Capitolo quinto

La meccanica della fede

Della natura della sua fede, tale è l’uomo; quale la sua fede in realtà è, tale appunto egli è.

Bhagavad Gītā, XVII, 31.

Il pastore Robscheit di Eisenach ci accolse calorosamente nella sua chiesaa. Eisenach, disse con insistenza, è il posto in cui «Bach incontra Lutero». Sia Lutero che Bach avevano fatto parte del coro di voci bianche, esattamente dove ci trovavamo noi, ospiti d’onore invitati a guidare il canto dell’Hauptgottesdienst, la funzione principale della domenica di Pasqua. Dal loggiato del coro nella parte posteriore della tardogotica Georgenkirche, a forma di galeone a tre ponti, la vista si poteva librare su due dei suoi simboli piú importanti: il pulpito da cui Martin Lutero predicò al suo ritorno da Worms nel 1521 e il fonte battesimale dove Bach fu battezzato il 23 marzo 1685 (fig. 1).

Per molte persone il tratto distintivo della musica di Bach risiede nella lucidità della struttura e nell’armonia delle sue proporzioni. Ciò contribuisce al fascino che esercita su compositori ed esecutori professionisti, ma potrebbe anche spiegare l’indubitabile attrazione da parte di matematici e scienziati. Ciononostante, quella chiarezza profana e seducente aveva origine in una mentalità principalmente religiosa. Come abbiamo visto, gran parte della musica di Bach, a differenza di quella dei suoi colleghi, fu destinata a una congregazione ecclesiastica, piuttosto che al pubblico comune. La religione fu fondamentale non solo nella sua istruzione, ma nel luogo del suo lavoro e nella sua visione generale della vita. Per lui andava al di là del dogma, poiché aveva un’applicazione pratica oltre che spirituale, ed era sostenuta dalla ragione. La meccanica della fede di Bach, il modo strutturato e sistematico con cui applicava la religione al suo lavoro, è un argomento che chiunque intenda comprenderlo come uomo e come compositore deve necessariamente affrontare. La dedica della sua arte alla gloria di Dio non si limitava all’acronimo S[oli] D[eo] G[loria] a sigillo delle sue cantate sacre; quel motto era applicato con la stessa forza a concerti, partite e suite strumentali. E inoltre Eisenach, il luogo della sua nascita e del suo primo incontro con Martin Lutero, il fondatore della versione di cristianità che ereditò dai suoi genitori, è davvero un ottimo posto dove iniziare.

Non era difficile immaginare Bach qui nella città dove aveva trascorso i primi nove anni e mezzo della sua vita, una delle culle del luteranesimo, cosí poco cambiata nell’aspetto. Plasmati dallo stesso paesaggio boscoso, Bach e Lutero frequentarono la stessa Scuola Latina, e in questa chiesa ebbero alcune tra le prime esperienze musicali. La presenza di Lutero si percepisce con forza in una stanza minuscola ma dall’alto soffitto nel Wartburg, il castello medievale che torreggia sulla città, circondato dai boschi dove raccoglieva fragole selvatiche da ragazzo (fig. nel cap. II). Dopo la sua sfida alle autorità religiose e la sua drammatica apparizione davanti alla Dieta di Worms nell’aprile del 1521, l’uomo piú discusso d’Europa, ormai abituato a considerarsi protagonista nel dramma scritto da Dio, era diventato un fuorilegge. Trascorse i dieci mesi seguenti nascosto qui dentro: solitario, inquieto e disperatamente costipatob. Anni dopo avrebbe ricordato che, durante la sua reclusione, veniva perseguitato da visioni di Satana che sotto forma di poltergeist afferrava le noci dal suo tavolo e per tutta la notte le lanciava per aria. Una volta trovò un cane nel suo letto: convinto che si trattasse di un travestimento del diavolo, nella notte gettò la povera bestia fuori dalla finestrac.

Lutero definí Wartburg la sua Patmos, la brulla isola dove san Giovanni scrisse il Libro dell’Apocalisse, che contiene la coinvolgente evocazione della battaglia cosmica tra Satana (la «Bestia») e l’Agnello. La sua prima reazione a questi orrori fu scrivere furiose diatribe politiche contro i suoi nemici; presto, però, si lanciò nella sua rivoluzionaria traduzione del Nuovo Testamento. Usando come base il testo greco stabilito da Erasmo, lavorò in modo febbrile, e in capo a tre mesi aveva completato una prima bozza. Cercò un tono comprensibile al maggior numero possibile di persone tra le regioni della Germania, in cui si parlavano lingue diverse. Alla fine prese a riferimento il linguaggio dei cancellieri di Praga e Meißen, che conosceva alla perfezione, ma ne cambiò drasticamente lo stile: al posto della contorta prosa degli avvocati, con la loro disorientante abitudine di affastellare sillabe su sillabe in grappoli di complesse nozioni, rese la traduzione piú vicina al suo modo di parlare vigoroso e variopinto, diretto e appassionato, alle abitudini di pensiero e alle espressioni idiomatiche che qui, nel cuore della Turingia, la gente usava in casa o al mercatod.

Si trattava della stessa robusta prosa tedesca con cui abbellí gli inni pasquali che stavamo per cantare, collegati a melodie vecchie almeno quanto la stessa Georgenkirche, come Christ ist erstanden («Cristo è risorto») e Christ lag in Todesbanden («Cristo giaceva nei lacci della morte»), e poi ulteriormente arricchiti da Bach con le sue stupende armonizzazioni a quattro parti. Considerare la Pasqua come festività cardine dell’anno liturgico qui era inevitabile: dalle sue origini come sacrificio primaverile pagano, all’antico rituale della Pasqua ebraica e della festa dei pani azzimi, la festa agreste cananita adottata dagli ebrei dopo il loro stanziamento in questi luoghi; tutte festività trapiantate da Lutero in questi eterni paesaggi silvestri. Eravamo partecipanti e al contempo osservatori di una celebrazione prevalentemente cantata, in cui il pastore e la congregazione si rispondono in un dialogo fluido. A un certo punto della cerimonia fummo raggiunti in galleria da un gruppo di abitanti che cantarono una breve litania nel dialetto della Turingia e poi se ne andarono.

Era difficile valutare la reazione della congregazione a questi inni risalenti al XVI secolo, cosí semplici eppure cosí evocativi e commoventi per noi. Tutti cantavamo dallo stesso Eisenachisches Gesangbuch del 1673, già in uso quando Bach era corista tra i suoi quattro e nove anni. Le melodie e illustrazioni di questa raccolta potrebbero aver contribuito a creare un collegamento, nella sua mente, tra la città, la famiglia di musicisti in cui era nato e la dinastia di musicisti al servizio di re Davide nel Tempio (vedi cap. III e figg. 2a e 2b). Nella devozione per questa cerimonia si potrebbe intuire il modo in cui Lutero, e probabilmente Bach dopo di lui, considerava l’Eucaristia: un rituale in cui il credente, come il personaggio in una rappresentazione di redenzione, è chiamato a spogliarsi dei propri dubbi, pronto a ricevere Cristo immanente in forma tangibile. Per Lutero, l’Eucaristia era fisica tanto quanto spirituale, e il battesimo un sacramento fisico di morte e resurrezione (e ciò spiega la posizione centrale del fonte nella chiesa), il mezzo con cui la tensione tra paura e fede, che permea la vita cristiana, si risolve.

In questo luogo si ritrovava una prova diretta di una sinergia molto stretta tra Lutero e Bach, sebbene li separassero quasi due secoli. Il legame tra di loro si stabilí alla nascita: per posizione geografica, per la coincidenza dell’istruzione scolastica e dell’appartenenza al coro di Georgenschule e per l’attività extracurriculare di cantare per guadagnarsi il panee. Fu rafforzato dai metodi intensivi con cui gli inni e la teologia di Lutero permearono le lezioni scolastiche di Bach (come abbiamo visto nel cap. II): furono davvero il mezzo principale tramite cui assorbí e assimilò la conoscenza del mondo intorno a lui. Poco dopo i vent’anni, gli insegnamenti di Lutero permeavano ogni aspetto dell’apprendimento musicale di Bach, e formarono la materia prima da cui modellò le prime musiche per l’utilizzo ecclesiale. Tre notevoli cantate, composte in rapida successione durante l’anno trascorso a Mühlhausen, ci forniscono un’istantanea della sua intelligenza musicale giovanile e di come l’applicasse matematicamente al suo lavoro, dimostrandoci che aveva già iniziato a fare i conti con la fede che gli era richiesto di presentare e supportare. Un esame attento ci rivela che Bach, ereditando il concetto luterano tardomedievale che vede la vita come una battaglia quotidiana tra Dio e Satana (BWV 4), concordava con i principî fondamentali dell’escatologia di Lutero (BWV 131): la necessità di prendere in pugno la propria vita e affrontare la morte coraggiosamente, perfino gioiosamente, con speranza e fede (BWV 106). In ognuna di queste opere giovanili Bach trova un’espressione fresca e avvincente; ognuna propone una soluzione musicale di grande originalità all’esegesi biblica. Nell’ambito dei meccanismi della fede, la musica è in prima linea nel lodare Dio e riflettere le meraviglie dell’universo.

Il compito principale della musica, come definito da Lutero, è quello di dare espressione e potenziare l’eloquenza dei testi biblici: Die Noten machen den Text lebendig («Le note dànno vita al testo»)2. Due dei piú potenti doni di Dio all’umanità, la musica e le parole, devono essere fusi in un’unica forza invisibile e indivisibile: il testo si rivolge principalmente all’intelletto (ma anche alle parole), mentre la musica è indirizzata principalmente alle passioni (ma anche all’intelletto)f3. Lutero affermava che senza musica l’uomo non è molto diverso da una pietra, mentre con la musica può allontanare il diavolo: «Spesso mi ha rinvigorito e ha alleviato i miei pesanti fardelli», ammise. Questa convinzione avrebbe dato fondamentale giustificazione alla vocazione di Bach (Amt) e al suo mestiere di musicista, dando credito al suo status di professionista e conforto ai suoi propositi artistici, mentre l’enfasi sulla trasmissione «vocale» della Scrittura sarebbe stata utile in seguito per dargli raison d’être come compositore di musica sacra.

