È davvero un peccato che in un luogo tanto famoso [Lipsia], che le Muse hanno scelto come propria sede, ci siano tuttavia cosí pochi intenditori e amanti della vera musica.
LORENZ CHRISTOPH MIZLER (1747).
Res severa est verum gaudium: «Il piacere autentico è una cosa seria». Di certo lo è per i tedeschi. Trent’anni dopo la morte di Bach il motto di Seneca fu adottato dalla famosa orchestra di Lipsia, e immortalato sul muro della sala dei concerti della Gewandhaus, quando aprí nel 1781. Dopo tante ricostruzioni è ancora lí, a lettere maiuscole, a ricordare al pubblico che l’ascolto della musica necessita di attenzione. Che fosse applicato o meno già al tempo di Bach, in modo tale da domare la disattenzione innata e il rumoreggiare degli uomini della prima galleria intenti a guardare le donne entrare in chiesa in ritardo, rifletteva senza dubbio il fitto intreccio tra profano e sacro in questo contesto cittadino. Ne troviamo una rappresentazione sul frontespizio di una collezione di canzoni popolari pubblicata nel 1736 (fig. qui di seguito). A un primo sguardo Singende Muse an der Pleisse ritrae un elegante ritrovo sociale sullo sfondo del panorama di Lipsia, con una veduta del fiume principale e alcuni degli edifici piú importanti dell’orizzonte cittadino. In primo piano due figure allegoriche (le «Muse Cantanti» del titolo) sono intente a fare musica insieme. Accanto, una donna suona il virginale, mentre un gentiluomo appare concentrato nell’ascolto; altre coppie giocano a carte o a biliardo, oppure bevono caffè. L’ambiguità dell’ambientazione, un misto tra un caffè, un salotto e un giardino di piacere, è sicuramente intenzionale, e intende mostrare come ognuno di questi sia un luogo adatto e alla moda per la musica, e un simbolo di agiatezza cittadina. In campo medio si distingue la Schellhafers Hausa, una taverna di lusso della Catharinenstrasse dove in inverno si tenevano concerti ogni settimana, e accanto i sontuosi giardini di Apel, che in seguito avrebbero deliziato la vista di Goethe («Splendidi… la prima volta che li ho visti ho pensato di essere nei Campi Elisi»)1. La cosa piú notevole è l’apparire sullo sfondo della Thomaskirche, non la chiesa principale della città (che era la Nikolai), ma il simbolo della sua fede luterana ortodossa, dotata di una tradizione musicale piú ricca di qualsiasi altra chiesa nel mondo di lingua tedesca.
La veduta di Boethius raffigura tre dei principali luoghi dedicati alla musica a Lipsia: la chiesa, il caffè e i giardini di piacere, e ci fa immaginare il quarto, la piazza del mercato e centro cittadino dove Bach, da Director Musices, realizzava i grandi allestimenti di musica cerimoniale quando l’Elettore o i membri della famiglia reale erano in città, ai quali accorreva l’intera comunità. Nel complesso, indica che i cittadini di Lipsia, come quelli di tutta Europa, si trovarono (con le parole di uno storico sociale) «in mezzo tra l’imperativo di apparire galanti in un nuovo ambiente cosmopolita, e una visione piú vecchia, ma ancora vigorosamente predicata, che il lusso e le troppe attività sociali fossero peccati che sarebbero incorsi nella punizione divina»2. Questo era lo sfondo delle attività ricreative di una borghesia nascente, una società urbana intenta a dare un nuovo assetto a religione, pensiero, gusto, consuetudini sociali e ambizioni. I giovani di oggi, si lamentavano alcuni, sono credenti solo a parole e hanno problemi a conciliare i valori tradizionali col desiderio di apparire figure galanti e mondane3.
Una breve pubblicazione, la Rivista delle faccende domestiche ben concepite e riassunte, apparve a Lipsia nel 17304. Intendeva dare consigli a chi desiderava migliorare le proprie condizioni di vita, e aiutarlo a conformarsi alle nuove norme culturali cittadine. A cominciare dall’usanza di servire sfarzosi pasti da gourmet e dai rituali postprandiali di bere caffè e fumare la pipa, l’autore, chiamato semplicemente Bornemann, disquisisce sull’arredamento domestico appropriato. Indica persino cosa debba far parte di una cassetta per il pronto soccorso. Poi, senza vederci nulla di incongruente, indica quale potesse essere considerata una biblioteca ben fornita per ogni possibile bisogno, spirituale e materiale: «per ristorare lo spirito», «per il pentimento, la confessione e la Comunione», «per sradicare completamente tutti i mali e fortificare la vera fede»5. Tra i libri raccomandati troviamo molti degli stessi autori che ritroviamo nella biblioteca privata di Bach, a dimostrazione di come tentasse di tenersi al passo con le mode letterarie correnti. In queste collezioni la letteratura, sia seria sia d’evasione, si trovava gomito a gomito con volumi come i Poemi serio-umoristici e satirici di Picander, il consueto collaboratore letterario di Bach6.
Con la crisi provocata dal deteriorarsi dei rapporti con i suoi datori di lavoro del consiglio cittadino (vedi cap. VI), coincise un notevole cambiamento dei luoghi nei quali si svolgevano le attività musicali piú importanti di Bach: dalla chiesa queste si spostarono al caffè (in inverno) e nei giardini (in estate). Per comprendere il contesto sociale, liturgico e performativo della sua attività musicale pubblica durante i suoi anni a Lipsia, dobbiamo esplorare questi due mondi musicali paralleli, uno sacro e uno profano, e questi due luoghi di ritrovo pubblico, uno vecchio piú di 500 anni, l’altro relativamente nuovo. Come si adattò Bach a questi ambienti concorrenti, come venne accolta la sua musica, e come cambiò il suo stile, sia all’arrivo a Lipsia che dopo qualche anno di incarico? Per rispondere a queste domande dobbiamo prendere in considerazione i segni che i Lumi stavano iniziando a manifestarsi tra l’intellighenzia urbana di Lipsia, che coincise in maniera inaspettata con un’ultima impennata dell’ortodossia luterana che stava coinvolgendo tutti i settori della società. Forse Hegel aveva trovato una verità quando osservò che la versione tedesca dell’Illuminismo stava «dalla parte della teologia»: di sicuro per il modo in cui questa fu applicata alle arti dello spettacolo7. Ai tempi di Bach, all’arte veniva ancora richiesto di impartire un significato esplicito, morale, religioso o razionale. Fu cosí fino alla seconda metà del secolo, quando i concetti estetici di «bello» e «sublime» iniziarono a separare l’arte dalla scienza e dalla moraleb.
La facilità con cui la musica attraversava le frontiere significava che, anche senza il forte investimento in musicisti di prestigio che caratterizzava la corte di Dresda (incline dapprima verso gli stili francesi, e poi negli anni Trenta del Settecento, con un cambiamento dovuto al capriccio dell’Elettore, a quelli italiani), a Lipsia poteva ambire a un vero status cosmopolita. La musica sosteneva l’immagine cittadina di «Atene sulla Pleisse», la sua reputazione di «Piccola Parigi» (come la chiamò Goethe) all’ultima moda, e perfino, secondo Lessing, di «luogo dove si può osservare tutto il mondo riprodotto in miniatura»8. Il fatto che la città potesse vantare un vivace Teatro dell’opera dette credito a queste pretese culturali, ma dopo il suo collasso nel 1720, dovuto a dispute sugli accordi di affitto e agli enormi debiti legati all’attività, queste furono piú difficili da giustificare. Benché la corte di Dresda fosse favorevole a preservarlo, insieme ad alcuni esponenti dell’intellighenzia di Lipsia, le sue attrattive non erano sufficienti a salvarlo. Per risolvere la situazione, i finanziatori cittadini avrebbero dovuto mettere insieme le proprie risorse, richiedere una licenza alla corte dell’Elettore, superare numerose pastoie burocratiche e nominare un direttore musicale carismatico e in grado di richiamare studenti, come Telemannc. Il fatto è che nonostante tutta la sua ricchezza commerciale e la sua ambizione culturale, la Lipsia della metà del XVIII secolo non poteva eguagliare città fiorenti e autenticamente orientate verso l’opera come Dresda, Amburgo o Londra.
Nel capitolo VI abbiamo visto che, grazie alle particolarità dei governi locali di Lipsia, che comportavano l’alternanza per i sindaci e le loro rispettive affiliazioni politiche, Bach come funzionario del municipio si trovò a lavorare in un ambiente urbano complesso e fortemente gerarchizzato, e almeno per i primi sei anni faticò a farsi strada nell’intrico delle fitte regole burocratiche ed ecclesiastiche. La città fu paragonata a una piovra: «Se si riesce a liberarsi di un tentacolo, subito si viene afferrati da un altro»9. Per Bach, il titolo di «Thomaskantor» comportava una posizione inferiore nella scala sociale, e restringeva la sua autorità musicale nei confini della chiesa e della scuola. Egli, ma non il consiglio, avrebbe preferito il titolo di «Director Musices Lipsiensis», ma soltanto sei anni dopo il suo insediamento Bach poté iniziare a reclamare il ruolo di principale direttore delle attività musicali cittadine. Questo ritardo si spiega in parte per questioni di protocollo e in parte per necessità, poiché stava dedicando tutte le sue energie alla composizione di cantate e Passioni. Nel 1729, nell’assumere la guida del collegium musicum (un’istituzione indipendente, non municipale), Bach tentò di liberarsi dal controllo del consiglio e di stabilire una solida base indipendente per le sue attività di Director Musices cittadino. Il caffè e la chiesa erano due templi gemelli, e avrebbe potuto (e l’avrebbe fatto) agire in entrambid. Non fu un caso che questa mossa precedesse un aspro litigio con l’assistente diacono della Thomaskirche sul diritto di scegliere gli inni per la funzione del vespro, secondo l’usanza prerogativa del Cantor. Dietro il cupo annuncio di una resa dei conti da parte dei consiglieri, che abbiamo affrontato nel capitolo VI, non è difficile immaginare la loro contrarietà di fronte al suo ultimo tentativo di affermare una propria autonomia artistica, e la loro decisione di mantenerlo al suo posto.
Naturalmente, se avessero considerato le cose da una prospettiva leggermente diversa, avrebbero riconosciuto i visibili benefici per la città e accolto con favore l’arricchimento musicale della funzione domenicale. Trovare strumentisti volontari abbastanza bravi da suonare musica figurata era un problema antico, che aveva sconfitto i predecessori di Bach e avrebbe frustrato i successivi. Ciò che la città desiderava di piú, secondo il parere espresso nel 1723 dal borgomastro Gottfried Lange, era una celebrità musicale in grado di «animare gli studenti»10: in altre parole, qualcuno capace di richiamare maestranze specializzate intenzionate a suonare senza compenso alle funzioni domenicali delle due chiese principali. Se non altro, pensava forse Lange, il suo uomo avrebbe giustificato il sostegno che egli gli accordava. Bach aveva appena avuto contatti con una quantità di studenti e strumentisti professionisti, pronti a rimpolpare il gruppo principale del Thomaner e dello Stadtpfeifer, e a suonare in chiesa di tanto in tanto dietro qualche compromesso: non era forse esattamente ciò che avevano sempre desiderato Lange e i suoi sostenitori nel consiglio? Altrove, tale sistema di scambi era accettato come naturale, e a Lipsia era stata collaudato vent’anni prima al tempo di Telemann, ma il suo successo era dipeso dalla congiuntura favorevole tra i concerti all’Opera, quelli alla Neukirche e quelli del collegium, e non era mai stato adottato a beneficio delle due principali chiese cittadine.
