroco, scrisse anche il testo per una recita di Natale intesa come un pezzo edificante di teatro-musica («eine erbauliche Comoedia»)39. Purtroppo la parte musicale di questa rappresentazione, forse composta dal Cantor Dedekind o dall’organista Johann Christoph Bach, non ci è pervenuta, e non sapremo mai se il giovane Sebastian Bach si trovasse all’interno della chiesa prendendo parte alla recita, o all’esterno con i suoi compagni a far cagnara.

Di una cosa possiamo essere abbastanza certi: non c’è nulla, nel programma scolastico dell’epoca di Bach, che suggerisca lo spirito di ricerca scientifica empirica, e nessuna idea di che cosa Copernico, Keplero e Galileo avessero proposto o raggiunto. Sebbene gli insegnanti luterani potessero essere disposti a rinunciare alle implicazioni astronomiche delle Sacre Scritture e adottare, al loro posto, il sistema sferico di Tolomeo, non è certo se molti di essi fossero a conoscenza dello studio di Keplero sulle orbite dei pianeti (1609), che a sua volta aveva portato alla legge di gravità di Newton (1687), o fossero pronti ad abbandonare l’idea di un firmamento rigido e rotante. Newton formalizzò le scoperte di Galileo nel primo principio della dinamica: «un corpo mantiene il proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, finché una forza non agisce su di esso». Una simile idea ribaltava una credenza che aveva bloccato il progresso della fisica negli ultimi duemila anni e che ancora veniva insegnata nel sistema didattico della Scuola Latina durante gli anni di scuola di Bach.

Chiaramente, i dibattiti filosofici della fine del XVII secolo, sulla questione se l’universo fosse costituito da fenomeni osservabili governati da principî matematici eterni, erano lontani dai metodi di insegnamento attuati nelle scuole frequentate da Bach. Gli estremi del pensiero astratto, e ciò che Jonathan Israel definí «la grande turbolenza in ogni sfera della conoscenza e delle convinzioni che scosse le fondamenta della civiltà europea», sembravano aver lasciato gran parte della Germania in uno stato di comatosa indifferenzay. È difficile trovare prove a sostegno del fatto che la «Crisi della coscienza europea» (titolo di un libro dello storico francese delle idee Paul Hazard, scritto nel 1935) ebbe un qualsiasi tipo di impatto su ciò che veniva insegnato nelle classi tedesche nell’ultimo decennio del XVII secolo, o che, addirittura, fosse insegnata nei successivi cinquanta o sessant’anni. Nelle alte sfere della vita accademica tedesca l’espulsione del professore di filosofia, Christian Wolff, dall’Università di Halle nel novembre 1723 – accusato dal suo collega Joachim Lange di insegnare la dottrina «dell’assoluta necessità delle cose», troppo vicina alle idee di Spinoza, e piú tardi da Johann Franz Buddeus «di provare a spiegare tutto in modo meccanicistico» –, segnò uno spartiacque significativo poiché «virtualmente tutto l’ambiente accademico tedesco ora scivolò in amare dispute e acrimonie»40. Ma anche allora, negli anni tra il 1720 e il 1740, a meno che non si fosse frequentata l’università, era molto probabile che una persona normale avrebbe continuato beatamente a ignorare Galileo, Newton e Leibniz, cosí come l’attacco al riduzionismo cartesiano sferrato dal brillante professore napoletano di retorica Giambattista Vico (1668-1744), la cui fama cominciò a circolare solo durante la reazione all’Illuminismo, nei primi due decenni dell’Ottocento.