Si dice che Lutero si chiedesse spesso perché tutte le canzoni piú belle fossero del diavolo. Per sottrargliele, Lutero e i suoi seguaci si appropriarono di melodie secolari note a tutta la congregazione, dirottando la natura terrena e licenziosa delle canzoni popolari al servizio della fede, poiché «lo stesso proposito dell’armonia è la gloria di Dio, – dichiarò, – tutti gli altri non sono che giochi oziosi di Satana»g. Risulta chiaro che Lutero considerava le emozioni umane come fluttuanti Affekte che potevano essere messi in movimento, sia in modo positivo che improprio. Non sorprende che non avesse niente a che spartire con altri riformisti come Calvino, che aveva bandito la musica strumentale dal culto, o Zwingli, perfetto musicista nella vita privata che, a causa della sua insistenza per la preghiera privata, non permetteva nessuna musica, nemmeno il canto senza accompagnamento, in chiesa. La prova che le idee di Lutero funzionassero ancora dopo piú di un secolo e mezzo nelle regioni del Protestantesimo si trova nell’evidente familiarità di Bach con i corali che, come vedremo, avrebbero giocato un ruolo centrale nelle sue cantate sacre, e con quegli stessi inni, rimodellati da Lutero, che cantammo a Eisenach la mattina di Pasqua.

Il solenne inno di Lutero Christ lag in Todesbanden porta drammaticamente in vita gli eventi della Passione e Resurrezione di Cristo, illustrando le traversie sia fisiche che spirituali che Cristo dovette affrontare per liberare l’umanità dal fardello del peccato. Cristo è evocato allo stesso tempo come vincitore sulla morte e come Agnello sacrificale della Pasqua. Il modo in cui Lutero racconta questa avvincente storia ricorda in qualche modo la saga tribale, piena di immagini e avvenimenti di grande crudezza. Se, come pare probabile, Bach ascoltò l’inno in questa chiesa e in questo periodo per la prima volta, non avrebbe potuto trovare formulazione piú evidente del modo in cui la fede di Lutero crescesse dalle radici del cristianesimo delle origini, dal ritratto di Cristo come Agnello sacrificale tipico dell’Antico Testamento, e dell’appropriazione da parte della Chiesa di riti pagani in cui l’essenza e l’incarnazione della vita erano collegati alla luce (al Sole) e al cibo (il pane, o la Parola). Come ogni fattore e allevatore sa bene, la Pasqua è un momento critico dell’anno, in cui il confine tra vita e morte non potrebbe essere piú sottile. Di conseguenza nella comunità della Turingia di Lutero queste connessioni furono immediate: «Il genio [di Lutero] catturò la paura di un mondo pieno di malignità e terrore nutrita dalla gente comune, e aiutò la sua congregazione a scacciare con forza questo terrore tramite il canto»4.

Scegliendo proprio questo inno come base del suo celebrativo Kirchenstück (BWV 4), Bach affermò la sua parentela con Lutero. A ventidue anni, egli stava realizzando il suo primo tentativo, in quella che forse era la sua seconda (o terza) cantata, di illustrare una narrazione attraverso la musica. Fu un significativo passo avanti nel suo percorso: da celebre virtuoso dell’organo nel suo primo impiego di Arnstadt (1703-7) a compositore di musica figurata di straordinaria precocità e coraggio nel suo secondo. Molto probabilmente fu composta per la sua audizione per la posizione di organista a Mühlhausen per la Pasqua del 1707, e fu in effetti il suo biglietto d’accesso alla direzione della vita musicale cittadina. Piú che un semplice jeu d’esprit, è un brano meravigliosamente audace ed esuberante di dramma musicale concertato. Bach mette in musica alla lettera e senza aggiunte tutti i sette versi di Lutero (per omnes versus); sulla scia di una linea di distinti compositori del XVII secolo tra cui Samuel Scheidt e Johann Schelle, utilizza la melodia corale come base per tutti i movimenti, ognuno con inizio e fine nella stessa tonalità di Mi minore, eppure senza traccia di monotonia. A ogni passo della narrazione Bach mostra di essere attento a ciascuna sfumatura, allusione alle Scritture, simbolo e stato d’animo dell’inno di Lutero.

Bach attinse all’intero serbatoio di conoscenza che aveva accumulato fino a quel momento: abitudini nella comunicazione e nell’esecuzione, musica che aveva imparato a memoria, il ricco archivio di famiglia di mottetti e Stücken, la musica che gli veniva messa davanti a Lüneburg, cosí come opere che aveva studiato o copiato sotto l’egida dei suoi vari mentori. Il suo approccio sembrava incarnare i consigli per i compositori in erba del teorico musicale bavarese Mauritius Johann Vogt (1669-1730): «siate poeti, non solo nel riconoscere il metro di ogni verso, ma anche nel rendere ogni tema inventivo e, come i pittori, usate la musica per mettere davanti agli occhi degli ascoltatori immagini di bellezza o di spavento nel loro aspetto piú reale»5. A dargli una mano c’erano anche tecniche prese in prestito dall’antica arte retorica. Il teorico che piú di tutti si spese per rendere la retorica parte integrante della musica poetica tedesca, nella quale tutto è diretto a carpire e mantenere l’attenzione dell’ascoltatore, era il Cantor Joachim Burmeister (1564-1629), di Lüneburg6. Allo studente che non sapeva da dove cominciare egli dava un consiglio: studiare il testo, accostarlo ad appropriati espedienti musicali e «il testo seguirà le regole da solo»7. Un aiuto specifico e indispensabile perché l’idea del testo acquisisse un’espressività cosí vivida era l’applicazione dell’ipotiposi: «quando una persona [o una] cosa è raffigurata con un’espressione scritta o orale in modo da venire percepita come se la persona descritta fosse presente o l’evento fosse stato personalmente vissuto»8. Anche se non c’è modo di sapere se Bach conoscesse questa terminologia, è esattamente ciò che realizza in Christ lag in Todesbanden, e che farà in seguito nelle sue Passioni. Cosí facendo si collega a una strategia teleologica che ebbe inizio molto prima della Riforma: il processo di umanizzazione dell’iconografia verbale cristiana tramite una narrazione vivida e una presentazione drammatica simile ai Misteri medievali.

Altra cosa importante per l’espressione del testo è la pathopoeia, «una forma di enunciazione», secondo Henry Peacham, autore e musicista inglese del XVII secolo, «attraverso cui l’Oratore espone le menti dei suoi ascoltatori alla veemenza di un affetto, come indignazione, paura, invidia, odio, speranza, contentezza, allegria, ilarità, tristezza o dolore»9 in modo tale che «nessuno rimanga immune dall’affetto creato»10. Bach mostra la propria abilità nell’adottare questi e altri mezzi retorici e pittorici che caratterizzavano lo stile «moderno» di Heinrich Schütz (benché naturalmente già datati al tempo di Bach), e presi a loro volta dalla seconda prattica di Monteverdi, in cui la musica è al servizio delle parole (invece del contrario), e l’ascoltatore è invitato a vivere le immagini e le emozioni generate dalla fusione di parole e musica. In questo caso sono presenti sia lampi di modernità nel trattamento di Bach del Christ lag, sia tracce di un sapore nettamente medievale nel dramma ritualizzato.

Tutto questo sarà chiaro per l’ascoltatore luterano di oggi, ma non per chiunque sia sprovvisto della familiarità che deriva dal cantare regolarmente gli inni o della comprensione delle tante figure musical-retoriche che erano gli strumenti del mestiere del musicista sacro. Ci si sente un po’ in alto mare a cercare di capire i riferimenti di Bach o le sottili sfumature di significato della sua musica. Con tutte queste figure retoriche, ci si può immaginare che la musica di Bach corra il rischio di essere distante, stereotipata, o pedagogicamente noiosah. In realtà è tutto il contrario: qui troviamo il rifiuto tutto giovanile di piegarsi a una metodologia unica, che sia formale o retorica. Poi, ricavando uno spazio nelle proprie composizioni per la sua strabiliante abilità di improvvisatore, Bach ci attira nei suoi tipici schemi sonori, e in un mondo di espressività che (tra le altre cose) è sostenuto da una forte struttura ritmica. Nella sua inventiva reazione al testo di Lutero, Bach ci fa capire che la musica può fare molto piú che limitarsi a riflettere le parole dall’inizio alla fine: ci mostra che può mantenere la nostra attenzione e catturarci con metafore improvvise. Finché siamo disposti a lasciarci andare e gli permettiamo di descriverci la sua visione del mondo, vi entreremo molto prestoi.

La narrazione di Lutero inizia con uno sguardo a ritroso, a Cristo nei vincoli della morte, e finisce con la sua giubilante vittoria e il banchetto dell’Agnello pasquale.

Cristo giaceva nei lacci della morte,

Dato per il nostro peccato

Egli è però risorto

E ci ha portato la vita;

Di questo dobbiamo essere contenti…

Tutto questo entusiasmo è causato dall’inarrestabile spinta in avanti della musica di Bach che ci colpisce per esuberanza, specialmente nel punto in cui la fantasia diventa alla breve. Chi altri (Beethoven? Mendelssohn? Berlioz? Stravinskij?) avrebbe pensato a chiudere una sezione del genere con un canone svelto basato su una melodia semplicissima: cinque note discendenti, sotto forma di un riff sincopato?

Questa atmosfera di gioia irrefrenabile ha però vita breve. Lutero ci riporta indietro a un periodo precedente alla redenzione, ricordandoci di quando la morte teneva imprigionata l’umanità:

Nessuno senza colpa si poteva trovare

Per questo la morte venne tanto velocemente

E stese su di noi il suo potere.

E ci tenne prigionieri nel suo regno.

Alleluia!

Una tetra evocazione, affascinante come i fregi tardomedievali raffiguranti le «danze macabre» di cui abbiamo parlato nel capitolo II, o, in tempi piú vicini a noi, l’allegorica partita a scacchi tra il cavaliere medievale e la Morte ne Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman. Gli archi temporali si sovrappongono: all’inizio quello dell’Uomo prima della ri-generazione, poi quello dei turingi dei tempi di Lutero e Bach, segnati dai frequenti contatti con la peste. Bach usa una figura di due note discendenti di mezzo tono, frammenti segmentati e desolati, nello scambio tra soprano e contralto in un movimento doloroso e dondolante sospeso sul basso continuo, il quale è impegnato nello stesso intervallo di due note discendenti, ma all’ottava.

La musica è ammaliante: evoca l’umanità nella morsa della morte, indifesa e paralizzata, in attesa di ciò che Lutero chiama la «serissima e orribilissima» punizione: il giudizio di Dio sui peccati. Su questo cupo palcoscenico la Morte si avvicina silenziosa, afferrando i mortali nelle sue mani ossute. Due volte Bach ferma la musica, prima sulle parole den Tod … den Tod, che rimbalzano quattro volte tra soprano e contralto, e poi sulla parola gefangen («prigionieri»), dove le voci si agganciano in una dissonanza simultanea Mi/Fa, che rappresenta la condizione di prigionia appena precedente all’arrivo del rigor mortisj. Segue la sorprendente parola Alleluia – cosí svuotata dall’abuso – come alla fine di ogni stanza, ma sempre con una sfumatura diversa. In questo momento il tono è elegiaco e irrimediabilmente triste, come per trasmettere l’idea che Dio debba essere lodato anche nel momento della morte. Dopo il minuscolo barlume di speranza dell’ultima frase, la musica sprofonda nuovamente nella rassegnazione.