In qualità di nuovo direttore del collegium musicum, Bach aveva ora la possibilità di capovolgere le cose. Ammesso che le lezioni private potessero essere scambiate con esecuzioni in chiesa o con un posto sul palco dei concerti nei caffè per gli esecutori piú ambiziosi, l’accordo avrebbe potuto funzionare, almeno di tanto in tanto, giacché la partecipazione degli studenti alle funzioni ecclesiastiche non avrebbe gravato sui fondi del consiglio cittadino. Ma il problema era piú radicato. Il punto di svolta per Bach nella sua disputa con il consiglio arrivò all’inizio del giugno 1729. Il 24 maggio giunse finalmente l’accordo sull’ammissione alla Thomasschule di ragazzi dell’Alumnat non musicale. In questo modo, Bach vide interrotta la fornitura di cantanti adeguati, e da quel momento in poi non avrebbe piú avuto maestranze vocali capaci di fare giustizia ai complessi cori d’apertura che erano stati la caratteristica piú brillante dei primi due cicli di cantate a Lipsia.
Fu allora che Bach concepí l’idea di una «cantata di protesta», un’opportunità per presentare pubblicamente e in maniera visibile il cambiamento dei fondamenti della musica ecclesiastica a Lipsia. Il lunedí di Pentecoste del 1729 alla Thomaskirche il nuovo capo del collegium musicum mise in mostra i suoi migliori strumentisti, dando loro un ruolo essenziale in una nuova cantata, la BWV 174, Ich liebe den Höchsten von ganzem Gemüte, che si apriva con una versione semiorchestrale e armonicamente estesa del suo terzo Concerto Brandeburghese. A giudicare dai materiali per l’esecuzione sopravvissuti, appare una decisione dell’ultimo minuto: per la nuova partitura dette istruzioni al suo copista di trasporre le linee originali del concerto per nove archi solisti (tre violini, tre viole e tre violoncelli), che ora componevano il gruppo del concertino contrapposto a un ensemble indipendente di ripieno tutto nuovo che comprendeva due ottoni, tre oboi e quattro parti di archi raddoppiati. Questi ultimi furono composti direttamente in partitura. Immediatamente, anche con un solo strumento per parte, integrati da un continuo composto da un violone, un fagotto e un clavicembalo, Bach poté impiegare un gruppo di venti musicisti, in grado di produrre un magnifico dispiegamento sonoro. Attraverso colori strumentali e ritmi ancor piú marcati che in precedenza, e con gli archi a brillare negli episodi solistici, fu in questo modo, festoso e dalle sonorità decisamente profane, che Bach aprí le celebrazioni della festività del lunedí di Pentecoste senza che nessuno cantasse. Il tutto (si suppone) sotto lo sguardo d’approvazione dell’uomo che finora si era dimostrato l’alleato principale di Bach, il borgomastro Gottfried Lange.
Pochi ascoltatori presenti, compreso Lange, ebbero dubbi sulla sua natura di affermazione polemica. Nella sua opulenza strumentale la sinfonia della cantata sminuisce tutti gli altri movimenti. Fu una provocazione diretta al consiglio, atta a dimostrare ciò che avrebbero potuto ottenere se solo avessero smesso di essere cosí avari nell’assegnazione dei fondi alle maestranze della Thomasschule, dando cosí lustro musicale alle celebrazioni ecclesiastiche. I restanti movimenti della cantata comprendono solo due arie separate da un recitativo, in cui Bach evidenzia la semplicità della scrittura vocale, con l’intenzione evidente di non sovraccaricare i solisti del Thomaner, e prosegue con un semplice corale a quattro voci, in netto contrasto con la scrittura virtuosistica e vivace per gli strumenti dell’obbligato suonati dagli studenti piú anziani del collegium. Era questo l’altro versante della protesta di Bach: in realtà, stava dicendo ai consiglieri che se l’approvvigionamento di ragazzi musicalmente dotati fosse stato tagliato, lo avrebbero lasciato senza alternativa e avrebbe diminuito i contributi vocali e corali alla musica sacra.
Se quello stesso autunno Lange, o qualsiasi altro suo collega del consiglio, fosse entrato nel caffè Zimmermann, vi avrebbero trovato esattamente gli stessi musicisti intenti a suonare la BWV 201, Geschwinde, geschwinde, ihr wirbelnden Winde, il nuovo dramma per musica profano di Bach, intitolato nella partitura autografa «La contesa tra Febo e Pan»: una breve parodia satirica dei critici pedanti e male informati, le cui affermazioni sono messe in ridicolo da un ragliare d’asino, discendente su un’ottava e mezza. Dal punto di vista di Bach, quindi, non c’erano ostacoli insormontabili per spostarsi tra i contesti d’esibizione o tra i generi, come ci confermano le formulazioni sulle prime pagine delle sue pubblicazioni. Approfondendo il celebre enunciato del teorico del XV secolo Johannes Tinctoris, Deum delectare, Dei laudes decorare («Compiacere Dio, tessere le lodi di Dio»), nel suo Orgel-Büchlein Bach aveva definito il fine della musica come «Solo per la gloria di Dio l’Altissimo, per il mio prossimo, perché sia da essa istruito»11. Sotto la sua elegante superficie, si rileva l’intento didattico sottinteso dalla raccolta, che evoca il doppio obiettivo della musica nella tradizione luterana: die Ehre Gottes und des Nechsten Erbauung12, per la gloria di Dio (la normale posizione ortodossa) e l’edificazione del prossimo (la tendenza favorita dai pietisti).
Una volta insediatosi a Lipsia, le sue idee iniziarono ad avvicinarsi alle formulazioni piú «illuminate» di musicisti come Friedrich Erhard Niedt13, che includevano il piacere estetico a fianco della devozione e dell’edificazione. Nella sua Generalbasslehre del 1738 vediamo Bach adottare una diversa e duplice concezione della musica: zur Ehre Gottes und zulässiger Ergötzung des Gemüths: «per l’onore di Dio e i piaceri concessi all’anima»14. Continua: «E dunque il fine ultimo e definitivo di tutta la musica … non è altro che la lode a Dio e la ricreazione dell’anima. Laddove non si consideri questo, non c’è vera musica, ma solo un abbaiare e un rumoreggiare diabolico»15. Dietro queste generalizzazioni si trova l’ipotesi, se non addirittura l’affermazione, che per la sua dedizione a «onorare Dio» la sua musica conducesse ai «piaceri concessi all’anima» i musicisti e gli ascoltatori; come se, indica Butt, «ci fosse una connessione automatica tra l’intenzione di una composizione sacra e l’effetto profano e mondano»16. Questo era uno dei modi con cui Bach affermava l’unità delle due nature, fisica e spirituale, a riprova della sua consapevolezza del cambiamento nel gusto del pubblico e di vivere in una cultura sempre piú pluralista e quindi molto diversa da quella della generazione dei suoi genitori.
Sarebbe fuorviante, dunque, concepire su questa base due stili interamente distinti e contrastanti di composizioni bachiane, come inteso dagli autori del Nekrolog: «È vero che la sua indole seria lo faceva inclinare preferibilmente verso la musica elaborata, seria e profonda [arbeitsamen, ernsthaften, und tiefsinnigen Musik], ma egli poteva anche all’occorrenza, soprattutto quando suonava, assumere toni leggeri e scherzosi»17. In realtà queste categorie erano tutt’altro che rigide, e allo stesso modo possiamo trovare «modi leggeri e giocosi» nelle cantate sacre di Bach, come musica «seria e profonda» nei suoi concerti strumentali. Tramite l’interesse per la musica di corte francese, suscitato a Lüneburg da Georg Böhm negli anni dell’adolescenza, Bach non fu né il primo né l’unico compositore a introdurre nelle cantate sacre forme derivate dalla danza, cosa che potrebbe aver provocato critiche anche in una città dove la moda francese per la danza era ben radicatae. Con buone probabilità i concerti del collegium nel caffè Zimmermann a volte diventavano un ballo, proprio come accadeva alla concorrente taverna Schellhafer, gestita da Johann Gottlieb Görner18. Né Bach fu avverso a cambiare stile e comporre di tanto in tanto nel nuovo stile galante, anche se una delle sue caratteristiche, cioè mantenere lo stesso tono per tutta la durata del brano, in qualche modo mal si conciliava con la sua istintiva inclinazione all’unità nella diversità. Era ugualmente a suo agio nel creare sia «una musica solenne, con trombe e timpani, nei giardini di Zimmermann» per celebrare l’ascesa al trono dell’Elettore il 5 ottobre 1734, sia per le fiaccolate che terminavano in affollate celebrazioni nella piazza cittadina19 (vedi l’illustrazione nella pagina a destra).
Forse gli autori del Nekrolog stavano inavvertitamente accennando a una vena radicale o sovversiva di Bach, il suo rifiuto di essere costretto dalla convenzione verso l’Affekt piú appropriato a ogni genere, cosa per cui entrambi i suoi figli maggiori furono apprezzati in seguito. È proprio questo a farci rimanere di stucco di fronte a movimenti lenti di straordinaria gravità, come quelli dei Concerti Brandeburghesi o, all’estremo apposto, alla leggerezza quasi da salotto di una cantata sacra come la BWV 181, Leichtgesinnte Flattergeister, come abbiamo visto nel capitolo VII. Se questo delizioso voler disorientare l’ascoltatore, questo saltare dal profano al sacro, può essere una caratteristica della cultura barocca in generale e una prassi comune in città mercantili e universitarie come Lipsia, finisce per essere uno dei tratti distintivi delle composizioni di Bach. Eppure, per ognuno dei suoi ascoltatori in disaccordo con l’inappropriata teatralità della sua musica, dovevano essercene altri che, sorseggiando il proprio caffè, sollevavano lo sguardo dai tavolini da gioco e si lamentavano della superflua serietà di certa sua musica strumentale. Magari erano addirittura d’accordo con il conte Pococurante del Candide (1759) di Voltaire, secondo cui: «Questo rumore può divertire per mezz’ora, ma se dura di piú stanca tutti, sebbene nessuno osi confessarlo. Oggi la musica si è ridotta all’arte di eseguire cose difficili, e ciò che è solo difficile alla lunga dispiace».
La fondazione dei concerti municipali a Lipsia si può far risalire agli anni Cinquanta del Seicento, quando un gruppo informale di musicisti, prevalentemente studenti universitari, iniziò a incontrarsi regolarmente in casa del consigliere Sigismund Finckthaus sotto la direzione musicale dell’esuberante Johann Rosenmüller. Questi collegia di studenti ebbero un’esistenza episodica, a seconda dell’iniziativa e dell’attrattiva dei successivi luminari musicali, come il direttore dello Stadtpfeifer, Johann Christoph Pezel, o di Thomaskantor come Sebastian Knüpfer e Johann Kuhnau. Kuhnau si vantava delle opportunità che il suo ensemble dava ai giovani studiosi «di raffinare ulteriormente l’eccellenza della propria arte, e in parte, anche, di imparare da piacevoli armonie come andare d’accordo armoniosamente, anche se, – aggiungeva piuttosto acidamente, – in altre occasioni queste stesse persone sono prevalentemente in disaccordo l’una con l’altra»20.
