I riti sono nel tempo quello che la casa è nello spazio. Perché è bene che il tempo che passa non dia apparentemente l’impressione di logorarci e disperderci, come una manciata di sabbia, ma di perfezionarci. È bene che il tempo sia una costruzione. Cosí io posso procedere di onomastico in onomastico, di compleanno in compleanno, di vendemmia in vendemmia, come camminavo da piccolo dalla sala del Consiglio alla stanza del riposo, tra le spesse mura del palazzo di mio padre, dove ogni passo aveva un significato.
ANTOINE DE SAINT-ÉXUPÉRY, Citadelle (1948)a.
Deve pur esserci, evidentemente, una qualche ragione se ancor oggi ci prendiamo la briga di occuparci delle cantate di Bach. Scritte per essere suonate o ascoltate come una semplice parte di un lunghissimo servizio ecclesiastico, le cantate venivano velocemente composte (e replicate) ogni settimana come anticipazione del sermone domenicale. Il genere è essenzialmente una forma ibrida e obsoleta, «ricavata da diversi stili di scrittura»b. Bach strutturò i suoi modelli formali secondo una sequenza decisamente asimmetrica – generalmente un lungo coro di apertura, seguito da coppie di recitativi e arie di ammonimento, con un inno di chiusura che riassume il tutto. I testi (per la maggior parte anonimi) raramente sono qualcosa di piú che mediocri poesie, e la teologia sottostante non è quasi mai accattivante – il genere umano viene dipinto mentre sguazza nel degrado e nel peccato, il mondo è un ospedale abitato da anime malate i cui peccati s’infettano come pustole purulente ed escrementi giallognoli. Perché comporre una cantata (BWV 199) che si apre con le parole «Il mio cuore nuota nel sangue, perché la progenie dei (miei) peccati mi rende un mostro agli occhi santi di Dio … per me i peccati non sono altro che un infernale carnefice, tu malvagio seme di Adamo, rubi alla mia anima ogni pace … e io mi devo nascondere davanti a Colui, innanzi al quale gli stessi angeli coprono il loro volto»?1. Forse non sorprenderà scoprire che solo una cantata fu pubblicata mentre Bach era ancora in vita – la BWV 71, Gott ist mein König («Dio è mio re»), scritta per l’inaugurazione del Municipio di Mühlhausen nel 1708 –, mentre alla sua morte la maggior parte di esse fu distribuita tra quattro dei suoi figli e la vedova, ma in parti separate. Alcune cantate sono rimaste per un po’ nel repertorio dei suoi eredi, alcune furono riadattate in forma ridotta, molte furono vendute e un numero incalcolabile di esse andò disperso nei meandri delle biblioteche delle chiese o andò perduto per semprec. Alcune furono utilizzate per accendere il fuoco.
Quindi, di che cosa stiamo parlando? Se dobbiamo credere a Charles Rosen, «La tendenza a considerare le cantate come il principale risultato ottenuto da Bach è stata solo dannosa: ha prodotto un’eccessiva enfasi sul simbolismo extramusicale». Non sorprende che Rosen, grande pianista, sentisse che era «giunto il momento di tornare a valutare la musica per tastiera come parte centrale del suo lavoro»2. Non riuscí però a spiegare perché gli autori del Nekrolog abbiano messo «cinque interi cicli annuali di brani per la chiesa [Kirchenstücke]d, per tutte le domeniche e le festività» in testa alla lista dei lavori non pubblicati, se non li avessero considerati, come li considerava anche Bach, di grande importanza. Bach riteneva di appartenere a quegli organisti-compositori della Germania settentrionale e centrale che consideravano se stessi i rappresentanti della musica moderna all’interno della chiesa luterana. I cicli erano una componente vitale delle sue cantate, un tema e una presenza costante nella sua œuvre, a partire dall’Orgel-Büchlein, un’incompiuta e preziosa raccolta di preludi corali creati per essere inseriti nella scansione dell’intero anno ecclesiastico. Se per Bach la sfida era rendere ogni composizione completa e armoniosa in se stessa, comporre per cicli gli dava la possibilità di modulare una singola idea in piú modi e di estendere la sua scala espressiva ben oltre gli orizzonti visibili da ogni altro compositore del suo tempo. Anton Webern ne indagò il significato nel 1933 quando scrisse: «nell’opera di Bach si trova tutto: il perfezionamento delle forme cicliche, la conquista del regno delle tonalità … Aspirazione alla piú alta unitarietà»3. Per quanto riguarda la musica destinata all’uso ecclesiastico, i cicli aprirono a Bach allettanti percorsi per ampliare la sua capacità di rispecchiare la pienezza e l’armoniosità della creazione divina e di immergersi profondamente in ciò che in sostanza era un’antica cosmologia. Come nota John Butt, «il tempo ciclico è fondamentale per un approccio liturgico e rituale alla religione, in cui eventi e aspetti importanti del dogma vengono celebrati sulla base di un ciclo annuale»4.
Quando finalmente ebbe l’opportunità di comporre ogni mese cantate religiose alla corte di Weimar, Bach accolse la sfida quasi come se fosse un allenamento per il futuro. Se prendiamo, ad esempio, le tre cantate che scrisse per la stagione dell’Avvento e del Natale del 1714 e la quarta che compose due anni dopo, vediamo che queste si uniscono naturalmente per dar vita a un plausibile miniciclo. Ascoltarle in sequenza è un po’ come aprire le porticine del calendario dell’Avvento di un bambino: ognuna è un brillante cameo, una storia legata dalla metafora sottesa che vede nell’anno vecchio il tempo di Israele e in quello nuovo il tempo di Cristo. La prima, BWV 61, Nun komm, der Heiden Heiland (per la prima domenica d’Avvento), è dedicata alle speranze e paure della comunità cristiana nel contesto della nascita di Cristo, in quanto inizio del piano divino per la nostra salvezza. La seconda, BWV 70, Wachet! Betet!, si concentra sulla seconda venuta di Cristo come giudice del mondo. Inizia con un’esortazione a guardare e pregare, e poi allude alla prigionia degli Israeliti in Egitto e alla distruzione di Sodoma e Gomorra; e il monito del sopraggiungere della fine del mondo «questo è il tempo ultimo» è comunque mitigato da una visione di liberazione e di riconciliazione finale. Al contrario, la BWV 63, Christen, ätzet diesen Tag, celebra proprio il Natale come il giorno a lungo atteso del compimento della promessa divina e della fine della prigionia di Israele. In posizione centrale nella struttura simmetrica di questa cantata, vi è la parola Gnaden – la grazia che viene con la nascita di Cristo e, con essa, il riscatto dell’umanità dal peccato e dalla morte –, la stessa parola che santifica il processo della creazione musicale quando due o tre persone si riuniscono con lo spirito giusto: «Dove c’è della musica devota, Dio è sempre presente con la sua grazia»e.
Un’altra parola, Stein («pietra»), è centrale nella BWV 152, Tritt auf die Glaubensbahn, per la prima domenica dopo Natale: questa simbolizza la pietra miliare della fede posta da Dio nell’incarnazione di Gesú, ma anche il modo in cui le inclinazioni umane possono diventare una pietra d’inciampo sulla via della salvezza. Bach e il suo librettista Salomo Franck ricorrono spesso a questo dualismo – tra la caduta iniziale dell’umanità e la necessità dell’umiliazione spirituale, e il trionfo della fede e l’ottenimento da parte dell’anima della corona al termine del Glaubensbahn (il percorso o «esercizio» della fede). Questa cantata è costruita come un dialogo allegorico tra Gesú (basso) e l’anima (soprano), un intimo pezzo da camera in cui tre strumenti arcaici – un flauto dolce, una viola d’amore e una viola da gamba – che rappresentano l’antico ordine (la «pietra d’angolo» rinforzata in maniera ancor piú eloquente dal contrappunto «vecchio stile») vengono giustapposti a un «moderno» oboe e a un basso continuo che rappresentano il nuovo. Si può sentire l’evidente piacere che Bach prova nel mescolare e combinare questi timbri strumentali prima che essi convergano per rispecchiare l’unione tra Gesú e l’anima. Le imperfezioni residue, tipiche del genere, quasi mai appaiono insormontabili per Bach, raramente egli rimane inerme di fronte alla necessità di risolvere i problemi dei testi che ha di fronte – che siano noiosi, bizzarri o semplicemente eccelsi. Infatti, in questi lavori di Weimar c’è una varietà e una qualità talmente sorprendente e ricca che, anche se Bach non avesse piú composto altre cantate – ovvero le circa 150 cantate sopravvissute dagli anni trascorsi a Lipsia – egli avrebbe ancora i requisiti per essere il piú innovativo compositore di musica sacra della sua epoca. Conosciamo ventidue cantate sacre immensamente variegate appartenenti a questi anni: misurate e ingegnose in termini di utilizzo del materiale musicale, esuberanti e a volte drammatiche nel dare risposta al testo. Il suo successivo trasferimento alla corte calvinista di Cöthen nel 1717 non comportò ulteriori responsabilità nei confronti della musica sacra. Ma se questi successivi sei anni costituirono un periodo di ibernazione luterana, essi non furono per nulla sprecati in termini di glorificazione di Dio: Bach stava costruendo un ricco repertorio di lavori profani, meravigliosi e tutti dotati del potenziale di riciclarsi e trasformarsi in opere appartenenti a un livello di piú alto grado negli anni a venire.
L’opportunità di tornare a dedicarsi alla composizione di cantate in maniera ben piú regolare rispetto al passato fu uno dei fattori che Bach prese in considerazione e una delle principali ragioni per cui, dopo mesi di esitazione, fece domanda per la posizione di Cantor a Lipsia. Senza dubbio la sfruttò come un’opportunità per completare il suo Endzweck – l’«ultimo obiettivo» della «ben regolata musica sacra per la gloria di Dio» (vedi supra, cap. VI). È come se si fosse accorto che i suoi desideri artistici erano talmente pervasi da intensi legami religiosi da imporgli l’esigenza di dar loro immediata espressione: non vi è altra spiegazione logica al suo concentrare tutte le energie nella composizione di cantate in un periodo cosí breve, escludendo quasi ogni altra cosa. Infatti, dal momento del suo ufficiale ingresso a Lipsia come Thomaskantor all’inizio dell’estate del 1723, Bach si assestò su una cantata a settimana, un ritmo talmente frenetico che probabilmente nessuno – nemmeno lui, con le sue straordinarie riserve di energia creativa e capacità di concentrazione – avrebbe potuto sostenere per piú di un paio d’anni (e infatti non vi riuscí). Pare dire a se stesso: «Questo è il mio momento: posso farcela». Lontane dall’essere materiale di scarto caduto dal tavolo di lavoro del grande uomo, le cantate che Bach continuò a comporre sono a pieno titolo lavori sostanzialmente indipendenti. Nell’avvicinarsi allo zenit delle sue capacità, Bach ripose parte delle sue piú impressionanti energie creative nell’elaborazione di forme, espressioni e contenuti individuali. Ciò che ci è pervenuto non è tanto un residuo di œuvres de circonstance, uno scoppiettio di gloriose fiamme pronte a essere riaccese in sporadiche esecuzioni, quanto un susseguirsi di avvincenti lavori musicali di eccezionale valore.
Nel prendere servizio nel 1723 Bach era chiaramente determinato a superare il suo stallo compositivo il piú presto possibile. Aveva ancora in mente le punzecchiature ricevute al debutto della sua carriera ad Arnstadt per il suo fallimento nel produrre musica figurata, la frustrazione per non aver trovato musicisti adeguati a Mühlhausen, e i tre anni che aveva dovuto attendere a Weimar prima di avere la possibilità di comporre un ciclo mensile di cantate. Ora, nominato Thomaskantor a Lipsia, con la possibilità di comporre musica figurata per ogni domenica e per ogni festività religiosa dell’anno ecclesiastico, si mise all’opera con grande solerzia. Tale zelo andò ben oltre qualsiasi obbligo contrattuale di comporre e realizzare musica per le celebrazioni liturgiche della chiesa luterana. Probabilmente nessuno, men che meno lo scettico comitato municipale che lo aveva nominato (fig. 11), si sarebbe aspettato che potesse creare una nuova composizione per ognuna delle sessanta festività religiose annuali; sarebbe stato comprensibile che avesse avuto bisogno di ricorrere ai lavori realizzati nel passato o all’aiuto dei colleghi. Sicuramente nessun Thomaskantor aveva precedentemente compiuto, né aveva mai tentato di compiere un’opera cosí ambiziosa e stressante – perlomeno non di dimensione o livello di complessità musicale equivalenti. Ma del resto, come Bach ebbe a insistere di fronte a uno sconcertato consiglio cittadino, «la maggior parte delle mie composizioni sono incomparabilmente piú complesse e intricate [di quelle degli altri compositori]»f5. Il loro successo dipese sicuramente dalla collaborazione con musicisti molto dotati, capaci di performance convincenti sotto la sua direzione. Infatti, come sosteneva, «nella musica, comunque, tutto dipende dall’esecuzione»6. Ma per Bach in gioco c’era molto di piú: un progetto che doveva rivelarsi una delle sfide piú difficili della sua vita di artista creativo ed esecutore.
Le cantate gli vennero commissionate per i giorni dei santi e per le festività ecclesiastiche, oltre che per le regolari funzioni domenicali, e furono irregolarmente distribuite durante l’anno liturgico di Lipsia: rari periodi di inattività (le cosí chiamate stagioni «chiuse» dell’Avvento e della Quaresima, quando nessuna musica figurata era consentita nelle chiese cittadine) erano seguiti da improvvise esplosioni di attività frenetica nei periodi delle principali festività della Pasqua, della Pentecoste e del Natale (fig. 14). Seguire l’elaborazione cronologica dei suoi cicli di cantate in una sequenza lineare, cosí come ne fruiva settimana dopo settimana il pubblico di Lipsia, significa essere abbagliati dalla fecondità delle sue invenzioni, dalla sua straordinaria coerenza, e dalla ricca varietà della trama, dell’andamento e della forma che riusciva a ottenere. Inoltre, esplorare le cantate di Bach in modo sequenziale può aiutarci a capire come queste intense agglomerazioni di lavori abbiano accelerato la crisi – sia creativa che recettiva – in questi primi due anni, in particolare (come andrebbe notato) all’approssimarsi del Venerdí santo, quando era necessario eseguire una Passione, con il risultato che il suo progetto di fornire un ciclo di cantate venne interrotto. La tesi di Donald Francis Tovey secondo cui «la piú importante lezione che ci viene dall’analisi della grande musica è quella dell’unicità organica» è esemplificata dall’approccio di Bach alla composizione delle cantate cicliche, che ci dimostra come egli fosse flessibile e capace di trovare risposte ampiamente differenziate anno dopo anno.
Seguire le sue cantate inserendole nel loro contesto stagionale ci permette anche di notare come Bach – allo stesso modo di Janáček due secoli piú tardi – porti spesso alla superficie i rituali precristiani e quei legami dimenticati che riflettono la ciclicità dell’anno agricolo – la sicurezza della terra, i suoi ritmi e rituali, il preciso andamento del suo calendario e i capricci del tempo rurale. La Sassonia del XVIII secolo era ancora una società prevalentemente agricola in cui questi eventi stagionali erano strettamente legati alla religione, i quali ci rammentano come, nell’attuale società urbana, molti di noi tendano a perdere il contatto con i ritmi e gli schemi del calendario agricolo e addirittura con la percezione della basilare ciclicità della vita e della morte che compare cosí evidente in molte delle cantate di Bach. In esse troviamo l’immaginario rurale che permea i testi religiosi contemplativi e la poetica elaborazione del lezionario per ogni successiva festivitàg. Per Bach non era affatto inusuale ricordare al suo pubblico di cittadini di Lipsia le virtú dei periodi di semina e di raccolto che esistevano appena al di là delle mura della città, e i ritmi e i rituali dell’anno agricolo spesso trapelano dalla sua musica, donandole attualità, popolarità e un velo di semplice rusticità. Quindi, quando Bach estende le parole del Vangelo di Gesú dal Sermone sulla Montagna – «Dai loro frutti li riconoscerete» (Matteo 7,15-23) – e le inserisce in una cantata di questo primo ciclo, la BWV 136, Erforsche mich, Gott, und erfahre mein Herz, egli può contare sulla sua congregazione sapendo che le parole di Cristo si riferivano al terrificante monito del Vecchio Testamento «maledetto il suolo per causa tua! … Spine e cardi produrrà per te» (Genesi 3,17-18). Questo è solo uno dei moniti ricorrenti indirizzati al contadino durante questo periodo dell’anno, insieme alle tempeste estive che piegano i campi di grano (BWV 93 v), i danni provocati dagli uccelli (BWV 187 ii) e dalla minaccia di questi (BWV 181 i), e il fallimento della semina (BWV 186 vii) – tutto ciò a prescindere da una buona preparazione del terreno e dalla tempestività della semina stessa (BWV 185 iii). In questi momenti egli sembra fare un disegno a partire dai ricordi di vita agreste della sua infanzia, della vita vicino al Thüringerwald, come abbiamo visto nel capitolo II; ricordi ispirati da quanto poteva vedere dal suo studio alla Thomasschule, dall’altro lato del fiume Pleiße verso quei giardini che piú tardi Goethe avrebbe paragonato ai Campi Elisi, e con, ancora piú in là, la scacchiera rurale dei villaggi, i boschetti e i campi dove lavorano i contadini.