In generale, l’effervescenza e il tumulto nel discorso filosofico tra XVII e XVIII secolo erano situati molto in alto nella stratosfera intellettuale, troppo lontani per avere una ricaduta sulla vita e i comportamenti dei normali cittadini tedeschi. Con questo non si vuol sostenere che Bach, da abitante della provinciale Turingia, non avrebbe potuto sviluppare una potente e visionaria intelligenza; al contrario, come molti hanno sostenuto, la sua musica indica un grado di sofisticazione del pensiero non dissimile da quello di un qualsiasi matematico o filosofo del suo tempo. Il punto, piuttosto, è che il rigore quasi scientifico con cui in seguito compose la sua musica non poté assorbirlo, come scolaro, da qualcosa che soltanto si avvicinasse a una educazione razionalista o illuminista. Ciononostante, a spiegare la percezione estremamente raffinata delle proporzioni che poi manifestò nelle sue composizioni potrebbe essere il fatto che la matematica non era insegnata come una disciplina separata, durante la sua permanenza scolastica, e ciò potrebbe avergli consentito di elaborare il tipo di interconnessioni spontanee che cosí facilmente scompare dalla relazione istintiva di un bambino con i numeri una volta che l’aritmetica viene trattata a parte. Vico individuò il fenomeno quando scrisse: «l’ingegno è la facoltà grazie alla quale l’uomo è capace di osservare le cose e di riprodurle. Noi stessi vediamo nei fanciulli, dove la natura è piú integra e meno corrotta da persuasioni o pregiudizi, che la prima facoltà che si manifesta è quella di osservare cose simili»41. Dio, Bach potrebbe aver pensato, lavorava con e attraverso i numeri e potrebbe aver concluso, istintivamente, che la musica osservava le manifestazioni naturali delle leggi matematiche, perfetto esempio della Sua potenza creatrice. È stato Gottfried Leibniz, uno dei grandi maestri dell’Illuminismo, a sostenere che: «la musica è un’aritmetica segreta dell’anima che non sa di contare»z 42.

Non si è voluto qui prendere in giro l’ignoranza della società tedesca, né l’arretratezza del sistema pedagogico della Scuola Latina, ma sottolineare che il cristianesimo, nella sua forma luterana ortodossa revisionista, occupava ancora il centro della scena nel curriculum scolastico e, di conseguenza, informava e influenzava i modelli di pensiero della stragrande maggioranza dei cittadini tedeschi. Come ha acutamente sostenuto Tim Blanning, il XVIII secolo dovrebbe essere definito l’Età della Religione, piuttosto che l’Età della Ragione. Tutte le chiese – cattolica, calvinista e luterana (ortodossa e pietista) – erano fiorenti, e il discorso pubblico e privato era dominato dalla religione (sostanzialmente, piú nella prima metà del secolo rispetto alla seconda). E fu in questa prospettiva che la musica ebbe un ruolo vitale da svolgere, anche se spesso in un clima di sfiducia, discordia e di efficacia solo parziale. Ci voleva ben piú di un musicista di genio per invertire la tendenza.

a. Formalmente istituito nel 1653 per fornire l’amministrazione civile e la sicurezza dei protestanti tedeschi, la presidenza era fissata in modo permanente alla Sassonia anche quando Augusto II di Polonia si convertí al cattolicesimo per vincere l’elezione a re di Polonia nel 1697. Con il senno di poi possiamo considerare la decisione di Augusto II come un terribile errore, ma per molti contemporanei l’aggiunta dell’ampia Polonia alle qualità della Sassonia sembrava confermare per questo regnante lo status di principale rivale degli Asburgo.

b. Ad esempio, l’Elettorato di Baviera era un Reichsstand, ma all’interno delle sue frontiere si trovavano Landstände che rappresentavano la Chiesa e la nobiltà. La composizione poteva variare da un Reichsstand all’altro: in alcuni di essi la Chiesa non era rappresentata, in altri non lo era la nobiltà.

c. Per pura coincidenza, nell’anno di nascita di Bach Luigi XIV revocò l’editto di Nantes (1598) e venne cosí cancellato il limitato grado di tolleranza accordata ai protestanti francesi. Improvvisamente, arrivarono frotte di rifugiati ugonotti dal Nord dell’Olanda e dall’Inghilterra, ma anche da est, al di là del Reno. Nel dare il benvenuto a circa 14 000 di essi, permettendo loro di stabilirsi nei suoi territori, l’elettore Federico Guglielmo di Brandeburgo fissò una tendenza per le successive ondate di immigrazione dei profughi per motivi religiosi – dalla Boemia e dall’Austria, nonché dalla Francia –, una Peuplierungspolitik che come primi effetti ebbe quelli di ripopolare le aree rurali decimate dalla peste e di aumentare la manodopera qualificata delle città, in modo da dare alla Prussia e agli altri Länder che seguivano la sua leadership un significativo vantaggio economico sul vecchio Impero.

d. «Was sind wir Menschen doch? Ein Wohnhaus grimmer Schmerzen, | Ein Ball des falschen Glücks, ein Irrlicht dieser Zeit, | Ein Schauplatz herber Angst, besetzt mit scharfem Leid, | Ein bald verschmelzter Schnee und abgebrannte Kerzen».