Ma fu nel 1701 con l’arrivo di Telemann come studente di legge che le cose presero davvero il via. Prima di allora, la musica era un’attività da tempo libero degli studenti che vi erano portati; sotto l’egida di Telemann il collegium musicum divenne una stella nel firmamento musicale cittadino. Ben presto reindirizzato verso l’esibizione pubblica in tre contesti separati, il caffè di Johann Lehmann (la Schlaffs Haus nella piazza del mercato), la Neukirche (che all’epoca era anche la chiesa dell’università) e il Teatro dell’opera di Lipsia, l’ensemble aveva adesso tanto successo da darsi un ordinamento professionale, e a pagamento. Finché il Teatro dell’opera era attivo, gli studenti desiderosi di integrazioni economiche e di acquisire esperienza e contatti potevano partecipare in un modo o nell’altro a tutti i principali avvenimenti musicali cittadinif. Queste molteplici attività musicali, collegate tra loro dal contesto e dal personale, erano caratterizzate dall’usanza di ripassare nel caffè di Lehmann una selezione di arie che sarebbero state eseguite quella stessa sera sul palco dell’Opera, cosa che permetteva al compositore di farsi pubblicità in anticipo, e di trarre ulteriori profitti all’Hofchocolatier Lehmann, che oltre a gestire la caffetteria nel centro cittadino possedeva la licenza per servire bevande e stuzzichini a teatro21.
La collaborazione di Bach con i collegia musica potrebbe aver avuto inizio già durante la sua prima visita a Lipsia nel 1717, quando era ancora impiegato alla corte di Cöthen. Certamente si rinsaldò all’inizio del suo mandato a Lipsia, prima come direttore esternog, e poi dal 1729 come direttore del piú grande dei due collegia. C’era, tuttavia, una sottile differenza nella presentazione dei due gruppi. Mentre il collegium universitario di Johann Gottlieb Görner era destinato a formare futuri cantori e organisti («ein exercitium vor die Studiosos»), Bach considerava il suo come un ensemble d’élite di virtuosi che suonavano per divertire e deliziare il pubblico22. Bach ne rimase a capo per i successivi otto anni (1729-37); poi, dopo un’interruzione di due anni (durante la quale fece il direttore ospite) ne riprese il controllo almeno fino al 1741h. Sotto la sua guida l’ensemble suonava una volta a settimana per due ore: in estate dalle quattro alle sei del mercoledí pomeriggio nel caffè-giardino di Gottfried Zimmermann sulla Grimmischer Steiweg, fuori dalla porta orientale della città; in inverno dalle otto alle dieci del venerdí sera nel caffè Zimmermann del centro cittadino (al 14 della Catharinenstrasse, vedi fig. precedente)23. Queste esibizioni settimanali raddoppiavano durante le tre fiere annuali, quando il gruppo si esibiva due volte a settimana dalle otto alle dieci del martedí e del venerdí sera (ogni fiera durava tre settimane). Durante questi eventi, o ordinaire concerten, come erano chiamati al tempo, che furono i precursori dei concerti pubblici del tardo Settecento, il pubblico poteva ascoltare le ultime novità della musica strumentale galante per ensemble oltre a concerti per uno o piú clavicembali suonati da Bach e dai suoi figli, e, piú raramente, cantate profane italiane e arie d’opera eseguite da musicisti itineranti. Gli amanti dell’opera, ancora cocentemente delusi dalla chiusura del Teatro dell’opera nel 1720, dovevano affrontare un’intera giornata di viaggio fino a Dresda per soddisfare la propria dipendenza.
DIGRESSIONE: Il protocollo e le regole del collegium musicum di Lipsia non sono sopravvissuti. Ciò che abbiamo di piú vicino è un riepilogo delle regole di un altro collegium fondato a Greiz nel 1746 da Johann Gottfried Donati, originario di Lipsia. I membri erano solitamente musicisti professionisti o preprofessionisti, organisti e musicisti di corte, lacchè e due allievi o apprendisti.
1. Le prove si tengono dalle 3 alle 5 del mercoledí pomeriggio (dalle 2 alle 4 in inverno). Devono essere suonate e provate almeno cinque opere fino a che non siano piú commessi errori, iniziando con un’ouverture e finendo con una sinfonia.
2. È prevista una multa di un groschen per ogni quindici minuti di ritardo dei membri.
3. Ognuno deve suonare il proprio strumento assegnato, tranne se altrimenti indicato.
4. Se i membri non stanno suonando il brano assegnato devono rimanere in silenzio, in caso contrario è prevista una multa di un groschen.
5. È prevista una multa di cinque groschen in caso di assenza, a meno che questa non sia a causa di una convocazione per suonare a corte o per malattia.
6. I propri strumenti vanno mantenuti in buone condizioni, in caso contrario è prevista una multa di un groschen.
7. Litigare o discutere sono multati con due groschen.
8. Accordarsi accuratamente al clavicembalo.
9. La deplorevole abitudine di pasticciare [fantasieren] con il proprio strumento tra un brano e l’altro, particolarmente durante i recitativi di musica sacra, è pessima, crea Mischmasch negli orecchi degli ascoltatori, causando un grande disturbo alla loro comprensione della musica, come se avessero mal di testa o fitte al fianco.
10. Prestare grande attenzione ai tanto apprezzati piano e forte. Suonare solo le note scritte dal compositore e senza strani arpeggi tra di loro.
11. Se non si impara la parte e si crea confusione si viene puniti con una multa di quattro groschen la prima volta e di otto la seconda. Dopodiché è prevista l’espulsione.
12. È vietato bere e fumare al di fuori dei momenti autorizzati, o si viene multati di un groschen.
13. È permesso a ogni persona onesta di seguire il concerto, dietro pagamento di due groschen.
14. Le multe e gli altri compensi devono essere versati nell’urna degli oboli.
15. Per celebrare la fondazione del collegium musicum si terrà un banchetto ogni anno.
16. Di tanto in tanto il collegium musicum acquista nuovi strumenti. I membri non devono darli in prestito.
17. Tutti i membri sono obbligati a seguire le funzioni della Messa. L’obiettivo principale dell’ensemble è servire i propri maestri e il prossimo24.
È stato stimato che ogni anno per un periodo di almeno dieci Bach fu responsabile di sessantuno concerti profani del collegium della durata di due ore, il che ammonta a piú di milleduecento ore di musica, in confronto alle ottocento che risultano dalla produzione delle cantate sacre della durata di circa mezz’ora, composte nel corso dei ventisette anni trascorsi come Thomaskantor25. Naturalmente queste cifre sono approssimative, e, poiché non abbiamo né programmi dettagliati dei concerti né informazioni attendibili sul contributo compositivo di Bach, non riflettono necessariamente una distribuzione disuguale della sua produzione nelle due categorie. Tuttavia sollevano la questione della scala di priorità in cui Bach collocava le sue diverse attività, e cioè come compositore, esecutore e organizzatore di concerti. È possibile che desse piú importanza di quanto si sia creduto al prestigio di condurre il collegium musicum, all’autonomia d’azione che ciò gli permetteva e al contatto che de facto veniva a formarsi con la corte di Dresda. Se non altro, queste statistiche correggono in modo inatteso l’idea distorta delle attività e della produzione di Bach fornitaci dai biografi del XIX secolo, che posero grandissima enfasi sulla sua musica sacra, relegando ai margini quella profana.
Il primo caffè di Lipsia aprí nel 1694 nella Schlaffs Haus, una proprietà vicina alla residenza temporanea dell’Elettore nella Marktplatz, sebbene alcuni sostengano sia stato preceduto per soli nove anni da un’azienda concorrente nota come Zum Kaffeebaum, ancora oggi aperta al pubblico. Sull’ingresso della Zum Kaffeebaum un putto scolpito porge una tazza di caffè a una figura languida, che fino alla cintola è un galante abitante del borgo di Lipsia, e al di sotto una sorta di turco. All’interno, per un periodo si trovava il dipinto di una «figura orientale dotata di tutti gli accessori immaginabili … che si dice fosse stata donata da Augusto II il Forte, il quale nel 1694 ne aveva apprezzato il caffè (o, secondo altri, l’ostessa)»26. Questi decori esotici e la reputazione afrodisiaca della bevanda nera fecero sí che da quel momento il consumo cittadino di caffè aumentasse drasticamente, cosa che spiega come mai molte taverne furono convertite in caffè. Identificati come i primi luoghi di «insediamento» delle prostitute, specialmente durante il periodo delle fiere, il consiglio cittadino emise due volte (nel 1697 e nel 1704) un’ordinanza che proibiva a tutte le donne l’accesso a quei locali, sia per lavorarvi sia per consumare caffè. Naturalmente sortirono ben poco effetto, dato che un lessico del tempo fa menzione di «sgualdrine da caffè» (Caffe-Menscher) tra la clientela tradizionale: «donne di moralità dubbia e dissolute che servono gli uomini nelle caffetterie e rendono loro tutti i servizi che desiderano»27. Non c’è dubbio che fosse questo il tipo di cose a cui pensava Julius Bernhard von Rohr quando consigliava ai suoi giovani cavalieri di stare in guardia e di frequentare nelle grandi città solo caffè che godessero di «buona Reputation»28.
Nonostante le richieste di una regolamentazione rigida, con perfino un bando dell’Elettore che impediva nuove aperture, nel 1725 avevano aperto le porte altri sette caffè29. Il frontespizio di un trattato di Daniel Duncan, Sul cattivo uso di cibi e bevande caldi e ardenti (1707), popolare a livello locale, mostra che le donne dell’alta società, in una ribelle forma di solidarietà, formarono «circoli del caffè» domestici per poter godere senza impedimenti della bevanda30. Duncan spiega inoltre che poiché tali donne «non hanno molto da fare, [il caffè] prende il posto di un’attività, e le donne annegano le proprie preoccupazioni nel caffè cosí come noi anneghiamo le nostre nel vino»31. Per far sí che tutti recepissero il messaggio, Duncan fa dire alle sue donne: «Sauffen wir uns gleich zu Tode, | so geschiehts doch nach der Mode» («Anche se bere ci porterà alla tomba, | rimane il comportamento piú alla moda). Nel suo Universal-Lexicon, Zedler affermò che il caffè rendeva la mente piú sottile, incrementava (temporaneamente) il vigore e poteva «scacciare … la nebbia [dalla testa]». Eppure anch’egli indica i possibili pericoli: può sovreccitare i sensi, indebolire il corpo e conferire un aspetto itterico. Portato all’eccesso, provoca l’impotenza negli uomini, aborti spontanei nelle donne e una diminuzione della reciproca attrazione sessuale. A Londra, i danni causati da un eccessivo consumo di dolci e birra erano stati sbandierati dai puritani fanatici e intolleranti del periodo di Shakespeare; allo stesso modo nella Lipsia di Bach i predicatori pietisti consideravano l’abuso di caffè riprovevole proprio come il «cattivo uso della musica» in chiesa. I vizi gemelli del caffè e della musica sacra fecero fare un passo indietro ai pietisti di fronte all’eccessiva indulgenza prevalente nella cultura profana (vedi supra, cap. II).