Un esame anno per anno dei cicli di cantate ci indica, inoltre, quanto questi fossero strettamente collegati ai ritmi dell’anno geofisico. Ciò è piú evidente in quei punti fondamentali dove le festività ecclesiastiche come l’Annunciazione e la domenica delle Palme coincidono con l’equinozio di primavera (BWV 1 e 182), o con la Pasqua (BWV 4, 31 e 249), o all’inizio (BWV 75, 20 e 39) e alla fine (BWV 60, 26, 90, 116, 70 e 140) della stagione della Trinità, o, ancor piú chiaramente, nel solstizio di inverno con la sua prossimità alla fine dell’anno solare (BWV 190, 41, 16 e 171). Questi punti nodali costituiscono uno sfondo essenziale al modo in cui Bach misura i momenti piú alti e quelli piú bassi del calendario liturgico; il suo intrecciare questi due elementi trasmette la semplice idea di un’inevitabile progressione da un inizio a una fine e di lí a un nuovo inizio. La differenza tra i concetti greci di kairos e chronos ha una connessione diretta con il concetto di tempo per Bach e il modo in cui esso si rivela nelle sue cantateh. Nel greco della koinè del Nuovo Testamento, chronos significa tempo in generale – nel doppio significato del tempo che passa e del tempo dell’attesa (come nell’Avvento). Ma, mentre chronos segna una linea continua che indica la durata, kairos è un momento indicato in un punto preciso di quella linea. L’espressione en kairo significa «nel momento preciso» (proprio come il «momento per mangiare qualcosina» di Winnie the Pooh). L’espressione del Nuovo Testamento hoi chronoi kai hoi kairoi («i tempi e le stagioni») è la chiave per comprendere quello che poteva essere il concetto di tempo per Bach – il suo modo di collocare e condensare la musica in momenti precisi e in stagioni designate. Localizzando l’evento e l’occasione alla quale la sua musica era collegata, si può pensare che egli rischiasse di ridurne l’impatto e l’accessibilità futuri, ma sembra che sia vero proprio il contrario: l’universalità della sua musica risiede nella specificità stessa delle sue origini.
Uno degli aspetti che hanno piú colpito me e molti dei musicisti che nel 2000 hanno affrontato le cantate di Bach nella loro successione stagionale era l’enfasi continua che egli dava all’idea del ritorno ciclico, di un viaggio da un inizio verso una fine – o, nel linguaggio teologico dei suoi tempi, dall’Alfa all’Omega. Nel replicare i ritmi che Bach aveva egli stesso praticato e nel fare esperienza dei suoi cicli e dei loro momenti specifici, abbiamo potuto percepire il senso del kairos attraverso questo dispiegarsi delle stagioni. Abbiamo compreso l’indissolubile connessione esistente tra la musica e la sua collocazione nella stagione e spesso anche tra la musica di una settimana e quella della settimana successiva, come archi di un cerchio che vengono disegnati e ridisegnati. Sembrava che ci stessimo ricongiungendo con la progressione delle stagioni e con la sfera retorica soggiacente alla musica di Bach – un ritmo che si dispiega continuamente, ma che generalmente passa inosservato. Infine, ciò ci ha permesso di essere assorbiti dal processo (ri-)creativo e dall’attiva costruzione implicita nella sua musica. Quest’esperienza è molto diversa dal convenzionale far musica al quale eravamo abituati nelle sale da concerto, che, sebbene sia convincente, non può non portare con sé risonanze estranee allo scopo intrinseco della musica.
Piú della metà delle cantate sacre di Bach pervenuteci sono state composte nei primi tre o quattro anni della sua attività di Thomaskantor. Ecco come si suddividono le cantate di Lipsia:
– Nel primo anno (1723-24) Bach compose quaranta nuove cantate. Questo primo ciclo includeva anche quattordici adattamenti o espansioni delle cantate di Weimar e cinque «parodie» delle cantate profane di Cöthen realizzate per il periodo di Pasqua del 1724, che potrebbero non fare parte del progetto originale (vedi infra).
– Nel secondo anno (1724-25) compose cinquantadue nuove cantate; tre di queste (BWV 6, 42 e 85) sono strutturalmente identiche alle cantate composte a febbraio dell’anno precedente e potrebbero dunque essere considerate il prodotto della crisi associata con la prima esecuzione della Passione secondo Giovanni il 7 aprile 1724 (vedi il diagramma del primo ciclo di Lipsia di Bach, fig. 15).
– Una simile deviazione dal progetto originale per il Venerdí santo dell’anno successivo potrebbe essere collegata all’abbandono del ciclo di cantate su base corale dopo la domenica delle Palme del 1725, e potrebbe aver causato l’inclusione di una ripresa (BWV 4) e di una parodia (BWV 249) la domenica di Pasqua; essa potrebbe anche aver contribuito alla realizzazione di una nuova sequenza per «I Grandiosi Cinquanta Giorni tra la Pasqua e la Pentecoste». Dunque, quest’ultima comprendeva infine dodici cantate: tre (BWV 6, 42 e 185) i cui testi potrebbero essere stati tratti da una collezione originariamente destinata al primo ciclo, e nove cantate i cui testi furono scritti da Christiane Mariane von Ziegler (BWV 103, 108, 87, 128, 183, 74, 68, 175 e 176). Sembra che Bach avesse programmato questa nuova sequenza per completare il suo primo ciclo in un modo piú soddisfacente di quanto fosse stato possibile nella primavera del 1724, periodo che rispecchiava il carattere liturgico dei «Grandiosi Cinquanta Giorni», rendendolo unitario grazie alla preponderanza dei testi tratti dal Vangelo di Giovanni.
– La frequenza della produzione di cantate rallenta di circa la metà nel 1725-26, riducendosi a ventisette nuovi lavori, e diminuisce ulteriormente riducendosi a sole cinque nell’anno successivo, segno dei crescenti problemi che Bach stava affrontando nel trovare musicisti adeguati nell’ensemble a sua disposizione al Thomaner. Ciò significò che il terzo ciclo finí per essere distribuito su due anni (1725-27).
– A ciò segue, a rotazione, il cosiddetto «ciclo Picander» del 1728-29, che forse Bach potrebbe aver voluto suddividere tra sé (otto nuovi lavori), i suoi due figli maggiori e alcuni allievi.
– Ci sono pervenute circa una dozzina di cantate «tardive», composte tra gli anni Trenta e Quaranta del Settecento.
La prova che fin dal principio Bach avesse pensato a un progetto su ampia scala, non limitandosi a lavori individuali cadenzati dal ricorrere delle singole festività, ci viene fornita dal fatto che abbia scelto le prime quattro domeniche dopo la Trinità come momento da cui far cominciare i primi due cicli annuali di Lipsia. Rispetto all’Avvento, il vero inizio dell’anno liturgico, la prima domenica dopo la Trinità potrebbe non sembrare abbastanza rilevante per segnare l’inizio di un nuovo ciclo, ma in realtà essa segnava sia l’inizio dell’anno accademico alla Thomasschule sia il momento centrale dell’anno liturgico luterano: il momento di passaggio dal «tempo di Cristo» (il temporale) all’«èra della chiesa» (la lunga stagione della Trinità) dominata dalle questioni relative ai credenti cristiani che vivono «qui e ora» sotto la guida dello Spirito Santo. Bach aveva dunque delle buone ragioni per enfatizzare questo importante cambiamento stagionale – che per coincidenza avveniva quando lui e la sua famiglia giunsero a Lipsia –, facendolo diventare la rampa di lancio dei due cicli di cantate successivi, il primo iniziato il 30 maggio 1723 con la BWV 75, Die Elenden sollen essen, e il secondo l’anno successivo con la BWV 20, O Ewigkeit, du Donnerwort, che gettò le basi per un orientamento stilistico completamente nuovo e un approccio piú radicale (vedi infra, cap. IX). Se a tutto ciò aggiungiamo la terza delle cantate realizzate per questa festività a noi pervenute, la BWV 39, Brich dem Hungrigen dein Brot, composta nel 1726 (vedi cap. XII), otteniamo tre diversi lavori bipartiti su larga scala, realizzati per la stessa occasione liturgica, che ci forniscono la base per una comparazione.
Bach si presentò ai fedeli riuniti nella Nikolaikirche e nella Thomaskirche di Lipsia nel 1723 con una sequenza iniziale di cantate scritte in una grande varietà di stili musicali e piene di allusioni esegetiche. Le sue due prime cantate, BWV 75 e 76, composte per domeniche consecutive (Tr +1 e Tr +2), sono concepite come opere gemelle nel loro modo di presentare un’interpretazione musicale della Scrittura distribuita in quattordici movimenti (con lo stesso dispiegarsi di modelli di movimenti, arie e recitativi) – sette dei quali da eseguirsi prima e sette dopo il sermone e durante la distribuzione della Comunione. Ovviamente dovette riflettere molto su entrambi i lavori – discussioni con un librettista ignoto e forse con i rappresentanti del clero di Lipsia al momento dell’audizione di febbraio – prima di scegliere stile, toni e forma narrativa. Il legame tematico tra i due lavori fu suggerito dalle due Epistole selezionate – l’ingiunzione ad amare Dio (1 Giovanni 4,16-21) e il proprio prossimo (1 Giovanni 3,13-18) –, con l’implicita insistenza sul fatto che l’amore fraterno è il mezzo principale attraverso il quale il credente può onorare Dio (BWV 76, parte II). Una cosí esauriente doppia versione dei due comandamenti del Nuovo Testamento – amare Dio e il prossimo – era in perfetto accordo con la definizione che Bach diede in piú momenti dei propri obiettivi musicali: glorificare Dio e servire il prossimo (vedi supra, cap. VIII). Bach ebbe l’opportunità di chiarire nel migliore dei modi alla congregazione le proprie intenzioni future, e l’uso del proprio numero identificativoi – quattordici – nel numero di movimenti delle due opere potrebbe essere stato un modo simbolico per inviare, sempre alla congregazione, un messaggio personale7. Quando prese servizio, la sua prima cantata di Lipsia, BWV 75, Die Elenden sollen essen, fu eseguita otto giorni dopo che lui e la sua famiglia arrivarono in città, e due giorni prima del suo trasferimento formalej. A giudicare dall’aspetto ordinato dello spartito autografo, scritto su carta non proveniente da Lipsia, sembra che Bach si fosse portato avanti finendola quando era ancora a Cöthen (al contrario, lo spartito del suo seguito, la BWV 76, Die Himmel erzählen, presenta diverse correzioni, che mostrano chiari segni di frettolosità). Il contrasto tra la povertà (Armut) e la ricchezza spirituale (Reichtum) viene utilizzato come una metafora non solo per la transitorietà dei beni terreni ma anche per la deprivazione spirituale del cristiano prima di essere arricchito dalla fede in Dio. Ridotta all’essenziale, la BWV 75 presenta il seguente messaggio:
Parte I
1. Le apparenze sono ingannevoli, ma coloro che soffrono in questa vita un giorno, come Lazzaro, saranno ricompensati (coro di apertura in forma di preludio e fuga);
2. le ricchezze e i piaceri terreni sono transitori (recitativo accompagnato per basso),
3. mentre la devozione a Gesú senza riserva (aria in forma di polonaise per tenore, oboe e archi)
4. può portare alla gioia nella prossima vita (recitativo del tenore).
5. Quindi sopporta pazientemente come Lazzaro (aria per soprano e continuo)
6. e puoi vivere con la coscienza pulita (recitativo del soprano);
7. poiché qualsiasi cosa Dio faccia, la fa per il migliore dei motivi (corale).
Parte II
8. Sinfonia (per tromba e archi)
9. La povertà di spirito (recitativo per contralto)
10. è resa ricca da Gesú (aria per contralto in forma di passepied con violini e continuo);
11. quindi pratica l’abnegazione (recitativo per basso)
12. e sarai riscaldato dalla fiamma di Cristo (aria drammatica per basso con tromba e archi);
13. e sta’ attento a non cadere nel peccato (recitativo del tenore),
14. perché qualsiasi cosa Dio faccia la fa per il migliore dei motivi (corale).
Il tema della settimana tratto dal Vangelo – l’idea che i poveri di spirito prenderanno parte al regno di Dio come riportata dalla parabola su Epulone e Lazzaro (Luca 16,19-31) – è ancor piú chiaramente espresso nel vibrante inno «Was Gott tut, das ist wohlgetan» che conclude entrambe le parti della cantata di apertura di Bach, non con un convenzionale arrangiamento in quattro parti, ma con le linee vocali allentate nella loro polifonia e poste in un tessuto orchestrale indipendente:
Ciò che Dio fa è ben fatto,
in questo voglio restare.
Mi possono sull’aspro cammino
condurre distretta, morte e miseria.
C’è qualcosa di toccante e profetico nell’assenso di Bach al principio descritto da queste parole – la sua costanza nell’eseguire i compiti ispirati da Dio e la via impervia che egli ha intrapreso nel realizzarli. In seguito, Bach si sarebbe lamentato con un amico che, nell’assolvere i suoi compiti a Lipsia, aveva ricevuto poco aiuto dalle autorità, da lui giudicate «strane e poco interessate alla musica». Ma per il momento, mentre si concentra sulla sua musica con grande energia, tutto è improntato all’ottimismo.
La BWV 76 è senza dubbio piú di un semplice seguito della cantata della domenica precedente: insieme formano un dittico che riflette il dualismo dei due segmenti dell’anno liturgico, assicurando al contempo una continuità tematica che si estende alle due settimane, con i testi pieni di riferimenti incrociati ai Vangeli e alle Lettere degli Apostoli. Pertanto l’ingiunzione di dare caritatevolmente agli affamati (BWV 75 i) è bilanciata la settimana seguente dalla parabola del grande banchetto al quale tutti sono chiamati «da tutte le vie» (BWV 76 vi). Bach sceglie di aprire quest’ultima con lo stesso Salmo (19,1.3) che Heinrich Schütz aveva utilizzato in maniera tanto memorabile 75 anni prima quando lo aveva inserito nel suo Geistliche Chormusik, dedicato allo stesso coro della Thomaskirche di Lipsia:
I cieli narrano la gloria di Dio,
l’opera delle sue mani annuncia il firmamento. …
Senza linguaggio, senza parole,
senza che si oda la loro voce.
L’idea di un intero cosmo che celebri la ricchissima creazione di Dio era un regalo per un compositore con un’abilità concettuale come quella di Bach. Essa gli consentí di contemplare ed esplorare il significato dell’infinito, un concetto che fu largamente eluso durante il Medioevo, di un cosmo consapevole di se stesso, di come «la natura e la grazia parlino a tutta l’umanità», dimostrandoci che da esseri umani possiamo meravigliarci della nostra stessa abilità nel comprenderlo. La visione di Bach si riflette nella sua scelta degli strumenti: le trombe regali nella prima parte simboleggiano la gloria divina; la viola da gamba, nella seconda parte, quel vecchio strumento che egli utilizza nei momenti di sentimento piú intenso per sottolineare la capacità umana di provare fede e amore. Trattare l’antitesi tra povertà e ricchezza sarebbe bastato alla maggior parte degli altri compositori. Invece Bach e il suo librettista ignoto (avrebbe potuto essere Gottfried Lange, il poeta-borgomastro, che svolgeva il ruolo di suo mecenate in questi primi anni del suo cantorato?) cercarono dei modi per arricchire il tessuto connettivo. Nella prima Lettera, Giovanni si concentra sul significato dell’amore per l’umanità – espresso da Bach attraverso una maestosa aria per basso e tromba (BWV 75 xii) – e poi, la settimana successiva, sull’amore fraterno (die brüderliche Treue) come fondamento della vita terrena, il mezzo attraverso il quale l’umanità rende onore a Dio (BWV 76 xi).
Bach sviluppa il tema in quattro domeniche successive, poiché a un certo punto deve aver realizzato che due delle sue cantate di Weimar (BWV 21 e 185) potevano essere rielaborate per completarlo. Nel far rivivere la BWV 21, Ich hatte viel Bekümmerniss, che era già da considerarsi come uno dei suoi lavori piú rimarchevoli, Bach riuscí ad arricchire il dualismo dell’amore per Dio e per il prossimo con una visione dell’eternità come obiettivo escatologico dell’uomo. Ricordando come Salomo Franck, librettista della BWV 185, Barmherziges Herze, avesse scritto che «lo stile dei cristiani» è quello di «conoscere solo Dio e se stessi, bruciare di vero amore, non giudicare con intolleranza, né demolire l’agire degli altri, non dimenticarsi del prossimo, misurare con un metro generoso», Bach colse l’opportunità di riciclare questo lavoro poco quotato per quattro voci e archi con il solo supporto di un oboe e una tromba. L’inserimento di questi due precedenti lavori gli permise di presentare alla congregazione un’ampia gamma di stili compositivi dipinti su tele di dimensioni notevolmente diverse. E di farsi, inoltre, un’idea delle preferenze dei suoi ascoltatori.
Il compito di Bach durante questo primo ciclo di Lipsia (vedi il diagramma, fig. 15) fu quello di tenere il passo con le esigenze settimanali. In questo periodo creò quaranta nuove cantate, legandole tematicamente in sottounità per fornire loro continuità e chiarezza, tenendo presente quali parti precedenti potessero comodamente adattarsi nel tessuto di questo arazzo che si andava dispiegando senza intoppi stilistici. A ciò si deve aggiungere la copia delle parti e la direzione del (fino a quel momento) non collaudato gruppo di giovani musicisti, per far sí che fossero in grado di affrontare gli azzardi della sua sbalorditiva e complessa musica con un numero minimo di prove – come abbiamo visto nel capitolo precedente. Venne il giorno del concerto, vi fu dapprima una lunga e fredda attesa in una chiesa non riscaldata, poi bisognava far colpo su una intimorente platea. Da lí in poi, senza guardarsi alle spalle, dritti verso la cantata successiva, mantenendo un ritmo costante. Nonostante l’inventiva e l’originalità di questi lavori iniziali, la sequenza era tesa a placare le paure delle autorità di Lipsia, diffidenti verso ogni carattere «operistico» che si potesse udire in chiesa; se comparati ai lavori che avrebbe composto in seguito, in quel momento non vi era nulla che potesse allarmarli.