e. Eppure, per un breve periodo, quando la carestia e la malattia segnavano la campagna sassone negli anni Trenta del XVII secolo, sembra che sorprendentemente la popolazione di Lipsia fosse aumentata di un buon terzo (vedi GEOFFREY PARKER, a cura di, The Thirty Years’ War, Routledge, London 19972, p. 189; trad. it. La guerra dei Trent’anni, Vita e Pensiero, Milano 1994, pp. 336-37).

f. I recenti cambiamenti climatici hanno reso i passi alpini piú ardui; un tempo i viaggiatori tedeschi erano attratti dall’Italia come le falene dalla luce – non tanto per il commercio, ma per ammirare l’arte italiana del passato e la musica del presente.

g. Gli agricoltori lo hanno sempre saputo, e sono stati i primi a essere consapevoli – e a lamentarsi – che la coltivazione dei prodotti agricoli è un’impresa azzardata, in balia degli abituali capricci del tempo e dei diritti civici di pascolo. Per tutti gli altri la sua centralità era data totalmente per scontata – nel 1685 ciò veniva ignorato, e cosí sarà anche in seguito.

h. Nell’VIII secolo, arrivando dal Wessex nel Sud dell’Inghilterra, san Bonifacio si imbatté in una tribú turingia che adorava una divinità nordica sotto forma di una grande quercia. La leggenda vuole che, toltosi la camicia, afferrasse una scure e senza dire una parola abbattesse la lignea divinità di 180 cm di diametro. Subito dopo, dalla cima del tronco, Bonifacio sfidò i capitribú: «E come si rialza adesso il vostro potente Dio? Il mio Dio è piú forte di lui!» La folla reagí in modi diversi, ma iniziarono le prime conversioni. Fu un processo lento e i cistercensi impiegarono fino al XII secolo per consolidarlo. I monaci sapevano anche istintivamente che i terreni in cui prosperavano cosí bene gli alberi da legno erano anche adattissimi alla coltivazione di colture domestiche, iniziò cosí quel processo di autosufficienza economica che alla fine ha originato il mosaico di campi da semina e boschi della Turingia di oggi.

i. Secondo Peter H. Wilson, «La guerra lasciò tuttavia la gente traumatizzata. Anche se saltuaria, vi è evidenza di quello che oggi sarebbe chiamato disturbo da stress post-traumatico» (Europe’s Tragedy: a History of the Thirty Years War, Allen Lane, London 2009, p. 849). Sulla parallela enfasi data alla penitenza e alla fede nell’apocalittica reazione luterana alla guerra, si veda THOMAS KAUFMANN, Dreißigjähriger Krieg und Westfälischer Friede. Kirchengeschichtliche Studien zur lutherischen Konfessionskultur, Mohr Siebeck, Tübingen 1998, pp. 34-36, 76, 101, 106.

j. Ci si domanda se ai tempi di Bach la parola Laub (foglie) mantenesse ancora la connotazione cinquecentesca di tabernacolo o sacro santuario, oltre a quella di fogliame (vedi SIMON SCHAMA, Landscape and Memory, Alfred A. Knopf, New York 1995, p. 585, nota 61; trad. it. Paesaggio e memoria, Mondadori, Milano 1998, p. 600, nota 61). È possibile che gli alberi della Turingia non fossero altro per lui che semplici scenografie e accessori del palcoscenico della sua infanzia – erano innegabilmente lí, anonimi e pressoché inavvertiti –, ma ne dubito. In ogni caso, il mio istinto mi dice che, oltre alle residue associazioni religiose che la foresta poteva ancora aver conservato, Bach potrebbe aver imparato una lezione sui limiti e la vanità del suo essere uomo osservando gli alberi e i boschi, le cui vite e scansioni temporali non si accordano con i modelli umani. Forse imparò anche l’importanza per l’animo umano della natura selvaggia – come antidoto al rigore e alla disciplinata struttura della sua educazione luterana. Quando racconta i suoi viaggi lungo il Rio delle Amazzoni, compiuti per testimoniare la distruzione della foresta pluviale da parte delle società di disboscamento, Jay Griffiths grida: «se si tolgono le persone dalla loro terra, le si tolgono dal loro orizzonte di senso, dalle radici del loro linguaggio. Quando si sono perse le terre selvagge, è come se si fosse persa la metafora, il riferimento e la poesia che sorge nell’interazione fra mente e natura» (Wild. An Elemental Journey, Hamish Hamilton, London 2007, pp. 25-27). Non però possiamo ovviamente affermare che Bach fosse a conoscenza, o tantomeno ispirato, dai «lunghi ritmici cicli» con cui il bosco si rinnova o dalla tensione che si manifesta tra chi è interessato alla sua sopravvivenza e coloro che invece rivendicavano aree aperte al pascolo (la gente comune, in altre parole). Richard Mabey ci dice che un acro di bosco vecchio contenente, diciamo, trenta faggi di 300 anni può essere rinnovato con soltanto dieci nuove piantine che raggiungono l’età adulta ogni cento anni (Beechcombings. The Narratives of Trees, Vintage, New York 2008, p. 84).