La passione per il caffè degli abitanti di Lipsia, che ormai era vecchia almeno quanto Bach e minacciava di diventare una delle manie piú chiacchierate della sua alta società, era un tema maturo per un trattamento satirico. La cosiddetta Cantata del Caffè di Bach (BWV 211) risale al 1734, proprio pochi mesi dopo che un professore universitario di botanica aveva presentato con successo una dissertazione sui pericoli dell’eccessivo consumo di caffè. Come librettista, Bach scelse Picander, che gli aveva fornito il testo della Passione secondo Matteo (vedi cap. XI) e innumerevoli cantate sacre; aveva a portata di mano un testo già pronto e adattato in musica da almeno altri due compositori. Una delle commedie in prosa di Picander, Die Weiber-probe, pubblicata nel 1725 e «concepita per sollevare e intrattenere lo spirito», ci presenta due donne: Frau Nillhorn («la signora Ippopotamo») dichiara che preferirebbe tagliarsi un dito piuttosto che non bere caffè, Frau Ohnesafft («la signora Prugna Avvizzita») ammonisce: «Se dovessi passare un giorno senza caffè, entro sera avreste un cadavere tra le mani»32. Sono i modelli della giovane Liesgen (o forse le sue zie), che nella Cantata del Caffè è intenta a sventare le vane minacce del padre, il decrepito brontolone Schlendrian (letteralmente «Pigrone»). Per Bach era il pezzo ideale da eseguire con il suo collegium musicum nel consueto contesto concertistico, mentre per Herr Zimmermann era ovviamente un’eccellente pubblicità. Nessun bisogno di divinità vestite da sovrani barocchi, o di sagome di cartone di pastorelli e pastorelle; Bach prese tutto il materiale che gli serviva dai peccatucci e dalle irritazioni quotidiane delle persone intorno a lui. In primo luogo, occorreva fare in modo che il pubblico prestasse attenzione: non tramite un’ouverture, ma con un appello diretto in recitativo: «Tacete, non chiacchierate, e udite quel che accade ora». Da genitore esasperato sapeva bene cosa significasse la vessazione di vivere (e dover comporre) in una casa piena di bambini piagnucolosi, con un dormitorio di ragazzi scalmanati al piano di sopra o nella stanza accanto: le vorticose serie di semicrome che introducono il brontolio da orso di Schlendrian sembrano essere quasi i germi delle sue stesse idee musicali, costrette dalla routine e impazienti di liberarsi. Perfino le cadenze su Hudelei, una parola onomatopeica che combina «seccatura» e «lavoro malfatto» (o, in gergo, «masturbazione»), filano via in direzioni casuali.
Da parte di un compositore abituato a inserire nelle proprie cantate sacre riferimenti caustici e allusioni satiriche ai suoi tormentatori in tonaca, si trattava di un ritratto particolarmente bonario. L’altra aria del padre, «Mädchen, die von harten Sinnen» («Le ragazze dalla testa dura non sono facili da piegare»), dimostra che Bach sapeva unificare i due mondi della chiesa e del caffè: la spigolosa linea del basso ostinato, con le sue contorte evoluzioni, è notevolmente simile a quella che aveva composto nella BWV 3 iii, che raffigura «l’angoscia e il tormento dell’inferno». Prende una sfumatura comica a causa delle sue allusioni al sesso, che per una ragazza è una tentazione ben piú forte del caffè. Ma poi, la musica graziosa e disarmante che assegna a Liesgen ci dice che Bach sta dalla sua parte. Nella prima delle due arie architetta un’ambivalenza tra accenti verbali e il ritmo che oscilla fra e , come se lei e il flauto che la accompagna bramassero con la testa tra le nuvole (come Jonathan Swift e la sua Vanessa), qualcosa che è piú dolce di un semplice caffè. Sembra che in qualche modo Bach faccia riferimento al ricco sottotesto e ai molteplici doppi sensi della cantata matrimoniale di suo cugino Johann Christoph, Meine Freundin du bist schön, di cui abbiamo parlato nel capitolo III.
Quando il padre Schlendrian costringe finalmente sua figlia a rinunciare alla sua dipendenza minacciandola di impedirle di sposarsi, ci si aspetterebbe che la cantata sia terminata. Infatti è qui che finisce il testo pubblicato da Picander (1732), nulla che non esprima la tipica visione che gli uomini avevano delle donne dell’epoca. Ma non è questo che Bach aveva in mente. Inizia a comporre la nona strofa su due in-folio separati, come se intendesse orientarla in un’altra direzione molto piú interessante: al posto di una banale tregua tra padre e figlia nel duetto finale, troviamo invece il ritorno del narratore, un’invenzione di Bach, non di Picander. È possibile che Bach avesse inizialmente pianificato di adattare solo il dialogo tra Liesgen e Schlendrian scritto da Picander, e abbia deciso in seguito che era necessario un recitativo d’apertura per descrivere la scena e far stare zitti i bevitori di caffè. Ma da quel punto in poi, aveva tutti gli elementi per comporre un recitativo finale e un tutti per le tre voci per annunciare al pubblico che, mentre il vecchio Schlendrian è alla ricerca di un genero accettabile, Liesgen mette una voce in giro per la città: pretende un «accordo prematrimoniale» che le garantisca il diritto di bere caffè ogni volta che lo desidera. La satira originale è cosí capovolta. La decima stanza porta una sorta di conciliazione, un compromesso tra una soluzione convenzionale e una piú radicale per questa commedia domestica. In coro, tutte e tre le voci (padre, figlia e narratore) concordano: «Il gatto non smette di cacciare topi, le fanciulle rimangono incollate al caffè». Ricordano inoltre che sia sua madre che sua nonna erano appassionate di caffè, quindi perché preoccuparsi di lei? Risuona il proverbio dell’epoca: «Un buon caffè dev’essere caldo come i baci di una ragazza il primo giorno, dolce come il suo amore il terzo, e nero come le maledizioni di sua madre quando la scopre»i.
Facendo per un momento un passo indietro, possiamo iniziare a stabilire quale autorità veniva accordata al Bach esecutore-compositore sulla base della posizione in cui lui e i suoi esecutori venivano a trovarsi fisicamente nei diversi momenti della sua carriera. In che modo il suo vasto repertorio lo presentava ai suoi ascoltatori (organista, clavicembalista, direttore d’orchestra)? Per tutta la sua carriera i luoghi dove si svolgeva la sua attività musicale liturgica e pubblica furono molto vari. Un conto, per lui, era suonare il clavicembalo e dirigere colleghi selezionati personalmente nell’ambientazione profana del salotto della Spiegelsaal alla corte di Cöthen, un conto, ben diverso, era suonare in un contesto ecclesiastico, come organista o Cantor. Il grado di visibilità aveva una conseguenza considerevole sul modo in cui veniva accolta la sua musica. La struttura delle chiese era varia: dalla Neukirche di Arnstadt, simile a un granaio, dove come organista si trovava in piena vista e con l’intera chiesa affollata a osservarlo, fino all’angusta galleria nella cappella privata dei duchi di Weimar, ricavata nel soffitto dove, con il suo piccolo ensemble, era invisibile al Duca e ai suoi invitati. Ciò creava una prospettiva sonora verticale in cui la musica discendeva come dalle sfere celesti, metafora dell’imperscrutabile perfezione della musica ispirata da Dio e insieme spiegazione del nome stesso della cappella (fig. 8): Weg zur Himmelsburg («il cammino per il castello del cielo»)j.
All’estremo opposto, nell’osservare da vicino Bach suonare nella tribuna dell’organo, il dodicenne Langravio di Kassel fu talmente folgorato dal modo miracoloso con cui «correva sulla pedaliera … come se i suoi piedi fossero alati, facendo risuonare l’organo con tale pienezza, e penetrando come un tuono le orecchie dei presenti … che si tolse dal dito un anello con una pietra preziosa e lo dette a Bach appena il suono fu svanito»33. La reazione pubblica alla tecnica organistica di Bach fu sempre cosí entusiastica in città come Dresda, Amburgo, Halle e Potsdam e in tutti i momenti della sua carriera. In Bach’s Feet, David Yearsley sostiene che Bach fosse del tutto consapevole del potente spettacolo visivo offerto dalla sua incredibile maestria come organista, e dell’impatto che la sua tecnica esecutiva aveva sugli astanti: il meraviglioso macchinario lassú in alto, e lui intento a eseguire manovre di diabolica difficoltà e complessità: «La sensazione di potenza al di là della capacità umana, che tutti gli organisti provano nel controllare queste gigantesche strutture, è magnificata dall’impressione visiva di queste immagini rubate, con il collo torto: suonare con i piedi e con le mani era spesso un’attività aerobica che richiedeva di allungarsi, ruotare e rimanere in equilibrio … un atto fisico senza pari nell’attività musicale»34. Difatti, divenne materia di leggenda. Ernst Ludwig Gerber, il cui padre aveva studiato a Lipsia con Bach, si meravigliava della sua tecnica sovrumana:
Sulla pedaliera i piedi dovevano imitare con perfetta accuratezza ogni tema, ogni passaggio suonato dalle sue mani. Nessun’appoggiatura, nessun mordente, nessun breve trillo veniva sacrificato, o arrivava all’orecchio in modo meno pulito e rotondo. Eseguiva lunghi doppi trilli con entrambi i piedi, mentre le sue mani erano tutt’altro che immobili35.
Gli appassionati di musica non riuscirono a vedere niente di tutto questo a Lipsia, dove Bach spese gli ultimi ventisette anni della sua vita e dove questa autorità potrebbe avergli dato coraggio nel periodo della disputa contro i suoi datori di lavoro. Forse fu la sua reputazione come virtuoso dell’organo a qualificarlo per il ruolo da Cantor, ma non era suo il compito di suonare e impressionare con l’organo in chiesa. Lipsia aveva raramente sentito Bach, il massimo organista dell’epoca, e raramente l’aveva visto dominare la «tecnologia musicale piú sensibile, onnicomprensiva, potente e avanzata … [il modo in cui] riusciva a impressionare a distanza gli ascoltatori sia con la sua esecuzione fantasiosa che con la sua brillantezza polifonica»36. Dirigere un coro e un’orchestra dalle gallerie occidentali delle due chiese principali di Lipsia, lontano dal campo visivo di tre quarti della congregazione, a meno che non torcessero il collo, era una faccenda piuttosto diversa. Il Bach direttore poteva esercitare la sua autorità in modo completo e iperattivo sui musicisti, come testimonia il preside Gesner nel capitolo precedente cosí come altri cittadini benestanti e membri del consiglio con le loro panche riservate e le tribune vicine alla galleria del coro; ma non sorprende che in termini di percezione pubblica Bach godette di meno autorità (e molto meno fascino) nel suo ruolo di maestro del coro e direttore che come virtuoso dell’organo.