La lunga stagione della Trinità, che si estendeva dal tardo maggio alla fine di novembre, metteva in modo persistente l’accento nel lezionario luterano sul peccato e sulla malattia del corpo e della mente. «Il mondo intero non è che un ospedale», dichiara il tenore a un certo punto nella BWV 25, Es ist nichts Gesundes an meinem Leibe: la caduta di Adamo ha «macchiato ogni uomo e lo ha contagiato con la peste del peccato»k. La malattia, la febbre rabbiosa, le piaghe lebbrose e l’«immondo puzzo» del peccato vengono descritti in dettaglio nel testo di questa cantata, senza nulla concedere alla delicatezza di sentimenti o a un potenziale disgusto dell’ascoltatore. Sebbene il librettista ignoto giunga a un appassionato appello a Cristo come «medico e aiuto di tutti i malati», con la richiesta di curare e mostrare pietà, è la musica di Bach a completare il nostro viaggio spirituale. Come ascoltatori possiamo sentire che ciò sta accadendo, ma è difficile dire come egli produca un cambiamento nella nostra percezione di quanto le parole stanno dicendo. Prendiamo ad esempio il coro di apertura con la sua cupa descrizione di un mondo dominato dal peccato: «Per il tuo sdegno, nella mia carne non c’è nulla di sano, nulla è intatto nelle mie ossa per il mio peccato» (Salmo 38,4). Avendo predisposto tutto per sottolineare le parole con ogni mezzo a sua disposizione (canoni a due voci, motivi sospiranti e armonie instabili modulanti verso il basso), si potrebbe pensare che Bach avesse esaurito il proprio arsenale espressivo, ma non è cosí. Nella quindicesima battuta inserisce un «coro» separato composto da tre flauti dolci, un cornetto e tre tromboni per intonare il famoso «Corale della Passione»l, una strofa alla volta. Bach ha aggiunto un proprio commento indipendente che compie gradualmente la sua magia, instillando l’idea della speranza e della consolazione. Si mette a dialogare con gli ascoltatori, la sua musica diventa una specie di trasfusione di sangue in cui il ruolo principale nel processo curativo viene svolto dalla musica, non dalle parole.
Ancora una volta, in queste prime cantate di Lipsia notiamo come la loro scrittura piú convincente intenda aiutare gli ascoltatori a vedere quali siano le scelte a loro disposizione nella vita, nel mostrare loro un ideale («paradiso»), per poi concentrarsi sul mondo reale e su come relazionarsi con esso – in termini di atteggiamento, comportamento e condotta. Questo spiega perché le cantate paiono travalicare i loro confini storici e liturgici per giungere fino a noi. I nostri pensieri e sentimenti trovano espressione grazie a Bach, con molto piú candore e chiarezza di quanto da soli potremmo mai mettere insieme. Poi egli raggruppa tutti gli elementi di chiosa esegetica che aveva donato ai temi devozionali nel corso del lavoro in un corale conclusivo (spesso ma non sempre) perfettamente inserito nello schema emotivo. Era questo un momento di conforto per gli ascoltatori, li riportava al qui e ora delle loro preoccupazioni quotidiane – a un «sano» presente. Per quanto strana o complessa potesse essere la nuova musica del compositore nei movimenti di apertura delle sue cantate, il corale era un punto di riferimento familiare – il ritorno in un territorio in cui gli ascoltatori potevano rispondere cantando insieme la melodia o solo seguirla nell’interiorità.
Seguono altre cantate penitenziali, che prolungano tale campagna stagionale di catechizzazione punitiva, a volte rafforzata, a volte temperata dalla musica di Bach. Man mano ci abituiamo al modo in cui l’attore umano viene posizionato dal librettista nello scenario della fede e del dubbio, del peccato e di Satana. Ciò che incuriosisce è che tutto questo greve attacco teologico non riesca a smussare l’audacia della risposta musicale né a sminuire l’umanità della compassione di Bach per il fedele. Nonostante Bach debba abitualmente avere a che fare con temi universali cosí elevati come l’eternità, il peccato e la morte, mostra di essere anche interessato al baluginare del dubbio e alle tribolazioni quotidiane di ogni individuo, riconoscendo che piccole vite non sembrano piccole agli occhi delle persone che le vivono (proprio come queste piccole vite sembrano enormi quando vengono riccamente immaginate e osservate nei dettagli da romanzieri come Tolstoj o Flaubert). In questo Bach dà un esempio di ciò che Vico chiamava fantasia: la capacità di un’introspezione immaginifica o l’attitudine a entrare nella pelle degli altri, o ciò che Herder chiamò in seguito Einfühlung («empatia»)8.
Ciò affiora in un lavoro come la BWV 105, Herr, gehe nicht ins Gericht, in cui il servo penitente si pente degli «errori della mia [sua] anima». Bach ricorre a un espediente, comune nella rappresentazione barocca dell’ansia, il tremolo, che richiede agli strumenti ad arco di compiere pulsazioni ripetute due o quattro volte per ogni arcata (tecnica solitamente chiamata «vibrato d’arco»)m e lo usa astutamente in tre dei sei movimenti della cantata: prima per rappresentare il fattore scorretto che attende nervosamente, sapendo che verrà licenziato perché non è riuscito a raccogliere ciò che spettava al suo padrone (Luca 16,1-9), poi per rappresentare la tremante coscienza del peccatore, fissando nell’orecchio dell’ascoltatore l’idea attraverso il suono persistente delle semicrome assegnate ai violini e la linea di crome pulsanti eseguite dalla viola che traccia un leggero ma inesorabile simbolo di sofferenza psicologica: «Quanto tremano e vacillano | i pensieri dei peccatori |mentre si accusano l’un l’altro | E di nuovo cercano di scolparsi. | Cosí una coscienza angustiata | è lacerata dal proprio tormento». In quest’aria per soprano vi è una fragilità cristallina e un frammentato lirismo nella linea melodica, prima all’oboe, poi alla voce. Essi si scambiano proposte tentatrici e reticenti ritrattazioni – due «voci» che si fanno eco all’interno di una sola mente chiaramente in conflitto con se stessa. Bach evita gli eccessi drammatici. Laddove un altro compositore si sarebbe misurato con l’ovvia opportunità di una vivida mimesi della «coscienza angosciata», Bach opta invece per un approccio sottile e sostanzialmente umano, variando le sue armonie cromatiche e diatoniche fino a convergere negli sbalzi di umore di una mente in continuo stato di vacillamento: è tentata, resiste, soccombe, di nuovo resiste, ottiene requie solo con la cadenza finale (e anche qui sentiamo che è solo un riposo temporaneo). Poi, nel corale finale, per esprimere il progressivo placarsi della coscienza tormentata del peccatore, Bach torna a usare il tremolo del movimento d’apertura della cantata. Prima piazza delle semicrome pulsanti nelle linee strumentali, poi le rallenta in terzine, poi in crome, poi ancora piú lento con terzine di semiminime e alla fine semiminime semplici che discendono cromaticamente – un graduale esaurirsi, fino al punto in cui entrambe le voci e il continuo tacciono. Tutto ciò è una geniale rappresentazione grafica e un modo originale per descrivere la salvezza dell’anima dalla sua prigione terrena.
Da questa distanza, è semplice enfatizzare il modo profondamente umano in cui Bach delinea le varie scelte che tutti noi dobbiamo affrontare in diversi momenti della nostra vita – i vicoli ciechi che intraprendiamo, le tentazioni e il prezzo che spesso dobbiamo pagare per averle seguite o per esserci trovati a dover soccombere a esse, le varie opzioni che abbiamo per alleggerire le nostre coscienze. Se qui la descrizione poetica è sottile e le immagini generalmente piú semplici da afferrare che in molte altre cantate (anche in virtú della grande, inabituale, qualità del libretto), il vero piacere deriva dal seguire la prodigiosa inventiva musicale di Bach, il modo in cui si sviluppa: osservando le idee che subito accendono la sua fantasia, e poi le tecniche che egli utilizza nel presentarle ed elaborarle.
La relazione tra questa cantata e quella della domenica successiva, BWV 46, Schauet doch und sehet, non è per nulla casuale. Va ben oltre il semplice fatto che entrambe condividono moniti contro il peccato, la paura delle rappresaglie sotto forma di un severo giudizio da parte di Dio e la stessa (assolutamente unica) struttura in sei movimenti (coro – recitativo – aria – recitativo – aria – corale). Per esempio, entrambe presentano una texture di bassetchen (105 iii, 46 v) ed entrambe sono dotate di movimenti finali molto inconsueti con il corale incastrato in una disposizione orchestrale indipendente, con interludi per violini, viole (105 vi) e due flauti dolci (46 vi), in entrambi i casi non supportati dal continuo. Anche l’espediente del tremolo, una peculiarità tanto marcata nella BWV 105, riappare (forse per mettere alla prova la memoria a breve termine dell’ascoltatore) nella seconda parte di una scena di tempesta dell’aria per basso (BWV 46 iii), cambiando l’atmosfera da minaccia marziale ed attesa ansiosa del manifestarsi della vendetta di Dio – con l’indicazione di eseguirla pianissimo. Ma in primo luogo, tutte e due le cantate si annunciano con grandi movimenti di apertura strutturati in forma di preludio corale e fuga per rispecchiare le divisioni in frasi del testo biblico.
Vi sono indizi di come Bach stesse già pensando al Tempo di Passione, poiché i due cori presentano caratteristiche associabili con il quadro di apertura della Passione secondo Giovanni (vedi infra, cap. X): nella BWV 46 troviamo la stessa pronunciata figura lamentosa delle viole; mentre nella BWV 105 ritroviamo le grida imploranti dei cori, Herr! Herr!, associate alle stesse aspre sospensioni negli strumenti piú acuti, con la medesima palpitante linea di basso e la tonalità di Sol minore. La BWV 46 inizia come un lamento per la distruzione di Gerusalemme raccontata da Geremia (Libro delle Lamentazioni 1,12). La profezia di Gesú sulla distruzione di Roma nel 70 d. C. è raccontata nel passo del Vangelo del giorno (Luca 19,41-48), e sia in questa domenica sia il Venerdí santo, nelle chiese di Lipsia si tenevano le letture annuali del racconto dello storico romano Flavio Giuseppe e la narrazione della Passione di Giovanni intorno all’evento. Qui, alludendo a tutto ciò, il racconto musicale di Bach è in grado di toccare diverse epoche storiche – da quella del profeta Geremia del Vecchio Testamento a quella di Gesú – e di imprimere nella mente dei fedeli queste successive catastrofi, dando loro la forma delle metafore di sofferenze che essi si autoinfliggono, in un arco temporale ampio come quello delle Passioni.
Gli ci saranno volute nove o dieci domeniche per acquisire la giusta andatura e sviluppare questi elaborati cori contrappuntistici, ma era giunto a un punto di non ritorno. A Lipsia Bach ha iniziato a sviluppare un nuovo stile di cantata, diverso dai lavori che aveva scritto prima. Attraverso il riutilizzo di quattro cantate di Weimar, nelle settimane precedenti si era concesso altro tempo per riflettere ed elaborare.
Le BWV 105 e 46 ne sono il risultato. Preferire l’una o l’altra di queste due imponenti cantate è una scelta personale, ma è facile essere sedotti dalla piú ricca strumentazione della BWV 46 – due flauti dolci, due oboi da caccia e una tromba da tirarsi in aggiunta al normale ensemble di archi –, e il fatto che la prima sezione («Preludio») venne poi riutilizzata con le parole Qui tollis peccata mundi nel Gloria della Messa in Si minore, dimostra l’alto valore attribuitole da Bachn. Considerandole insieme, si percepisce che Bach voleva che le cantate di queste due settimane formassero un climax teologico-musicale in questo primo periodo della Trinità.
Quando la stagione estiva cede il passo all’autunno, il focus dei testi assegnati a ogni domenica si sposta sui rischi del vivere in società – con i moniti contro i falsi profeti e gli ipocriti e sul come vivere giustamente in un mondo colpito dal peccato. Si potrebbe scegliere una qualsiasi delle trenta cantate che Bach compose dall’inizio di questo primo ciclo fino al Natale per illustrare questa progressione. A metà della BWV 93, Wer nur den lieben Gott läßt walten, Bach fa esclamare al tenore: «c’è la morte nella pentola!» – un’allusione che probabilmente disorientò anche la sua congregazione dedita alle letture bibliche. (Questa pare sia stata la reazione delle persone in un momento di carestia a un piatto poco appetitoso preparato per loro da Eliseo, che egli rese in qualche modo commestibile «per la gente», 2 Re 4,40-41 – una metafora che ben si accorda alla capacità di Bach di convertire regolarmente la dura crosta dottrinale di questa poco promettente pietanza trinitaria in qualcosa di appetibile e vario). Avendo già acquisito la capacità di vivificare un messaggio dottrinale e, quando possibile, di veicolarlo con un forte senso drammatico, Bach esplora adesso come e quando bilanciare tale messaggio con una musica di lenitiva tenerezza, attenuando e addolcendo la severità del testo senza affievolirne in alcun modo l’impatto. Ancora una volta si può percepire l’eccezionale livello di coinvolgimento di Bach con le parole, dal momento che la sua musica va ben oltre la mimesi letterale o l’uso codificato di figure e simboli convenzionali. (Il complesso intreccio tipico di Bach di parole e musica sarà trattato nel capitolo XII, dove incontreremo altre delle sue prime cantate di Lipsia).
Quando l’autunno cede il passo all’inverno i temi della settimana diventano decisamente piú severi in quanto il fedele è esortato a rigettare il mondo, le sue lusinghe e trappole, e a concentrarsi sulla futura comunione con Dio – per non rischiare l’orrore di un’esclusione permanente. Di settimana in settimana, la dicotomia sembra acuirsi, e l’accento sul peccato e sulla colpa diviene sempre piú profondo con il peggiorare del clima. Per esprimere il conflitto interiore tra la fede e il dubbio nella BWV 109, Ich glaube, lieber Herr, hilf meinem Unglauben!, vediamo Bach disegnare due linee vocali contrapposte, cantate dalla stessa persona, una indicata forte e l’altra piano. (Come avrebbe apprezzato questa scelta Schumann – il creatore di Florestano ed Eusebio, che odiava esprimersi con una singola voce unificata). Una polarità di tipo differente è suggerita nella BWV 90, Es reißet euch ein schrecklich Ende – fra le terrificanti conseguenze che attendono il peccatore durante il Giudizio universale e la protezione che Dio assicura al «Suo eletto». Bach apre con un’aria «d’ira» di grande energia – con delle tirades e adornata di quattordici biscrome consecutive, grandi salti nella tessitura, finali di frase abbreviati e pause drammatiche a metà parola (schreck… lich). Questo è altrettanto teatralmente estremo quanto le opere alle quali i suoi ascoltatori (ed esecutori) avevano assistito durante gli anni in cui Lipsia aveva un suo teatro d’opera (1693-1720)9 – non era certo ciò che si sarebbero aspettati di ascoltare in chiesa – e per la prima volta rischiò una flagrante infrazione al protocollo.
Poi, per la cantata conclusiva della stagione della Trinità, BWV 70, Wachet! betet! betet! wachet!, con il suo giocare con le parole, Bach rincara la dose. Nell’affiancare gli accompagnati ora aggiunti alla precedente cantata di Weimar, alle loro ripetute semicrome suonate nello stile concitato di Monteverdi, Bach anticipa di molti anni le esplosioni operistiche di due delle eroine piú famose di Händel: Dejanira, la folle moglie in Hercules, 1745 («Where shall I fly?»), e Storgè, la madre oltraggiata in Jephtha, 1752 («First perish thou!»). Ma non sono solamente gli inizi a tutto gas di queste scene drammatiche che meritano un approfondimento in questa cantata: Bach è un modello per i suoi contemporanei della Sassonia sotto ogni punto di vista – nell’energia delle sue declamazioni vocali, nello strepitoso accompagnamento orchestrale di sostegno da lui inventato per ritrarre la catastrofica distruzione del mondo, e nella serafica transizione che egli realizza quando Cristo finalmente guida il fedele verso la completa «quiete, nel luogo dove la gioia ha la pienezza». In queste due cantate che chiudono la stagione della Trinità, sembra che Bach – probabilmente non intenzionalmente – abbia superato i suoi colleghi italiani compositori di opere e che li abbia battuti al loro stesso gioco (tutto ciò fa parte dell’evoluzione delle forme dell’opera descritta nel cap. IV). In questo processo egli ruppe palesemente la promessa fatta al consiglio nemmeno sei mesi prima – di non realizzare composizioni «teatrali» o simili a quelle realizzate a Weimar. Come vedremo, questo non fu solo uno scivolone momentaneo ma una trasgressione abituale: intrattenere al meglio ed essere apprezzato da una congregazione intorpidita dal freddo e da quattro ore passate su una scomoda panca.
Quando Bach si accosta alla sua prima stagione del Natale a Lipsia, il clima si distende. Al tempus clausum dell’Avvento segue una presa di fiato collettiva, seguita a sua volta da un’esplosione di musica festiva. Un gruppo di nuovissimi lavori appare all’improvviso sui leggii del Thomaner – nove importanti nuovi pezzi da comporre ed eseguire nell’arco di sedici giorni in tre chiese cittadine. Nella sua mente Bach deve aver considerato che questo primo periodo di pausa nel ciclo di cantate sarebbe stato il momento giusto per accelerare la velocità della sua composizione settimanaleo. In meno di un mese doveva completare le musiche per nove festività, dal giorno di Natale fino alla prima domenica dopo l’Epifania: sei nuove cantate – BWV 40, 64, 190, 153, 65 e 155 – e due lavori in latino, in una lingua diversa ma ugualmente complicata – un compatto Sanctus in Re maggiore (BWV 238) e il Magnificat in Mi maggiore (BWV 243 a), ai giorni nostri piú conosciuto nella sua versione in Re maggiore (BWV 243). Queste due opere dovevano essere eseguite insieme alla grande cantata di Weimar, BWV 63, Christen, ätzet diesen Tag, il giorno di Natale. Uno sguardo al calendario rivela l’immensità e l’inesorabilità del compito che Bach aveva affidato a se stesso e alla propria orchestra:
Si resta meravigliati per come Bach e i suoi esecutori abbiano affrontato questa sfida. Ovviamente non potremo mai sapere quanto facilmente si siano destreggiati e quanto la musica sia stata eseguita correttamente sotto una simile pressionep. Indizi di come Bach avesse previsto il problema dell’affaticamento progressivo possono essere rintracciati nel suo uso di strumenti colla parte per rinforzare le linee corali di alcuni cori di apertura e l’assenza di assoli di soprano in cinque cantate (BWV 40, 190, 153, 65 e 154). Aprendo una di queste partiture a caso o ascoltandole non si può evitare di essere impressionati dalla stupefacente portata dell’impresa di Bach e dalle pretese tecniche che egli aveva imposto a se stesso e sulla sua orchestra nel comporre e nell’eseguire una tale cornucopia di musica natalizia a rotta di collo: ci si abbandona a quelli che Dreyfus definisce «elementari sentimenti di soggezione»10.