Producendo un contrasto estremo, i violini all’unisono annunciano l’avvento di Cristo: il peccato è sconfitto e la morsa della morte viene allentata. Bach usa i violini come simbolo del flagello con cui Cristo tormenta il suo nemico e annienta il potere della morte. C’è qualcosa di Milton nel modo in cui fa precipitare gli angeli ribelli nell’abisso mentre la linea di basso continuo si inviluppa in un Mi grave: «In giú ben dieci e dieci mila braccia | Precipitoso cadde come piombo | L’ali invan dibattendo, e ancor cadrebbe…» Il potere della morte è spezzato in due. La musica si ferma completamente su nichts: «non rimane altro», riprendono lentamente i tenori, «che l’apparenza della morte», ora l’ombra di se stessa. Qui Bach delinea con grande considerazione il profilo della Croce in quattro note, prima di indicare ai violini di riprendere il proprio movimento:

Ora è diventato una festosa esibizione di prodezza, una parata vittoriosa annunciata dall’aggiungersi degli Alleluia festosi dei tenori.

Al cuore dell’inno c’è l’evocazione della wunderliche Krieg, la «battaglia meravigliosa» tra le forze della vita e quelle della morte, tra la vecchia stagione e la nuova, le spighe primaverili pronte a spuntare dalla crosta gelida della terra: «Quando morte e vita si scontrarono ci fu una lotta straordinaria». L’unico sostegno strumentale è dato dal basso continuo, mentre gruppi di spettatori dànno voce alla reazione davanti allo scontro che determinerà il loro destino. Eppure nel canto hanno il vantaggio di sapere già il risultato: poiché «la Scrittura lo ha testimoniato: poiché una morte ha divorato l’altra», riflettendo il dogma luterano per cui la resurrezione di Cristo segna la sconfitta della morte stessa.

Per questa scena, che ricorda Hieronymus Bosch, Bach mette tre delle quattro parti vocali l’una all’inseguimento dell’altra, un fugato stretto in cui entrano separate da un solo battito, mentre la quarta voce (un contralto) fa risuonare alta la melodia ormai familiare. A una a una le voci scemano, consumate e zittite: «La morte è rimasta scornata». Ecco tornare i semitoni discendenti usati all’inizio, ancora come emblema di morte, ma adesso sputati con derisione dalla folla: Ein Spott!k Appaiono nuovamente forti riferimenti a Milton, paralleli con il ritorno di Satana a Pandaemonium, e si vanta con i suoi servi del suo successo sull’uomo,

… ad aspettar le liete grida

E ’l plauso universal; ma d’ogni lato

Ode, all’opposto, d’infinite lingue

Un orribile sibilo improvviso,

Suon di ludibrio general11.

Tutte e quattro le parti vocali chiudono la scena con il ritornello Alleluia, e ogni sezione riflette una diversa sfaccettatura della battaglia: i soprani con curiose appoggiature gementi, un momento di pathos che richiama la capacità della morte di infliggere dolore; i contralti piú oggettivi (una semplice chiusura della melodia); i tenori quasi frenetici di gioia (articolata in crome staccate zigzaganti); e i bassi che discendono di quasi due ottave prima di arrivare a un punto di arresto. Suggerisce un’indicazione teatrale, un exeunt, i commentatori lasciano la scena uno dopo l’altro.

Tornando in veste di celebranti della Messa rituale di Pasqua, i bassi intonano la quinta stanza su una linea di basso cromatica discendente, che riecheggia nella solennità della musica di Purcell per il «Lamento» di Didone. A questo punto sulla scena discende una tesa serietà: sembra come se si stabilisse un collegamento metafisico tra l’Agnello di Pasqua delle profezie e la morte sacrificale di Cristo. Fermando il movimento armonico per due battute, Bach obbliga ogni voce strumentale a fermarsi simbolicamente su un diesis (in tedesco, Kreuz, che significa anche «croce»), mentre di nuovo con le note disegna i quattro punti della croce: i bassi in decime parallele con i violini, poi il basso continuo e infine i violini, che dipingono e ridipingono il simbolo stesso a cui si aggrappa la fede («bruciante di amore ardente») fino alla morte, come il grido di battaglia dell’imperatore Costantino, In hoc signo vinces («Con questo segno vincerai»). In seguito il testo si riferisce al mistero per cui «il sangue segna la nostra porta». Bach enuncia il nuovo simbolo diverse volte (proprio come venivano segnate le porte degli israeliti schiavi in Egitto): quattro tentativi separati (basso continuo, voci di basso, archi e poi ancora voci) per iniziare la tortuosa ricerca di una via di fuga, espressa con uno spigoloso melisma. Nel momento in cui la fede è sottoposta alla sua prova piú dura, Bach costringe i bassi a precipitare di una dodicesima diminuita fino a un Mi grave. Infine, rispecchiando la sfida che Lutero lancia al diavolo (descritto come «l’assassino … che non può piú nuocerci») Bach chiede ai cantantil di sostenere un Re acuto a piena voce per quasi dieci battiti, fino a farli rimanere senza aria nei polmoni. Questa musica è una magnifica sfida.

Questa cantata non stanca mai e, per quanto ne sappiamo, fu l’unica delle cantate giovanili che Bach volle riproporre a Lipsia diciotto anni dopo. L’esecuzione alla Georgenkirche di Eisenach durante la domenica di Pasqua del 2000 ha fatto percepire in maniera forte la presenza e i caratteri dei due autori, insieme a una nuova consapevolezza delle radici musicali medievali della loro visione. Il concetto di battaglia cosmica tra le forze della vita e della morte la collega non solo al Paradiso perduto, ma anche agli scritti del tutto diversi di autori del XX secolo come H. G. Wells, Charles Williams e Philip Pullmanm. Questa è una dimostrazione di come Lutero possa permeare concetti teologici complessi dell’esperienza quotidiana, portandoli in vita e rendendoli immediatamente piú accessibili. Poi, del tutto fedele allo spirito e alla lettera dell’inno epico di Lutero, vediamo Bach fare la stessa cosa, e rivelare nel frattempo una fondamentale somiglianza di temperamento. Il carattere impetuoso che dette a Lutero il coraggio di rompere con Roma e inaugurare una nuova visione della cristianità si riaccende nell’opera di Bachn. Lo vedremo riaffiorare nella sua ostinazione a resistere alle ostilità e alle critiche lungo tutta la sua vita, e nella sua tenacia nel dedicare i suoi primi quattro anni da Thomaskantor a Lipsia (1723-27) alla composizione di cicli annuali di cantate e di due monumentali Passioni che tracciano l’impervio cammino fatto di dubbio e paura, fede e incredulità, che è il pellegrinaggio della vita.

Vediamo, dunque, che l’impatto del Lutero riformatore sul giovane e sensibile Bach fu immenso: formò la sua visione del mondo, sostenne la sua vocazione di musicista-artigiano, e legò questa vocazione al servizio della Chiesa molto piú profondamente di quanto avvenne con i suoi colleghi tedeschi, Telemann, Mattheson e Händel. Sebbene anche la loro attività musicale avesse forti radici luterane, la loro religione fu temperata da un’esposizione piú ampia al sofisticato mondo dell’opera, come abbiamo visto nel capitolo precedente. In Bach, invece, si trattò piú di una necessità naturale. Il filosofo italiano Vico avrebbe potuto parlare per Bach quando espresse la convinzione per cui «la natura e le potenzialità dell’uomo e le leggi che lo governano gli sono state conferite dal suo Creatore per permettergli di soddisfare i suoi propositi scelti per, e non da, lui»12. In questa fase della sua vita, avrebbe definito molto brevemente il suo particolare obiettivo come una «musica sacra e ben regolamentata per la Gloria di Dio»13 (fig. nel cap. VI).

Il risultato ottenuto da Bach in Christ lag è di coinvolgere l’ascoltatore, indipendentemente dal suo credo, in questo dramma di fede, con le tecniche di un apprendista retorico e l’avvincente abilità del suo precoce talento, ma soprattutto con la fondamentale onestà del suo approccio. Questo diventerà un riferimento per la sua futura conciliazione tra parole e musica, mostrando come, con un minimo di riconsiderazione critica, la musica possa essere utilizzata per interpretare il testo in modo non per forza condiscendente ma profondamente empatico nei confronti di Lutero; come evidenziano l’amore che anche Bach provava per il paradosso e per l’urgenza dell’espressione e la sua esposizione della dicotomia tra spirituale e carnale nella natura umanao.

È interessante mettere quest’opera accanto a quella che Händel scrisse intorno alla stessa età durante il suo soggiorno a Roma, la sua vivida interpretazione del Salmo 110, Dixit Dominus, prova schiacciante del fatto che anch’egli fosse un drammaturgo in costruzione. Laddove Bach è soggiogato da Lutero, Händel, decisamente piú uomo di mondo anche in questo periodo, ci dimostra la sua grande attrazione per l’Italia, sedotto, come Dürer e Schütz prima di lui, e Goethe piú tardi, dal paesaggio, dall’arte con tutta la sua vitalità e i suoi colori vivaci, e naturalmente dalla musica. Dove abbiamo visto Bach aggrapparsi alla fisicità della concorrenza cruciale tra vita e morte, in modi che anticipano alcuni dei cori nelle sue due grandi Passioni, Händel rivive per noi l’ira del Dio dell’Antico Testamento, con una severa rappresentazione visiva del salmo («Egli distruggerà i governanti»): attraverso la ripetizione martellante in staccato di una sola parola – con-qua-sa-a-a-a-bit – da parte di tutte le voci e di tutti gli strumenti. Quello che d’istinto potremmo ritenere «drammatico» in entrambe queste composizioni ha molto poco a che fare con il teatro. Il dramma è tutto nella mente: è evocato in modo sperimentale attraverso tecniche musicali sia nuove che antiche, che nel caso di Bach animano l’avvenimento biblico, e in quello di Händel dimostrano la pura forza che ribolle appena sotto la superficie del testo. Entrambi i lavori ci dànno un assaggio del ruolo cosí profondo e innovativo che questi giovani sassoni avrebbero poi giocato nel dar forma allo sviluppo dell’opera mutante, come esaminato nel capitolo IV. Anche in questa fase sono evidenti le divergenti ossessioni future di questi due giganti: amore, furore, lealtà e potere (Händel); vita, morte, Dio ed eternità (Bach).

