Capitolo decimo

La prima Passione

Quale passione non può essere suscitata e domata dalla Musica?

JOHN DRYDEN, A Song for St Cecilia’s Day (1687).

Si abbassano le luci in sala, il direttore accede nella buca, l’orchestra è pronta a cominciare. Si percepisce quella sensazione unica di aspettativa che si prova solo in un teatro buio all’inizio di un’opera, prima che la musica inizi a tessere la sua magia e la vicenda si avvii. Nessuna ouverture della prima metà del XVIII secolo che io conosca si avvicina allo stato d’animo di quelle dell’Idomeneo o del Don Giovanni piú dell’apertura della Passione secondo Giovanni di Bach; né esiste un miglior progenitore diretto dei tre preludi di Beethoven alla Leonore. Per immediatezza pittorica e visione tragica, la turbolenta introduzione orchestrale è senza equivalenti. Come una vera ouverture, ci invita a entrare nella rappresentazione drammatica: non in un teatro ma in chiesa o spesso, al giorno d’oggi, in una sala da concerti. La tonalità di Sol minore da Purcell a Mozart spesso implica il lamento. L’incessante pulsazione tremolante generata dalla ripetizione della linea di basso, la persistente figura sospirante delle viole e il movimento vorticoso dei violini, cosí evocativi del tumulto, perfino dell’agitazione fisica della folla, tutto contribuisce al suo pathos irripetibile. Su questo fermento, coppie di oboi e flauti, impegnate in un dialogo lirico ma dotato di angoscianti dissonanze, mettono in scena una fisicità di tipo diverso, una straziante rappresentazione dei chiodi conficcati nella carne viva.

Finora si potrebbe interpretare tutto ciò come una rappresentazione di grande emotività della crocifissione, in cui ogni elemento motivico sembra richiamare l’attenzione sia su se stesso che sul modo in cui incide su tutti gli altri. Ma poi la linea di basso, statica per le prime nove misure, inizia una discesa cromatica, e la musica comincia a sgorgare e a intensificarsi. (Tre anni dopo Händel farà qualcosa di simile, sebbene con intenti espressivi radicalmente diversi, in occasione dell’incoronazione di Giorgio II, nel monumentale crescendo che porta alla prima entrata corale di Zadok the Priest). Con l’entrata del coro accade qualcosa di una potenza sconcertante, che non ha precedenti: al posto delle parole di lamentazione Bach introduce un canto di lode al regno universale di Cristo: «O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!» (Salmi 8,2)a, una presenza unica negli adattamenti de la Passione dell’epoca1. Le voci entrano insieme con tre sciabolate isolate: Herr! … Herr! … Herr! Difficilmente l’impressione di un duplice Affekt potrebbe essere piú chiara: un’evocazione e un ritratto di Cristo che ha la maestosità di certi colossali mosaici bizantini, ma che guarda dall’alto il turbinio dell’umanità impenitente e afflitta. Bach ha trovato un modo per far coincidere la spoglia dualità di quelle idee tanto spesso coltivate da Giovanni: la luce opposta alle tenebre, il bene contro il male, spirito e carne, verità e menzogna. Nel corso di questo movimento ci accorgiamo presto che la dualità prende la forma di un taglio verticale: tra il Cristo divino «innalzato» sulla Croce che attrae a sé tutti gli uomini, e la sua umiliazione, «portata verso il basso» per il bene dell’umanità. La maestà di Gesú è dunque proclamata, come si espresse un pietista contemporaneo a Bach, «dietro il sipario delle Sue sofferenze»2.

C’è stato un tempo, non molto lontano, in cui la familiarità del pubblico con la musica sacra di Bach era limitata al canone delle sue tre opere corali piú significative: la Messa in Si minore, l’Oratorio di Natale e la Passione secondo Matteo. Le società corali piú audaci possono anche affrontare il suo Magnificat in latino, di quando in quando (sebbene sia una delle opere tecnicamente piú impegnative per il coro dell’intera produzione di Bach), eppure stranamente tralasciano la Passione secondo Giovanni, forse considerandola poco piú di una bozza per la «Grande» Passione di Bach. Da quando Mendelssohn realizzò nel 1829 una ripresa della Passione secondo Matteo ampiamente apprezzata, fu quella l’opera, in pratica la summa del genio di Bach, a suscitare un rispetto universale, che sfiora la soggezione. Accanto a questa, la piú breve Passione secondo Giovanni, per quanto anch’essa riproposta da Mendelssohn nel 1833, venne considerata per lungo tempo una parente povera, piú rozza, meno raffinata e sostanzialmente «di molto inferiore alla San Matteo», secondo quanto scrive Philip Spitta, il primo di una serie di specialisti bachiani a ritenere che «nell’insieme dimostra una certa torbida monotonia e una vaga nebulosità»3. Robert Schumann, però, non era d’accordo. Dopo aver diretto la Passione secondo Giovanni a Düsseldorf nel 1851, Schumann la trovò «per molti aspetti piú coraggiosa, potente e poetica» della Passione secondo Matteo: «Com’è compatta e geniale dall’inizio alla fine, specialmente nei cori, – esclamò, – e com’è piena d’arte!»4. Occorrerà attendere fino alla seconda metà del XX secolo prima che l’entusiasmo di Schumann per l’opera precedente («una delle piú profonde e raffinate opere di Bach») cominci a prevalere, e a emergere una specie di parità tra i due adattamenti della Passioneb.