Appena Bach poté liberarsi da questo ritmo di lavoro punitivo, ebbe la necessità di anticipare, pianificare e progettare, affannandosi per trovare il tempo di concepire e di approfondire la sua prima Passione oratoriale. Abbiamo già trovato prova di bozze preparatorie della sua Passione secondo Giovanni, ma quanto di questa era stato portato a termine nella fase attuale? Già nel periodo di Natale troviamo segni che preparavano gli ascoltatori agli shock futuri e anticipazioni di quanto aveva in serbo per loro. Per esempio, egli diede ciò che ci potrebbe sembrare un’insolita impronta teologica non stagionale a tre lavori consecutivi per i tre giorni di Natale. Bach non ricorre a nessuno dei soliti temi cui siamo stati abituati dal suo (successivo) Oratorio di Natale: nessuna aria per la Vergine, nessuna musica per i pastori e per gli angeli, e nemmeno i corali standard del Natale. Eccezion fatta per il famoso Magnificat. In questa prima versione in Mi maggiore Bach introdusse le cosiddette laudes. Per gran parte deliziosi, a volte piuttosto curiosi, questi pezzi sono troppo complessi per essere mere ninnananne e apparentemente essi erano intesi come una concessione ai costumi locali, da far cantare a un coro «angelico» separato dalla balconata a nido di rondine della Thomaskirche. Inseriti tra i versi della canzone di Maria, essi formano un riassunto della storia di Natale in miniatura.
Altrove egli ci presenta una visione decisamente giovannea dell’incarnazione – la discesa di Dio in sembianze umane per salvare l’uomo e portare gioia grazie alla vittoria sul Diavolo – anticipando chiaramente il messaggio della Passione secondo Giovanni, che sarebbe comparsa di lí a pochi mesi. In tre avvincenti cantate natalizie – BWV 63, 40 e 64 – Bach dà grande enfasi alla descrizione fatta da Giovanni del Cristo come Christus victorq. Dato che il terzo giorno di Natale è anche la Festività di Giovanni possiamo capire perché Bach abbia scelto di enfatizzare la distinzione tra il mondo «di sopra» (pieno di verità e luce) e il mondo «di sotto» (pieno di oscurità, peccato e incomprensione). Dio discende in forma umana per salvare l’uomo dal peccato che lo ha avvelenato fin dal primo incontro con il Diavolo (rappresentato da un serpente). L’aspirazione dell’uomo è quella di ascendere a un livello in cui possa essere accolto tra i figli di Dio. Ma prima che questa ascesa possa compiersi, Cristo deve affrontare la sua Passione e poi, con la sua Resurrezione, sconfiggere il peccato, la morte e il Diavolo. Ovviamente è troppo semplice descrivere la musica di Bach soprattutto in termini di testo, dimenticando il motivo originale per cui ci interessa. Nel caso delle BWV 40, 64 e della magnifica cantata dell’Epifania BWV 65 di dieci giorni successiva, sono pochi gli indizi sul modo in cui molte delle parole e delle immagini sembrano sgorgare cosí semplicemente dalle citazioni bibliche e dai corali per poi fondersi con naturalezza con la musica, ma sufficienti da suggerire che lo stesso Bach possa aver scritto i testi, o abbia almeno avuto una forte influenza sull’autore.
Ai tempi di Bach il periodo tra Natale e l’Epifania era chiamato Raunächt – letteralmente «notte rozza» –, l’equivalente tedesco dei saturnali romani e derivante da un’analoga tradizione pagana. Non poteva certo riposare: c’erano nove settimane tra l’Epifania e l’inizio della Quaresima per le quali erano necessarie sei nuove cantate (con tre precedenti lavori di Weimar disponibili per una revisione) piú una per la festività della Purificazione (2 febbraio). Per l’Epifania +4, fu composta quella che può essere considerata la piú «operistica» delle cantate di Bach: la BWV 81, Jesus schläft, was soll ich hoffen? In essa offre agli ascoltatori un assaggio della musica avvincente che avrebbero potuto aspettarsi quando la sua immaginazione veniva rapita da un episodio particolarmente drammatico. Basata sulla descrizione fatta da Matteo di Gesú che calma una violenta tempesta sul mare di Galilea che minaccia di rovesciare la barca su cui naviga con i suoi discepoli, essa fa del viaggio per mare una metafora della vita del cristiano. La cantata si apre con Gesú assopito sulla barca, lo scenario di un’inquietante meditazione sul terrore di essere abbandonati in un mondo senza Dio – ciò dà il via a due flauti dolci accompagnati da un gruppo di archi in un’aria per contralto, la voce che Bach usa regolarmente per l’espressione della contrizione, della paura e del lamento. Qui egli sfida il cantante in un impegnativo (e simbolico) test tecnico di resistenza: tenere un Si senza vibrare per dieci tempi lenti, affrontando poi una serie di secchi salti e contorsioni (attraverso intervalli diminuiti e aumentati) per evocare l’abisso profondo della morte incipiente. La vita senza Cristo – il suo assonnato silenzio dura per i primi tre numeri – provoca nei suoi discepoli, e ovviamente in tutti i cristiani, un’acuta angoscia e un senso di alienazione che affiora in superficie nel recitativo del tenore con le sue armonie spostate e dissonanti. Sullo sfondo vi sono le parole del Salmo 13 – «Per quanto tempo mi dimenticherai, o Signore, per sempre? Quanto a lungo mi terrai nascosto il tuo volto?» – e l’immagine della stella cometa, preziosa per tutti i marinai e per i Re Magi.
All’improvviso arriva la tempesta. Lo spumeggiare continuo di violente biscrome dei primi violini è contrapposto all’ininterrotto martellamento degli altri strumenti. Si giunge a una successione di schiocchi assordanti su accordi di settima diminuita che rappresentano la rabbia delle «acque del Diavolo» che si abbattono sulla piccola imbarcazione. Come le potenti arie «di furore» di Händel, anche quest’aria impone al tenore e ai violini rapidi passaggi virtuosistici, ma è pervasa da una maggiore tensione armonica – come potrebbe suonare il Paradiso perduto se fosse pensato in forma di opera. Per tre volte Bach arresta l’impeto della tempesta con due battute che pongono in primo piano il marinaio sballottato. Sebbene sembri in tutto e per tutto vera, la tempesta è anche l’emblema delle empie forze che minacciano di sommergere il cristiano abbandonato da solo mentre affronta i propri tormenti. È straordinario come Bach abbia creato una scena cosí vivida a partire da un semplice inizio in allegro in Sol maggiore per soli archi. Gesú, ora sveglio (come se avesse potuto dormire in tutto quel trambusto), rimprovera i discepoli per la loro mancanza di fede. In un arioso accompagnato da un basso continuo lineare, quasi un’invenzione a due voci, il basso solista assume la parte della vox Christi. Dopo il colorito dramma della scena precedente, la profonda essenzialità e la deliberata ripetitività della musica sono impressionanti. Ci si chiede se qui non ci sia un pizzico di drammatico realismo, di annoiato rimprovero (la ripetizione di Warum?) o anche di velata satira – una di quelle occasioni in cui Bach avrebbe potuto prendere in giro uno dei suoi severi datori di lavoro di Lipsia. Segue una seconda scena di mare, straordinaria quasi quanto la precedente, questa volta sotto forma di aria per basso, due oboi d’amore e archi. Gli archi sono intrappolati dentro le ottave, un simbolo di ordine, per dimostrare che anche la marea, la risacca e l’alzarsi delle onde possono rompersi al comando di Cristo Schweig! Schweig! («Taci!») e Verstumme! («Calmati!»)r.
Quando mai un turingio di terraferma come Bach può aver assistito a una tempesta marina? Potrebbe essere accaduto solo sul mar Baltico, durante la sua breve permanenza a Lubecca nel 1705. A ogni modo, uno dei suoi autori preferiti, il teologo del XVII secolo Heinrich Müller, sicuramente vi assistette. Müller viveva a Rostock, sulla costa baltica, e aveva commentato eloquentemente questo particolare avvenimento del Vangelo secondo Matteo. Per il vero credente, viaggiare nella «piccola barca di Cristo» vuol dire, metaforicamente, sperimentare gli scossoni della vita e il brutto tempo e uscirne indenne: «il paradosso della pace totale nel mezzo della turbolenza»11. L’interpretazione antropologica di Müller di questo evento biblico – che fornisce una guida morale all’ascoltatore – può aver influenzato il modo eccezionale in cui Bach lo ha trattato, un assaggio del racconto musicale altrettanto drammatico che ritroviamo nella sua Passione secondo Giovanni, la cui prima si stava velocemente avvicinando. Non vi è dubbio che questo abbia turbato le autorità del concilio di Lipsia, come il dottor Steger che, nove mesi prima, aveva votato Bach come compositore con l’esplicita riserva che «avrebbe dovuto fare composizioni non teatrali»12. Un simile lavoro suggerisce che tipo di compositore di opera Bach sarebbe stato se avesse avuto una tale inclinazione, poiché non vi è nulla nelle sue cantate profane (nonostante siano chiamate drammi per musica) che sia altrettanto teatrale quanto questa splendida cantata.
Partendo dal presupposto che Bach ebbe un ruolo preminente nella scelta del testo poetico e nella selezione dei corali nel periodo che portava alla Quaresima, sembra stesse attentamente preparando la congregazione alla risposta comune che i suoi corali avrebbero presto incarnato nella prima Passione, assicurandosi anche di stabilire nelle loro menti una connessione tra la voce di basso e la voce di Cristo. Rimaneva la Quaresima, i suoi quaranta giorni interrotti dalla festività dell’Annunciazione (25 marzo), durante la quale completare la Passione secondo Giovanni in tempo per il Giovedí santo (7 aprile). Questa fu per Bach l’opportunità di apporre impunemente il suo marchio sulla forma, lo stile e sullo scopo della musica per questo giorno festivo. Possiamo mettere insieme le fila della vicenda attraverso le note contenute nei verbali del consiglio. Nel periodo prossimo alla Settimana santa del 1724 Bach procedette a tutta velocità pubblicando annunci, stampando e rendendo pubblici i libretti della sua Passione secondo Giovanni programmandone l’esecuzione nella Thomaskirche. Tra lo sconcerto di certi membri del consiglio, dev’esser parso che il nuovo compositore semplicemente non avesse afferrato il protocollo elementare di come le cose andavano fatte a Lipsia. Forse non era a conoscenza della «tradizione» locale (stabilita solo tre anni prima, nel 1721) di alternare il servizio del Venerdí santo tra le due chiese principali? I verbali del consiglio sostengono che il compositore fosse stato avvertito in anticipo che quell’anno era il turno della Nikolaikirche. Egli fu puntualmente convocato di fronte al concistoro per spiegare perché avesse eluso le loro disposizioni e per sentirsi dire in termini molto chiari di «prestare attenzione» (darnach achten) ed «essere piú diligente in futuro». I verbali del clero della città indicano che la sua risposta fu (sorprendentemente) misurata e collaborativa: «egli si sarebbe adeguato [accettando, in altre parole, di spostare la sede nella Nikolaikirche], ma sottolineò che il libretto era già stato stampato … [e] richiese almeno un piccolo spazio aggiuntivo nell’area del coro, in modo da poter posizionare le persone necessarie a eseguire la musica; richiese anche che il cembalo venisse riparato». A ciò «l’Onorato e Sapientissimo Consiglio» acconsentí debitamente, e venne stampato un nuovo volantino che annunciava il cambiamento di sede13. Ciò doveva porre fine alla questione, ma chiaramente non fu cosí: si doveva ancora affrontare il clero, come vedremo nel prossimo capitolo.
I ben pianificati progetti di Bach sembrano essere andati a monte. La prima esecuzione della Passione secondo Giovanni del 7 aprile 1724 interferí manifestamente con il successivo svolgersi del primo ciclo di cantate, ma possiamo solo fare delle ipotesi se ciò fu dovuto al fatto che Bach avesse ricevuto un forte rimprovero teologico o se fu soltanto una conseguenza delle sue troppe attività. Per completare il ciclo e il suo seguito rimanevano quindici feste religiose per i «Grandi Cinquanta Giorni» tra la Pasqua, la domenica di Pentecoste e la domenica della Trinità, accompagnate da tre giorni molto impegnativi nei weekend di Pasqua e di Pentecostes. Qualunque sia il motivo, Bach non riuscí a mantenere il suo piano iniziale di una sequenza composta in tutto e per tutto, e di conseguenza fu costretto a fare dei compromessi – ricorrendo a quattro cantate composte in precedenza (BWV 31, 12, 172 e 194) e poi riciclando materiale da lavori profani composti nei giorni trascorsi a Cöthen (BWV 66, 134, 104, 173 e 184) per altre cinque cantate. Mancavano ancora cinque nuovi lavori da comporre per la domenica di Pentecoste. La loro qualità complessiva è considerevolmente alta, e anche in questo caso Bach li dispone a formare un miniciclo.
La prima cantata della sequenza, la BWV 67, Halt im Gedächtnis, è particolarmente ragguardevole: la musica vibra con pulsante energia ritmica ed è ricca d’invenzione. Qui Bach deve dipingere i sentimenti perplessi e vacillanti dei discepoli, le loro speranze infrante dalla crocifissione. Egli esprime la tensione palpabile tra i dubbi di Tommaso e la necessità del gruppo di mantenere la fede (il corno fa riecheggiare l’idea sotto forma di citazione, una singola nota sostenuta all’apertura del coro, un’ingiunzione a «mantenere» la memoria di Cristo). In seguito, in quella che era iniziata come una equilibrata e gioiosa gavotte per tenore, l’oboe e gli archi si frammentano bruscamente nella seconda battuta: «Che cosa ancora mi spaventa?» che contrappone questi Affekte contrari, uno inquieto, l’altro affermativo. Bach riesce a catturare il nervosismo del cristiano assillato, mentre il soprano solista esorta il coro a mantenere alto lo spirito cantando l’emblematico inno di Pasqua «Erschienen ist der herrlich Tag» («È apparso il mirabile giorno»). Poi, al culmine della cantata, compare una scena drammatica in cui gli archi intonano una tempesta per illustrare la rabbia del nemico. Il coro a tre voci dei discepoli feriti, incrementato dal furioso degli archi, esprime il senso di alienazione della comunità cristiana nel qui e ora. Come in una dissolvenza cinematografica, Bach unisce a tutto ciò una piú lenta, delicata sequenza in ritmo ternario puntato per i tre legni – che prelude all’improvvisa apparizione di Cristo ai suoi discepoli riuniti in una stanza chiusa. Per tre volte le loro ansie vengono placate dalla rasserenante espressione di Gesú Friede sei mit euch («La pace sia con voi»). Alla sua quarta e ultima apparizione, gli archi abbandonano il loro ritmo travolgente e si mescolano simbolicamente con i ritmi cullanti dei legni. La scena finisce cosí in modo pacifico, con il corale conclusivo che presenta il Principe della Pace come «un potente soccorritore, in vita e in morte».
Ora, senza nemmeno una settimana per riflettere e fare il punto della situazione, Bach si immerge nel secondo ciclo di Lipsia l’11 giugno 1724 (vedi il diagramma, fig. 16). Vi è un inequivocabile cambiamento nel suo approccio, ma senza la pur minima diminuzione di qualità. Il primo ciclo era decisamente sperimentale – nella diversità delle forme, nella sua varia strumentazione e nelle grandi sfide che essa poneva all’orchestra –, ma il secondo è, se possibile, ancor piú audace. La tecnica di musicisti e cantanti sta per essere messa ancor piú alla prova, la nuova musica richiede una capacità di risposta istantanea alla pulsazione e allo stato d’animo del momento: i cantanti devono star dietro alla precisione e all’agilità degli strumenti, e questi, a loro volta, devono modellare e flettere le loro linee come i cantanti. Verranno fatte anche meno concessioni alle remore degli ascoltatori. Questo risulta molto chiaro fin dalla prima cantata, BWV 20, O Ewigkeit, du Donnerwort. Un brano sorprendente, che definisce il tono dell’intero ciclo e mette insieme molti tratti originali che incontreremo in seguito: una nuova ricetta espressiva, l’uso della tecnica operistica per ravvivare il messaggio dottrinale e ampi contrasti emozionali. In questo caso Bach si ispira alla supplica della Lettera sul «coraggio nel giorno del giudizio» (1 Giovanni 4,16-21) per accendere la sua immaginazione e le sue capacità di invenzione musicale. Ci sembra di essere già nella fase finale della stagione della Trinità, non al suo inizio – ma del resto l’epoca di Bach subiva il fascino dell’Apocalisse, e questo tema ricorre spesso e inattesot. Mentre la melodia dell’inno di Johann Rist era abbastanza familiare alla congregazione, il modo in cui Bach lo trattò fu originale e scioccante. Se nella cantata BWV 21 dell’anno precedente vi era una visione dell’anticipazione dell’eternità favorita dalla fede, il sottotesto della BWV 20 non è il conforto, ma la paura – l’agghiacciante prospettarsi di un’eternità di torture e pene. L’uomo viene esortato a salvare la propria anima: l’unica strada per la salvezza è la rinuncia al peccato. La melodia dell’inno domina i primi tre segmenti della fantasia del corale di apertura (veloce – piano – veloce). Bach fece in modo che le energie combinate delle voci acute del Thomaner fossero incanalate nella melodia incalzante del cantus firmus (O Ewigkeit, «O eternità») e rinforzate da una tromba da tirarsi marziale, che trascina nella sua scia le tre voci piú basse prima che esse si scheggino nello stile fortemente puntato degli strumenti (du Donnerwort, «Parola di tuono»). Potenti accenti incrociati e un’ampia ascesa verso l’alto dei bassi su Traurigkeit («tristezza») caratterizzano la doppia fuga. Bruscamente l’orchestra stride fermandosi su una settima diminuita. Solo un audace drammaturgo avrebbe rischiato di interrompere la progressione in avanti per comunicare uno stato d’ansia – personale e paralizzante – e Bach aveva delle buone ragioni per esserne fiero. (Qualsiasi devoto ritardatario fosse entrato in chiesa in quel momento sarebbe rimasto di ghiaccio, e invitato a tenere per sé i suoi saluti). Dal successivo silenzio, vengono lanciati brevi frammenti spigolosi dagli oboi agli archi e viceversa in anticipazione della ripresa del coro: «Il mio cuore, completamente atterrito, trema, – con voce spezzata, – tanto che la lingua mi si attacca al palato». Un modo di procedere cosí frammentario e di tale intensità sembra inimmaginabile in un mondo prebeethoveniano. Bach comprese la fisiologia della voce molto piú di quanto gli fu riconosciuto e la rese parte integrante dell’espressione. Improvvisamente ci rendiamo conto che Bach ha scelto una forma di ouverture francese come base strutturale di questo movimentou: lontana dal suo tradizionale rievocare l’ordine e la grandeur, i frastagliati ritmi puntati e gli stravaganti gesti retorici che caratterizzano questa forma delineano qui un mondo che si disintegra. Appena viene sostenuto da armonie destabilizzanti, l’effetto guadagna potenza – e ancor piú quando l’andamento si velocizza in un vivace. Bach ci rende istantaneamente consapevoli che la regione della dannazione eterna verrà popolata da orridi lacchè del Diavolo, che radunano e trafiggono le anime dei dannati in un recinto sotterraneo.