Ai tempi di Bach, la chiesa era ancora il punto focale della società di Lipsia. Per i suoi cittadini era un luogo d’incontro: con Dio, ma anche con i vicini, settimana dopo settimana. I tre decenni dopo la guerra dei Trent’anni avevano visto un drastico aumento dell’affluenza. Le due chiese principali di Lipsia, la Thomaskirche e la Nikolaikirche, di domenica erano sempre affollatissime, e nel 1694 il consiglio cittadino ne autorizzò il rinnovamento, che versavano in condizioni cadenti. Nel 1699 la sconsacrata Barfüsserkirche francescana fu riaperta alla liturgia luterana come Neukirche, e presto divenne centro della musica sacra d’avanguardia, seguita dopo dieci anni dalla ristrutturata Paulinerkirche. La Georgenkirche fu costruita intorno allo stesso periodo, e infine la quattrocentesca Petrikirche fu ingrandita nel 1712. Finalmente Lipsia, come riporta un’ordinanza ecclesiastica, era diventata una «città di chiese»37, dove si svolgevano ventidue funzioni luterane con sermoni da cui scegliere ogni settimana, nuove funzioni di comunione a metà settimana e ancora piú funzioni di preghiera. Ogni domenica l’insegnamento dottrinale arrivava da «sei pulpiti in sei diverse case di Dio»38, con grande varietà di offerta nelle due chiese maggiori e in quelle piú piccole e periferiche; la chiesa dell’università occupava un’ulteriore nicchia e forniva servizi rivolti ai diversi settori della società39. Vi erano conflitti di potere permanenti tra il concistoro e il consiglio municipale praticamente su qualsiasi argomento: dispute sui principali lavori di costruzione, sulla forma precisa e il contenuto delle diverse liturgie, sulla natura della congregazione a cui avrebbero dovuto rivolgersi, fino alla scelta degli inni, e alla gestione delle sessioni di catechismo. A questa situazione già complicata, gli interventi periodici da parte delle autorità dell’elettore di Dresda aggiungevano un ulteriore livello di conflitto, segno che le categorie secolari di status, sesso e proprietà avevano già invaso il campo religioso.
La funzione principale, o Hauptgottesdienst, si alternava di domenica in domenica tra la Thomaskirche (la chiesa preferita dal partito legato alla corte) e la Nikolaikirche (preferita dal partito cittadino) e costituiva il principale evento religioso e sociale della settimana: iniziava alle sette del mattino e durava fino a quattro ore. Circa 9000 persone appartenenti alla comunità urbana (su una popolazione totale di circa 30 000 persone) che si riuniscono in occasione della Hauptgottesdienst domenicale in una delle due principali chiese della città, e una volta riempitesi queste, si riversano sulle chiese minori, o si trovano costretti a seguire le funzioni successive, sono un fenomeno che riesce a impressionarci anche oggi. Per tutto l’anno (tranne durante la Quaresima e l’Avvento) questo era il pubblico piú ampio che Bach avrebbe mai avuto: fino a 2500 fedeli su panche e su sedili aggiuntivi, altre 500 persone in piedi nello spazio rimanente, e le «donne del popolo» sedute sulle scale che portavano alle balconate e alle galleriek. Eppure quante persone erano veramente presenti in chiesa nel momento in cui cominciava l’esecuzione della cantata? Come vedremo, era proprio questo il momento che molti fedeli sceglievano per il proprio teatrale ingresso.
Le due chiese principali di Lipsia erano suddivise, come i teatri dell’opera, secondo il rango sociale. I posti piú prestigiosi (Stühle o Stände individuali, dotati di chiavi e lucchetti) erano disposti in blocchi rettangolari, al contrario delle normali panche (Bänke). Fino agli anni Sessanta del Settecento i sedili di una famiglia erano lasciati alle generazioni successive secondo le leggi ereditarie (proprio come avviene oggi nei maggiori teatri dell’opera italiani, alla Royal Albert Hall di Londra e a Wimbledon), e potevano essere affittati o venduti per somme considerevoli. C’era una separazione per classe, professione e sesso, con le donne al piano terra (i posti piú ambiti erano quelli vicini al pulpito del predicatore), e gli uomini prevalentemente in balconata, l’esatto contrario rispetto alle sinagoghe. In questo modo i cittadini piú in vista e le famiglie della buona società erano sparsi in tutta la chiesa, mentre per il volgo c’era solo posto in piedi sul fondo.
Sebbene tecnicamente di proprietà della chiesa, le panche erano considerate uno status symbol, il prerequisito per «possedere» una panca era il possesso di una casa, ed esistevano elaborati regolamenti sul passaggio di un titolo da un detentore all’altro. Dagli anni Sessanta le aree tradizionalmente riservate alle classi senza proprietà furono gradualmente occupate dai consiglieri municipali, da poco diventati potenti, che raggrupparono gruppi di panche già esistenti e costruirono le proprie cappelle private, spesso dotate di ingressi separati, in modo che potessero sedersi insieme alle loro famiglie senza dover interagire con i normali parrocchiani, in violazione all’ingiunzione luterana di adorare Dio in compagnia del prossimo. Lungi dall’essere un’unica assemblea di fedeli, un sacerdozio di tutti i credenti in cui ognuno è spiritualmente uguale davanti a Dio, l’allestimento delle due chiese principali e la stratificazione nella disposizione dei sedili agiva in diretto contrasto con la nozione di una congregazione luterana unitaria, tenuta insieme dall’unico proposito del culto comunitario. In ognuna delle chiese principali furono costruite piú di trenta cappelle, alcune arredate con biblioteche private e stufe, quasi come seconde case per i membri dell’élite cittadina. Adam Bernd descrisse il modo in cui i cittadini piú importanti riuscivano a disturbare un sermone parlando a voce alta o anche ridendo forte dalle proprie cappelle appartate. Presumibilmente era cosí anche durante l’esecuzione della cantata. Nel Die vernünfftigen Tadlerinnen («La pettegola ragionevole») di Gottsched (1725) un personaggio femminile fa un commento maligno ai danni di un altro: «Mi chiedo se si azzarderebbe addirittura ad andarci, in chiesa, se non avesse la possibilità di proteggersi dagli odori volgari della gente comune chiudendo le finestre della propria cappella»40.
La funzione principale della domenica era organizzata in modo da coinvolgere il pubblico in tutti i momenti tradizionali, come l’andare verso l’altare durante la Comunione, il segnale di alzarsi in piedi al canto degli inni e il passaggio del sacchetto per gli oboli: i campanellini con cui era decorato erano un metodo suggestivo e probabilmente efficace per far uscire le monete dalle tasche e dalle borse. Pare che il canto collettivo degli inni variasse da «sublime» (Ulm nel 1629) a «davvero riprovevole» (Bautzen nel 1637). Nel 1703, secondo una fonte contemporanea, «spesso regna il disordine: alcuni cantano velocemente, altri lentamente; alcuni tendono verso l’acuto, altri verso il grave. Alcuni cantano alla seconda, altri alla quarta, questi alla quinta, quelli all’ottava, ognuno come piú gli aggrada. Non c’è ordine, né ritmo, armonia, grazia, ma per la gran parte pura confusione»41. Nel momento in cui a Lipsia furono al timone prima Kuhnau e poi Bach, i parametri forse erano ben piú alti della media, ma non si può esserne certi. Che ne era stato del vecchio credo pietista, secondo cui una musica figurata troppo elaborata escludeva i credenti, li rendeva passivi e li distraeva, laddove il canto comunitario li rendeva partecipanti attivi e di conseguenza piú devoti? Alcuni ricorsero a sant’Agostino: «Quando mi capita di sentirmi mosso piú dal canto che dalle parole cantate, confesso di commettere un peccato da espiare, e allora preferirei non udir cantare»42. I moderni sostenitori della musica figurata non potevano negare del tutto questa affermazione: il suo proposito, affermavano, era «istruire il pubblico in modo raffinato e gradevole» (Bokemeyer), «edificare il pubblico» (Scheibe) e suscitarne le emozioni (Mattheson). Nel 1721 Gottfried Ephraim Scheibel riassunse in modo conciso il tema dell’unità stilistica: «La musica che allieta il pubblico all’opera può farlo anche in chiesa, ha soltanto un oggetto diverso»43: un’idea tutt’altro che condivisa. La grande maggioranza doveva essere persuasa ad andare in chiesa, e qui, insisteva Scheibe, c’era una spinta efficace. Ulteriori obiezioni, non necessariamente da parte dei pietisti, alla penetrazione in chiesa di stili musicali legati all’intrattenimento popolare si ripetono per tutti gli anni Venti del Settecento. Il Cantor Martin Heinrich Fuhrmann, di stanza a Berlino, tuonava contro i compositori che «mettono nella musica sacra il “formaggio molle” [sciocchezze, in altre parole] dell’opera italiana». Egli paragonava i brani composti in quel modo ad «arrosti di maiale e vitello» e «spirituali cervellate all’italiana» fatte con carne di asino o di mulo marcia, veleno per la chiesa protestante tedesca44.
Ancora piú problematica era l’abitudine diffusa tra i fedeli di arrivare tardi e andarsene presto. Le chiese di Lipsia erano «piuttosto vuote» all’inizio delle funzioni, come scrisse Johann Friedrich Leibniz nel 1694 e, secondo Christian Gerber, in tutta la Sassonia era ancora cosí dopo quasi quarant’anni. Per contrastare questa tendenza, furono emesse delle ordinanze ecclesiali: si nominarono degli uscieri per impedire che la gente corresse fuori «come bestiame» dopo il sermone, e i predicatori ricevettero istruzione di ammonire coloro che non entravano in chiesa in tempo per i canti, intrattenendosi all’esterno fino a che non veniva dato il segnale che il predicatore stava per salire sul pulpito. Sembra che i membri piú chic dell’élite municipale di Lipsia, specialmente le donne, si vantassero di arrivare anche un’ora dopo l’inizio. Secondo Gerber, questo accadeva perché erano troppo pigre e non si alzavano dal letto in tempo e, a differenza della «gente comune» che prima di andare in chiesa svolgeva il proprio lavoro, queste donne impiegavano troppo tempo a vestirsi, acconciarsi e bere caffèl45. Questo ingresso plateale appena in tempo per l’omelia e sotto lo sguardo attento degli uomini in galleria portava a elaborati rituali di saluto: levarsi il cappello, inchinarsi, stringere la mano e cosí via. Il fracasso provocato da tutto ciò coincideva esattamente con l’esecuzione della Predigtmusik, la cantata domenicale composta appositamente da Bach.
Gottsched fa una satira su una giovane donna che fiuta tabacco e ne offre ai suoi ammiratori dalla sua panca46; mentre von Rohr sgrida i piú giovani per come mettono in mostra le proprie cattive maniere: arrivano tardi, chiacchierano, dormono, disturbano i vicini lamentandosi e sospirando durante le preghiere, leggendo lettere o giornali, comportamenti che essi stessi disprezzano all’opera47. I congreganti avevano il vizio di parlare sulla musica, ma a prendersi gran parte dei rimproveri ogni domenica era la maggioranza della popolazione fatta da soldati e lavoratori, in piedi sul fondo della chiesa (in quanto «gente di passaggio» gli era proibito per legge affittare panche). Ci sono analogie visive nei quadri di artisti olandesi come Emanuel de Witte e Hendrick Van Vliet, che ritrassero cani intenti a urinare nella candida Oude Kerk di Delft. In questo contesto di sguardi insistenti e commenti continui, lanci di pallottole di carta e di altri oggetti dalla galleria sulle donne sedute in basso, sguardi lascivi verso donne in età da marito e addirittura cani che si rincorrono, si potrebbe pensare che la musica avesse pochissime possibilità di essere ascoltatam.