Sono convinto che Schumann avesse ragione. Lungi dall’essere messa in ombra dal suo epico brano gemello, la Passione secondo Giovanni è la piú radicale degli adattamenti della Passione scritti da Bach giunti fino a noi. Sicuramente, ha un impatto drammatico piú potente di qualsiasi adattamento della Passione mai realizzato prima o dopo, un’impressione rafforzata dalla sua maggior popolarità e frequenza di esecuzione alla fine del XX secolo. Con una trama narrativa cosí implicitamente forte e cosí familiare, Bach può aver istintivamente valutato quanto i suoi ascoltatori sarebbero stati sensibili ai collaudati dispositivi della finzione. Usa la suspence e l’appagante arco di una narrazione tradizionale, che comprende conflitto, crisi e risoluzione, e lo sostiene a un livello di intensità musico-teatrale maggiore di quello di qualsiasi opera del periodo. Per rendere la sua narrazione piú vivida possibile, Bach è ben contento di rovistare tra le convenzioni della rappresentazione che l’opera aveva sviluppato durante l’ultimo secolo, e che ai suoi tempi erano ormai formalizzate. Il cast includeva dei veri personaggi cattivi, un eroe martire e personaggi secondari amabili ma imperfetti (come Simon Pietro) o semplicemente imperfetti (Ponzio Pilato); eppure, lo ribadiamo, non si tratta di un’opera. Le sue convenzioni e i suoi propositi non sono quelli del teatro d’opera, né Bach pensò nemmeno per un secondo di poterla eseguire con dispositivi e attrezzature teatrali. È l’insieme piú audace e complesso di narrazione e meditazione, religione e politica, musica e teologia che sia mai stato realizzato, e l’apice del manifestarsi di quello «spirito del dramma musicale» il cui sviluppo abbiamo seguito nel capitolo IV. E poiché Bach non si rivolge al pubblico «passivo» di un teatro dell’opera, ma piuttosto a un’assemblea ecclesiastica luterana in cerca di nutrimento spirituale, può contare su un livello di partecipazione attiva da parte dei suoi ascoltatori, che si trovano inesorabilmente coinvolti nel tessuto drammatico. Ciò gli permette di porre loro domande difficili.

Evitando ogni facile caratterizzazione «operistica» nel suo adattamento, Bach al contrario incoraggia i singoli cantanti e musicisti del suo ensemble a farsi avanti in determinati momenti, a dar voce ai propri pensieri, alle proprie preghiere e alle proprie emozioni come testimoni contemporanei di questo nuovo racconto della Passione di Cristo (e perfino di scambiarsi di ruolo nelle proprie performance). Fu un modo sperimentale per creare una nuova esperienza per i propri ascoltatori, in apparenza adattato alla loro edificazione spirituale, ma senza precedenti per intensità drammatica. Ciò che dovette sembrare particolarmente scioccante per i primi ascoltatori di Bach fu il fatto che tutto questo veniva ascoltato ed eseguito in chiesa. È del tutto possibile che una fusione cosí unica di musica, esegesi e dramma possa aver lasciato perplessi gli ascoltatori, cosí saturi di Bibbia, tanto quanto potrebbe sfuggire a un pubblico moderno, spesso sprovvisto di una cultura biblica e che, ciononostante, la considera tanto avvincente. Occorre trovare il motivo per cui una musica cosí impregnata di teologia e cosí ancorata a ciò che sembra una versione parrocchiale della cristianità luterana possa «levare i suoi ormeggi storici»5, per coinvolgere e affascinare i pubblici di parti del mondo cosí diverse quasi 300 anni dopo la sua composizione. È proprio questo il luogo dove cercare il rinnovo e l’espansione dei principî che ispirarono i padri fondatori dell’opera, Monteverdi per primo, il cui obiettivo centrale era di sfruttare il potere della musica di suscitare le passioni dei suoi ascoltatori.