Né tale visione apocalittica si affievolisce sul finale di questa invettiva di apertura. Un tenore solista fa un passo avanti e rincara la dose a questa agonia: «il tormento dell’eternità non ha termine alcuno; esso esercita incessantemente il suo tormentoso gioco». Bach si avvale di un arsenale variegato per quest’aria – note lunghe e crome ondeggianti per suggerire l’eternità, tortuosi intervalli accoppiati a crome per suggerire la trepidazione, frammenti spezzati, cromatici e sincopati per il cuore palpitante, indemoniate volate virtuosistiche per le «fiamme, che ardono per sempre», improvvisi silenzi per sottolineare il terrore. Questa profusione di immagini drammatiche è tuttavia perfettamente integrata nel progetto complessivo. L’agitazione della linea di basso è una componente destabilizzante dell’intera cantata (basta dare uno sguardo alla parte del basso nell’originale per capire come i suoi gesti siano eccezionalmente spigolosi).
Ritornando sul pulpito, il basso prospetta la terrificante scena di «stare con tutti i diavoli per mille milioni di anni». Poi, quando Bach si sposta dal recitativo all’aria, cambia improvvisamente tattica e tono. Ci sembra di essere stati spinti nel mondo dell’opera buffa, o meglio delle anatre – tre di queste (tutti oboi) e un basso (un simbolico drago?) – che starnazzano in un geniale segno di assenso appena il cantante declama Gott ist gerecht («Dio è giusto»). L’atmosfera sembra stridere orribilmente. Non era un prototipo di Beethoven ciò che stavamo ascoltando un momento fa? Siamo stati forse distratti da tutto quel fuoco e quello zolfo? Forse Bach non avrebbe potuto trovare altro modo per sviluppare il tema dell’eternità se non offrendo un briciolo di speranza all’anima cristiana ora fortemente maltrattata e ferita. Egli ci ricorda che la soluzione ai problemi della vita è banale nella sua semplicità: non serve altro che aver fede in Dio. È uno stratagemma deliberato per dissipare la tristezza e la tensione – come aprire una finestra in una stanza piena di fumo. Dopo aver rinfrescato l’aria, ce lo possiamo quasi immaginare seduto sulla sua sedia preferita, mentre si accende la pipa e soffia soddisfatto cerchi di fumo.
Il modo in cui Bach descrive l’inferno è ben piú ricco e policromo di quello di qualsiasi altro compositore venuto prima di Mozart e Berlioz. Gran parte di questa ricchezza deriva dalla dissonanza che va dal livello piú piccolo a quello piú grandev. La tregua che ci concede, però, è solo temporanea (del resto, vorremmo veramente raggiungere una serena eternità impersonata da anatre?) Segue una strana aria per contralto e archi – «Oh uomo, salva la tua anima, fuggi la schiavitú di Satana» – presentata con stravaganti dislocazioni ritmiche, normali battute in alternate con singole o doppie emiole in come metafore della schiavitú di Satana. Ancor piú strano è il modo in cui Bach ripete la seconda frase del cantante con la sola orchestra – in una coda riflessiva che dura esattamente la metà di tutta l’aria.
A questo punto doveva seguire il sermone, introdotto da una pessimistica, persino nichilista, stanza di un inno – «un tale supplizio perdurerà: gelo e arsura li tortureranno, angoscia, fame, terrore, fuoco e lampi… poiché questo strazio avrà fine quando Dio non sarà piú eterno», che fa crollare completamente il lavoro riparatorio compiuto poco prima dall’assolo di basso. Quali parole provenienti dalla bocca di un predicatore potrebbero adesso aggiungere qualcosa di sensato a un tale bombardamento musicale? Una scelta coerente sarebbe stata quella della pecorella smarrita che si desta dal sonno del peccato (Efesini 5,14): il soggetto dell’elettrizzante aria per basso con trombe e archi che apre la seconda parte – la risposta di Bach a «The trumpet shall sound» del Messiah di Händel –, un brano difficile per il cantante e per il trombettista, che richiede interpretazione drammatica e controllo tecnico. Come se non bastasse, il contralto solista si lancia in una tirata contro i piaceri della carne, simile a un uomo-sandwich di un pub di Oxford Street: «Pentiti prima che sia troppo tardi: la fine è vicina»w. E qui con questo messaggio avviene un cambiamento, studiato per tirare in ballo l’ascoltatore: «Pensaci… potrebbe essere questa stessa notte che la bara sarà portata alla tua porta!» Non succede spesso che Bach ricorra a un’immagine raccapricciante nello stile di Hieronymus Bosch; però nel successivo duetto (per contralto e tenore), rivolto al pellegrino errante da parte di due angeli che paiono usciti dalla penna di Bunyan, egli ci tratta come un’orrida specie che vive nel tormento tra «pianto e stridor di denti», di fronte al minaccioso avvicinarsi del carro funebre che sferraglia sulla strada acciottolata. Successioni di accordi inversi su una sconnessa linea di crome nel basso con terze e seste parallele nelle parti per voce dànno luogo dapprima a fraseggi imitativi e di risposta, poi a un angoscioso cromatismo che evoca il ribollire della corrente e la goccia d’acqua che viene negata all’uomo ricco assetato. Le voci si incontrano per una coloratura finale. Qui sentiamo il gorgoglio dell’acqua proibita e il continuo che suona un ultimo furtivo tentativo di afferrare il tema. Poi dissolvenza… il suono si affievolisce… silenzio. Fenomenale.
Solo nel corale conclusivo di questo avvincente lavoro, Bach torna a essere il portavoce dei fedeli, in questo caso esplicitando la loro supplica di allontanare i tormenti della vita e le tentazioni e l’orrendo spettro della dannazione eterna. Alla fine di questo spaventoso quadro viene offerto un piccolo raggio di luce, in cui si possono ritrovare quelli che Laurence Dreyfus definí i «piaceri sovversivi» di Bachx. I suoi primi ascoltatori riuscirono a viverli appieno o sprecarono l’occasione? Dubitiamo che abbiano lasciato la chiesa fischiettando la melodia dell’inno o una qualsiasi delle altre melodie di Bach. Se mai dovessimo recuperare un briciolo di prova su come queste cantate venissero recepite all’epoca, ci aiuterebbe misurare se e come le reazioni di queste congregazioni abbiano influito sul modo di Bach di approcciarsi al proprio lavoro settimanale. L’opinione del pubblico fu in qualche modo di incitamento o di incoraggiamento al suo sperimentare approcci diversi, o lui scelse da solo queste strategie e aderí a esse con determinazione – questa settimana un moderno movimento da concerto all’italiana o un preludio e fuga, la settimana prossima un mottetto polifonico o un cantus firmus medievale, quella successiva pezzi di una moderna suite di danze francesi? Si corresse mai in base alla reazione del pubblico come, ad esempio, faceva Dickens quando scriveva i suoi romanzi a puntate? Avrebbero mai potuto uno o due commenti negativi, o persino malevoli, sentiti per caso all’uscita dalla chiesa quella domenica mattina dell’11 giugno 1724 spingerlo verso una maggiore temerarietà e sperimentazioni ancora piú audaci? Non possiamo saperlo. Ma una cosa possiamo dare per certa – un paradosso, in effetti: ciò che Bach intraprese per dovere (benché andasse oltre il suo contratto) risveglia le nostre emozioni con la stessa forza di qualsiasi altro suo lavoro ispirato dal solo desiderio artistico di creare. Come scrive il musicologo Jack Westrup: «Nel compiere un dovere perlopiú noioso, e a volte intollerabile, Bach non solo ha soddisfatto le richieste della sua epoca, ma ha arricchito anche la nostra»14.
La decisione di Bach di basare il suo secondo ciclo di Lipsia su corali luterani non fu in alcun modo arbitraria: era questa la differenza principale tra il secondo e il primo ciclo, nel quale l’apertura della maggior parte dei pezzi era dettata da un’affermazione biblica (o Spruch). Durante tutto il primo anno, Bach si era adattato sia a una nuova congregazione sia a una tradizione liturgica locale molto forte, e allo stesso tempo metteva alla prova un nuovo gruppo di musicisti. Fino a quel momento era stato necessario vivere alla giornata. Secondo il suo ordinato e sistematico modo di pensare, ciò non poteva certo essere quel che lui intendeva con «musica da chiesa ben regolata». Come misura correttiva, e tenendo ben a mente i precedenti del passato, Bach deve aver deciso di dare una nuova sterzata tornando indietro fino a Ludwig Senfl, che nel Cinquecento componeva corali (e a volte variazioni corali per omnes versus) come cornice musicale per ciò che allora erano detti «sermoni corali» (Liederpredigten). Ciò avrebbe anche consolidato una tradizione piú recente: nel 1714, cosa insolita per un pastore della Thomaskirche, Johann Benedikt Carpzov III fece un sermone in cui celebrò le virtú della musica concertata. Quando ebbe finito di esporre un «pregevole e buon vecchio inno protestante e luterano», questo fu cantato dalla congregazione. Carpzov disse loro che ciò che avevano appena sentito era il risultato degli sforzi del compositore Johann Schelle nel «porre ogni inno in un affascinante brano musicale, lasciando che venisse ascoltato prima del sermone». Potrebbe essere stato il bicentenario dei tre innari di Lutero nel 1724 a suggerire a Bach e a Salomon Deyling (che, come sovrintendente della Nikolaikirche, doveva controllare Bach nel ruolo di director chori musices) di unire le loro idee in un’analoga armoniosa collaborazione per far rivivere la pratica di Schelle di scrivere un intero ciclo basato su coraliy.
In ogni caso, quella di progettare un ciclo intero basato su inni sacri ed emblematici della religione luterana fu una delle decisioni piú coraggiose che Bach prese in quanto compositore – e che sostenne per i successivi nove mesi e mezzo con straordinaria coerenza. Il suo impegno a usarli come filo rosso strutturale per composizioni di ampio respiro, che durano ognuna tra i venti e i trenta minuti, significava che, se l’ispirazione fosse venuta meno, egli non avrebbe piú potuto contare sui pezzi precedenti per riempire i vuoti – né su quelli di altri – data la particolarità e la specificità del genere scelto. Il variegato menu natalizio dell’anno precedente, le cui cantate mescolavano inni latini e movimenti di Messa, non era piú possibile. Precedentemente, vi era stata una forte presenza di corali in tutte le cantate: servivano a perenne conferma della sfida che Bach si era autoimposto, e forse anche ad affermare una definizione di sé come compositore, esecutore e insegnante, grazie alla capacità che aveva dimostrato nel combinare le melodie, le armonie e le parti strumentali con piú inventiva di chiunque lo avesse preceduto. Ora, all’inizio della stagione della Trinità nel 1724, per la prima volta i corali si trovano al centro della scena. Per l’anno successivo Bach si attaccò come una patella a questi inni: un totale di cinquantadue nuove cantate li usarono come inizio e, una volta elaborati, acquistarono nuova freschezza. Da qui in poi, gli inni spiccano con la stessa brillantezza e regolarità di una serie di borchie di ottone su una poltrona di pelle imbottita.
L’assoluto brio intellettuale e sperimentale di queste prime cantate del secondo ciclo trapela dalle partiture con un palpabile senso di fisicità. Il tempo delle prove con i soprani avrebbe potuto essere accorciato al minimo se essi avessero dovuto cantare solo una melodia familiare (spesso raddoppiati da un corno, un cornetto o una tromba da tirarsi) all’interno di un coro d’apertura elaborato in modo diverso. Allo stesso tempo, le fantasie corali, i recitativi e le arie portano avanti le pretese e le aspettative che Bach aveva sulle voci umane e nella scelta degli strumenti obbligati, sviluppandosi in nuove direzioni.
Come durante l’anno precedente, le prime quattro cantate del gruppo della prima stagione della Trinità costituiscono un mini-portfolio di lavori diversi, differenti nel trattamento, ma tutte connesse dal filo della dottrina (come le sei parti che compongono il successivo Oratorio di Natale, con la sua «unità nella varietà»). Ogni lavoro si apre con un’elaborata esposizione della prima strofa inalterata del corale, sulla quale viene costruita l’intera cantata. I movimenti successivi – recitativi, arie e duetti – sono parafrasi testuali dei versi interni del corale, prima che la cantata si chiuda con un’armonizzazione a quattro parti della strofa finale. Ognuna delle quattro evoca la melodia del corale celebrato nel movimento di apertura, mentre il cantus firmus passa ogni settimana a una voce differente: soprano (BWV 20), contralto (BWV 2), tenore (BWV 7) e basso (BWV 135). Ciascuna di queste è formulata in un distinto idioma stilistico: l’ouverture francese (BWV 20), un mottetto arcaico senza una linea di obbligato strumentale indipendente (BWV 2), un movimento concertante all’italiana che si accompagna con violino solo (BWV 7) o una fantasia corale (BWV 135). In tutte queste forme, eccetto la seconda, la principale sfida che Bach deve affrontare è quella di combinare la melodia corale con un concerto strumentale o una forma a ritornello. Egli si era già esercitato nel combinare i corali in una struttura a ritornello (come abbiamo visto nella conclusione di entrambe le parti della BWV 74 e 75), ma su una scala molto ridotta rispetto a questi imponenti movimenti introduttivi. Le correzioni che troviamo nelle partiture autografe che ci sono giunte rivelano il prevalente cozzare di due strutture slegate e le soluzioni che egli trovò per conciliarle – e tutto ciò con poco tempo a disposizione. Un rompicapo di gran lunga piú complesso dei cubi di Rubik affrontati l’anno precedente. Qui vediamo un grande compositore all’apice delle sue capacità mentre affronta la sfida di un obbligo settimanale autoimposto e mentre calibra le sue scelte di forma, di concezione e il suo tono di voce a ogni tema sottostante, ogni simbolo e metafora che emerge dai testi che ha di fronte. Non può esserci dubbio sulla rilevanza di questo compito o sulla velocità con cui il suo talento sviluppò come portarlo a compimento.
Un inconveniente nell’esaminare anche un ciclo coerente come la sequenza lineare della seconda Jahrgang (cosí come il pubblico di Lipsia poté ascoltarla) è che venga isolata solo qualcuna delle ugualmente straordinarie connessioni tra anno e anno. Se le degustazioni «verticali» e «orizzontali» di vino e whisky hanno un loro senso, allo stesso modo una comparazione «a fette» di un ciclo con un altro o dei diversi approcci che Bach adottò al presentarsi della stessa ricorrenza e secondo i suggerimenti dello stesso lezionario, può portare a un approfondimento della sua personalità creativa – come successe a chi tra noi partecipò al Bach Cantata Pilgrimage del 2000. Improvvisamente egli cessa di essere una divinità immobile e appare come una persona eclettica e pronta a risposte ampiamente diversificate di anno in anno. Abbiamo visto come il racconto del Vangelo nel quale Gesú piange sul destino di Gerusalemme dominasse la BWV 46, la prima cantata di Bach per la Trinità +10 (vedi supra, cap. IX), eppure esso viene appena menzionato l’anno successivo nella BWV 101, Nimm von uns, Herr, du treuer Gott. Questo perché, in quanto cantata corale, è basata direttamente sull’inno principale di quella domenica, scritto durante un periodo di peste e cantato sulla melodia della versione tedesca luterana della Preghiera del Signore. L’inesorabilità della Vater unser luterana e la marcata e ben udibile presenza del corale in tutti i movimenti tranne uno, inclusi i recitativi, nel movimento d’apertura vengono combinate da Bach con un altro degli inni di Lutero come base tematica di una fantasia corale, quello che nella mente della congregazione è associato ai Dieci Comandamenti (Dies sind die heil’gen zehn Gebot). Cosa si guadagna peccando: la forza schiacciante della punizione che ricade su coloro che sono tentati di allontanarsi dal sentiero di Dio e che spinse Bach a sparare contro i suoi primi ascoltatori due colpi dottrinali a salve, componendo quello che il pianista e studioso Robert Levin mi ha descritto come «il lavoro piú violento della carriera di Bach».