Un mese dopo la Pasqua del 1707, il consiglio parrocchiale della Blasiuskirche di Mühlhausen si riuní per nominare il nuovo organista. Il borgomastro, il dottor Conrad Meckbach, chiese «se non bisognasse prima considerarsi tale Pach [sic] da Arnstadt, che ha recentemente eseguito la sua prova a Pasqua». Poiché non vennero proposti altri nomi, il segretario municipale, J. H. Bellsted, fu incaricato dell’annuncio al candidato. Bach rispose che avrebbe richiesto un salario di 85 fiorini, lo stesso, leggermente arrotondato, «che riceveva ad Arnstadt». Sebbene ciò rappresentasse venti fiorini piú del suo predecessore, Bach stipulò anche il suo stesso pagamento in natura: 54 bushels di grano, due cords di legna (di cui uno di faggio) e sei volte sessanta fascine, da consegnare alla sua porta14. Richiese inoltre l’uso di un carro per trasportare tutti i beni che aveva accumulato nei tre anni ad Arnstadt: strumenti musicali, partiture, musica e libri oltre a vestiti e mobili. Il consiglio parrocchiale non ebbe nulla da obiettare. Bach chiese di mettere per iscritto i termini dell’accordo: ciò avvenne il giorno successivo (15 giugno) e l’accordo fu siglato con una stretta di mano.

Due settimane prima, un colossale incendio era divampato nella parte bassa della città, distruggendo trecentosessanta abitazioni; perfino la chiesa rischiò di prendere fuoco. Tre rappresentanti del consiglio, troppo scossi dalla calamità per concentrarsi su cose come la musica, non trovarono né penna né inchiostro per firmare la nomina di Bach15. Una volta formalizzato il tutto, riconobbero l’esigenza di un servizio commemorativo di penitenza, ed è piú che probabile che incaricassero il nuovo organista di comporre una cantata per l’occasione. Potrebbe trattarsi della BWV 131, Aus der Tiefe («Dal profondo»), un’opera che conosciamo per un’iscrizione autografa sulla partitura originale, richiesta non dal sovrintendente Frohne, immediato superiore di Bach alla Blasiuskirche, ma «per volontà del pastore Eilmar», arcidiacono della Marienkirche16. Bach decise di adattare l’intero testo del Salmo 130, una preghiera per il perdono dei peccati, nella traduzione di Luterop.

Questa è la seconda delle tre cantate giovanili (BWV 3, 131 e 106) esplorate in questo capitolo a mostrare i tre successivi approcci collegati al meccanismo della fede, e il loro funzionamento nella fervida mente musicale del Bach poco piú che ventenne. In quest’occasione, nella BWV 131 non c’era nessun espediente strutturale su cui Bach potesse fare affidamento, come l’onnipresente melodia corale che unifica tutte le sette stanze di Christ lag, facendo in questo modo da base per le sue evoluzioni. Qui il testo richiedeva una fusione piú complessa tra parole e musica e suggeriva un contrasto piú netto tra stile, forma e fluidità espressiva. La soluzione di Bach fu quella di distribuire gli otto versi simmetricamente su cinque movimenti collegati tra loro e di far lievitare il salmo con due brani di commento a «tropo». Questi inserimenti, due stanze di un corale di Bartholomäus Ringwaldt (1588), Herr Jesu Christ, du höchstes, rispecchiano da vicino i precetti per la confessione e il pentimento di un teologo, Johann Gottfried Olearius (1611-1684), autore dell’opera in cinque volumi Biblische Erklärung (1678-81), una copia della quale Bach avrebbe poi posseduto17: l’uomo deve ripetere ogni giorno queste parole:

  1. Dio…,
  2. abbi…
  3. di me…,
  4. peccatore…,
  5. pietà.

Queste parole aprono una sezione del catechismo di Lutero, rispecchiata quasi nella sua interezza nei cinque movimenti di Bach. La volontà di caratterizzare al meglio il testo fece sí che Bach scrivesse una nuova musica dotata di potente, anche se disomogenea, eloquenza. Egli dispone tre movimenti corali come pilastri della struttura. Ciò che si nota nel primo movimento, costruito sul modello di un preludio e fuga strumentale, sono le libertà che Bach si prende per permettere l’espressività retorica: il modo in cui colloca sottili collegamenti motivici nel preludio in adagio per oboe e archi per anticipare la forma delle parole che seguono, il modo in cui le voci rispondono sotto forma di fuga, in stretto con gli strumenti, il modo in cui tutto fluisce dolcemente nella seconda strofa, una fuga corale segnata come vivace, e come il pezzo si concluda con un’eco tripla (f, p, pp) incidentalmente molto simile a quanto fa Händel nel sesto movimento del Dixit Dominus, e volta per volta prepari anticipazioni motiviche dell’arioso di basso che segue senza interruzione per formare un’unità onnicomprensiva.

Bach raccoglie e sviluppa per la prima volta ciò che è stata definita «l’esaltazione penitenziale»18 di Lutero, un filone che corre attraverso molti adattamenti di salmi a opera di compositori tedeschi che avevano vissuto la guerra dei Trent’anni o sofferto le sue conseguenze. L’adattamento di Schütz del Salmo 6 (Ach Herr, straf mich nicht) e quello del Salmo 130 (Aus der Tiefe) dai Psalmen Davids (1619), scritti all’inizio della guerra (cosí come molte composizioni individuali scritte durante il periodo dei combattimenti), sono tutti segnati da questo spirito. Se esiste un che di forzato nell’apertura della cantata, come se Bach cercasse di afferrare il tono giusto, nel momento in cui arriviamo al coro centrale questo carattere è completamente svanito. Questa è la parte piú eloquente dell’opera, che mette in musica le parole «Attendo il mio Signore, la mia anima attende, e rimetto la mia speranza nella Sua Parola». Annunciata da tre vigorose affermazioni in omofonia, seguite da brevi cadenze per due voci singole, si apre in una fuga lenta e di ampio respiro. Il richiamo emotivo della musica (la sua esaltazione penitenziale, appunto) è da ricercare nella successione di settime diminuite, none maggiori e minori che Bach colloca strategicamente sui tempi forti per enfatizzare il sentimento di «attesa» o «desiderio». Ogni entrata fugata successiva ne guadagna in commozione e maggior intensità; ogni voce ha una personalità musicale propria, e «canta» davvero.

Guardando accordo per accordo, non c’è niente finora che non possa essere ricondotto alla sintassi armonica di inventivi compositori della metà del XVII secolo come Grandi, Carissimi, Schütz o Matthias Weckmann; è il tessuto strumentale, il modo di Bach di intrecciare oboe e violino (e piú tardi la viola e perfino il fagotto) in contrappunti che decorano l’appassionata condotta del coro, a dare a questo movimento il suo carattereq. A dar vita a ciò che è senza parola era un procedimento nuovo e importante in un’epoca in cui la «parola» era dominante a ogni livello. Ciò suggerisce che Bach aveva già avuto l’intuizione di un logos ancora piú autentico insito nel «discorso» strumentale, che era lí per lodare Dio e celebrare il Suo universo in maniera tanto potente quanto la musica collegata alle parole bibliche o devozionali.

Una caratteristica originale di Aus der Tiefe non è tanto la fedeltà assoluta di Bach alle parole, quanto il modo in cui regola in maniera coerente i suoi temi alla forma delle parole cantate, all’inflessione e alla punteggiatura: i cambi di metro, tempo e texture gli consentono di caratterizzare ogni frase verbale e di cambiare l’Affekt («affetto») quasi all’istante. Cosí, per l’impressionante coro che conclude l’opera, costruisce una sequenza simile a un mosaico, composta di quattro segmenti distinti ma incastrati tra loro:

«Israele» adagio tre blocchi perentori di armonia «aperta»
«speranza nel Signore» un poc’ allegro Contrappunto imitativo con interventi strumentali
«poiché nel Signore c’è pietà» adagio Simile a un inno, con una cantilena ornamentale dell’oboe
«E in lui è copiosa la redenzione» allegro vigoroso trattamento imitativo con figure antifonali in suspiratio

Questo porta senza interruzioni a una sequenza indipendente in forma di fuga, con tema e controtema abilmente adattati a riflettere il carattere duale della frase finale:

«Ed Egli riscatterà Israele» allegro breve motivo principale con estesa «coda» melismatica sulla parola («riscattare»)
«da tutte le sue iniquità» allegro Controsoggetto ascendente cromatico

In questa sezione finale, che culmina in questo esteso soggetto di fuga accompagnato dalla sua risposta cromatica, Bach finalmente prende le distanze dalle precedenti strutture a mottetto della musica dei suoi predecessori e rivela che, anche se certamente non è un modernista, è au fait con quelle soluzioni aggiornatissime della pratica contemporanea italiana che vennero trapiantate intorno a quel periodo da compositori della Germania settentrionale come Johann Theile (1646-1724), Georg Österreich (1664-1735)r e Georg Caspar Schürmann (ca. 1672-1751)s. Oggi figure oscure e confuse, composero mottetti concertati in tedesco e cantate considerate stilisticamente a regola d’arte, che si distinguevano per la qualità dell’inventiva e della fattura. Benché il loro innovativo repertorio corale languisca ancora nell’oscurità, ci sono motivi per pensare che la musica di Bach si sarebbe sviluppata in un’altra direzione senza il loro esempio. Ciò non equivale a dire che la loro musica fu il punto di partenza della sua immaginazione: piú che altro potrebbe essere stata come un’iniezione a lento rilascio, che emana la sua influenza gradualmente e in fasi successive. Tuttavia, è significativo che al momento di fare il primo esperimento come compositore di musica figurata Bach operasse in un milieu vicino all’atmosfera cosmopolita delle corti della Germania settentrionale, dove compositori come questi venivano incoraggiati a utilizzare il proprio ingegno e dirigere i propri esperimenti verso l’edificazione (Erbauung) dei credenti. Scegliendo di mettere in musica testi che combinavano un corale conosciuto con una storia presa dalle Scritture, segnarono un nuovo e solido approccio alla collocazione del messaggio tradizionale del Vangelo nel contesto del culto luterano contemporaneo e lo illuminarono sotto forma di sermone musicale. Questa musica, cosí potentemente emotiva, era sostenuta da una sofisticata scrittura in forma di fuga dai temi orientati tonalmente (spesso con un controsoggetto cromatico), un esteso sviluppo di armonia sequenziale e l’uso pronunciato del basso ostinato, in particolar modo lo stile «walking bass» e quelli che comprendono una discesa per gradi di quattro note. Essi credevano che con questo complesso intreccio musicale di testi biblici di poesia contemplativa e di corali luterani che praticavano si potesse ottenere una reazione personale ai fondamenti del credo cristiano, sperimentando nuovi modi per coinvolgere l’ascoltatore.