Abbiamo visto che dall’inizio del suo cantorato a Lipsia Bach si era dato il compito erculeo di comporre (per quanto concesso dalla situazione e dal tempo) nuova musica ogni settimana per tutte le festività del calendario ecclesiastico, e il suo obiettivo iniziale (con ogni probabilità) consisteva di un minimo di tre cicli di cantate all’anno, ognuno con un adattamento della Passione come culmine. Di conseguenza, la Passione secondo Giovanni era destinata a diventare il suo primo «pianeta» principale, circondato dall’orbita delle «lune», le cantate che aveva realizzato finora nella sua prima stagione. Accostarsi a essa attraverso la familiarità con le cantate che la circondano, perfino dopo quasi tre secoli dalla sua creazione, cambia e arricchisce la nostra esperienza di esecutori e ascoltatori: emerge come un’opera in cui Bach cristallizzò idee e tecniche che aveva sistematicamente sviluppato nel corso dell’anno precedente: modi differenti di combinare cori, corali, recitativi e arie, di alternare l’azione del racconto con la contemplazione, equilibrando vivide scene drammaturgiche con momenti della piú bella e piú persuasiva esposizione del loro significato a beneficio dell’ascoltatore. A giudicare dalla regolarità con cui la ripropose negli anni successivi, malgrado le critiche apparentemente ostili del concistoro e la conseguente pressione ad alterarne il tono e l’inclinazione teologica, Bach dovette averne un’alta considerazione. Era il suo lavoro piú ampio fino a quel momento: comprendeva quaranta diversi movimenti e durava oltre cento minuti, eccedeva di molto qualsiasi necessità o direttiva liturgica, e fu una delle poche opere a occupare la sua mente a intervalli regolari per il resto della sua carriera. È significativo che per le due ultime esecuzioni nell’anno della sua morte e nell’anno precedente, ne ripristinò tutti gli elementi essenziali allo stato originale6. Forse questo fu il suo modo di assicurarsi che fosse fatta giustizia allo straordinario sforzo artistico che aveva impiegato nel pianificare e dare forma a uno dei progetti piú elaborati tra tutte le sue opere principali.

Nel capitolo IX ci siamo riferiti all’irrefrenabile flusso creativo del suo primo anno a Lipsia, ai sottili e ingegnosi mezzi che trovò per riflettere e accennare gli specifici temi teologici di ogni festività, alle cantate collegate tematicamente a gruppo di due e tre (e in un solo caso di sei) per mantenere continuità e coesione di settimana in settimana. L’abbiamo visto dare una sfumatura teologica fuori stagione a due successive cantate natalizie (le BWV 40 e 64), in cui minimizzava il racconto della Natività e al suo posto rendeva una visione persuasivamente giovannea dell’incarnazione dove Dio si faceva uomo per salvare gli uomini e portare gioia sconfiggendo il Demonio, in un’evidente anticipazione del messaggio della Passione secondo Giovanni. Allo stesso scopo, nella sua scelta dei testi delle cantate e nella sua selezione di corali nel periodo precedente alla Quaresima, Bach preparava con cura i suoi ascoltatori alla risposta collettiva che sarebbe presto stata soddisfatta dai corali del suo primo adattamento della Passione. Aveva perfino dato loro un assaggio della musica che avrebbero dovuto aspettarsi da lui quando era di fronte a un lungo passaggio delle Scritture, con la la sua immaginazione accesa da un avvenimento particolarmente drammatico quale la descrizione da parte di Matteo di Gesú che placa una violenta tempesta sul lago di Galilea (BWV 81), come abbiamo visto nel capitolo precedente.

Nel ritrovarsi nella Nikolaikirche quel Venerdí santo, i fedeli devono aver quindi avuto un’idea piuttosto chiara della musica che stavano per ascoltare. Avevano avuto quasi un anno per abituarsi a uno stile che, come Bach ammise poi apertamente alle autorità, era «incomparabilmente piú difficile e piú intricato» di quello di qualsiasi altra musica eseguita in quell’epoca. Ora, per la prima volta nel suo cantorato, e con gli elementi parlati della liturgia ridotti al minimo nella funzione del Venerdí santo, la sua musica poteva legittimamente venire alla ribalta, e costituire ciò che Telemann una volta descrisse (parlando dei propri cicli di cantate) come un vero e proprio «servizio divino armonioso» in sé. Era la sua occasione per mostrare in grande stile che tipo di contributo la musica moderna (la sua musica) poteva dare nel definire e rafforzare la fede cristiana. Nessuno dei suoi colleghi, e sicuramente nessuno dei suoi predecessori, aveva ambizioni di scrivere una musica esegetica di simile complessità o dimensioni. Nessuno poteva eguagliare la profondità dei suoi elaborati schemi, il suo mescolare narrazione e riflessione, episodi delle Scritture e testi poetici modellati sulla teologia. In una città universitaria famosa per la sua facoltà di teologia, si trattava di un’affermazione coraggiosa (qualcuno avrebbe addirittura potuto dire sfacciata), resa per di piú da qualcuno che non era un teologo e che non era nemmeno in possesso di una laurea.

Cinquanta e piú anni fa l’usanza voleva che l’organo non venisse suonato in chiesa durante la domenica delle Palme, e quel giorno, a causa dell’inizio della Settimana santa, non si faceva musica. Ma gradualmente la storia della Passione, che inizialmente era un canto piano, umile e riverente, iniziò a essere accompagnata da molti tipi di strumenti, e nei modi piú elaborati, prevedendo di tanto in tanto degli adattamenti e canti di corali della Passione, a cui si univa l’intera congregazione. Dopodiché la massa degli strumenti tornava nuovamente. Quando questa musica della Passione fu eseguita per la prima volta, con dodici violini [strumenti a corda], molti oboi, fagotti e altri strumenti, molte persone rimasero scandalizzate, e non sapevano come reagire. Sulla panca di una famiglia nobile in chiesa erano presenti molti ministri e nobildonne, e cantavano il primo corale della Passione leggendo il testo con grande devozione dal proprio libro degli inni. Ma quando iniziò questa musica teatrale, tutti loro rimasero profondamente smarriti, si guardarono l’un l’altro e dissero: «Dove andremo a finire?» Un’anziana e nobile vedova disse: «Dio salvi i miei figli! È come se ci trovassimo davanti a un’opera buffa». Ma tutti ne furono genuinamente contrariati e dettero voce a molte giuste lamentele. È vero, ci sono persone che traggono piacere da tali vanità, specialmente chi è di temperamento sanguigno e incline al piacere dei sensi. Tali persone difendono come possono le composizioni sacre realizzate in grande stile, e ritengono che gli altri siano di temperamento irritabile e melanconico, come se essi solamente possedessero la Saggezza di Salomone e gli altri non capissero nulla7.