Esso inizia con aria meditabonda, con una linea indipendente di continuo che sostiene un trio di oboi che si scambiano il tema dei «Dieci Comandamenti» con gli archi. Ma presto vengono introdotte alcune lunghe e fortemente accentuate dissonanze su un pedale sulla dominante, la prima in una successione di colpi di martello per esprimere lo schwere Straf und große Not (la «grande punizione e la grande distretta») del testo dell’innoz. Questi contributi all’atmosfera sconvolgente dello straordinario poema sonoro, suonano al contempo arcaici, nel raddoppiamento delle parti per voce con cornetti e tromboni vecchio stile (voluti da Bach per richiamare i tempi di Lutero) e moderni, nel modo in cui, ad esempio, le lancinanti armonie iniziano ad avere senso come eventi passeggeri in termini contrappuntistici soltanto adottando un tempo ben preciso. (E questa è solo una delle sfide poste all’interprete). Bach elabora una trama orchestrale a sette parti e poi l’espande a undici parti reali. Se questo non fosse ancora abbastanza straordinario, non vi è corrispondenza tematica con la melodia del corale: l’orchestra funziona in maniera indipendente dal coro, sebbene sia ugualmente ossessionata da questo scenario segnato dalla guerra. Infatti, l’azione inverte la pratica consueta – con le voci basse che occasionalmente prendono in prestito temi strumentali per preparare il ritorno della melodia dell’inno. Una forma ricorrente è un «sospiro» di tre note lanciato da uno strumento all’altro, appoggiature che si risolvono normalmente, ma che vengono precedute da una varietà di intervalli preparatori ascendenti o discendenti, che sembrano crescere sempre piú, per esprimere l’impossibilità di fuggire le punizioni, il fatto che noi «con i nostri peccati senza numero abbiamo meritato tutti quanti» (l’espressione allzumal – «tutti quanti» – ricorre nelle veementi e reiterate proteste delle voci basse). Sul pedale di tonica finale Bach costruisce una disturbante intensificazione dell’armonia e dell’espressione vocale sulle parole für Seuchen, Feur und großem Leid («da epidemie, incendi e grandi dolori»). Qui avvertiamo che Bach lavora sui motivi da lui scelti nel modo piú vigoroso possibile, un tratto che associamo piú facilmente a Beethoven e Brahms.
L’antitesi tra la collera e la grazia di Dio è piú chiara nel quarto movimento, in cui Bach affronta la sfida di interpolare un’aria d’«ira» per basso a ogni verso del corale, ora cantato, ora suonato, e a tre diverse velocità: vivace – andante – adagio. Egli si avvale dell’aiuto di tre oboi – tre anatre arrabbiate per l’occasione –, trasformati in questo caso in una specie di moderno trio di sassofoni. Vi è solo un momento, a metà strada, sufficiente a terrorizzare gli ascoltatori, in cui Bach fa una brusca sterzata mahleriana dal Mi minore al Do minore sulla parola Warum [willstdu so zornig sein?] Nemmeno Purcell, con la sua propensione a produrre calcolate e ben illuminate dissonanze, fu capace di mettere insieme qualcosa di simile quando arrangiò le stesse parole nel suo anthem «Lord, how long wilt Thou be angry?» Le improvvise giustapposizioni di testo sacro e commenti personali costituiscono una nuova potente arma dialettica nell’arsenale espressivo di Bach.
Con i suoi gesti imploranti al ritmo di siciliana, un flauto procede in contrappunto con la melodia del corale dapprima assegnata all’oboe da caccia e poi scambiata con esso. Ci si chiede se a ispirare l’«Aus Liebe», la grande aria per soprano della Passione secondo Matteo, fu questa particolarmente toccante combinazione di strumenti obbligati e la sua associazione con l’amore e la compassione del Salvatore mostrati al peccatore nel momento dell’amara morte di Gesú. Se è cosí, questo duetto serví da bozza preliminare per la Passione, che, secondo me, era ancora ben vivida nella sua mente come culmine della sua seconda Jahrgang, composta per il Venerdí santo del 1725 (vedi infra, cap. IX).
In ogni caso, la BWV 101 fu una cantata sulla quale Bach investí molto. Nel riadattarla un’ultima volta nel 1748 (o forse 1749), egli intervenne sulle parti copiate con spessi segni a penna che dalla pressione del tratto rivelano sia l’urgenza dell’intenzione sia la debolezza della sua vista. Gli ci vollero tre o quattro tentativi per raggiungere questo ideale nella ripartizione tra testo e musica, e a quel punto ridusse notevolmente il numero di ripetizioni delle parole. Un intero nuovo strato di segni di articolazione e di dinamica, minutamente differenziati, sembrava finalmente permettere, a lui e ai suoi futuri interpreti, di realizzare le precise nuance presenti nella sua immaginazione. Aveva deciso di scrivere una nuova parte per flauto per il punto culminante della cantata, il duetto tra il soprano e il contralto e, per economizzare come al solito la carta, la scrisse sul verso della parte del cornetto – una prova che per quest’ultima messa in scena intendeva fare del tutto a meno nel coro del supporto vecchio stile, colla parte, del trombone e del cornetto –, introducendo invece contrasti molto piú forti con passaggi in legato e staccato. Altrove vengono introdotti delle sordine, dei segni di pizzicato al basso continuo (dettagli tecnici che avrebbero potuto essere segnalati con un semplice gesto nelle precedenti esecuzioni), e anche le indicazioni di tacet (le battute di pausa) sono riviste. Nulla deve essere lasciato al caso. L’impatto di queste dettagliate istruzioni va oltre l’adeguamento al gusto stilistico piú delicato (empfindlich) degli anni Quaranta del Settecento. È una viva testimonianza di quanto Bach ricercasse la perfezione, la completezza, e quel paradigma di stile esecutivo che egli continuò a perseguire durante gli ultimi anni della sua vita.
Il tema del dono nascosto della fede ritorna piú avanti nel caso della stessa stagione con la BWV 38, Aus tiefer Not schrei ich zu dir, per la Trinità +21, basata sulla parafrasi luterana del Salmo 130: descrive il pianto di «un cuore realmente pentito che è profondamente commosso nel suo dolore. … Siamo tutti immersi nella piú profonda e grande miseria, ma non percepiamo la nostra condizione. Il pianto non è altro che il forte e sincero desiderio della grazia di Dio, che non sorge in una persona se questa non si accorge dell’abisso in cui si trova a giacere»15. Bach doveva sapere che l’inno luterano era collegato a un’antica melodia frigia, cosí perfettamente adatta a essere trattata in maniera arcaica (nello stile del mottetto) che è difficile immaginare che potesse arrangiarla in modo diverso. Nel coro di apertura in severo stile antico egli cesella ogni linea della melodia con lunghe note cantate dai soprani e prefigurate in imitazione dalle tre voci basse, proprio come avrebbe poi fatto nell’arrangiamento a sei voci per organo dello stesso corale della Clavier-Übung III (BWV 686). Ancora una volta raddoppia ognuna delle quattro voci con un trombone – tecnica che potremmo associare piú facilmente a Schütz o persino a Bruckner piuttosto che a Bach. Oltre alla loro tipica sonorità brunita, questi nobili strumenti infondono un senso di solenne ritualità all’atmosfera generale. Bach sembra deciso a spingere i limiti di questo movimento al di là delle possibilità stilistiche attraverso improvvise sterzate cromatiche che egli imprime alla melodia modale. Nel riordinare le entrate vocali in ogni punto di congiunzione, egli rievoca in modo potente il De profundis luterano nel clamore delle voci imploranti.
Tutti e tre i movimenti finali della cantata sono ugualmente severi e intransigenti. Bach indica che il recitativo per soprano è a battuta – in maniera insolita, da cantarsi rigorosamente a tempo –, mentre il continuo fa tuonare la vecchia melodia, come per sfidare il credente a rinunciare di dubitare, in un magnifico rovesciamento della consuetudine, con l’indebolita fede del cantante che ha appena il tempo di esprimere la sua fragilità. I segni e i miracoli abbondano. La parola «segni» (Zeichen) riceve espressività ed espressione simbolica – un accordo di settima diminuita nel recitativo del soprano, composto da tutti e tre i «segni», uno diesis (Fa), uno bemolle (Fa) e uno naturale (Do)aa. Al posto di una seconda aria, Bach inserisce un terzetto per soprano, contralto e tenore per descrivere quanto in fretta il sorgere della «mattina della consolazione» segua «la notte di distretta e di pena». Una catena di ritardi fa precipitare una serie di quinte discendenti verso le tonalità minori (Re, Sol, Do, Fa, e poi Si maggiore), mentre la fede nascente inverte la direzione verso l’alto finché l’idea della notte tormentata la porta ancora una volta indietro. Sebbene sembrino cosí differenti, questi tre movimenti finali fluiscono facilmente l’uno nell’altro. Come nella cantata per questa stessa domenica dell’anno precedente (BWV 109), Bach ritarda il piú possibile la promessa e la garanzia dell’aiuto divino. Con il fatto che tutte le voci ricevono un raddoppiamento da parte dell’orchestra (includendo i quattro tromboni), questo corale non è semplicemente sorprendente, ma anche intimidatorio nel suo zelo luterano – specialmente nella cadenza frigia finale, con il trombone che precipita fino al Mi basso.
Meno di un mese dopo, il bisogno di conforto in tempi di dolore è lo stesso, ma il modo in cui Bach lo tratta a livello musicale è molto diverso. Il ritornello strumentale della fantasia corale di apertura della BWV 26, Ach wie flüchtig, ach wie nichtig, è una stupenda architettura musicale che illustra la brevità della vita umana e la futilità delle speranze terrene. Ben prima di stabilire la melodia dell’inno, Bach scelse il parallelismo tra la vita dell’uomo e la nebbia crescente che presto si disperderà. Leste scale, che s’incrociano e si reincrociano, s’intrecciano e si dividono, creano un’atmosfera di irreale vaporosità – un’elaborazione brillante di un’idea che gli era venuta dieci anni prima a Weimar mentre componeva un corale per organo (BWV 644) a una versione semplificata dello stesso inno. Nella sua seconda stanza Melchior Franck (ca. 1579-1639) paragona il corso della vita umana ad acque che scorrono rapide lungo il fianco di una montagna per poi sparire in profondità, un’immagine cara ai poeti romantici. Goethe aveva forse in mente l’inno di Franck quando scrisse il suo meraviglioso Gesang der Geister über der Wassern («Canto degli Spiriti sopra le acque») a Weimar negli anni Ottanta del Settecento? Schubert lo mise in musica per un coro di voci maschili in quattro diverse occasioni. Sembra esserci una Gestalt protoromantica nel modo in cui Bach lo rese un’aria per tenore, flauto, violino e continuo: a ogni musicista viene costantemente chiesto di cambiare funzione – di rispondere, imitare, fare l’eco o raddoppiare un altro –, contribuendo all’inesorabile incedere del torrente che scorre giú rapido e a un breve episodio di gocce di pioggia che cadono. La vita umana è raffigurata prima come nebbia e vapore, poi come un torrente di montagna; infine, Bach ritorna alla bellezza che appassisce inevitabilmente come un fiore, e al momento in cui l’uomo soccombe ai piaceri terreni «e ogni cosa, annientata, crolla in frantumi». La scrive per tre oboi e continuo che sostengono la derisoria bourrée del basso solista che si sviluppa in una danza macabra. Mentre ci si poteva aspettare che questo trio di oboi stabilisse un’atmosfera di terrena (ed evangelica) magnificenza, con l’ingresso della voce il loro ruolo diventa rapidamente piú sovversivo e realistico: dapprima nell’accompagnamento lancinante che sembra minare il tessuto di quei «piaceri terreni» da cui gli uomini vengono sedotti; poi attraverso le figure frastagliate che rappresentano le lingue di fuoco che presto li ridurranno in cenere; e infine lanciando scale di semicrome di accordi di quarta e sesta per rappresentare quei «ribollenti flutti» che spazzeranno via tutte le cose terrene.
Con sette nuove cantate e un Sanctus da comporre per sette festività in dodici giorni, il Natale del 1724 non può essere stato certo meno frenetico di quello precedente. Le celebrazioni del giorno di Natale iniziarono con la cantata BWV 91, Gelobet seist du, Jesu Christ, l’arrangiamento maestoso di Bach di un inno luterano, il cui tema di apertura esprime uno speciale sentimento di attesa che è il marchio bachiano per definire l’atmosfera natalizia: fanfare per corni, veloci scale in Sol maggiore per gli oboi a suggerire la danza degli angeli. Nel naturale abbandono della sua musica su das ist wahr («Questo è vero») e il sincopato Kyrie eleis! (memore di un simile arrangiamento del Zwiegesänge di Michael Praetorius), vengono allo scoperto le radici che legano Bach al XVII secolo; e tale atmosfera rimane nel recitativo per soprano intrecciato con il secondo verso dell’inno e nella festiva aria per tenore, con tre oboi che suonano insieme fornendo un geniale accompagnamento. Ma anche a Natale Bach non sarebbe stato Bach senza un riferimento alla «valle di lacrime» dalla quale Cristo appena incarnato ci trarrà in salvo. Puntualmente lo asseconda con un lento accompagnato cromatico (n. 4) per basso e archi in moto contrario, calibrato in modo da portare l’ascoltatore verso l’alto. Un ampio duetto per soprano e contralto descrive la povertà che Dio ha assunto per venire sulla terra e la «sovrabbondanza dei tesori celesti» che Egli ha donato ai credenti.
Quando Bach rilavorò questa cantata negli anni Trenta del Settecento, per illustrare l’inclinazione umana a cantare (e conseguentemente a danzare) come gli angeli, aggiunse marcate sincopi alle linee vocali che si urtavano con le figure puntate dei violini. La polarità è rinforzata attraverso modulazioni crescenti, una volta in diesis (a simboleggiare le aspirazioni dell’uomo dirette dagli angeli), un’altra in bemolle (a rappresentare l’umanità di Cristo). La musica riporta alla mente il vivido immaginario degli angeli danzanti del Botticelli o dei gruppi angelici di Filippino Lippi che piangono sui muri della cappella Carafa nella basilica di Santa Maria sopra Minerva a Roma. Allo stesso modo, per il Sanctus che seguí durante la stessa messa di Natale, sicuramente il piú imponente tra tutti i cori di Bach in Re maggiore, potrebbe essersi ispirato alla visione di Giovanni Crisostomo (ca. 347-407), a lui sicuramente nota – delle «migliaia di arcangeli e diecimila angeli … a sei ali, pieni di occhi, che torreggiano sulle loro ali, cantando, piangendo, urlando e dicendo Agios! Agios!Agios! Kyrie Sabaoth! Santo Santo Santo Dio Signore di tutte le legioni celesti! Il Cielo e la Terra sono Pieni della Tua Gloria! Osanna nell’Alto dei Cieli!»16.
Bach adotta una strategia completamente diversa per il giorno successivo. Piú che in ogni altra cantata, si può sentire una radice primitiva, un’origine precristiana del testo dedicato a Maria Vergine della BWV 121, Christum wir sollen loben schon, una delle cantate di Bach che sembrano piú «antiche». Lutero si era appropriato di un famoso inno latino del V secolo e lo aveva tradotto, «A solis ortus cardine» («Dal sorgere del sole»), usandolo per le Lodi durante la stagione di Natale. Bach compone il verso di apertura nello stile del mottetto, con le voci raddoppiate da un cornetto e tre tromboni aggiunti ai tradizionali archi e oboi. C’è qualcosa di mistico in questa melodia, almeno nel modo in cui sembra iniziare in modo dorico e chiudersi in quello frigio (ovvero, nel linguaggio dell’armonia diatonica, sulla dominante della dominante). Al posto dei ritratti di serafini danzanti vi sono immagini di quei volti spigolosi e seri dei pittori fiamminghi del XV secolo, usati per dipingere i pastori che fissano nella mangiatoia il reinen Magd Marien Sohn (il «piccolo figlio di una vergine»). Il sentimento arcaico del coro di apertura sembra perfettamente intonato al mistero dell’incarnazione.
Senza dubbio moderna, comunque, è la stupefacente progressione enarmonica – nientemeno che una «trasformazione» simbolica – alla fine del recitativo del contralto (n. 3), che descrive il miracolo del parto della vergine. È il pivot tonale dell’intero lavoro e, in modo appropriato, vi ricorre la parola kehren («girare» o «cambiare direzione»); con wundervoller Art (con «splendida arte» che Bach rende con una splendida sostituzione del tritono) Dio discende in terra sotto forma umana, rappresentata simbolicamente dall’improvvisa deviazione verso il Do maggiore. Questa è la preparazione perfetta all’aria di basso (n. 4), in cui un’audace scrittura all’italiana negli archi e solide armonie diatoniche vengono usate per descrivere «il balzo pieno di gioia di Giovanni (il Battezzatore)» nel riconoscere Gesú. Il progetto di Bach per questa cantata rispecchia il cambiamento dall’oscurità alla luce e mostra come il momento in cui i cristiani celebrano la venuta di Dio nel mondo coincide con il posizionamento del sole nel solstizio d’inverno. Oltre a ciò, il suo obiettivo è quello di enfatizzare i benefici dell’incarnazione di Dio per il genere umano e (di nuovo) di sottolineare che lo scopo supremo è quello di congiungersi al coro degli angeli (spunto per un difficile intervento del soprano che deve toccare un Si acuto nel penultimo recitativo). Ogni altro compositore sarebbe stato tentato di impostare il corale finale attraverso una tessitura stratosferica e luccicante; invece, tornando alla tonalità dell’apertura della cantata (Mi maggiore con le sue ambigue e irrisolte deviazioni modali verso il Fa), e mantenendo il timbro ramato del cornetto e dei tromboni per intensificare il suono del coro, Bach trova altri, piú sottili modi di ottenere un risultato luminoso. È la speranza del credente – non la sua certezza – nella vita eterna che Bach rievoca qui.