k. Herder si dispiacque di osservare una separazione tra le parole e la musica – il momento in cui il poeta comincia a scrivere «lentamente; al fine di essere letto», l’arte può uscirne vittoriosa, ma vi è una perdita di magia, del «potere miracoloso» (JOHANN GOTTFRIED VON HERDER, Sämmtliche Werke, a cura di Bernhard Suphan, Weidmann, Berlin 1877-1913, vol. VIII, pp. 412, 390). Egli parlò di pietrificazione linguistica, e di come, nelle parole di Isaiah Berlin, la «scrittura sia incapace di quel processo vivente di incessante adattamento e cambiamento, di espressione costante dell’inanalizzabile e dell’inafferrabile flusso di esperienza reale, che il linguaggio, se è in grado di comunicare pienamente, deve possedere. Solo il linguaggio rende l’esperienza possibile, e però anche la congela» (ISAIAH BERLIN, Three Critics of the Enlightement, Pimlico, London 2000, p. 194). Un tema dominante di questo libro sarà quello di mostrare come la musica con testo di Bach possieda esattamente questo «processo vivente» e sia l’espressione costante ed essenziale di quel «flusso di esperienza reale» che, secondo Herder, il linguaggio ha in modo carente e pietrifica.

l. Lo fanno ancora. Prima del nostro concerto a Eisenach il giorno di Pasqua del 2000, il pastore della Georgenkirche invitò me e i membri del mio coro e dell’orchestra a guidare il canto nell’Hauptgottesdienst. A metà della messa fummo raggiunti nella galleria dell’organo da un gruppo di contadini locali che cantarono una litania in dialetto turingio per poi allontanarsi.

m. La loro musica è giunta fino a noi grazie a copisti instancabili quali Gustav e Georg Düben Österreich, ed è studiata da Geoffrey Webber, il cui stimolante North German Church Music in the Age of Buxtehude, Oxford University Press, Oxford 1996 mi ha spinto a scavare un po’ piú in profondità in questo tesoro inviolato, sondandone qualche esempio nella Staatsbibliothek di Berlino.

n. Il successore e sostenitore di Tacito Conrad Celtis (1459-1508) ha battuto la grancassa della rivolta tedesca contro la cultura italiana: «A tal punto siamo corrotti dalla sensualità italica e dalla feroce volontà di acquisire il vile danaro, – ha sostenuto, – che sarebbe stato assai meglio e piú dignitoso per noi mantenere la rude e rustica vita di un tempo, restando entro i confini di ciò che da noi stessi possiamo controllare, anziché importare tutti gli accessori della sensualità e dell’avidità che mai non sono sazie e adottare i costumi stranieri» (citato in S. SCHAMA, Landscape and Memory cit., p. 93; trad. it. cit., p. 94). La vita di Bach è schiacciata tra quella di Celtis e quella di un altro fervente custode della memoria folclorica tedesca, Johann Gottfried von Herder. Herder si batteva «per una cultura radicata organicamente nella topografia, i costumi e le comunità della tradizione indigena locale … folklore, ballate, favole e poesia popolare» (J. G. VON HERDER, Sämmtliche Werke cit., pp. 102-3). Nato in un clan di musicisti, Bach avrebbe istintivamente condiviso l’idea di Herder su cosa significa appartenere a una famiglia, una setta, un luogo, un periodo, uno stile, e sul ruolo della musica nel cementare tutto ciò: «Le loro canzoni sono gli archivi del loro popolo, il tesoro della loro scienza e religione … un ritratto della loro vita domestica nella gioia e nel dolore, dal letto nuziale alla tomba … Qui ognuno ritrae se stesso e appare per come è» (traduzione in BURTON FELDMAN e ROBERT D. RICHARDSON, a cura di, The Rise of Modern Mythology 1680-1860, University of Indiana Press, Bloomington 2000, pp. 229-30).