Se alcuni studiosi hanno suggerito che questo racconto del teologo luterano Christian Gerber si riferisca a un episodio accaduto a Dresda, invece che a Lipsia, tuttavia questo dà voce a quella che potrebbe essere stata una tipica reazione alla presentazione di Bach della sua Passione secondo Giovanni nella Nikolaikirche, il Venerdí santo del 1724. Nei primi decenni del XVIII secolo, Lipsia era un ambiente conservatore in cui la vita religiosa e politica era condizionata dalla tradizione e dal passato. Probabilmente i suoi cittadini si erano abituati ad avere un teatro dell’opera, e per i padri della città ciò costituiva la prova evidente della loro apertura mentale in occasione delle tre fiere commerciali annuali, ma una musica «operistica» per la Passione restava tutt’altra faccenda. Semplicemente traducendola in musica concertata o figurata, Bach si addentrava in un potenziale campo minato. Nell’assenza di testimonianze dirette, quello di Gerber è il miglior racconto in nostro possesso per comprendere la portata della tipica reazione del pubblico, o quantomeno di una reazione piú attenta e pia, alla prima Passione di Bach. Anche il sacerdote officiante rimase forse sconcertato, sempre attento com’era al pericolo che la musica gli rubasse la scena, disturbando la meditazione del Venerdí santo della congregazione e invadendo l’intera liturgia. Nelle relazioni tra le autorità ecclesiali e i musicisti c’era (e normalmente c’è ancora) sempre un elemento di sospettoc. Come vertice musicale del suo primo anno a Lipsia, la Passione portava con sé la certezza di fare effetto e la possibilità di sollevare un bel polverone.

E come poteva essere altrimenti? Mentre esistevano tradizioni e preferenze specifiche a livello locale per segnare l’anniversario della Passione di Cristo in diverse comunità in tutto il mondo di lingua tedesca, e perfino in diverse parti della stessa città, in definitiva si trattò di una questione personale, per cui ciò che era una medicina per qualcuno si rivelò veleno per altri, sebbene una meditazione sulla Passione fosse fondamentale per i luterani devotid. All’interno della liturgia delle due chiese principali di Lipsia operava un ricco simbolismo teologico, che a sua volta aveva un impatto sulla scelta dei testi e sul modo in cui la musica per il Venerdí santo era assemblata, presentata e recepita. Il sermone e l’adattamento musicale della Passione, monodico o figurato, erano mezzi diversi ma complementari per catturare l’attenzione della gente su determinati momenti dello svolgimento della storia, un equivalente sonoro luterano delle stazioni della Via Crucis cattolica. Per alcuni, l’atto stesso del canto degli inni da parte della congregazione era catartico e sufficiente a guidare i loro pensieri, mentre altri potrebbero aver accolto favorevolmente l’esperienza di una rievocazione musicale vivida del racconto della Passione per essere indotti a un adeguato stato d’animo di devozione (non foss’altro, forse, perché la tradizione consacrata dei misteri medievali, benché rifiutata da Lutero, gettava ancora la sua lunga ombra). Senza dubbio esisteva una considerevole varietà tra questi due estremi, anche senza prendere in considerazione lo stile e la complessità della realizzazione musicale.

Le opinioni sul ruolo della musica in chiesa erano probabilmente rimaste divise per almeno una generazione prima dell’arrivo di Bach a Lipsia, un fattore che di sicuro alimentava la resistenza alla novità del suo pensiero musicale e religioso. Georg Philipp Telemann ebbe una grande responsabilità a questo proposito. Abbiamo già ripercorso le sue mirabili attività musicali da studente e abbiamo notato come, nel corso dei suoi quattro anni in città (dal 1701 al 1705) rifiutò che esse fossero tenute a freno dalle arbitrarie divisioni e strutture cittadine. Questa eredità continuò a disturbare la tranquilla superficie della vita musicale anche molto tempo dopo la sua partenza: le sue innovazioni furono deplorate da alcuni, e ben accolte da altri che le aspettavano da tempo. Le pretese di Lipsia di avere uno status culturale elevato in quanto città universitaria non riuscivano a nascondere la sua natura conservatrice e provinciale. Sembra, per esempio, che sia stata ampiamente avversa ai vigorosi tentativi effettuati nel corso dei precedenti cento anni da parte dei compositori della Germania settentrionale di trapiantare sul suolo tedesco lo stile recitativo all’italiana, e tutto ciò che lo accompagnava in termini di audacia delle armonie e di vivace restituzione del testo, come abbiamo visto nel capitolo II. I sistemi che Telemann aveva messo in funzione nella Neukirche continuarono a produrre i migliori studenti e musicisti freelance della città per anni dopo la sua partenza nel 1705e. La chiesa agiva anche da calamita per i fedeli piú progressisti, causando reazioni di disapprovazione e invidia tra chi continuava a frequentare una delle due principali chiese cittadine. Era il tipo di situazione ideale per accendere lo spirito di competizione del Thomaskantor Johann Kuhnau, il predecessore di Bach, ormai anziano e sulla difensiva.