Uno dei risultati piú alti della prima stagione natalizia di Bach fu la BWV 65, Sie werden aus Saba alle kommen, per l’Epifania del 1724, ed è emozionante osservare come egli abbia ottenuto lo stesso vertice l’anno successivo con la BWV 123, Liebster Immanuel, Herzog der Frommen – ma seguendo un diverso cammino. Una delle chiavi risiede nella scelta degli strumenti. Mentre l’atmosfera della prima ha caratteri orientali e da parata, la seconda si apre con un raffinato coro in , una piccola reminiscenza delle danze elisabettiane, con flauti traversi accoppiati, oboi e violini presentati in alternanza. Gli interventi corali dànno forma a una canzone d’amore mendelssohniana che si insinua nella mente per giorni. Nella cantata di «Saba», al contrario, Bach usa i corni da caccia per esprimere antichità e maestosità, i flauti dolci per rappresentare quei suoni acuti tradizionalmente associati alla musica orientale e persino gli oboi da caccia, cosí evocativi – per l’orecchio moderno – della zurla macedone, della sahnai dell’Indostan e della nadaswaram del Tamil Nadu nella parte piú a sud della penisola indiana (che sicuramente sono i piú sonori strumenti acustici non in ottone del mondo). Con la loro incalzante sonorità, gli oboi da caccia sembrano appartenere al mondo di Marco Polo – con carovane che attraversano la Via della seta – e resta in qualche modo misterioso il fatto che uno specialista nella produzione di strumenti a fiato, Johann Eichentopf di Lipsia, possa aver inventato questo magnifico moderno oboe tenore con il suo tubo incurvato e la sua svasata campana in ottone intorno al 1722, a meno che non avesse udito uno di questi prototipi orientali suonati dai visitatori durante una fiera commerciale di Lipsia (fig. 21).
Bach era chiaramente intrigato da questa nuova apparizione (come Berlioz un secolo dopo, quando Adolphe Sax inventò il flicorno), e ne avrebbe fatto uso intensivo in almeno trenta dei suoi lavori corali, tra cui il tema di apertura della BWV 65. Qui egli sfoggia l’abbagliante lucentezza della sua orchestra esotica, cosicché, ancor prima che le voci entrino secondo l’ordine canonico, egli riesce a far sfilare sotto i nostri occhi la «maestosa processione dei tre magi e dello «stuolo di cammelli» (Isaia 60,6) carichi di doni. Questa imponente fantasia si conclude con il ritorno del tema all’unisono, questa volta con tutte le voci e gli strumenti estesi su 5 ottave, quando la carovana si ferma davanti alla mangiatoia. Vi è quindi un improvviso cambiamento di scala e atmosfera: dalla pomposità esteriore della processione regale all’intimità della semplice stalla e delle oblazioni offerte al bambino nella culla, mentre il coro intona la sobria versione tedesca della latina Puer natus in Bethlehem tradizionalmente cantata a Lipsia durante il Natale.
Possiamo essere a tal punto rapiti e abbagliati dallo splendore dei movimenti di apertura di queste due cantate da rischiare di farci sfuggire i loro movimenti centrali. La prima mette in evidenza un recitativo secco esemplare nella messa in musica del testo, nelle sue melodie arcuate, nelle sue ricche armonie cromatiche e nel suo culminare in un emozionante arioso. Da qui si giunge a un’aria per basso (n. 3) in cui due oboi da caccia sono impegnati in un triplo canone con il continuo, di sicuro per ritrarre i doni d’oro, incenso e mirra. Per dipingere la «ricchezza piú opulenta» (des größten Reichtum) menzionata nel recitativo (n. 5), Bach disegna un inciso ancor piú sontuoso per questa incantevole aria dal ritmo ternario per tenore (n. 6). Coppie di flauti dolci, violini, corni e oboi da caccia suonano indipendenti o insieme, scambiandosi incisi di una battuta in caleidoscopiche varietà di timbroab.
La qualità delle arie nella BWV 123 è ancora piú indicativa: un’aria per tenore (n. 3) con due oboi d’amore, che descrive il «duro viaggio della croce» verso il Calvario con un procedere difficoltoso e un pathos quasi insopportabile nelle parole «[questi] non mi spaventano». Quattro battute in un tempo piú veloce per evocare il momento in cui «infuriano le tempeste» si dissolvono in un tranquillo ritorno al tempo lento quando «Gesú mi manda dall’alto salvezza e luce». Ciò viene seguito da quella che è sicuramente una delle piú fini, ma anche piú solitarie, arie che Bach abbia mai composto, «Lass, o Welt, mich aus Verachtung» («Lasciami, o mondo che mi disprezzi | nella tristezza e nella solitudine!») La delicata linea vocale, spoglia nella sua desolazione, è bilanciata dal flauto che accompagna il basso come una sorta di angelo custode consolatore che prova a infondergli coraggio e determinazione. Anche la sezione B («Gesú … rimarrà con me sempre») offre solo una tregua temporanea per via dell’atteso da capo, qui voce e strumento sono intimamente connessi, al flauto senza parole tocca il compito di completare ciò che il cantante non può dire. Un anno dopo Bach ritornò a questa atmosfera malinconica per l’Epifania con una seconda aria per basso molto complessa, «Ächzen und erbärmlich Weinen» della BWV 13, Meine Seufzer, meine Tränen, che descrive come «gemere e piangere miseramente non giova a chi è afflitto dall’affanno». Col suono bianco, sepolcrale di due flauti dolci accoppiati che suonano un’ottava sopra un solo di violino, Bach sembra determinato a impressionare gli ascoltatori con la miseria e lo squallore della vita di quaggiú. Proprio dove il testo menziona l’apparire di un «raggiare di gioia», Bach per un istante solleva il velo di una spigolosa armonia dissonante prima di un grande riepilogo alla sottodominante, la musica sprofonda di nuovo nell’oscurità, come esplorando nuovi tormenti della mente e dell’anima. Con la pulsazione e i pensieri rallentati, i nostri sensi si sono acuiti, e ora siamo attenti a ogni piccolo dettaglio dello stato d’animo descritto da Bach.
La domenica di quinquagesima, l’ultima prima della Quaresima, aveva un significato speciale per Bach, poiché quella stessa domenica del 1723 aveva eseguito i due pezzi di prova (BWV 23 e 22) che avrebbero concluso la sua nomina a Thomaskantor, tanto che egli ripeté la BWV 22 la medesima domenica dell’anno successivo. La domenica di quinquagesima del 1725 era la sua ultima opportunità di presentare una cantata al pubblico di Lipsia come anticipazione dell’esecuzione della Passione e come importante evento musicale nel calendario luterano e, in merito a quest’ultimo punto, la BWV 127, Herr Jesu Christ, wahr’ Mensch und Gott, occupa un ruolo centrale, poiché Bach vi incastonò al centro, come un gioiello, un «corale della Passione»; proprio come aveva fatto l’anno precedente. Ci sono delle caratteristiche della BWV 127, una cantata profondamente sperimentale, che funzionano allo stesso modo delle Passioni. La prima è rappresentata dalla fantasia corale elegiaca che apre il lavoro: qui Bach intreccia non meno di tre melodie corali – una presentazione strumentale dell’Agnus Dei luterano con il suo chiaro riferimento alla Passione di Cristo, un lamento funebre del compositore francese Claude Goudimel (1565), e infine diversi motivi di una melodia corale dove riconosciamo il corale della Passione, «Herzlich tut mich verlangen», che avrà un ruolo di primo piano nella Passione secondo Matteo. Inoltre, si può notare che il successivo recitativo per tenore mette in relazione i pensieri dell’individuo sulla morte con il percorso preparato dal paziente viaggio di Gesú stesso verso la crocifissione. Il quarto movimento è il piú eloquente di tutti, una grande, pittoresca evocazione del Giudizio Universale, in parte recitativo accompagnato, in parte aria, fatta di tre sezioni alternate: un inquieto accompagnato, senza un distinguibile centro melodico, un arioso in Sol minore («Fürwahr, fürwahr») che cita la melodia corale di Goudimel su cui si basa l’intera cantata, e infine una selvaggia sezione in raffigurante la salvezza dell’uomo dai violenti vincoli della morte.
È in quest’ultimo segmento, con fanfare di trombe e archi frenetici, che incontriamo un chiaro esempio di autocitazione unico nella musica religiosa di Bach: la parte solista del basso è identica alle quattro entrate corali del doppio coro spettacolare «Sind Blitze, sind Donner», uno dei punti piú alti della Passione secondo Matteo, giustamente identificato come «una delle piú violente e grandiose descrizioni della Passione prodotte in epoca barocca»17. Un paragone tra i due arrangiamenti suggerisce che il coro della Passione sia stato composto prima dell’aria della cantata. (Abbiamo accennato alla stressante preparazione da parte di Bach di questo materiale nel capitolo VII.) Sebbene non rappresenti una prova definitiva della programmazione di una prima per il Venerdí santo, 30 marzo 1725, questa anticipazione del coro «Sind Blitze» nella BWV 127 suggerisce uno stato d’animo e indica che fino a quel momento la Passione secondo Matteo era ancora in preparazione.
Coloro che assistettero alla famosa ripresa voluta da Mendelssohn della Passione secondo Matteo eseguita a Berlino nel 1829 sapevano di star celebrando l’esatto centenario dalla sua prima esecuzione il Venerdí santo del 1729. A partire dal 1975, quella data è stata posticipata di due anni18. Ma se, come ho suggerito, Bach era attivamente impegnato nella preparazione della Passione secondo Matteo mentre stava componendo il suo secondo ciclo di cantate nel 1724-25, rimane da stabilire il momento in cui egli si rese conto che essa non sarebbe stata pronta per l’esecuzione del Venerdí santo del 1725. Aveva dunque calcolato male il tempo necessario a realizzarla? Forse ciò fu dovuto alla stanchezza, o ci furono altre scoraggianti discussioni con il clero nel corso dell’anno precedente? Nessuno fino a ora ha fornito una risposta soddisfacente a questi interrogativi, e potrebbe essere che la verità sia in una combinazione di tutti questi elementi, che portarono alla tardiva decisione di interromperne la stesura poco prima della Settimana santa del 1725. Non riuscendo a completare la Passione secondo Matteo in tempo per il Venerdí santo, Bach si trovò messo all’angolo. Sappiamo quando egli informa ufficialmente il concistoro della soluzione che aveva trovato al problema di dover realizzare una Passione per quell’anno – o meglio il momento in cui la decisione di riempire il vuoto con una versione sostanzialmente modificata della Passione secondo Giovanni gli fu imposta dal concistoro con il monito di modificarne il tono dottrinale (vedi cap. X). Una nuova aria in particolare, «Zerschmettert mich, ihr Felsen» per tenore, riecheggia la sequenza culminante della BWV 127, suggerendo che Bach avesse ancora in mente i materiali prodotti per quella cantata quando si mise a comporre questa rivisitazione, quasi fosse determinato a salvare parti di ciò che avrebbe voluto presentare.
Da tutta questa confusione emerge un fattore pressoché certo: sembra che le intenzioni iniziali di Bach a Lipsia fossero ancora piú grandiose di quanto gli stessi studiosi abbiano generalmente ritenuto, e che per questo appuntamento del 1723 egli si fosse riproposto di presentare la sua musica, per la maggior parte composta per l’occasione, e in parte minore ripresa dagli anni di Weimar, almeno per le prime due Jahrgänge, terminando ogni ciclo con una Passione – radicalmente nuova secondo gli standard di Lipsia, controversa dal punto di vista teologico nel caso della Passione secondo Giovanni del 1724, e innovativa e piú lunga da comporre rispetto al previsto nel caso della Passione secondo Matteo, e che quindi fu necessario rimandare di altri due anni.
In tutta questa incertezza, il secondo ciclo di Lipsia di Bach si concluse prematuramente il 25 marzo 1725 con l’esultante cantata primaverile BWV 1, Wie schön leuchtet der Morgenstern (vedi il diagramma, fig. 16). Quell’anno ci fu una rara coincidenza della domenica delle Palme (una festività che cambia data) con la festività dell’Annunciazione (a data fissa). Non serve molta immaginazione per valutare l’importanza di questa doppia celebrazione per i fedeli di Lipsia, poiché essa giungeva alla fine del periodo di quaranta giorni di festività della Quaresima, durante il quale non avevano potuto ascoltare alcuna musica in chiesa. Centoventicinque anni dopo, questa fu la prima cantata a essere pubblicata nel primo volume (di quarantacinque) dell’edizione della Bach-Gesellschaft (da qui la sua strana numerazione), piú della metà della quale era dedicata alla musica religiosa per la chiesa. La successiva numerazione delle cantate con il prefisso BWV fu totalmente casuale e non ha niente a che fare con la cronologia della loro composizioneac. Sia Schumann sia Brahms ne furono entusiasti sottoscrittori, e ci si chiede che cosa abbiano pensato dell’inventiva e della maestria con cui Bach intessé le sue trame contrappuntistiche attorno a uno dei piú commoventi inni luterani. La realizzazione è opulenta e regale, evocativa della cantata BWV 65 per l’Epifania sia nella strumentazione «orientale» – corni, oboe da caccia e archi (ma questa volta senza flauti dolci) – sia nella metrica: un solenne cerimoniale in Fa maggiore nella fantasia corale d’apertura, in cui l’inno di Nicolai si sprigiona nelle lunghe note dei soprani e del primo corno. Come per l’unica altra cantata di Bach per la domenica delle Palme (la vivace e piú piccola cantata di Weimar BWV 182), l’accoglienza del pubblico fu di grande entusiasmo e tripudio. La misura di quanto Bach era riuscito a realizzare fino a questo momento nel suo maneggiare la forma del coro iniziale ci viene data dal climax del movimento, l’arrangiamento dell’ultimo verso, Hoch und sehr prächtig erhaben («di sublime altezza e di altissimo splendore»), pieno di maestà e splendore. L’effetto è straordinario e l’ispirazione è sorretta da una dissimulata abilitàad.
Non sono chiare le ragioni per le quali Bach abbia lasciato il ciclo di corali incompleto, ma, qualsiasi sia stato il motivo, fu una mancanza alla quale egli tentò di rimediare negli anni successivi con l’inserimento di cantate appropriate a questo segmento finale, come la BWV 112 e 129. Allo stesso tempo, per la domenica di Pasqua del 1725 Bach rivisitò la prima delle sue cantate, la BWV 4, una aggiunta al suo ciclo degna ma ormai stilisticamente superata, e probabilmente la eseguí nella chiesa dell’università; mentre per le due chiese principali egli fece una frettolosa parodia di una (perduta) cantata pastorale di Weissenfels (BWV 249 a) Kommt, gehet und eilet, che sarebbe stata in seguito rivista e trasformata nell’Oratorio di Pasqua, Kommt, eilet und laufet (BWV 249) – e che, nella bellezza meditativa del suo lento secondo movimento (con quell’aura da concerto veneziano per oboe) e la sua prima lunga aria per soprano con flauto obbligato, coglie il senso di perdita alla morte di Cristo e la sensazione che il messaggio della Resurrezione non sia stato ancora pienamente compreso dalle menti dei fedeli.
Dopo Pasqua, Bach riprende dunque la produzione di cantate arrangiando un gruppo di testi, inclusi nove testi scritti dalla poetessa di Lipsia Christiane Mariane von Ziegler che forse erano stati destinati a formare il seguito della Passione secondo Giovanni l’anno precedenteae. Ciò che poteva sembrare una soluzione definitiva si trasformò in una sequenza post-Resurrezione di dodici lavori incredibili, che iniziano tutti con dei dicta biblici, hanno tutti dei testi poetici che risultano essere piú interrelati di qualsiasi testo rinvenibile nelle altre sequenze di cantate, e insieme riflettono il carattere liturgicamente unificato dei «Grandiosi Cinquanta Giorni»19.
I «Grandiosi Cinquanta Giorni» tra la Pasqua e la Pentecoste erano radicati nella tradizione ebraica che celebra le sette settimane (piú un giorno) che intercorrono tra la Pasqua ebraica (Pesach, la festa dei pani azzimi) e la Pentecoste/Shavuot (la festa delle settimane, e anche il Giorno della celebrazione, Bikkurim o dei primi frutti – in altre parole, del raccolto). Essi segnavano il compimento del lavoro di Cristo sulla terra, le sue ultime apparizioni ai discepoli, il suo messaggio di commiato in cui li esortava a rinforzare la loro fede, e la promessa di proteggerli con la venuta dello Spirito Santo. È questa, dunque, una stagione di contrasti – di gioia per la resurrezione di Cristo, rannuvolata dal prospettarsi della sua dipartita e dalle avversità della vita terrena. Il dualismo tra un mondo privo della luce e della presenza fisica di Cristo e un mondo di crescente oscurità spirituale è davvero palpabile nella cantata di Bach per il Lunedí santo, la BWV 6, Bleib bei uns, denn es will Abend werden. Si percepisce che il coro finale della Passione secondo Giovanni fosse, se non sulla scrivania, almeno ancora impresso nelle sue orecchie mentre componeva questa cantata. Infatti, essa ne condivide, nel coro di apertura, sia i gesti da sarabanda del Ruht wohl sia la tonalità in Do minore con la sua caratteristica sonorità dolce-amara. (Il fatto che questo coro venisse omesso nella ripresa della Passione secondo Giovanni nel 1725, come vedremo, rinforza la tesi che la cantata BWV 6 e le due seguenti appartenessero per Bach al ciclo dell’anno precedente – e furono forse anche abbozzate in quel periodo).