Delle tante tecniche che Bach sviluppò nelle sue cantate sacre per catturare l’attenzione degli ascoltatori distratti da un contesto come questo, si distinguono due esempi. La domenica 15 ottobre 1724 segnò la prima uscita della BWV 5, Wo soll ich fliehen hin? Una robusta aria per basso, con un obbligato di tromba terribilmente impegnativo opposto al resto dell’orchestra, descrive i metodi per respingere l’«esercito infernale» (Höllenheer). Bach deve aver pensato che questa affermazione di liberazione e trionfo, con le sue ripetute ammonizioni Verstumme! Verstumme! («Fa’ silenzio!»), sarebbe bastata a fermare i ritardatari impegnati nella loro entrata plateale o nei rituali di saluto con i vicini. Sei mesi dopo mise una sfumatura piú sottile nella coda dell’elaborata fuga a doppio coro che conclude la cantata BWV 68, Also hat Gott die Welt geliebt per il lunedí di Pentecoste. Nel seguire la netta divisione del mondo che fa san Giovanni tra credenti e scettici, la soluzione contrappuntistica di Bach è carica di energia contenuta e di inventiva. Verso la conclusione assegna improvvisamente il primo soggetto musicale a un nuovo testo accusatorio: «perché egli non crede nel nome dell’unigenito Figlio di Dio», cantato una volta forte, una volta dolcemente. Questa conclusione improvvisa sembra calcolata per dare un brusco strattone ai membri della congregazione che si aspettano, senza ottenerlo, un corale tradizionale a chiudere tutto e riportarli comodamente sulla terra dopo il severo rimprovero in forma di sermone. Bach gli aveva dato un bel cazzotto a tradimento.
Secondo le autorità, includere «la musica» durante la funzione comportava il timore che, se troppo lunga (o agli occhi degli ecclesiastici troppo divertente, frivola o «operistica») poteva distrarre dalla Parola di Dio e fornire un pretesto per disordini o comportamenti turbolenti di ogni tipo. Un’ulteriore riprova del timore del disturbo dell’ordine cittadino arriva dal decreto ufficiale per cui tutte le domeniche e le festività le porte della città dovevano rimanere chiuse per tutto il giorno, provocando cosí l’arresto del traffico su ruote e limitando la circolazione dei pedoni. Ancora nel 1799 sappiamo che «durante la funzione, gli accessi alle chiese da strade e vicoli venivano chiusi con catene di ferro allo scopo di prevenire ogni disturbo»48, sebbene non sia chiaro se ciò fosse per assicurare la tranquillità durante la funzione e «incoraggiare la devozione»49 in quei giorni di «digiuno, penitenza e preghiera» ufficiali, o per paura di disordini pubblici provocati da coloro che non avevano potuto (o voluto) andare in chiesa. Nel 1728 Bach scrisse al consiglio cittadino: «Si può aggiungere che quando, oltre alla musica concertata [cioè la cantata], vengono cantati inni molto lunghi, la funzione divina subisce un ritardo e bisogna considerare ogni tipo di disordini»50; fu una manovra scaltra da parte sua, che assecondava la loro ben nota repulsione verso funzioni lunghe e ulteriormente prolungate dalla musica e, in secondo luogo, il loro timore di disordini da parte della folla?n.
Le nostre moderne abitudini di ascolto in una sala da concerto, e i nostri ideali di decoro alle funzioni ecclesiali, ereditati dalle convenzioni del XIX secolo, non ci aiutano a capire come la musica di Bach venisse accolta. Ci dànno al contrario una falsa prospettiva sui costumi della congregazione nella Lipsia di Bach, dove né la puntualità né il silenzio durante l’ascolto erano considerati de rigueur. Eppure il fondatore della loro dottrina, Martin Lutero, aveva inequivocabilmente santificato l’atto dell’ascolto, la Parola di Dio non era testo, insisteva, ma suono, o, piuttosto, voce da ascoltare e seguire: Vox est anima verbi («La voce è l’anima della Parola»). Tuttavia, si rammaricava, «noi non prestiamo ascolto, anche quando il mondo intero e tutte le creature ce lo chiedono a gran voce, e Dio si rivolge a noi con le Sue promesse»51. La critica era rivolta allo stesso modo sia a coloro che «seguono il canto e leggono i salmi come se non ci riguardassero; piuttosto dovremmo leggere e cantare a loro in modo che ciò li migliori, la nostra fede sia rinforzata e la nostra coscienza sollevata da tutte le sue fatiche»52. Prestare reale ascolto è dunque un atto sacramentale e ci mette in contatto con la grazia divina: «nell’ascoltare un brano musicale, non sentiamo solo i musicisti, ma anche il nostro corpo che risuona, e risponde cosí allo spirito del brano e alla sua verità che vuole e cerca di trasformarci»53. Ci si chiede se gli ecclesiastici al tempo di Bach fossero ugualmente enfatici. A qualsiasi membro della congregazione colto a prestare piú attenzione alla cantata che al sermone, i pastori, potremmo pensare, avrebbero risposto che il culmine dell’attività religiosa era predicare la Parola, laddove la musica, sebbene benvenuta, era la sua (non sempre obbediente) ancella.
Da compositore che si rivolgeva a un pubblico passivo, Bach ci appare dedito a usare ogni muscolo della sua immaginazione per coinvolgere i suoi ascoltatori. Poiché contava sulla loro partecipazione attiva, doveva trovare terribilmente frustranti i segnali di disattenzione. Dalla propria esperienza Mattheson scrisse: «La maggior parte degli ascoltatori di musica sono persone male informate in merito all’arte. Che grande sforzo ho fatto quando ho celato dal loro udito un brano d’arte [Kunst-Stück], cosí che quando lo ascoltano non se ne rendono nemmeno conto. Che miracolo! Proprio come quando un contadino mangia inavvertitamente insieme ai crauti il canarino che gli era costato sei talleri, e comunque preferirebbe di gran lunga rimpinzarsi di maiale arrosto!»54. Rispondere al disdegno dei suoi ascoltatori con l’artificio non era da Bach: a differenza di Mattheson, probabilmente non si curava nemmeno tanto del fatto che fossero capaci di percepire i complessi meccanismi della sua musica, sempre che non li distraesse dal contenuto. Era inoltre perfettamente in grado, quando voleva, di dare alla sua congregazione musica facile da ascoltare, come ci dimostrano alcune delle sue cantate.
C’è una certa ironia, qui. Potremmo supporre che gli ascoltatori attenti e gli appassionati di musica, cosí come i veri credenti, si sarebbero irritati per il chiasso durante le funzioni ecclesiali, e il loro appagamento sarebbe stato ulteriormente frustrato dagli sguardi di disapprovazione dei sacerdoti di fede pietista. Nel caffè, invece, un ambiente profano e, qualcuno direbbe, moralmente discutibile, si trovava un pubblico piú selezionato e percettivo, che ascoltava e prestava attenzione alla musicao. Potrebbe anche darsi che i concerti da caffè generarono quel filone della morale tedesca riassunto dall’aforisma di Seneca, e in seguito adottato dalla Gewandhaus Orchestra. Dal protocollo di altri concerti di collegium nella vicina Delitzsch sappiamo che agli ascoltatori si richiedeva di «tenere a mente (e senza particolari rimproveri) che le buone maniere impongono di astenersi dal giocare a carte o intrattenersi in altri piaceri che potrebbero disturbare il collegium»55. Uno studente dell’università di Jena era molto preoccupato che il suo piacere di ascoltare i suoi amici del collegium musicum locale fosse compromesso dal «lasciarsi andare a sbronze animalesche, cosa che non manca di suscitarmi un estremo disgusto»56. Gli ascoltatori potevano aspettarsi che fossero dedicati loro «momenti piacevolissimi» in cui «la Musica suona dolcemente nella quiete. | Qui regna un desiderio silenzioso, | La quiete sovente s’impone»57. C’è un’ulteriore ironia nel fatto che la musica di Bach è stata quasi sempre apprezzata in un contesto concertistico profano che ha cooptato alcuni degli ornamenti della religione solo in seguito. Tra questi, l’aura di riverenza religiosa che dal XIX secolo in poi gli ascoltatori tedeschi hanno conferito alla musica di Bach, sia in chiesa che fuori (e fino ai giorni nostri durante i concerti d’organo).
Ovviamente, qui non si può tracciare la distinzione netta tra «concentrazione» (in chiesa) e «intrattenimento» (nei caffè) presente nelle abitudini contemporanee di ascolto. Il concetto ben radicato di Affektenlehre, la teoria per cui il proposito della musica è quello di suscitare i sentimenti di compositore, esecutore e pubblico, valeva a prescindere dai diversi contesti58. Il semplice fatto che la partecipazione alle performance musicali fosse un’occasione sociale non significa che fossero frequentati da gente superficiale59; né il fatto che molti fossero intenditori (Kenner) implica che ci fosse automaticamente un alto livello di attenzione sacrale (sebbene alcuni dei presenti credessero che si trattasse dell’atteggiamento piú appropriato). C’era un po’ di entrambe le cose, come capiamo dal racconto di Johann Andreas Cramer, scritto dopo aver assistito a un’esecuzione del Großes Concert di Lipsia, un ensemble fondato da «sedici persone, alcuni nobili e alcuni borghesi», l’11 marzo 1743:
Questa società si riunisce una volta a settimana durante l’inverno, e una volta ogni quattordici giorni d’estate. Le decorazioni della stanza in cui avvenivano gli incontri sono cosí graziose che la vista ne viene deliziata senza esserne distratta, e una simile cura viene messa in ogni modo di mettere a proprio agio i partecipanti. Secondo gli intenditori, la società può vantarsi sia della selezione dei propri membri, che aumentano la bellezza creata dal gruppo grazie alle proprie capacità musicali, sia nella selezione dei brani da eseguire, composti dai piú famosi e piú grandi maestri. Sebbene l’organizzazione non consenta all’intera città di partecipare agli eventi, sono gradite le buone maniere e la politesse, e il modo in cui è permesso partecipare è tanto disinteressato quanto galante.
L’attenzione verso la musica che caratterizza le riunioni della società merita una menzione. Tutte le arti, che piacciono grazie alla bellezza dell’armonia, e suscitano le passioni del cuore, richiedono attenzione, cosí che i loro effetti non siano disturbati. Solo il silenzio durante le esecuzioni musicali può soddisfare coloro che ambiscono a essere ascoltatori. Per un intenditore, il cui orecchio non perde una sola nota del violino di [Carl Gotthelf] Gerlach, ogni rumore, per quanto piccolo, è intollerabile. In un capolavoro tutte le note e i suoni hanno uguale importanza, e il cattivo ascolto di una sola battuta può privare di una grande parte del piacere voluto dal compositore. Sono cosí offeso dalle persone che mi fanno domande mentre sto ascoltando: è come se mi prendessero in giro, e non ho pietà nel giudicare coloro che sono disattenti alla musica come privi di sensibilità e di gusto.