Nel frattempo, il nuovo stile figurativo della musica per la Passione si stava affacciando, non a Lipsia ma ad Amburgo durante la Settimana santa del 1712, quando Barthold Heinrich Brockes invitò cinquecento ospiti nella sua grande residenza cittadina per l’esecuzione della sua meditazione poetica sulla Passione, Der für die Sünde der Welt gemarterte und Sterbender Jesus («Gesú, martire e morente per i peccati del mondo»), adattata su musica del direttore dell’Opera cittadina, Reinhard Keiser. Quattro anni dopo Telemann, allora direttore della musica sacra a Francoforte, eseguí la propria versione musicale del testo di Brockes nella Barfüsserkirche, davanti ad «alcuni dei piú famosi musicisti stranieri [in città]». Durante una successiva esecuzione della sua Passione, Telemann dichiarò nella sua autobiografia: «le porte della chiesa dovettero essere sorvegliate da guardie per non lasciar entrare nessuno che non fosse in possesso di una copia stampata [del libretto] della Passione»8. Il testo di Brockes fu ristampato in piú di trenta edizioni tra il 1712 e il 1722; all’apice del suo successo, Johann Mattheson organizzò quattro esecuzioni consecutive ad Amburgo durante la Settimana santa del 1719, con adattamenti di Keiser, Händel, Telemann e propri. Apparentemente ciò era inteso all’edificazione della pia intellighenzia cittadina, ma in realtà si trattava di un pretesto per una competizione pubblica sotto forma di concerto tra quei compositori rivali, il tipo di intrattenimento a cui i tedeschi del XVIII secolo non riuscivano a resistere. Il particolare tipo di religiosità strappalacrime di Brockes era proprio ciò che molti cittadini desideravano come nutrimento spirituale. Fornendo alla storia una serie di reazioni e risposte prestabilite, egli eliminò lo sforzo di dover immaginare o ricostruire gli eventi della Passione di Cristo. Eppure l’immaginario stucchevole dei suoi versi scatenò una reazione esagerataf. Il predicatore della corte di Gotha ci viene nuovamente in aiuto per comprendere questa attrazione: «La Passione, presentata e cantata in maniera commovente il Venerdí santo, giorno meritevole di tutte le devozioni, ci porta ogni anno tra i banchi del tribunale in cui il Dio giusto pronuncia la sentenza di morte per il suo Figlio amato e obbediente, per assolvere i nostri peccati, e lascia che questa sia eseguita, una sentenza che Maria e Giovanni, contriti e fedeli ai piedi del terribile legno [la Croce] … non tollerano ascoltare. Lo stesso, dunque e senza dubbio, sarà fatto quest’anno, in questo giorno, da tutti coloro che amano Dio»9.

I pastori di Lipsia avrebbero potuto scrivere in questo stile? Sembra improbabile. Se dovessimo avere un quadro generale di cosa offriva il Tempo di Passione del 1717, per esempio, troveremmo che alla Thomaskirche prevalgono ancora gli antichi rituali, ritenuti adeguati ai bisogni dei parrocchiani piú tradizionalisti. Qui, secondo l’usanza consacrata nella funzione mattutina, i Thomaner eseguono l’adattamento responsoriale della Passione secondo Giovanni tradizionalmente attribuita al consigliere musicale di Lutero, Johann Walterg. La congregazione, notiamo, rimane in piedi per l’intera esecuzione ed è pronta a tornare in chiesa nuovamente per i Vespri serali: con resistenza e devozione sbalorditive, canta tutte e ventitre le stanze dell’inno per il Tempo di Passione O Mensch bewein dein Sünde groß di Sebald Heyden, o le ventiquattro strofe dell’inno Jesu, Leiden, Pein und Tod di Paul Stockman. Alla Neukirche, dall’altra parte della città, per la prima volta nella storia di quest’ultima viene eseguita una Passione-oratorio figurata con accompagnamento strumentale: l’adattamento di Telemann della Passione di Brockes. La persistente fama di Telemann e l’attrattiva costituita da una musica decisamente accessibile possono spiegare il numero eccezionale di fedeli, poiché «la gente sicuramente non poteva essere arrivata in chiesa cosí presto e in tal numero solo per il predicatore», secondo la versione del giovane studente di teologia Gottfried Ephraim Scheibel: «Ero sbalordito dall’attenzione con cui la gente ascoltava e dalla devozione con cui cantavano. Ciò fu principalmente a causa della musica cosí commovente. Sebbene la funzione fosse durata piú di quattro ore, tutti restarono fino al termine»10.