Ma se l’epilogo della Passione è elegiaco e consolatorio, la cantata è intrisa dalla tristezza del lutto. Le sue delicate suppliche di un’illuminazione divengono sempre piú marcate e urgenti in un mondo che va oscurandosi e dal quale è stata rimossa la presenza di Cristo. Essa riesce a essere narrativa (evocando il viaggio dei discepoli addolorati a Emmaus all’imbrunire) e universale allo stesso tempo (la paura di essere lasciati da soli nell’oscurità, sia letteralmente sia metaforicamente). Nel complesso l’atmosfera è di abbandono e decadenza, una direzione invertita dal sottile insinuarsi di un messaggio teologico al fedele: bisogna aggrapparsi alla Parola e ai sacramenti, i pilastri della vita del cristiano dopo la dipartita fisica di Cristo. Bach trova il modo di «dipingere» queste due idee giustapponendo la curva discendente (attraverso traiettorie di modulazioni discendenti) con l’ingiunzione di rimanere saldi – infilando 25 Sol e poi 35 Si suonati all’unisono da violini e viole per l’intera durata della dissonanza circostante. Questo aspetto è legato alla supplica dei discepoli affinché Cristo rimanga, intonata nove volte durante la successiva fuga corale. Nello scontrarsi fra queste due idee si può vedere un’affinità con il primo dipinto della Cena in Emmaus di Caravaggio: oltre all’ovvio parallelismo tra i contrapposti piani di luce e ombra, vi è un’ulteriore dicotomia tra la serenità e la rassicurazione da un lato – Cristo nell’atto di benedire il cibo afferma la sua identità e presenza e sembra stendere una mano di conforto al di fuori della tela verso l’osservatore – e, dall’altro, l’urgenza, evidente nei gesti impulsivi e teatrali dei due discepoli dipinti dal vivo. Si tratta di un dramma religioso rappresentato come una scena di vita quotidiana, come se Bach stesse cercando di catturare, in questo e nei due movimenti successivi, lo sconforto dei discepoli nel crepuscolo che poteva osservare dalla finestra del suo studio.
Una delle piú interessanti abitudini di Bach che possiamo incontrare in queste cantate è il suo rivolgersi per fini espressivi a singoli strumenti, soli o in varie combinazioni. Grazie a lui, essi sono in grado di creare ben piú che un effetto o un’atmosfera particolare, e si è ritenuto (da Eric Chafe e altri) che servissero a rafforzare astratte idee teologiche e legami che associavano un’opera con un’altra. Nel complesso la loro presenza ha un immediato riscontro nella coscienza dell’ascoltatore. Incontriamo momenti mozzafiato in arie di entrambi i cicli nei quali la scelta di Bach di inserire strumenti obbligati – spesso oboe o violino e, in rare e meravigliose occasioni, il flauto traverso – completa la voce e aggiunge un nuovo livello espressivo e di significato, ben oltre ciò che si può descrivere a paroleaf.
Particolarmente notevole in quest’ultima dozzina di cantate è il frequente e importante uso che egli fa di due strumenti specifici, ognuno con un timbro e un’estensione unici: il violoncello piccolo e l’oboe da caccia (figg. 21 e 22). Di ampia e incantevole sonorità, il violoncello piccolo ha una cassa di risonanza ridotta rispetto a quella di un violoncello di misura normale e (a volte) una quinta corda che estende la sua zona acuta. Entrambi gli strumenti vengono usati meravigliosamente nei movimenti successivi della BWV 6: l’oboe da caccia come primo ballerino di una supplica danzante affinché Gesú resti sulla terra (n. 2), il violoncello piccolo in un ruolo di ampio respiro, di mediazione tra la voce e il continuo (n. 3). Bach è cosí innamorato di questi strumenti che usa l’oboe da caccia in sei e il violoncello piccolo in cinque delle dodici cantate del segmento finale del secondo ciclo, cercando deliberatamente di far leva sulle loro qualità per il suo approccio poetico e interpretativo. Entrambi hanno una sonorità nel registro del tenore cosí intensa che sembra toccare intimamente il cuore dell’ascoltatore; ma, mentre il suono del violoncello piccolo suggerisce essenzialmente qualcosa di benigno e consolatorio, l’oboe da caccia tende a essere usato per esprimere sofferenza e angoscia. Come vedremo, Bach ricorre a quest’ultimo nella Passione secondo Matteo in momenti intensi di sofferenza – per l’agonia nel giardino («O Schmerz»), la sua innocenza davanti al tribunale romano («Aus Liebe»), la sua crocifissione («Sehet, Jesus hat die Hand») e il sepolcro («Mache dich, mein Herze, rein»). Bach fa qualcosa di ugualmente interessante nell’aria in Re minore «Vergib, o Vater» («Perdona, Padre, la nostra colpa, e pazienta ancora con noi») della BWV 87, Bisher habt ihr nichts gebeten in meinem Namen, facendo uso di due oboi da caccia che legano il contralto solista agli arpeggi ascendenti del continuo. In questo modo i gesti di dolore e supplica vengono registrati simultaneamente – e principalmente attraverso gli strumenti. Quindici giorni prima, nella BWV 85, Ich bin ein guter Hirt, Bach aveva usato il violoncello piccolo in una meditazione su Gesú il Buon Pastore, approfittando della particolare luminosità che esso offre in termini di estensione e di funzione armonica. Si percepisce che con questo suono simile a un mantra, ogni «agnello» sarebbe ben protetto dai ladri di bestiame – lupo, volpe o umano che siano. All’inizio dell’anno solare, nella BWV 41, Jesu, nun sei gepreiset, Bach aveva composto per il modello a cinque corde (con un’estensione che dalla corda piú bassa, Do, arriva fino al Si , tre ottave sopra in chiave di violino) come per includere il dualismo della terra e del cielo e per rispecchiare il controllo di Dio sulle umane questioni, fisiche e spirituali (fig. 23).
Lo Jubilate (la terza domenica dopo Pasqua) a Lipsia segnava l’inizio della Ostermesse, la fiera di Pasqua, in cui, per tre settimane, il flusso di visitatori – commercianti di libri, artigiani, venditori ambulanti e commercianti venuti dall’estero – avrebbe alzato il numero degli abitanti a qualcosa come 30 000 persone. Bach, che aveva programmato la pubblicazione della quarta parte della Clavier-Übung in modo tale da farla coincidere con questa fiera, comprese subito l’esigenza di comporre della musica speciale per questa domenica (quando il commercio era proibito), «dato che visitatori e illustri signori [avrebbero] sicuramente voluto ascoltare qualcosa di bello nelle chiese principali», come rimarcò il suo predecessore Kuhnau20. Tutte e tre le cantate pervenuteci per lo Jubilate (BWV 12, 103 e 146) trattano del dolore che circonda l’addio di Cristo ai suoi discepoli, con le sofferenze che li attendono in sua assenza, ma con il gioioso pensiero di rivederlo ancora. Ognuna di esse è un viaggio, una progressione musicale ed emotiva – da un dolore e un’angoscia profondi verso una festa gioiosa – basata sul sermone del giorno: «Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia» (Giovanni 16,20), da cui il titolo della BWV 103, Ihr werdet weinen und heulen. Sembra un po’ strano, dunque, trovare che essa si apra con una brillante fantasia per violino concertante raddoppiato in questa occasione da un altro strumento insolito – un flauto dolce soprano in Re, detto «flauto di sesta». Entrambi sono contrapposti a una coppia di oboi d’amore e al resto degli archi, che sono impegnati in un dialogo (apparentemente) festoso. Solo con l’entrata dei quattro Concertisten vocali con uno scarno tema di fuga (comprendente una seconda aumentata e una settima ascendente) realizziamo che siamo stati presi alla sprovvista: lo spumeggiante tema strumentale di Bach non rappresenta la gioia dei discepoli per la resurrezione di Cristo, ma la risata beffarda degli scettici di fronte al loro dolore – da cui la maliziosa risata del flauto dolce.
Con la Pentecoste in arrivo di lí a soli dieci giorni, Bach si accorda con Frau von Ziegler per rivedere e riassemblare nella BWV 183, Sie werden euch in den Bann tun, molti dei temi che insieme avevano portato alla luce nelle cinque settimane passate: la persecuzione terrena (n. 1), la sofferenza mitigata dalla protezione di Gesú (n. 2), il conforto offerto dallo spirito di Gesú (n. 3), l’abbandonarsi alla guida dello Spirito Santo (n. 4) e il ruolo dello Spirito nell’indicare la preghiera come mezzo degli uomini per ottenere l’aiuto divino (n. 5). Nella tersa e drammatica prima scena, un accompagnato di cinque battute, Bach assegna lo Spruch di apertura a quattro oboi (due d’amore e due da caccia), una variante di grande effetto, Oratorio di Natale escluso, e drasticamente differente dalla soluzione trovata l’anno prima quando, per lo stesso verso nella BWV 44, scelse di usare 87 battute per un duetto e altre 35 per un coro. Questa volta lo sviluppo dello Spruch viene arrestato da un’aria molto impegnativa, in Mi minore per tenore con un violoncello piccolo a quattro corde, nella quale il cantante insiste sul fatto di non temere la morte, mentre ogni ornata e febbrile sincope e ogni elemento ritmico indicano il contrario. Intanto, il violoncello mantiene la sua serena e luminosa traiettoria con ampi arpeggi. Si tratta di una scena intima in cui possiamo seguire il credente nella sua battaglia per superare la paura della persecuzione e di un’eventuale morte, sostenuta tutto il tempo dai suoni incoraggianti del compagno, lo Schutzarm (il braccio protettivo di Dio) a cui fa riferimento il testo: il violoncello piccolo.
La domenica di Pentecoste potrebbe sembrare uno strano giorno per una vivida descrizione dell’inferno. Tuttavia, questo era lo scopo dell’aria per contralto «Nichts kann mich erretten» della BWV 74, Wer mich liebet, der wird mein Wort halten, che richiede un violino solista, ma al lato opposto dello spettro espressivo solitamente associato con il modo usato da Bach quando scrive per questo strumento. Egli sembra determinato a far giungere con crudo realismo agli spettatori l’immagine delle catene dell’inferno che vengono rumorosamente scosse da Gesú nella sua battaglia contro le forze mondane. Di conseguenza, egli organizza delle formazioni da combattimento per i tre oboi e gli archi, chiedendo al violinista di eseguire un indemoniato bariolage, con la nota piú bassa dell’arpeggio che cade non sul tempo ma subito dopo. L’effetto è allo stesso tempo disarticolante e rinvigorente. Presto la linea vocale intraprende arpeggi che sembrano intrappolati nella veemente dialettica, come se stesse provando a liberarsi da sé dalle catene infernali. A volte questa ricerca della fede è malinconica, con frasi accentate incrociate e rafforzate dall’oboe e dal violino solista contro un minaccioso rumore sordo di semicrome ripetute. Nella sezione B la vittoria sembra assicurata e il cantante «ride della furia infernale» contro i massicci accordi dei fiati e degli archi in triplici e quadruplici stop. Intanto, il maligno compone catene di melismi in terzine e una discesa di un’ottava e mezzo prima del da capo. Bach recupera tecniche illustrative dall’opera, ma non in maniera gratuita: esse servono a un irreprensibile scopo teologico, e i risultati devono essere stati molto apprezzati da un pubblico ancora triste per la perdita del suo teatro dell’opera.
A questo punto Bach era vicino al completamento del suo ambizioso progetto per le dodici domeniche che portano alla domenica della Trinità, basato su citazioni bibliche. Negli arrangiamenti delle parole di Giovanni, e soprattutto nel coro finale della BWV 68, Also hat Gott die Welt geliebt, che prende il posto del corale, egli lascia all’ascoltatore la spaventosa scelta tra la salvezza o il giudizio nella vita presente: «Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato» (Giovanni 3,18). L’arrangiamento di Bach, cosí come il suo testo, non scende a compromessi: una doppia fuga in cui due soggetti descrivono l’alternativa, la voce raddoppiata dalla familiare combinazione di arcaici strumenti in ottone, un cornetto e tre tromboni. Il secondo giorno di Pentecoste doveva essere un momento di celebrazione, giubilo e conforto portati dallo Spirito Santo (e questo è infatti il tenore dei movimenti precedenti della cantata), ma nel dipingere un mondo fortemente diviso tra credenti e scettici Bach avrebbe lasciato la congregazione immersa nelle riflessioni.
Il contributo poetico di Ziegler doveva rientrare in due movimenti già esistenti (nn. 2 e 4), entrambi festosi nel carattere, che Bach adatta dalla sua Cantata di caccia (BWV 208) del 1713. A volte in Bach ci imbattiamo in una gioia interiore a malapena contenuta dal suo ingegno artistico rispettoso delle regole. Ad esempio nell’aria per soprano «Mein gläubiges Herze», una delle sue espressioni piú evidenti di gioia melodica e di voglia di giocare (l’esatto opposto di quelle lente, estese meditazioni del cristiano assillato che abbiamo incontrato nella stagione dell’Epifania). Nella sua originale forma profana il saltellante basso danzante rispecchia la pecora che sgambetta quando viene portata al pascolo in primavera. La linea di continuo è ancora una volta affidata a un violoncello piccolo a cinque corde, lo strumento scelto da Bach per annunciare la presenza di Cristo nel mondo terreno – la sua seconda incarnazione nel cuore del fedele. Nell’ultima pagina del manoscritto egli inserí una coda strumentale, aggiungendo un oboe e un violino al violoncello piccolo e al continuo. Con ventisette battute, essa occupa circa i tre quarti della durata dell’aria, come se le parole del cantante fossero inadeguate a esprimere la piena gioia per la venuta dello Spirito Santo. Nella seconda aria Bach riesce a inserire la parafrasi di Ziegler del verso 17 del Vangelo di Giovanni nella musica che aveva precedentemente assegnato a Pan, il dio dei boschi e dei pastori, che «rende il paese cosí felice | che foresta e campo e ogni cosa vive e si rallegra». Il mantenimento di un trio di oboi pastorali è la chiave del processo di innesto attraverso il quale Bach esprime il messaggio gioioso causato dalla presenza di Cristo sulla terra.
La domenica della Trinità è l’ultima, nella sequenza di nove cantate, con i testi di Christiane Mariane von Ziegler. Il titolo della BWV 176, Es ist ein trotzig und verzagt Ding, si traduce in «C’è qualcosa di caparbio [o sprezzante, ostinato] e di disperato [o sconfortante, pavido] nel cuore di tutti gli uomini». Tutti i significati di questi aggettivi si addicono all’arrangiamento di Bach, un ritratto avvincente della condizioni umana – e potrebbero anche riflettere la sua visione, soprattutto in merito al difficile atteggiamento delle autorità di Lipsia. Interpretando la storia della fortuita visita notturna di Nicodemo a Gesú come una tendenza umana diffusa, Ziegler, lavorando di concerto con Bach, sembra aver dato a quest’ultimo l’opportunità di realizzare una drammatica antitesi tra una forte aggressività e una timorosa fragilità. La cantata si apre con una sprezzante, risentita presentazione dello Spruch, una concisa fuga corale a quattro parti opposta a una fanfara degli archi che ricorda il Quinto concerto brandeburghese. Ciò riguarda solo la prima metà, con un melisma che corre verso la nona minore su trotzig («caparbio») per poi, nel suo picco, dar spazio a una tenera e gemente figura sostenuta dagli archi per sottolineare l’aspetto verzagt («disperato») delle cose. Questa figura ascendente e discendente continua nella fuga, di due esposizioni e mezzo senza ritornelli, con le voci raddoppiate dai tre oboi, mentre gli archi alternano il vigoroso motivo brandeburghese e un lamentoso e prolungato contrappuntoag. L’esplorazione di questi due aspetti del comportamento dell’uomo si ritrova in tutta la cantata: la giustapposizione di Nicodemo (notte) e Gesú (giorno) presentata nel recitativo per contralto (n. 2) è implicita nell’aria del soprano, una gavotte in Si (n. 3), in cui il timido, esitante ma felice credente è posto in contrasto con la mente ribelle dipinta dal coro di apertura. Nicodemo è personificato dal recitativo per basso (n. 4), al quale Bach aggiunge le parole «coloro che credono in Te solo non andranno perduti» al testo di Ziegler, componendole in un lungo arioso per sottolinearne il significato. Nell’aria finale, «Ermuntert euch, furchtsam und schüchterne Sinne» («Fatevi coraggio, animi pavidi e timorosi»), un trio di oboi in simbolico unisono accompagna il contralto. Proprio quando incautamente si potrebbe pensare che Bach la faccia terminare sulla sottodominante, egli rompe la simmetria aggiungendo due battute in piú. Con la conclusione (n. 6) a un’altezza molto piú acuta, egli afferma l’essenza della Trinità – ein Wesen, drei Personen («una sostanza, tre persone») – e la lontananza di Dio nel Suo rapporto con l’umanità. Si chiude cosí il miniciclo di dodici cantate che coprono il periodo compreso tra la Pasqua e la domenica della Trinità del 1725, con una cantata stipata di pensieri provocatori e di esegesi musicale. Bach ha chiuso il cerchio.
Nella stanza di apertura del suo Coro da «La Rocca» (1934), T. S. Eliot rimprovera la società moderna per aver perso la fede in Dio, assegnandole simboli non cristiani:
Si leva a volo l’Aquila alla sommità del Cielo;
Il Cacciatore coi cani segue il suo percorso
O rivoluzione perpetua di Stelle configurate,
O ricorrenza perpetua di stagioni determinate
O mondo di primavera e d’autunno, di nascita e morte!
Il ciclo senza fine dell’idea e dell’azione,
L’invenzione infinita, l’esperimento infinito,
Portano conoscenza del moto, non dell’immobilità;
Conoscenza del linguaggio, ma non del silenzio;
Conoscenza delle parole, e ignoranza del Verbo.
Tutta la nostra conoscenza ci porta piú vicini alla nostra ignoranza,
Tutta la nostra ignoranza ci porta piú vicino alla morte,
Ma piú vicino alla morte non piú vicini a Dio.
Dov’è la Vita che abbiamo perduto vivendo?
Dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo?
Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?
I cicli del Cielo in venti secoli
Ci portano piú lontani da Dio e piú vicini alla Polvere21.
È un peccato che Eliot non conoscesse i cicli delle cantate di Bach (anche se avrebbe potuto ascoltarne singoli movimenti). Se li avesse conosciuti, avrebbe potuto apprezzare il fatto che nella musica di Bach i cicli del Cielo ci avvicinano a Dio. E potrebbe anche essere che ci stiano dicendo che la Polvere non è il nemico, ma una parte della nostra esistenza quotidianaah. A quel punto Eliot avrebbe potuto andare veramente d’accordo con Tommaso Becket quando gli fa dire:
Ho provato un fremito di beatitudine, un cenno d’intesa dal cielo, un murmure,
E non vorrei che mi sia negato piú a lungo; tutte le cose
Procedono verso una gioconda consumazione22.