Durante un recente concerto non sono riuscito a nascondere l’irritazione provocatami dal mio vicino, e non posso perdonarlo anche se (senza che mi avesse riconosciuto) aveva lodato la mia scrittura in contesti diversi. L’avermi distratto con i suoi pensieri mentre la musica suonava ha distrutto tutta la mia fiducia nella sua lode. Ero lí seduto, come qualcuno la cui intera anima fosse stata riportata all’ordine dalla musica, cosí che il piacere poteva finalmente trovare porte aperte e penetrare in ogni fessura del mio essere. Un assolo di flauto, suonato dal Sig. Landvogt, mi aveva rapito, ed ero pronto a lasciarmi completamente andare all’ebbrezza della musica, a perdermi nella gioia, quando questo spudorato vicino è arrivato improvvisamente e si è avvicinato al mio orecchio, mettendo in fuga i suoi toni gentili e suadenti, e mi ha chiesto con espressione d’intesa: «Hai sentito che Bochetta è stata presa di nuovo, e ci si aspetta che i turchi si radunino nelle province europee?» Furioso con lui per aver disturbato il mio rapimento, la mia risposta gli ha forse dato una cattiva impressione della mia conoscenza delle scienze politiche. Con tutta la fretta possibile, gli ho detto: «No!»60.
Per quanto tendenzioso, il racconto di Cramer è proprio la testimonianza che ci manca per la musica sacra di Bach e il modo in cui veniva recepita. Se non altro serve a ricordarci che la musica è profondamente dipendente dal livello di silenzio e dalla capacità di udire dell’ascoltatore. John Butt divide l’ascolto in tre categorie interconnesse. La prima rappresenta «la natura generalmente orientata all’udito che virtualmente appartiene a tutta la musica», la seconda «i diversi tipi di musica che sono specificamente orientati verso l’ascoltatore», mentre la terza si rivolge all’«ascoltatore che crea un senso specifico del sé al di là della durata dell’esperienza d’ascolto». Cramer chiaramente ricadeva in quest’ultima. Sebbene piú elusiva, controversa e difficile da definire, questa terza categoria indica il «concetto di un ascoltatore “interno” o “implicito”, latente nel modo in cui la musica sembra essere stata composta»p. Ciò sembra adattarsi particolarmente a Bach e all’impatto che può aver avuto su alcuni dei suoi ascoltatori dalla sua epoca in poi. «Molti aspetti del credo luterano, – afferma Butt, – erano concepiti per dare all’ascoltatore non solo un’esperienza diretta degli eventi biblici, delle storie o delle dottrine piú appropriate all’epoca, ma anche per creare collegamenti e imparare a memoria specifiche lezioni impartite dal sacrificio di Cristo». La musica, come abbiamo visto, sembra «tagliata su misura sulla percezione della presenza dell’ascoltatore»61.
Ci sono voluti diversi decenni dopo la morte di Bach prima che l’abitudine di ascoltare devotamente si spostasse dalla chiesa (se era mai esistita in modo coerente, dopotutto) alla sala da concerti. Prima che Goethe e altri insegnassero al pubblico quelle che chiameremmo buone maniere e abitudine all’interiorità silenziosa (quella che Peter Gay definisce «ideale ottocentesco di autocontrollo in vista di ottenere squisite, benché posticipate, ricompense psicologiche»), compositori diversi come Gluck, Mozart, Rossini e Spohr dovettero tutti imparare a fare i conti con il continuo chiacchierare, giocare a carte e assaporare sorbetti, cosí come con il frequente andirivieni durante l’esecuzione della loro musica. Contemporaneamente gli aristocratici disprezzavano l’abitudine borghese di seguire con entusiasmo eventi musicali con il semplice proposito di ascoltare, e non c’era niente di «cosí vergognoso come mettersi ad ascoltare un’opera come un mercante di strada, o qualche provinciale appena sceso dalla barca», come scrisse un autore francese dell’epoca62. È del tutto naturale stare seduti immobili durante l’ascolto della musica, o al contrario dedicare «un’attenzione completa e silenziosa all’esecuzione musicale [fa] violenza agli impulsi umani fondamentali», in una sublimazione «dell’impulso a sentirsi attivamente coinvolti»? Gay sostiene che «l’ascolto risveglia l’impulso di mimare il ritmo, le sonorità piú simili alle marce, i crescendo trascinanti»63. Possiamo davvero immaginare i tanti tipi di lotta interiore presenti nei primi ascoltatori di Bach: ascoltare con concentrazione, commentare, battere il tempo, mormorare la melodia, o ignorarla del tutto.
Negli ultimi cinquant’anni alcuni commentatori hanno dichiarato che intorno al 1729-30 Bach perse ogni illusione legata alla composizione delle cantate sacre, che era forse creativamente esausto, o soffrí addirittura di una crisi di fede. Queste ipotesi rappresentano un tipo di reazione (forse esagerata) alle ricerche scientifiche condotte negli anni Cinquanta del Novecento da Alfred Dürr e Georg von Dadelsen, i quali proposero una cronologia completamente nuova nella composizione delle cantate sacre sulla base dell’analisi della filigrana, la quale dimostra che l’attività si sarebbe concentrata nei primi tre anni del cantorato di Bach a Lipsia, per crollare nei seguenti due. «La nuova cronologia ha provocato una frana», proclamò lo studioso protestante tedesco Friedrich Blume alla International Bach Society di Mainz nel giugno 1962. Azzardò domandare: «Bach aveva forse una particolare inclinazione per le opere sacre? Si trattava di una sua necessità spirituale? Poco probabile, e non esiste alcuna prova per dimostrarlo. Bach il Cantor supremo, il creatore al servizio della Parola di Dio, il luterano devoto, è una leggenda da seppellire insieme a tutte le altre nostre illusioni tradizionali e romantiche»64. Che Blume esagerasse è opinione oggi ampiamente accettata, e appare ovvio dalla ricostruzione del contesto e dai frammenti di prove biografiche che abbiamo cercato di mettere insieme nei capitoli precedenti. Quello di Blume era un lodevole tentativo di riadattare l’immagine tradizionale di Bach alla luce della nuova cronologia, e di metterci in guardia dal fondare la nostra idea solo sui lavori sopravvissuti al tempo. La sua ragionevole correzione dell’immagine convenzionale di Bach fu il tentativo lodevole di renderlo «piú con i piedi per terra, piú umano …… un uomo legato alla sua epoca con ogni fibra del suo essere, un uomo che accoglie di buon grado le tendenze che puntano in modo promettente al futuro, ma che dedica coscienziosamente i suoi poteri al servizio tradizionale di Cantor che gli viene assegnato: un uomo che si colloca in maniera consapevole al confine tra due epoche». È difficile non essere d’accordo con lui, né si può accusarlo di supporre che «la resistenza del Cantor alla ristrettezza del regime ecclesiastico divenne sempre piú profonda»65. Oltre a quelle proposte da lui, però, ci dev’essere un’altra spiegazione alla diminuzione nella produzione di cantate. In primo luogo, intorno al 1729-30 Bach può aver ritenuto di aver fornito alle chiese principali di Lipsia un repertorio di cantate abbastanza ricco da soddisfare ogni bisogno futuro.
Oggi godiamo di un punto di vista migliore rispetto a quello di Blume al fine di analizzare le strategie sviluppate da Bach per uscire dalla routine settimanale legata alla composizione di cantate66. Durante la metà degli anni Trenta del Settecento, per esempio, fece suonare regolarmente cantate generalmente piú leggere e meno impegnative composte da altri compositori, come Telemann e suo cugino Johann Ludwig Bach, e nel 1735-36 un intero ciclo annuale di cantate, Das Saitenspiel des Herzens, di Gottfried Heinrich Stölzel, di cui nel 1734 aveva già eseguito la Passione-oratorio (Ein Lämmlein geht und trägt die Schuld). Presentare la musica di questi e altri compositori al posto della sua, mentre ancora svolgeva il ruolo di Cantor, dev’essere stato un sollievo; è possibile che ci fosse anche una punta di malcontento, come se volesse dire ai suoi congreganti: «Bene, finora non vi siete sprecati ad ascoltare la mia musica o a prestarle un po’ di attenzione, perciò ecco un po’ di Gebrauchmusik di altri compositori, piú adatta ai vostri gusti e livello di concentrazione».
Anche senza questa sfumatura di sfida, Bach può aver iniziato a percepire che la comunione di credo e consuetudini una volta condivisa con la sua congregazione stava ora iniziando ad alterarsi, o perfino a spezzarsi. Probabilmente non ci fu mai pieno consenso sulla natura sacra della musica in sé e per sé, né tra il clero di Lipsia (che come abbiamo visto era diviso), né tra i suoi datori di lavoro al consiglio municipale (anche loro ugualmente divisi), sebbene si arrivò a una fioca comprensione tra Bach e la congregazione (alcuni membri), una volta che i membri piú conservatori avevano superato lo shock iniziale provocato dallo stile delle sue cantate. In questi anni di mezzo Bach può aver guardato con occhi diversi la propria musica sacra, dando sempre piú valore al livello di abilità e alle qualità musicali intrinseche che alla loro utilità contingente. Ciò lo mise ancora di piú in contrasto con i teorici, i teologi e la nuova generazione di esteti «illuminati» che preferivano lo stile galante.
Una prova di questo diverso atteggiamento si può trovare nella trilogia di oratori collegati che scrisse per le festività di Natale, Pasqua e Ascensione nella seconda metà degli anni Trenta del Settecento, tutti basati su drammi per musica profani. Nel 1725 Bach aveva velocemente adattato a cantata di Pasqua uno di questi drammi, da poco composto per la corte di Weissenfels, il BWV 249 a: trasferí, in modo non del tutto convincente, quattro pastori e pastorelle da un contesto teatrale arcadico al ruolo di discepoli di Cristo in cammino verso il sepolcro vuoto. Non c’erano corali. Un decennio piú tardi i suoi adattamenti di oratori presero sfumature diverse e vennero dipinti su tele molto piú ampie. Ritornando sulla stessa cantata di Pasqua intorno al 1738, l’Oratorio di Pasqua (BWV 249) adesso emergeva come lavoro piú curato, esteso e riorchestrato, e soggetto in seguito a ulteriore revisione tra il 1743 e il 1746 (la sua ultima esecuzione avvenne il 6 aprile 1749), con il duetto di apertura ampliato fino alle dimensioni di un coro. L’identificazione delle parti vocali con i ruoli delle due Marie, di Pietro e di Giovanni, presente nella versione precedente, ora era praticamente espunta. L’intento evidente di Bach in questo caso fu di eliminare la sfumatura teatrale della versione piú grezza della cantata e dare un’enfasi piú coerentemente meditativa alla narrazione delle Sacre Scritture, in cui ha capitale importanza l’espressione delle reazioni emotive di fronte alla Resurrezione.