Nel frattempo, svariate miglia a ovest di Lipsia, nella chiesa del castello di Gotha, nientemeno che lo stesso J. S. Bach, in viaggio da Weimar per fare le veci del compositore di corte, in quell’occasione indisposto, sta eseguendo una musica per la Passione perfettamente aggiornata. Né la musica né il testo sono stati recuperati, ma altri adattamenti della Passione degli anni immediatamente successivi ci forniscono un indizio dei gusti allora prevalenti alla corte del duca di Sassonia-Gotha e in corti simili in tutta la Germaniah. Nel 1719 una meditazione in versi della Passione, ritenuta opera di Reinhard Keiser su un libretto di Christian Hunold, fu eseguita a Gotha, e nel 1725 il nuovo Capellmeister, Gottfried Heinrich Stölzel, presentò il proprio adattamento di una Passione-oratorio, ancora una volta nella versione di Brockes. Hunold e Brockes hanno uno stile linguistico simile – fisicamente esplicito, alternativamente chiassoso o sdolcinato – che corrispondeva a un tipo di letteratura devozionale non liturgica in voga nelle corti ducali e nelle città cosmopolite come Amburgo. Tramite descrizioni decisamente realistiche delle torture inflitte a Cristo, e passaggi di calma esposizione alternati a scoppi di indignazione da parte dei discepoli, essi miravano a suscitare la piú profonda compassione degli ascoltatori11. Quanto di ciò fu adottato da Bach nella sua Passione per la corte di Gotha del 1717 (sempre che tale opera sia mai esistita) è difficile dirlo, sebbene alcuni studiosi sostengano che certi suoi movimenti siano stati riciclati nella seconda versione della Passione secondo Giovanni nel 1725 (vedi infra).

Non fu prima del 1721 che il futuro sostenitore di Bach, il borgomastro Gottfried Lange, resosi conto della popolarità delle Passioni-oratorio di Telemann e Brockes e della conseguente diminuzione del numero di fedeli nella Thomaskirche e nella Nikolaikirche, riuscí finalmente a convincere il concistoro a cedere e ad autorizzarvi l’esecuzione di musica figurata per i Vespri del Venerdí santo, sebbene i suoi membri insistessero affinché la funzione mattutina rimanesse com’era sempre stata. Il Thomaskantor, Johann Kuhnau, ormai di salute precaria, oppose resistenza alla nuova moda quasi fino alla fine, sebbene a quanto pare «desiderava moltissimo eseguire la storia della Passione in stile figurato»12. Solo un frammento della sua Passione secondo Marco è giunto fino a noii, poco per giudicare se si trattasse di uno sforzo genuino per riprendere l’iniziativa o soltanto cedesse alle pressioni e alla moda. La sua scomparsa ci priva anche di un paragone immediato con cui misurare il livello di continuità e novità rappresentato dalla prima rappresentazione della Passione secondo Giovanni di Bach a Lipsia tre anni dopo. Tuttavia, Kuhnau forní a Bach un precedente per una Passione a Lipsia che faceva affidamento su un nucleo di narrazione biblica pura ed era, apparentemente, punteggiato da corali vecchi di duecento anni, diversi cori di turbae e arie scritte su nuovi testi di commento liricoj.

Ciò che emerge chiaramente da questa breve indagine è che durante i primi decenni del XVIII secolo per tutto il mondo luterano tedesco si era sviluppato un appetito per le meditazioni in musica della Passione, in varie forme. Per alcune porzioni del clero, le innovazioni musicali della Settimana santa erano cautamente accolte nella misura in cui «la devozione … deve essere sempre rinnovata, animata e, per cosí dire, tenuta accesa, o altrimenti la conseguenza sarà il sonno»13. Introducendo l’adattamento di Stölzel della Passione di Brockes nel 1725, il predicatore di corte a Gotha scrisse: «Questa storia è presentata in modo cosí diligente che Cristo sembra essere ritratto proprio davanti agli occhi degli ascoltatori, e crocifisso nuovamente tra di loro»14. E sicuramente era proprio quello il punto: la nuova musica era adesso collegata a testi in cui il racconto della Passione era parafrasato e riproposto in termini crudi, con periodiche esplosioni di indignazione e protesta collettiva, come delle interruzioni da parte dei testimoni presenti, integrate nella narrazione. Contro ciò esisteva un’intera fascia di opinioni conservatrici contrarie alla teatralità della Passione-oratorio, e ai tentativi di coinvolgere l’ascoltatore come un testimone fittizio della sofferenza e della Passione di Gesú. «Non si può sperare in alcuna edificazione, – protestò Georg Bronner, – al di là del fatto che l’udito sia in qualche modo solleticato dalla musica»15.