Nel riflettere sulle proprie convinzioni religiose in una fase successiva della vita, e dopo aver acquistato una copia del commento alla Bibbia di Abraham Calov, Bach scrisse dei Nota bene ai margini e sottolineò due passaggi quasi identici: Ich will dich nicht verlassen, noch von dir weichen («Io non ti lascerò e non mi allontanerò da te») e Ich will dich nicht verlassen, noch versäumen («Io non ti lascerò e non ti abbandonerò»). Ci piacerebbe tanto sapere quanta di questa rassicurante certezza, quella di non essere completamente soli al mondo, Bach possedesse quando rimase orfano, e quanto di questo dolore fosse tornato dodici anni dopo, quando iniziò a comporre l’opera nota come Actus tragicus, o Gottes Zeit ist die allerbeste Zeit (BWV 106) («Il tempo di Dio è il tempo migliore»). Il fatto che non sappiamo la risposta non dovrebbe indurci ad applicare griglie psicoanalitiche postfreudiane per determinare il suo stato mentale, e postulare risentimento nei confronti dei suoi genitori, rabbia, desiderio, senso di colpa, la ricerca di una figura paterna alternativa e cosí via19. Un approccio del genere nel considerare la permanenza dei traumi psicologici di Bach (sempre se ne aveva) è inesatto e antistorico tanto quanto applicare retrospettivamente meccanismi mentali adulti su un bambino. Fuor di dubbio è che per tutta la sua vita Bach ebbe frequenti e dolorosi incontri con la morte, che falciò la sua famiglia (nessuno dei suoi genitori raggiunse i cinquant’anni di età), e portò via dodici dei suoi figli prima che compissero tre anni, un tasso ben oltre la media, perfino in un’epoca in cui la mortalità infantile era dilagante.

In che misura Bach condivise l’opprimente terrore della morte che provava Lutero, una paura comune e ammessa anche da molti suoi seguaci e teologi protestanti, «l’unica miseria che ci rende piú miserabili di ogni altra creatura»?20. E ancora, in che misura fu veramente convinto del dogma cristiano, in particolar modo quello che enfatizzava la fede personale e la ricompensa della salvezza? E se lo fu, a partire da quando? Al di là dei suoi legami con Lutero causati da geografia, istruzione e congiunture, fu attratto per vera convinzione dal fondatore di questa teologia?t. Sono domande che negli archivi non trovano risposte convincenti, e vanno cercate altrove. Ancora una volta, sono alcuni dei lavori giovanili di Bach a fornirci le prove piú fertili, e nessuno piú dell’Actus tragicus.

L’Harmonischer Baum, un canone a dieci voci a forma di albero, dal trattato Musikalisches Kunst-Buch di Johann Theile (1646-1724), che i suoi contemporanei chiamavano «il padre dei contrappuntisti».

L’Harmonischer Baum, un canone a dieci voci a forma di albero, dal trattato Musikalisches Kunst-Buch di Johann Theile (1646-1724), che i suoi contemporanei chiamavano «il padre dei contrappuntisti».

Anche ai suoi ammiratori piú ferventi Bach può a volte sembrare un po’ distante: il suo genio di musicista, ampiamente riconosciuto, è semplicemente troppo irraggiungibile per essere compreso dalla maggior parte di noi. Ma che fosse molto umano si percepisce in tutti i modi: non tanto per il bric-à-brac di testimonianze personali come lettere ai familiari e descrizioni di prima mano, poche e distanti tra loro, ma dalle crepe nella sua armatura musicale, in quei momenti in cui scorgiamo la vulnerabilità di una persona comune alle prese con i dubbi, le preoccupazioni e le perplessità che ha ognuno di noi. Un esempio è l’Actus tragicus, un brano funebre che Bach scrisse forse poco dopo il Christ lag, a soli ventidue anni, dodici anni esatti dopo essere rimasto orfano, mentre si apprestava a mettere su casa con la sua futura moglie.

Nessuno finora è stato in grado di individuare precisamente l’occasione per cui fu composto l’Actus tragicus. Si suppone che fu scritto per suo zio Tobia, che morí nell’agosto del 1707 e la cui eredità di 50 gulden (quasi metà del salario di un anno) gli permise di sposare la sua procugina, Maria Barbara, nella chiesa del villaggio di Dornheim, poco distante da Arnstadt, il 17 ottobre. Un’altra possibilità è che fu composto in memoria di Susanne Tilesius, sorella del pastore Eilmar di Mülhausen, amico e alleato di Bach. Susanne morí all’età di trentaquattro anni, lasciando un marito e quattro figli, proprio come la madre di Bach dodici anni prima. Forse l’Actus tragicus è in qualche modo uno sfogo musicale catartico del suo stesso dolore irrisolto? È possibile che Susanne e sua madre siano entrambe evocate e commemorate nella supplica del soprano solista «Vieni, Signore Gesú», ripetuta tante volte nel centro esatto dell’opera. Ciò prova che la morte era un pensiero fisso, o almeno un tema ricorrente; la prova è sostenuta dalla significativa quantità di libri dedicati all’ars moriendi luterana che nel tempo accumulò nella sua biblioteca21. Sembra aver capito anzitempo che la forza colossale della fede incarnata e rappresentata nella musica fosse in grado di privare la morte della sua capacità di atterrire l’uomo, anche se, d’accordo con Montaigne (che di sicuro non lesse mai), «Togliamogli [come a un nemico] il suo aspetto di fatto straordinario, pratichiamolo, rendiamolo consueto, cerchiamo di non aver niente cosí spesso in testa come la morte. Ad ogni istante rappresentiamola alla nostra immaginazione, e in tutti i suoi aspetti»22. Lutero aveva insistito: «Dovremmo familiarizzarci con la morte durante la nostra vita, invitare la morte alla nostra presenza quando essa è ancora lontana»23.

Molti dei suoi lavori successivi, tra cui i due grandi allestimenti delle Passioni, affrontano lo stesso soggetto come dicotomia tra un mondo di tribolazioni e la speranza della redenzione, soggetto abbastanza comune nella religione del tempo. Ma nessuno ci riesce in modo piú toccante o sereno di quanto riesca l’Actus tragicusu. Questa musica straordinaria, composta in cosí giovane età, non risulta mai sdolcinata, autoindulgente o morbosa; al contrario, anche se profondamente seria, è consolante e piena di ottimismo. A differenza di altre piú intricate invenzioni contrappuntistiche di Bach, è attraente fin dalla superficie, grazie senza dubbio a una strumentazione dai toni insolitamente morbidi: soltanto due flauti dolci, un organo e una coppia di viole da gamba. Con questa esigua tavolozza Bach riesce a fare miracoli: la sonatina d’apertura racchiude venti delle battute piú strazianti della sua intera opera. Dalla dissonanza piena di bramosia delle due viole, fino al modo delizioso in cui i flauti si intrecciano e si scambiano note adiacenti, scivolando a volte nell’unisono, ci viene offerta una musica per combattere il dolore. Una volta Jean-Philippe Rameau supplicò uno dei suoi allievi: Mon ami, faites-moi pleurer!24. L’ascolto della sonatina di Bach ci fa capire cosa intendesse dire, e ci commuove. L’intera opera dura meno di venti minuti, e scorre dolcemente attraverso diversi cambiamenti di stato d’animo e di metro. Come accade spesso nella musica piú bella, il silenzio è usato in maniera favolosa. Dopo aver inserito una sequenza di preghiere a liberarci da questo mondo, in cui il soprano canta diverse volte «Sí, vieni, Signore Gesú!», Bach fa sí che tutte le altre voci e gli altri strumenti si spengano uno per uno, lasciando la voce nuda a proseguire in un fragile arabescov. Dopodiché scrive una pausa in una battuta vuota. Questo silenzio attivo, mistico, diventa l’esatto punto centrale dell’opera.

Il combattimento con la morte dall’Himmlischer Liebes-Kuss (1732) di Heinrich Müller, uno dei numerosi volumi della biblioteca di Bach che esortano a essere preparati e pronti all’inaspettata e arbitraria ora della propria morte.

Il combattimento con la morte dall’Himmlischer Liebes-Kuss (1732) di Heinrich Müller, uno dei numerosi volumi della biblioteca di Bach che esortano a essere preparati e pronti all’inaspettata e arbitraria ora della propria morte.

Questo è soltanto un esempio dell’efficace pianificazione di Bach. Piú ci si addentra sotto la superficie, piú l’Actus tragicus si rivela complesso, molto piú delle due cantate che abbiamo esaminato in precedenza. In Germania i testi compositi avevano iniziato ad andare di moda dagli anni Settanta del Seicento, ed erano usati per chiarificare e interpretare le Scritture con la giustapposizione di passaggi diversi su un unico tema. Con ogni probabilità Bach prese l’idea di scegliere sette citazioni bibliche e interpolarle con corali luterani piú conosciuti dal già citato teologo Johann Gottfried Olearius. Tramite la particolare disposizione del testo, ci viene presentata una chiara giustapposizione della Legge del Vecchio Testamento e del Vangelo del Nuovo. Lutero ci dice: «La voce della Legge terrorizza e risuona forte nelle orecchie dei peccatori impenitenti: “Nel mezzo della vita terrena, le spire della morte ci circondano”». Ma la voce di Dio rallegra il peccatore timoroso con questa canzone: «Nella morte sicura, la vita in Cristo ci appartiene»25. L’ora della morte era il segreto di Dio: Egli «segna il tempo» della vita umana e ordina le cose secondo il suo piano26. Il proposito sottinteso di Lutero era preparare il credente a «morire nella benedizione» e confortare i familiari in lutto con la nozione che la vita è essenzialmente preparazione alla morte: accettare ciò è l’unico modo sicuro di venire a patti con la nostra umanità e con la vanità delle nostre azioni. Nel suo commento alla Bibbia Olearius inserisce un’immagine (opera di Christian Romstet) di san Pietro ai cancelli del paradiso e, dietro di lui, Gesú mentre cura il suo giardino, intitolata Questo è l’Albero della Vita (fig. 17). Nell’arte pittorica c’è un parallelo nei cicli di dipinti noti come paysage moralisé, che paragonano le età dell’uomo alle ore del giorno, le stagioni dell’anno e le ere della storia biblica27. Intese come simbolo del tentativo dello spirito umano di creare un’armonia con l’ambiente circostante (ma un ambiente in cui ciò che è selvaggio è stato addomesticato e riportato al controllo dell’uomo), tali opere hanno lo scopo allegorico di condurre lo spettatore alla contemplazione delle «cose solenni». Il dovere e il proposito dell’arte di fronte alla morte erano quelli di rappresentare gli appena defunti a coloro che rimanevano sulla terra, consolare il dolore e facilitare la comunicazione e l’espressione dell’inesprimibile. Nel raffigurare complessi temi emozionali che si basano sull’interazione tra passato e futuro, speranza e disperazione, la musica riesce a essere piú efficace della pittura.