o. Questa era la conclusione cui giunse Johann Anastasius Freylinghausen (1670-1739) nell’introduzione al suo Geistreiches Gesangbuch del 1704, anche se allo stesso tempo ammetteva il potere del canto di commuovere i peccatori. La prefazione di un innario pietista del 1733 fornisce istruzioni specifiche per i lettori e i cantori per sperimentare le emozioni rappresentate da innografi ispirati, in modo che ognuno si «appropri di tutti i poteri e mozioni dei salmi e cominci a cantare come se le canzoni non fossero estranee a lui, ma piuttosto come se le avesse composte egli stesso, come una preghiera scaturita dalle impressioni piú profonde del suo cuore» (WOLFGANG SCHMITT, Die pietistische Kritik der «Künste»: über die Untersuchung Entstehung einer neuen Kunstauffassung im 18. Jahrhundert, Diss. Köln, 1958, p. 54). Una questione questa che riguardava sia il clero ortodosso sia i pietisti: conformità esteriore nel culto, la cui musica doveva essere considerata insufficiente se non era sostenuta da una sentita spiritualità da parte di tutti i fedeli.

p. Sebbene i pietisti fossero espliciti nella loro condanna del lusso e dell’ostentazione tipici della cultura barocca in generale e di un offuscamento dei confini tra il laico e il religioso, che ritenevano incompatibili con il vero cristianesimo, essi stessi non erano esenti da colpe. Furono considerati sovversivi e pericolosamente egualitaristi, e un’inchiesta ufficiale delle autorità di Lipsia nel 1689-90 indicava irregolarità nelle loro assemblee conventuali (note come collegia pietatis) dove la libera discussione sull’interpretazione delle Scritture avveniva lontano dal controllo del clero, rompendo le normali divisioni sociali e presumibilmente accompagnata da sconvenienze sessuali. Ad esempio, Elisabeth Karig accusò uno studente di medicina, Christian Gaulicke, di raccontare a lei e un’altra donna che «se voleva essere illuminata, avrebbe dovuto spogliarsi come se stesse andando a letto, e ha cercato di spiegarglielo utilizzando la Bibbia» (TANYA KEVORKIAN, Baroque Piety. Religion, Society, and Music in Leipzig 1650 -1750, Ashgate Publishing Company, Aldershot 2007, p. 164). Altri si sono lamentati che i pietisti ispiravano o prendevano parte a orge – una calunnia, senza dubbio, ma conseguente all’incontinenza emotiva del «rinato», come avverrà per i membri di molti altri e successivi movimenti di rinnovamento. In questo senso, i pietisti tedeschi erano diversi dai puritani inglesi con i quali invece sembrano aver condiviso cosí tanto. A Lipsia furono costretti alla clandestinità poco dopo il 1690.

q. Se Bach avesse imparato a scuola che l’uomo non era al centro dell’universo e che la terra ruota intorno al sole, la sua accettazione dei piú importanti principî del luteranesimo, che ha poi alimentato la sua prodigiosa produzione di musica sacra, avrebbe ricevuto un duro colpo?

r. Come vedremo, piú avanti negli anni condivise certamente con Galileo un attaccamento ai «fatti irriducibili e ostinati», con Spinoza (come proposto da John Butt nel capitolo V di The Cambridge Companion to Bach, Cambridge University Press, Cambridge 1997), la convinzione che «Quanto piú conosciamo le cose singolari, tanto piú conosciamo Dio» (Etica, parte V, XXIV; trad. it. in Etica, Editori Riuniti, Roma 1988, p. 307), e con Leibniz l’idea che «Questo è il mezzo d’ottenere tutta la varietà che è possibile, insieme col piú grande ordine; è il mezzo cioè d’ottenere tutta la perfezione possibile» (Monadologia, 57-58; trad. it. in Monadologia. Discorso di metafisica, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 47).

s. Questa responsabilità venne definita fin dal 1528 in un decreto della Chiesa, scritto da un discepolo di Lutero, Johann Bugenhagen: «È tuo preciso dovere insegnare a cantare a tutti i bambini, vecchi e giovani, istruiti o meno, a cantare insieme in tedesco e in latino, e in aggiunta anche la musica polifonica non solo in modo abitudinario ma, in futuro, anche in maniera artistica, facendo sí che i bambini imparino a distinguere le voci, le chiavi, e tutto ciò che appartiene a tale musica, cosí che imparino a cantare con sicurezza, ben intonati, ecc., ecc.» (GEORG SCHÜNEMANN, Geschichte der Deutschen Schulmusik, Kistner & Siegel, Leipzig 1928, p. 83).