Anche nelle prime fasi dell’Aufklärung, la cristianità luterana era molto viva, e influenzava gli schemi di pensiero della stragrande maggioranza dei cittadini tedeschi all’epoca di Bach, come abbiamo visto nel capitolo II. È un termine di valutazione di un’epoca che a poco a poco si fa strada verso la modernità il fatto che, nonostante le devastanti scoperte scientifiche del secolo precedente, la fede fosse solida e si muovesse di pari passo, almeno nel periodo in cui Bach era vivo. Chiaramente i compositori avevano buone opportunità per far fronte a questa richiesta, proprio come nel secolo precedente c’erano state per i pittori, da entrambi i versanti confessionali. Le figure principali all’epoca erano, naturalmente, Rubens e Rembrandt, simili nel modo in cui approfittarono della continua preoccupazione per la fede nella scelta dei loro soggetti, ma separati da una frontiera estetica e religiosa. Inoltre, laddove le preoccupazioni di Rubens si concentravano sul corpo umano, sulla sua sensuale muscolatura e il suo carattere tangibile, Rembrandt era dedito a esplorare la dimensione emozionale e spirituale e la fondamentale umanità dei suoi soggetti. Forzare un’analogia con i testi teologici tedeschi dell’inizio del XVIII secolo potrebbe essere troppo, non foss’altro perché il pubblico di Brockes era formato da strenui luterani, e non da fanatici della Controriforma. Non si deve trascurare il fatto che i musicisti, cosí come i pittori, erano trattati con disprezzo dalle fazioni piú conservatrici dell’opinione religiosa, e qui l’avversione mostrata dai luterani di tendenza pietista per la musica collegata alle immagini incendiarie di Brockes è straordinariamente simile al disgusto dei calvinisti olandesi per l’opulenta carnalità e la sensualità gratuita di Rubens e della sua scuola. Non erano solo i testi esuberanti a offendere i pietisti (e come poteva mai essere, del resto, se essi stessi erano ridicolizzati dagli ortodossi per la loro religiosità stucchevole?) quanto piuttosto la loro combinazione con adattamenti musicali che prevedevano una strumentazione elaborata. In un’epoca precedente, Erasmo aveva insistito: «lasciamo perdere tutto questo gemere … a meno che non lo facciamo per conto dei nostri peccati, e non per le Sue piaghe. Al contrario, dovremmo proclamare con gioia il Suo trionfo». Non tutti però gli prestarono attenzionek16.

È evidente che, come molta della piú grande pittura e musica occidentale del millennio trascorso, la Passione secondo Giovanni di Bach fu concepita non come un’opera di arte religiosa, ma come una forma di culto in se stessa. Come si spiegherebbe altrimenti la straordinaria serietà e la fervente determinazione che emana? La mera convinzione della visione di Bach, la sua vivida particolarità, ispirata dal racconto della Passione, basata sulla testimonianza diretta di Giovanni, è dunque evidente fin dall’inizio nel prologo corale, «Herr, unser Herrscher», che sembra spazzare via tutto ciò che è venuto prima. Anche affrontandolo dal punto di vista delle precedenti cantate sacre, con la loro sbalorditiva gamma di caratteristici movimenti d’apertura, ognuno dei quali sembra prefigurare l’essenza dell’opera che segue, questo grandioso tableau non ha precedenti in quanto a dimensioni e Affekte. In comune con i prologhi di due composizioni successive, la Passione secondo Matteo e la Messa in Si minore, le battute d’apertura portano in sé i semi dell’intera opera. Da direttore, si percepisce che l’inesorabile svolgimento della narrazione successiva e dei movimenti contemplativi dell’opera è fondato, o almeno implicito, in quell’avvio. Il modo in cui viene eseguito determina molto piú del semplice tempo del movimento: può incidere sul tono e il clima dell’intera opera e sulla sua capacità di attirare l’ascoltatore in una partecipazione attiva all’esecuzione, e allargando i termini di riferimento oltre i significati e le connotazioni preesistenti voluti da Bach. La struttura da capo da lui adottata non è una semplice formalità, o un artificio strutturale, come accade spesso nell’opera dell’epoca: è una metafora in miniatura dell’intero racconto della Passione. Nella sezione A ci viene mostrato Cristo glorificato come parte della divinità («E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse», Giovanni 17,5). La sezione B si riferisce dunque alla sua umiliazione e anticipa il modo in cui è destinato a sacrificare la propria vita per l’umanità. Infine, la ripresa della sezione A serve a segnare il ritorno in gloria e maestà di Cristo al Padre (Gesú aveva pregato in precedenza che i suoi discepoli «contemplino la mia gloria, quella che tu mi hai dato», Giovanni 17,24)l.

Questo è solo il primo di una serie di procedimenti strutturali che Bach utilizza per articolare e controbilanciare la struttura del racconto di Giovanni. I teologi hanno posto l’attenzione sul modo adottato da Giovanni per inscrivere una curva simile a un pendolo per la presenza di Cristo nel mondo «del basso». Inizia al momento della sua discesa con l’incarnazione, raggiunge il nadir con la crocifissione, in sé l’inizio dell’ascesa finale che porta all’Ascensione e al ritorno verso il mondo «dell’alto». Bach si preoccupa di replicare questo movimento pendolare nella pianificazione tonale della sua Passione, e anche a controbilanciarlo. Come vedremo, nel momento centrale Bach colloca la sua aria piú lunga «Erwäge» (n. 32), che evoca l’arcobaleno, simbolo dell’antico patto tra Dio e Noè dopo il diluvio. In questo modo, descrive un arco simmetrico che coincide con l’oscillazione pendolare della presenza di Cristo sulla terra, formando un’ellissi.