Il modo in cui Bach coniuga il suo disegno musicale con questi principî teologici è stupefacente. Come nel caso di Aus der Tiefe, deve imporre la propria struttura musicale. Per rispecchiare il divario teologico tra Legge e Dio, dispone un modello base simmetrico, arrangiando i singoli movimenti in modo che, da ascoltatori, seguiamo il cammino del credente attraverso le Scritture dell’Antico Testamento (con i suoi forti moniti sull’ineluttabilità della morte) nel profondo del suo punto piú basso e poi, tramite la preghiera, di nuovo in alto verso un futuro piú spirituale. Gli interventi solisti su tutti e due i lati di questo divario sono arrangiati in coppie opposte, ed è cosí facile seguire le figure divergenti e i contrasti voluti. Quindi, per esempio, il primo dei due assoli per basso è un’ingiunzione autoritaria, proveniente dall’Antico Testamento, a «dare i tuoi ordini alla tua casa, perché sei un uomo morto: non guarirai». A questa rispondono le parole dette sulla croce da Cristo al ladrone: «Oggi sarai con me in paradiso». A sovrapporsi al secondo di questi assoli è il Cantico di Simeone nella versione di Lutero: «Mit Fried und Freud ich fahr dahin … Der Tod ist mein Schlaf worden» («In pace e gioia io me ne parto … La morte è divenuta il mio sonno»). Se Bach intendeva rappresentare musicalmente l’estinzione fisica in qualche parte della cantata, dev’essere proprio qui, dove le due viole si smorzano alla fine del corale, per ricordare all’ascoltatore devoto che nell’ora della morte i piani del diavolo si fanno piú laboriosi. E, come se non avesse già rispecchiato abbastanza le Scritture in musica, Bach fa un passo successivo, con un’allegoria che porta il credente a comprendere e accettare il percorso della propria vita: una progressione di tonalità, che modulano verso il grave da Mi maggiore (la tonalità base) al Si minore (la tonalità di bemolle piú distante nel ciclo delle quinte, in seguito usata da Bach per descrivere la crocifissione nella Passione secondo Giovanni) e di nuovo a Mi maggiore (vedi fig. nel cap. X). Abbiamo dunque un nuovo disegno simmetrico: una discesa da Mi maggiore attraverso Do minore e Fa minore per i tetri ammonimenti dell’Antico Testamento, e dal nadir del silenzio fino al Si minore, e poi in risalita con il conforto del Vangelo, tornando al Mi maggiore attraverso La maggiore e Do minore. Lo schema è forse destinato a spronare l’ascoltatore a riflettere sui momenti successivi della vita di Cristo: la nascita, crocifissione, morte e resurrezione.

Eppure la caratteristica piú notevole della fusione di musica e teologia operata da Bach si trova in quella battuta centrale di pausa, nei confronti della quale noi ascoltatori siamo irresistibilmente attratti. Il magistrale colpo finale di Bach, che illustra la crisi di fede del credente e l’impellente bisogno dell’aiuto divino, consiste nel fatto che le note immediatamente precedenti del soprano rimangono ambigue dal punto di vista tonale, come se la voce evaporasse in quel grido disperato. Non c’è risoluzione, nemmeno una conclusione parziale, a portare l’armonia verso una cadenza stabile: quindi sta a noi interpretarla nel silenzio che segue. Se la prendiamo come debole cadenza perfetta (una tierce de Picardie in Fa minore), ciò indicherebbe la morte come una sorta di arresto completo. Ma forse ci viene gentilmente accennato di prendere l’ultima oscillazione tra La e Si come rispettivamente nota sensibile e tonica della tonalità del movimento successivo, Si minore. In tal caso quello di Bach è un messaggio di speranza, in cui questa oscillazione verso l’alto indica che grazie all’intervento di Cristo la morte è soltanto un passaggio nel nostro percorso, l’inizio di ciò che viene dopo. Questo voler seminare incertezza, o meglio ambivalenza, è diverso dal giocare con le aspettative, dall’uso della pausa che Bach (come molti altri compositori) impiega invece altrove per mantenere viva l’attenzione e tenerci nel dubbio.

L’Actus tragicus di Bach è una musica di eccezionale profondità. Arriva vicino a penetrare la barriera della consapevolezza che separa il mondo materiale dall’aldilà piú di ogni altra opera di questa tanto feconda fin de siècle. Ancora una volta ci sono indizi di quanto imparò da suo cugino Christoph, alcune delle cui composizioni sembrano abitare ed esplorare allo stesso modo il labile confine tra vita e morte: vivacemente espressivo da una parte, fragile fino quasi a un’imminente estinzione dall’altra. Naturalmente non si può definire la carica emotiva (o, se è per questo, il dolore o il piacere) che ci procura la musica di Bach, meglio di quanto un neuroscienziato possa distinguere tra gli stimoli reali e quelli dell’immaginazione nel nostro cervello.

La chiarezza di proporzioni dell’Actus tragicus è solo ingannevolmente semplice: restituisce infatti una grande complessità di pensiero, struttura e invenzione; i due aspetti puntano alla stessa sensazione, il fremito che proviamo sulla soglia della comprensione. Forse la discreta complessità della struttura matematica che sostiene buona parte della musica riesce ad attirare persone con una determinata mentalità, anche quando non del tutto consce di cosa stia accadendo. Il resto di noi, attratto solo inconsciamente dalla matematica contenuta della musica, si accontenta della bellezza consolante dei suoni.

L’Actus tragicus solleva anche la delicata questione della fede religiosa, e cioè se la presenza (o assenza) totale o parziale di questa possa influenzare la ricettività dell’ascoltatore. Sarebbe deprecabile ritenere che sia necessario avere fede cristiana per apprezzare la musica sacra di Bach. Eppure è vero che senza qualche conoscenza delle idee religiose di cui è imbevuta possono sfuggire tante sfumature, e perfino il modo in cui la sua musica piú tardiva può essere interpretata come una critica alla teologia cristiana. Per molti, il percorso che porta ad apprezzare, ad esempio, un’opera di Mozart è sensibilmente piú tranquillo e meno impervio rispetto a una cantata o una Passione di Bach: nella prima abbiamo emozioni umane riconoscibili, una bella storia spensierata, spettacolo, commedia e dramma (anche se alcuni dei personaggi moralmente ambigui pongono piacevoli dilemmi). Tutti questi elementi sono presenti anche in Bach, ma sono come celati. I testi che adatta non sempre si fondono in una forma drammatica perfettamente integrata come nel caso dei finali di atto delle opere di Mozart. Le cantate del periodo successivo sono spesso cariche di immagini raccapriccianti di lebbra, pus e bubboni che, insieme alla fitta boscaglia della teologia, possono creare una barriera impenetrabile per i non iniziati, a tal punto che una parte di ciò che Bach voleva dire viene persa nel tragitto. È necessario fornire un accenno di presentazione del mistero per aiutare l’ascoltatore a resistere alla tentazione di abbandonare (o bandire) del tutto il contenuto religioso a causa dell’assurdità del suo immaginario, e rassicurarlo del fatto che l’immensa abilità e complessità possono essere penetrate. Per raggiungere il nucleo umano della musica sacra di Bach, la mia opinione è che non si sia obbligati a ricollocarla nel suo contesto originale (il freddo banco di una chiesa invece del sedile imbottito di un teatro), sebbene sia proprio questo ciò che per tutto il XX secolo gli evangelici luterani hanno suggerito. Dobbiamo, tuttavia, essere consapevoli del suo posto nella liturgia, dell’intenzione originale del suo compositore e di quella delle autorità ecclesiastiche committenti (che non sempre coincidevano), e del peculiare rapporto dialettico che Bach sembra instaurare tra la sua musica e la parola (cosa che esploreremo in maniera approfondita nel cap. XII). Una volta rimossi questi strati, come le pelli di una cipolla, la ricompensa supera di tanto la nostra prima superficiale reazione alla musica.

Il problema non è nuovo. In una lettera a Edwin Rhode (1870) Friedrich Nietzsche scrisse: «Questa settimana ho ascoltato La Passione secondo Matteo tre volte e ogni volta ho provato la stessa incommensurabile ammirazione. Chi ha dimenticato del tutto la cristianità qui la ascolta vera come il Vangelo». Eppure nel 1878 si sarebbe lamentato: «In Bach c’è ancora troppo crudo cristianesimo, troppo crudo germanesimo e troppa cruda scolastica; egli sta sulla soglia della musica europea (moderna), ma guarda indietro da essa verso il Medio Evo»28. Nietzsche indica il conflitto che molte persone nutrono nei confronti della musica sacra di Bach: scoraggiati dalla durezza di un certo linguaggio, si è ciononostante alla mercé della musica e del modo in cui trasmette la convinzione della fede.

Per riconciliare queste reazioni opposte si può fare appello a ciò che disse William James sul tema della religione in generale, e impiegare «ogni fibra della sua energia intellettuale a difendere e giustificare la libertà di arbitrio», e, come lui dice, «il diritto di credere». La religione, riconobbe, «cosí come l’amore, la rabbia, la speranza, l’ambizione, la gelosia, e ogni altro fervore e impulso istintivo … dà alla vita un incanto che non è razionalmente o logicamente deducibile da nient’altro»29. Allo stesso tempo può dare rifugio ai tormenti dell’«anima malata» che trova consolazione nella conversione, come è successo ad Agostino, Lutero e Tolstoj, e alla fascinazione dell’io diviso, come abbiamo visto per John Bunyan, e naturalmente per Bach30. La sua musica ispira una sensibilità religiosa molto comune, ma non necessariamente legata a un dogma specifico. Proprio come ci sono molti aficionados non religiosi della musica di Bach, cosí ci sono atei tra i musicisti professionisti a lui devoti. Una figura ampiamente rispettata tra i compositori europei contemporanei, György Kurtág, ha di recente confessato: «A livello conscio io sono ateo, ma non lo dico ad alta voce, perché se penso a Bach, non posso essere ateo. Allora devo accettare il modo in cui credeva. La sua musica non termina mai di pregare. E come posso avvicinarmi se lo osservo dall’esterno? Non credo nel Vangelo in modo letterale, ma c’è una crocifissione in una fuga di Bach: quando vengono piantati i chiodi. In musica, cerco sempre il momento in cui il martello picchia sui chiodi … È una visione duale. Il mio cervello rifiuta tutto ciò. Ma il mio cervello non vale molto»31.