t. Il Chorgesangbuch di Johann Walter del 1524 è stato compilato per combinare questi obiettivi educativi e liturgici – i canti, spiegava Lutero nella sua prefazione, sono stati «arrangiati a quattro o cinque voci per i giovani che devono a tutti i costi essere educati alla musica e alle altre arti … né sono del parere che il Vangelo deve distruggere e rovinare tutte le arti, come vorrebbero alcuni pseudo-religiosi. Ma vorrei vedere tutte le arti, in particolare la musica, utilizzate al servizio di Colui che le ha donate e le ha fatte» (LW, vol. LIII, p. 316; WA, vol. XXXV, pp. 474-75).

u. I tre insegnamenti di base; in italiano diremmo: leggere, scrivere e far di conto. (N. d. T.).

v. Questi includevano l’ABC tedesco, un manuale di lettura, il Catechismo, l’introduzione al Catechismo, i Vangeli, il Salterio, un libro di canti tedeschi e uno di calcolo.

w. Una delle caratteristiche piú originali della Historia di Buno era il suo modo di selezionare dieci illustrazioni mnemotecniche da assimilare seguendo schemi influenzati dai trattati mnemonici tardomedievali – il tutto concepito per migliorare la memoria. Buno suddivise graficamente la storia del mondo nei quattro millenni biblici prima della nascita di Cristo e nei diciassette secoli successivi. Come abbiamo visto, queste illustrazioni formato in-folio venivano montate su tela ed erano esposte sulle pareti dell’aula. Ognuna era suddivisa in dieci riquadri piú piccoli, i primi cinque dovevano essere letti a zig-zag, mentre il secondo gruppo seguendo uno schema a Z capovolta. A ognuno dei diciassette secoli dopo la nascita di Cristo era assegnata un’illustrazione separata. La tecnica di Buno ha continuato a essere usata nelle scuole tedesche fino alla seconda decade del Settecento, anticipando il «realismo pedagogico» della fine del XVIII secolo (fig. 3b). Come osservò un altro contemporaneo, gli storici, anche se dichiarano la loro intenzione di seguire rigorosamente la via della verità, sono spesso inclini ad «affligere il mondo dell’istruzione con falsi annali, che dovrebbe invece essere sepolti nella notte eterna» (JOHANN BURKHARD MENCKEN, De charlataneria eruditorum, Gleditsch, Amsterdam 1715).

x. Il tradizionale, idilliaco ritratto dei primi anni di scuola di Bach si basa esageratamente su due fonti edulcorate: gli Annales Isenacenses (1698) di Paulinus e Das im Jahr 1708 – lebende und Schwebende Eisenach di Johann von Bergenelsen. Bergenelsen termina il suo entusiastico racconto delle Lateinschule esaltando il rapporto armonioso che sostiene di aver notato tra gli insegnanti e i loro allievi modello: «E dunque sembra che tutti gli alunni cristiani e istruiti abbiano una sana mentalità e che vadano in giro con un’aura luminosa. Quando si va in una classe si notano tutti gli alunni seduti insieme, ricchi e poveri, ragazzi e ragazze. Tutti hanno il loro abbecedario davanti, e mentre uno compita il suo ABC, un altro impara le lettere maiuscole, il terzo legge ad alta voce, il quarto prega, il quinto fa un bel discorso, il sesto recita il catechismo, e tutti sono sorvegliati da un maestro». Sembra di leggere un articolo di propaganda moderna sulla libera scuola.

y. Tim Blanning suggerisce qui un confronto con il commento di Edmund Burke sui radicali inglesi che accolsero la Rivoluzione francese alla fine del secolo: «una mezza dozzina di cavallette sotto una felce fanno sí che il campo risuoni del loro inopportuno tintinnio, mentre migliaia di grandi bovini, che si riposano all’ombra della grande quercia britannica, ruminano il loro cibo e se ne stanno in silenzio» (The Pursuit of Glory. Europe 1648-1815, Viking, London 2007, p. 475; L’età della gloria: storia d’Europa dal 1648 al 1815, trad. it. di D. Scaffei, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 536).

z. Scrivendo al compositore Ludwig Senfl, Lutero aveva rivendicato che «i profeti non fecero uso di nessuna arte, eccetto la musica: quando hanno esposto la loro teologia, non lo hanno fatto come la geometria, l’aritmetica, l’astronomia, ma come la musica, in modo che teologia e musica fossero piú strettamente collegate, e proclamarono la verità attraverso salmi e canzoni». Non c’era niente, naturalmente, che potesse impedire a Bach di conciliare questa visione della musica come «teologia sonora» con il concetto alternativo di «numero sonoro» formulato da Leibniz.