Basare un oratorio biblico che celebra la nascita di Cristo sovrano del cielo e della terra sulle storie di Ercole, il celebre mito dell’uomo piú forte del mondo (al tempo stesso lusinga al principe ereditario di Sassonia, per cui era stato scritto nel 1733), era una strategia tutt’altro che priva di rischi. Che i suoi primi ascoltatori si accorgessero o meno (o si preoccupassero anche minimamente) del completo riciclaggio della BWV 213, Herkules auf dem Scheidewege, nell’Oratorio di Natale, il fatto che Bach sia riuscito a colmare cosí agevolmente il divario tra profano, divino e mitologico, dà una sfumatura moderna e quasi «illuminata» al trapianto, rendendolo praticamente tutt’uno con lo Zeitgeist imperante.
Un’altra spiegazione possibile per la decisione di Bach di cambiare generi e scenari per le sue attività durante questi anni cosí decisivi potrebbe non avere nulla a che vedere con le ipotesi formulate nel XX secolo a proposito di un diminuito fervore religioso, o di una perdita di complicità con il suo pubblico. Al contrario, potrebbe riguardare il desiderio di esplorare nuovi territori (perfino tra le mura di Lipsia) e di avere un contatto con nuovi ascoltatori non vincolati dal protocollo ecclesiastico. In questo senso il suo prendere il controllo del collegium musicum nel 1729 aveva solide ragioni. Da tale laboratorio poteva ottenere diverse cose: rinforzare il legame con i musicisti dell’università e scambiarsi favori con loro; offrire ai suoi due figli maggiori e ad altri allievi di valore un trampolino ed esperienze preziose prima di occupare posizioni altrove; incrementare la sua produzione di cantate omaggianti la famiglia reale di Sassonia e agire da intermediario artistico tra questa e l’università. Poteva inoltre rinsaldare i legami con l’intellighenzia di Lipsia e provare a soddisfare qualcuno dei loro bisogni culturali. Sembra probabile che, in tale cultura urbana profana, Bach volesse fare anche diverse altre scelte, caratteristiche della sua curiosità e degli improvvisi cambiamenti nel genere compositivo che occorrono in diversi momenti della sua carriera: familiarizzare con opere strumentali di contemporanei come Benda, Graun e Telemann; inserire le opere dei suoi due figli maggiori, scritte in «uno stile evoluto e popolare»67; eseguire una selezione di cantate italiane e arie di compositori d’opera contemporanei come Porpora, Scarlatti e Händel. Proprio queste gli fornirono un nuovo importante punto di partenza, e fecero da sprone alle sue stesse composizioni nei generi in voga all’epoca (BWV 203 e 209).
Nel corso della sua carriera Bach compose per una varietà di ascoltatori, in osservanza ai suoi doveri ufficiali, per obbligo morale verso il suo «prossimo» e, anche se non si sarebbe mai espresso in questi termini, per soddisfare i propri impulsi creativi. Cerchiamo invano nei diari e nelle lettere di chi frequentava le funzioni sacre qualcosa che possa, anche di sfuggita, colmare le deplorevoli lacune nella nostra conoscenza di come il pubblico del tempo reagisse alla sua musica. L’entusiasmo e il fervore del pubblico dei giorni nostri, chiaro segno di quanto la musica di Bach continui a toccare persone di ogni età, credo e formazione, non può di per sé esserci utile per capire come a quel tempo la gente reagisse alla musica di Bach eseguita da lui stesso. Tuttavia, sono convinto che nei prossimi anni gli acuti investigatori del Bach-Archiv di Lipsia faranno luce tra i carteggi, o magari nelle biblioteche delle piú oscure province della Germania orientale, e allora avremo quelle testimonianze dirette che abbiamo cercato per tutto questo tempo. È semplicemente impossibile che la musica di Bach sia passata nell’indifferenza: il piacere, lo stupore, lo sconcerto, perfino la repulsione, qualsiasi cosa, ma non una misera alzata di spalleq.
Allo stesso tempo è estremamente fuorviante vedere in Bach un compositore unicamente sacro, che passa alla composizione profana solo quando le circostanze si ritorcono contro i suoi contributi creativi alla liturgia. Senza dubbio aveva una visione della sua arte come mandato, un dono di Dio, cosí come già scritto nella vocazione e nella dinastia (come abbiamo visto nei capp. III e V), ma non c’è motivo di credere che considerasse la sua musica profana in qualche modo inferiore a quella sacra. Detto questo, a seconda dell’umore poteva anche essere d’accordo con il suo predecessore Johann Kuhnau nel sostenere che nella musica sacra «la sacralità del luogo e il testo richiedono ogni possibile talento, splendore, modestie e devozione; nelle opere profane, i brani piú belli si avvicendano ad altri piú brutti, curiosi, ridicoli, e le melodie si infilano in tutto quel saltellare e trasgredire le regole dell’arte»68.
Ciò potrebbe contribuire a spiegare l’assenza di entusiasmo di Bach per l’opera convenzionale e l’affermazione liquidatoria (o al massimo ironica) sulle «canzoncine» che aveva ascoltato a Dresda, e la sua volontà di non comporre mai in quel generer. Questa diffidenza si estendeva alle cantate profane da camera e alle odi celebrative, chiamate drammi per musica, che sono sopravvissute ai suoi primi anni a Lipsia (BWV 201, 205 e 207), composizioni descritte da Gottsched come «piccole opere o operette» che, tuttavia, «a volte riescono a farsi strada fino al palcoscenico». Nel lamentarsi delle cattive abitudini di poeti e musicisti, è significativo che Gottsched scegliesse di lodare Hurlebusch e Händel, ma non Bach69.
La verità è che, malgrado tutte le loro prodezze tecniche, i drammi per musica di Bach sono molto meno drammatici di tante delle sue cantate sacre, e curiosamente sembra essere piú difficile per noi ricostruire un contesto reale per la musica celebrativa di Bach rispetto a quella sacra, nonostante la complicazione costituita dal credo religioso. Questi drammi evocano i dintorni pastorali di Lipsia con grazia ma con meno vitalità rispetto al suo trasferire, in modo piú spontaneo, l’immaginario rurale in testi religiosi contemplativi. In una società prevalentemente agricola come la Sassonia del XVIII secolo, le stagioni erano direttamente collegate ai ritmi della vita quotidiana e alle preoccupazioni della cristianità, e anche per il pubblico urbano di Bach non ci sarebbe stato niente di strano o pittoresco nell’interpretare una musica pastorale come metafora della loro comunità luterana vegliata da Gesú il Buon Pastore. Il motore di questa musica pastorale è la fede, e l’obiettivo di Bach è dimostrare che, con l’aiuto di Cristo, le «praterie celesti» non sono un’Arcadia perduta ma una destinazione davvero raggiungibile.
Nelle cantate profane del suo periodo a Lipsia non c’è niente di tutto questos. Piuttosto, l’equivalente si trova nell’arte barocca francese, in pittori come Pater e Lancret, che cercavano di superare le convenzioni della gradevolezza formale e riprodurre il mondo incantato del loro maestro Watteau, le cui fêtes galantes spesso racchiudono una nostalgia profonda e semplice per qualcosa che si trova fuori dalla portata umana e al di là della fede. In questa e altre opere si percepisce come Bach fosse risucchiato piú di quanto gli venisse naturale nel mondo della musica galante sposato dai suoi figli. Se fu il suo secondogenito, Carl Philipp Emanuel, a diventare uno degli esponenti piú celebri dell’estetica della Empfindsamkeit («sensibilità»), Johann Sebastian si dimostrò comunque in grado di stabilire una connessione emotiva diretta con i suoi ascoltatori, quando aveva la volontà di farlo.
Il contesto dell’attività musicale pubblica di Bach a Lipsia era stratificato, e gli aspetti commerciali, politici, liturgici e sociali erano tutti in competizione per prendervene parte. Ciò è emblematico della crescente secolarizzazione della società tedesca alla metà del XVII secolo, dell’intreccio di pressanti tematiche sociali in una comunità urbana in rapida espansione e dell’effetto a livello popolare dell’Aufklärung, o Età della Ragione, definizioni con cui astrattamente riassumiamo il secolo. Nelle cerimonie pubbliche che si tenevano all’aperto nel centro cittadino, Bach aveva mano relativamente libera nella scelta degli stili musicali e dei collaboratori letterari, anche se doveva adottare un tono convenzionale nel suo ruolo di maestro di cerimonie in occasione delle visite a Lipsia dell’Elettore (il quale in seguito gli conferí un titolo di corte prestigioso e molto ambito, che fece da contrappeso al suo essere assoggettato al consiglio municipale) e della sua famiglia. Dopodiché i concerti del collegium nei caffè lo esposero alla vasta gamma di stili che ci ricorda il lato proteiforme del suo carattere. La sua musica era trasformativa, e quello galante era solo uno dei tanti elementi che intendeva assorbire e includere nella sua opera, creando cosí una sintesi che trascese tutte le sue parti. Inoltre, era avido di studiare la musica degli altri, intenzionato a rapportarsi con diversi tipi di ascoltatori e pronto a dare delle opportunità ad altri compositori e interpreti (non per forza spiriti affini).
Laddove durante le prove e i concerti nei caffè poteva mantenere un certo livello di autonomia, quando tornava in chiesa osserviamo che il suo spazio di manovra era molto piú ristretto. Lí aveva bisogno di percorrere una stretta via che gli permettesse di evitare da una parte di offendere inconsapevolmente gli scrupoli dottrinali del clero locale, continuando dall’altra a soddisfare i suoi datori di lavoro cittadini. Secondo il clero lo scopo della cantata era ispirare devozione nella congregazione e fornire una rilassante preparazione dell’atmosfera dell’evento principale, il sermone. La preoccupazione dei consiglieri municipali era che la musica sacra evitasse di fomentare i disordini sociali, e offrisse uno «show» prestigioso per meravigliare i visitatori delle fiere mercantili. Per Bach, esistevano parametri artistici da difendere, spesso a dispetto delle intromissioni clericali e dell’opposizione dei consiglieri, del livello di indifferenza pubblica e della rozzezza dei comportamenti. Dovendo inoltre affrontare litigi e futili critiche da parte di ex allievi delusi. Per venire incontro a una comunità cosí eterogenea, che entrava in chiesa con aspettative molto diverse sul ruolo della musica, Bach faceva stampare e mettere in vendita i testi delle sue cantate. Anche in quel caso c’erano evidenti differenze nella capacità della gente di «sentire» la musica da lui creata. Un critico professionista come Scheibe sosteneva di aver individuato l’esistenza di «rumori sgradevoli» che rovinavano la polifonia di Bach. Ma è possibile che questi derivassero tanto da difetti nell’esecuzione dell’ensemble di Bach, che aveva cosí poche occasioni per provare, o dal rumore d’ambiente nella chiesa, o addirittura da problemi all’udito di Scheibe, quanto da carenze nelle composizioni stesse. L’obiettivo di Bach, dopotutto, era quello di scrivere musica concepita per lodare Dio e per ispirare e conquistare i suoi ascoltatorit. Nel 1723 era partito il suo ambizioso progetto di comporre cinque cicli integrati di cantate, ognuno dotato di una Passione come gioiello principale. È a questi che ci dedicheremo adesso.