Nel settembre del 1742 Bach, a cinquantasette anni, comprò una lussuosa edizione in sette volumi delle opere complete di Martin Lutero. Secondo una breve annotazione di suo stesso pugno32 «questi magnifici scritti tedeschi del fu D.[ottore] M.[artin] Lutero», erano appartenuti a due distinti teologi, Calov e Mayer, e l’aveva acquistati per dieci talleri. Sul suo scaffale aveva già quattordici grossi in-folio di scritti di Lutero, tra cui il Tischreden, piú il secondo volume del suo Hauß-Postilla rilegato in quarto, oltre a numerosi volumi di sermoni, commentari alla Bibbia e scritti devozionali di altri autori, molti dei quali citati generosamente da Lutero. Quindi perché questo nuovo acquisto? Era solo perché si trattava della nuova edizione di Altenburg, laddove egli possedeva solo la versione di Jena? Quella di Bach, che secondo le stime doveva contare almeno centododici opere teologiche e omiletiche, piú che alla biblioteca di un normale musicista sacro doveva sembrare adatta alla chiesa di una città di dimensioni rispettabili, e «piú di un pastore dei tempi di Bach sarebbe stato fiero di averla»33. È un po’ strano, inoltre, che il prezzo che Bach dichiarò di aver pagato per questi nuovi volumi appare rimosso e grossolanamente alterato a dieci talleri da una cifra che sembra essere stata due o anche tre volte piú alta, e nello stesso mese in cui un libraio di Lipsia, Theophil Georg, pubblicò un catalogo in quattro volumi di nuove e vecchie edizioni luterane in cui quotava l’edizione Altenburg a venti talleri34. Forse Bach si imbarazzava ad ammettere a sua moglie il vero prezzo, che ammontava circa alla metà del salario mensile? Se questo piccolo inganno indica una crisi di mezza età, non ci dice molto: non aveva certo scialacquato, diciamo, per la nuova edizione di un’opera pruriginosa e proibita come il Decameron di Boccaccio, o per l’Etica di Spinoza, bandito e tacciato di ateismo. Ciò che rivela, al di là della sua devozione personale, della sua costante ammirazione per Lutero, e dell’importanza fondamentale dei suoi scritti sia in ambito personale che professionale, è che «appare evidente che Bach fosse profondamente, e sembra acriticamente, immerso in una mentalità vecchia di almeno duecento anni»35.

Devono sicuramente essere esistite altre cantate composte durante i suoi primi impieghi ad Arnstadt e Mühlhausen che Bach non sentí il bisogno di conservare, una volta giunto a Lipsia nel 1723, poiché appartenevano a un «vecchio stile musicale che non sembra piú piacere alle nostre orecchie»w36. Eppure avrebbe potuto concordare con SchÖnberg quando dei suoi pezzi giovanili disse: «Mi piacevano quando li ho scritti» e, nel caso della BWV 4, Christ lag, ancora all’età di quarant’anni. Ciò che è sopravvissuto mostra che Bach aveva tracciato un percorso iniziale per la sua musica, non tanto per articolare, sostenere e interpretare queste posizioni dottrinali, ma per superarle concretizzando il ruolo della religione nella vita quotidiana della gente. Nelle sue mani, la musica è qualcosa di piú rispetto al tradizionale equivalente di una realtà invisibile, perfino piú di uno strumento di persuasione o retorica: racchiude il ruolo dell’esperienza religiosa nel modo in cui l’aveva compresa, tracciando gli alti e bassi della fede e del dubbio in termini essenzialmente umani e in modi frequentemente drammatici, e rappresentando queste tensioni e lotte quotidiane in modo vivido e immediato. Questi lavori giovanili ce lo mostrano intento a esplorare il potere della musica di fornire un conforto acustico, sensoriale alle difficoltà della vita, attutendo l’impatto del dolore, come la pelle ricresciuta su una ferita. L’allineamento della propria musica con la concezione luterana della morte come ricompensa per la fede può avergli fornito i mezzi con cui assimilare il suo stesso lutto giovanile. Ciò che non poteva fare era moderare il suo atteggiamento nei confronti dell’autorità, come vedremo nel prossimo capitolo.

Uscendo dalla Georgenkirche alla fine della messa di Pasqua, il pastore ci invitò a visitare ciò che rimane oggi della vecchia scuola di Bach e dell’antico monastero domenicano. Camminammo con lui oltre le mura del centro storico fino al cimitero noto come Gottesacker («l’acro di Dio»). Qui da qualche parte ci sono le tombe senza nome dei genitori di Bach. Da membro del chorus musicus cittadino, il figlio minore di Bach dovette cantare durante l’interramento di suo padre, e fu obbligato ad assistere al rituale: il rintocco della campana, la solenne processione di sacerdoti, coro, famiglia e altri partecipanti fino al Gottesacker. Qui, su una piccola pedana di legno, coperta da una tettoia che si sporge dalle mura cittadine per proteggere la famiglia in lutto, egli e gli altri orfani Bach si sarebbero raccolti37. Al centro del cimitero si trovava una costruzione di legno, poco piú di un capanno da giardino, e un piccolo pulpito da cui il Magister Schrön recitò l’omelia funebre. Mentre la bara veniva calata il Cantor e i suoi coristi intonarono l’inno funebre medievale nella versione di Lutero: Mitten wir im Leben sindx.

a. Saremmo dovuti venire dieci anni fa, disse, poiché allora, sotto la Ddr, c’era talmente poco contatto con il mondo esterno che l’unico modo in cui i suoi parrocchiani potessero avere un assaggio delle esecuzioni di Bach suonate altrove era per radio, o su Cd contrabbandati al confine da amici e contatti. Eppure, abbiamo fatto bene a decidere di fermarci qui per il fine settimana di Pasqua nel nostro pellegrinaggio sulle orme delle cantate.

b. «Il Signore mi ha colpito nel posteriore con terribile dolore. I miei escrementi sono talmente duri che per espellerli devo sforzarmi fino a sudare, e piú indugio piú duri diventano … Il mio sedere si è guastato» (WABR, II, nn. 2333, 2334).

c. Nella sua cantata per la Festa della Riforma BWV 79, l’anonimo poeta di Bach invoca la protezione di Dio «nostro sole e scudo» contro «un blasfemo cane che latra», forse un riferimento all’incubo di Lutero (WATR, V, n. 5,358b)

d. La diffusione della Bibbia di Lutero ebbe un impatto colossale sulla lingua tedesca, divisa in molti dialetti regionali. Lutero scrisse: «Finora non ho mai letto nessun libro o lettera in cui la lingua tedesca venga usata in modo proprio. A nessuno sembra importar niente, e ogni predicatore crede di avere il diritto di cambiarla a proprio piacimento e di inventare nuovi termini» (citato in PHILIP SCHAFF, History of the Christian Church, Eerdmans, Grand Rapids 1910, vol. VI, pp. 6, 10). Non che egli stesso fosse immune da questa tendenza. Tuttavia, popolarizzando il dialetto sassone e adattandolo alla teologia e alla religione, Lutero arricchí il vocabolario con quello di poeti e cronisti del passato e lo trasformò nel linguaggio letterario comune da cui rintracciarono le proprie origini stilistiche scrittori e poeti come Klopstock, Herder e Lessing. Un contemporaneo di Lutero, Alberus Erasmus, lo definí il Cicerone tedesco.

e. Lutero rimproverava chi guardava dall’alto in basso i Currende («coristi che suonano per strada»): «Anche io raccoglievo briciole allo stesso modo … Cantavamo a quattro voci davanti a tutte le porte dei villaggi [intorno a Eisenach]».

f. Su questo argomento il contemporaneo di Bach, John Mattheson, scrisse: «Un Cantor onesto, tramite la funzione della sua vocazione sacra [Amt], proclama … la Parola di Dio. Verbum Dei est, sive mente cogitetur, sive canatur, sive pulsu edatur [la Parola di Dio viene pronunciata dal pensiero della mente, cantando e suonando, lett.: “colpendo”], come espresso nelle parole scritte dal Martire Giustino» (Critica Musica II, s. e., Hamburg 1722, p. 316). Tuttavia Robin A. Leaver ha dimostrato che ciò si basa su una cattiva traduzione (Luther’s Liturgical Music, Eerdmans, Grand Rapids 2007, pp. 287-88). Nonostante Joseph Kerman ammonisse che «i compositori barocchi raffigurano le passioni, i compositori romantici le esprimono» [corsivi miei] (JOSEPH KERMAN, The Art of Fugue, University of California Press, Berkeley 2005, p. 100), a me sembra che Bach si spinga molto oltre il «raffigurare» le passioni.

g. Eppure, al contrario della credenza popolare, abbiamo un solo esempio di contrafactum (parodia di canzone secolare con la sostituzione di un testo religioso) composto dallo stesso Lutero: prese una canzone «indovinello» (Ich komm aus fremden landen her) e la trasformò nella prima versione del suo inno natalizio Vom Himmel hoch, da komm ich her, che apparve nel libro degli inni di Wittenberg nel 1535. Tuttavia non fu soddisfatto del risultato e decise di comporre una nuova melodia, a cui sarebbe definitivamente rimasta legata. La ricerca di Robin A. Leaver (Luther’s Liturgical Music cit., pp. 88-89) è molto utile nel far esplodere il mito del presunto sostegno da parte di Lutero dell’uso della musica popolare in chiesa. Nelle sue parole, Lutero era incline a «svezzare [i giovani] dalle ballate amorose e dalle canzoni carnali e insegnar loro qualcosa di valore, combinando in questo modo il buono e il piacevole» (LW, LIII, n. 316; WA, XXXV, nn. 474–75).

h. Nel 1708, un solo anno dopo la sua audizione a Mühlhausen, il collega e cugino di Bach, J. G. Walther, scrisse: «la musica di oggi si può comparare alla retorica per la sua moltitudine di figure» (Praecepta der musicalischen Composition, 1708, ms Landesbibliothek Weimar, Hs. Q 341c, p. 152), una frase presa direttamente dal Christoph Bernhard di sessant’anni prima, anche se non è chiaro se Walther sia serio o leggermente dispregiativo.

i. Vilayanur S. Ramachandran ha eseguito ricerche sul fenomeno della mutua attivazione tra aree adiacenti del cervello umano: non solo tra i sinesteti (per cui i colori esprimono, ad esempio, numeri) ma tra individui normali, dotati solo di un acuto senso della metafora e in grado di collegare mentalmente concetti apparentemente estranei (Bbc Reith Lectures, 2003).

j. Nella musica di Hector Berlioz, che difficilmente si potrebbe definire un seguace, ricorre qualcosa di simile all’utilizzo da parte di Bach della ripetizione Si/Fa per comunicare la schiavitú della morte. Ne Les Nuits d’été, adattò «Au Cimetière» (da La Comédie de la mort, di Théophile Gautier, pubblicato nel 1838): la risoluzione armonicamente ambigua di Sol verso Fa e il passaggio inverso sulle parole passe, passe. Nel suo adattamento delle parole di Gautier (Un air maladivement tendre | À la fois charmant et fatal, | Qui vous fait mal), Berlioz ritrae la morte come un avvenimento curiosamente voluttuoso, una distrazione temporanea dalla orribile realtà nella lotta tra luce e tenebre, tra vita e morte.

k. Heiko Oberman ritiene il linguaggio di Lutero «cosí fisico e terreno che nel suo infuriato sdegno dà al diavolo “un peto per bastone”» (WATR, VI, n. 817): «Tu Satana, Anticristo, o papa, puoi poggiarti a questo, un nulla puzzolente». In questo modo «una figura di rispetto, che sia il Diavolo o il Papa, viene dissacrato efficacemente se viene mostrata con i pantaloni calati» (HEIKO A. OBERRMAN, Luther. Man between God and the Devil, Yale University Press, New Haven, Conn., 1989, pp. 108-9).

l. Sí, al plurale, poiché in tutte le cantate successive non ci sono esempi che Bach scrivesse in questo modo per voce sola. Benché non abbiamo modo di sapere con precisione quante voci intendesse, o quante gliene venissero assegnate per la prima esecuzione a Mühlhausen (inoltre poteva essergli molto utile per comprendere le capacità del suo nuovo coro), la sua natura comunitaria, innica e il modo in cui Bach reagisce all’evocazione di Lutero di una folla dalle molte voci nella strofa centrale suggerisce piú di una voce per parte. Con diverse voci per linea, inoltre, le difficoltà diventano piú gestibili sotto il profilo tecnico. Naturalmente non tutti sono d’accordo.

m. Se è vero che nel romanzo di fantascienza di H. G. Wells La guerra dei mondi (1898) il bene e il male appaiono perfettamente equilibrati e la sconfitta dei marziani non prevede alcun tipo di intervento divino (i tentativi del sacerdote squilibrato di collegare l’invasione a una sorta di Armageddon sembrano solo confermare la sua follia), per Charles Williams (intimo amico di J. R. R. Tolkien e C. S. Lewis) e Philip Pullman è diverso. Tre dei romanzi piú conosciuti di Williams sono Guerra in cielo (War In Heaven, 1930), Discesa all’inferno (Descent into Hell, 1937) e La vigilia di Ognissanti (All Hallow’s Eve, 1945). T. S. Eliot nell’introduzione per quest’ultimo descrisse i romanzi di Williams come «thriller sovrannaturali» poiché esploravano l’intersezione sacramentale tra mondo fisico e spirituale esaminando al contempo il modo in cui il potere, anche quello spirituale, può corrompere oltre che santificare. Nella sua resa dell’epica di Milton in His Dark Materials (Scholastic, London 1995-2000), Pullman ne inverte la conclusione, encomiando l’umanità per ciò che Milton riteneva un tragico difetto. Ciò che ammira di piú del Paradiso perduto è «il mero coraggio della dichiarazione di Milton di voler perseguire “Cose mai tentate in prosa o in rima” per “giustificare i metodi di Dio agli uomini”». Non ci sembra di dover ammirare la stessa cosa anche in Lutero, e ancora di piú in Bach?

n. Gli storici, secondo Richard Marius, vorrebbero farci credere che «le intuizioni di Lutero provenivano principalmente dall’intelletto e non dalle viscere: un atteggiamento sbagliato quanto qualsiasi tentativo di definire Lutero solo attraverso la psicologia» (Martin Luther. The Christian between God and Death, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, Mass., 2000, p. 21). Si potrebbe dire lo stesso dei musicologi «positivisti» che sembrano intenzionati a provare che la musica di Bach fosse conseguenza di un prodigioso controllo cerebrale, e trascurano o sminuiscono il ruolo della reazione emotiva e spontanea ai testi devozionali che adattava.

o. È un primo esempio della capacità di Bach di catturare l’immaginazione, in modo che «ciò che arriva all’ascoltatore, dunque, è un lasso di tempo musicale in cui la transitorietà del momento narrativo è sospesa, e attraverso il quale il dramma complessivo acquista una maggior profondità di campo» (JOHN BUTT, Do Musical Works Contain an Implied Listener?, in «JRMA», CXXXV, 2010, p. 10).

p. Ciò necessita di un commento, poiché Lutero, da ex frate agostiniano, testimoniò direttamente il potere del canto dei salmi: lo definí un processo in cui gli «affetti» sembrano «pizzicare» le «corde» delle parole del salmista, portandole a vibrare e a trasformarsi in affetti divini. Lutero affermò che vox est anima verbi, «la voce è l’anima delle parole»: le Scritture arrivano all’ascoltatore non come parole da «interpretare», ma «catturate» o «incorporate» nel suono per mezzo della camera di risonanza del corpo. Ci sono tanti motivi per supporre che Bach conoscesse bene la teologia del Salterio di Lutero, e la sua riflessione su come applicarla a un adattamento figurato e concertato del salmo (vedi BERND WANNENWETSCH, Listening. Interdisciplinary Perspectives, in «JRMA», CXXXV, 2010, pp. 91-102).

q. Simili gesti espressivi e il chiaro sforzo mistico di questa cantata suggeriscono se non un’influenza, almeno un’affinità con un altro nobile allestimento del De Profundis del compositore francese Michel-Richard de Lalande, composto nel 1689. Le versioni di Bach e Lalande condividono una sobrietà espressiva generale e, in particolare, modi paralleli di stratificare voci e strumenti in fitte reti di contrappunto di eccezionale intensità.

r. La sezione finale fugata del concerto a mottetti di Österreich, Ich bin die Auferstehung, composta nel 1704, è costruita su linee simili. Bach può aver conosciuto altri esempi della musica di Österreich nella biblioteca di Lüneburg. Nonostante oggi abbiamo dimenticato questi compositori, grazie a collezionisti come Düben e i cantori di Lüneburg, e infaticabili copisti tra cui lo stesso Österreich, la loro musica è sopravvissuta nei manoscritti e ci permette di avere un’idea della loro originalità, versatilità e, soprattutto, dell’ingegno nell’adattare la musica cattolica italiana alla liturgia luterana.

s. Dopo un anno di studi a Venezia, Schürmann fu ingaggiato per quattro anni come compositore e Capellmeister alla corte di Meiningen, dove conobbe Johann Ludwig, cugino di Bach, che gli successe nel 1706. Qui egli compose la sua musica liturgica piú interessante: nove cantate in cui l’alternanza di recitativo e aria, sviluppata al modo dell’opera italiana (che includeva arie da capo, come avrebbe fatto Bach dieci o piú anni dopo), era applicata alla musica sacra forse per la prima volta da parte di un compositore tedesco. Ogni cantata si concludeva con un corale, trattato in una varietà di modi che con ogni probabilità furono notati da Bach.

t. La prima generazione di luterani lo riteneva un Wundermann, un uomo voluto e inviato da Dio. Quasi duecento anni dopo Robert L. Marshall concluse che «ci sono pochi dubbi che Bach avesse reverenza per Lutero, che si identificasse fortemente in lui, che lo riconoscesse come una figura di eminenza suprema, un vero “grande uomo”, e lo venerasse quasi fino all’ossessione» (Luther, Bach, and the Early Reformation Chorale, Pitts Theology Library, Atlanta 1995, p. 10). Peter Williams suggerisce un interessante modello alternativo, Filippo Melantone, stretto collaboratore di Lutero: «orfano dall’età di undici anni, espresse fedeltà alla sua patria e al suo luogo di origine, era testardo, e studiò da autodidatta sugli scritti altrui» (The Life of Bach cit., p. 7).

u. È qui, anche, che osserviamo che il suo approccio alla morte, come riflesso dalla sua musica corale giovanile, è diverso dagli altri della sua cerchia famigliare. La visione della vita come «valle di lacrime» era ereditata dal XVII secolo, ed esemplificata dalle composizioni di Heinrich Schütz realizzate durante la guerra dei Trent’anni; questo atteggiamento riaffiora nella musica del cugino di Bach, Johann Christoph, il cui Mit Weinen hebt sichs an (eseguito per la prima volta nel 1691, quando Johann Sebastian aveva sei anni) descrive le tre Età dell’uomo in termini decisamente nichilisti, facendo da guida per l’ascoltatore nel cammino attraverso l’infelicità di giovinezza, età adulta e vecchiaia.

v. C’è un parallelo in questo con la conclusione profondamente toccante del mottetto a cinque voci di Johann Christoph Bach, Fürchte dich nicht: quando il soprano entra cantando «O Jesu du, mein Hilf» (da un inno funebre di Johann Rist) le due parole comuni du e mein si intrecciano per un momento, come a stabilire un incerto contatto tra il mondo e l’aldilà (vedi supra, cap. III). L’espressione della «libertà» del Vangelo della linea libera del soprano (sprovvista dell’àncora del basso continuo) ha un contrasto netto (e dotato di un preciso scopo teologico, si potrebbe pensare) con la stretta esposizione in forma di fuga della Legge e dei suoi precetti (Es ist der alte Bund).

w. Una composizione di queste potrebbe essere una seconda cantata Ratswechsel per Mühlhausen nel 1709, dopo la sua partenza. Forse fu stampata, come la BWV 71, Gott ist mein König, ma è andata perduta.

x. Quattrocentocinquanta miglia a ovest, a Londra, un altro musicista avrebbe presto ricevuto sepoltura nell’Abbazia di Westminster, qualcuno che aveva composto allestimenti delle stesse solenni frasi funebri: Henry Purcell. «Nel pieno della vita, noi siamo nella morte … Tu conosci, Signore, i segreti nel nostro cuore». Queste parole, un servizio funebre del Book of Common Prayer, sono prese quasi alla lettera dalla versione di Miles Coverdale del Media vita, e furono tradotte non dal latino, ma dal «Mitten wir im Leben sind» di Lutero. Il collegamento con Lutero, dunque, non potrebbe essere piú forte (vedi ROBIN A. LEAVER, «Goostly Psalmes and Spirituall Songes». English and Dutch Metrical Psalms from Coverdale to Utenhove 1535-1566, Clarendon Press, Oxford 1991, p. 133). Suggerisce la possibile esistenza di una condizione umana comune che si propaga per tutta l’Europa di quel periodo, qualcosa che collega Bach (che non ha mai viaggiato all’estero) a una viva tradizione inglese.