Nel capitolo 14 del suo Vangelo, Giovanni dice chiaramente che la consolazione (Trost) e la gioia (Freude) sono il risultato finale della vittoria di Gesú sulla morte. Il piano di Bach è di tracciare il corso di questa vittoria duramente acquisita attraverso un riadattamento della testimonianza diretta di Giovanni della Passione di Cristo, pur restando del tutto fedele al Nuovo Testamento, senza parafrasarlo come Brockes o Hunold, ma limitandosi a inserire due brevi passaggi dal racconto contenuto nel Vangelo di Matteo, e poi punteggiando la narrazione con commenti spirituali per mezzo di ariosi, arie e corali, questi ultimi come veicolo per i momenti di contemplazione collettiva.

Il racconto di Giovanni si estende su tre «atti». L’atto I (Giovanni 18,1-27) parte dall’arresto e interrogatorio di Gesú nel cuore della notte nel cortile del sinedrio e termina con il rifiuto di Pietro. L’atto II (18,28-40, 19,1-16) affronta poi il processo nel tribunale romano nel corso di sette scene con un’ambientazione divisa in due: i sacerdoti ebrei e la folla all’esterno del pretorio e Gesú all’interno, mentre Pilato si divide tra i due ambienti. L’atto culmina con la condanna a morte. Nell’atto III (19,17-42) l’azione si sposta sul Golgota per la crocifissione, la morte e la sepoltura di Gesú. Con un sermone da collocare a un certo punto della vicenda. A un primo sguardo sembra che Bach intenda ricalcare la struttura tripartita di Giovanni sistemandolo alla fine dell’atto I di quest’ultimo – la sua parte I, che si chiude con il canto del gallo citato nel verso di Matteo (26,75), che egli inserisce per dare voce al rimorso e al pianto amaro di Pietro. Da qui in poi, come vedremo, l’atto e la divisione in scene sono molto meno chiari, e le complicazioni strutturali iniziano ad accumularsi, vivacemente dibattute tra teologi e musicologi. Tutto questo è il risultato del progetto di Bach per la parte II della sua Passione, che opera contemporaneamente su due piani: su quello storico e letterale, che lo obbliga a ricalcare la narrazione fisica di Giovanni, e su quello spirituale e metafisico, che gli dà la possibilità di un progetto piú astratto in cui ricavare il significato teologico dagli eventi17. Mentre non ci sono divisioni rigide a demarcare i due piani, ci sono numerose corrispondenze tra i movimenti, a suggerire schemi geometrici che racchiudono un nucleo disposto simmetricamente. L’ordine musicale di ciò che è stato descritto come il processo «simbolico» di Bach18 è leggermente fuori sincrono con le divisioni narrative e i cambiamenti di luogo, e favorisce la dimensione spirituale che Bach, nel seguire Giovanni, cerca di estrapolare a beneficio dell’ascoltatore piú attento.

Per questo giorno di capitale importanza nell’anno liturgico, Bach sviluppa una struttura in delicato equilibrio tra narrazione e contemplazione, che un solo compositore sembra aver tentato prima di lui. A lungo attribuita a Reinhard Keiser, la Passione secondo Marco (1707) fu la Passione-oratorio che Bach conosceva meglio, ed era cosí eccezionalmente «moderna» che la fece copiare da un suo assistente e la eseguí a Weimar nel 1712m. Seguendo il suo esempio, Bach stabilisce una triplice alternanza di esposizione tra Evangelista, Gesú, i personaggi minori e la folla. Il ritmo e l’intensità della narrazione, che ovviamente condensa l’arco temporale effettivo dell’evento storico, sembra a volte veloce, ma mai affannoso, e tantomeno sbrigativo. Ispirato dallo stile declamatorio quasi parlato di Keiser, Bach è sempre pronto a elevarsi in momenti di un lirismo molto piú persuasivon. Anche se i suoi ascoltatori ormai conoscevano bene lo stile recitativo di Bach, avendolo ascoltato nelle sue cantate nel corso dei precedenti nove mesi, qui la scorrevolezza della narrazione e la veemenza drammatica della parte dell’Evangelista, legata alla tensione armonica e fluttuante tra linea vocale e il basso continuo che la sostiene (e cosí differente, inoltre, dal tono «pio» abitualmente adottato dai predicatori), sarebbero state una sorpresa. La Passione di Kuhnau non poteva somigliare a niente del genere. Bach non stava semplicemente facendo le veci di Kuhnau, o quelle di Telemann, cosí di moda: il suo modo di raccontare una storia in musica era incommensurabilmente piú forte e musicalmente piú ricco.

Per anni sono rimasto colpito dal modo in cui Bach sembra sapere d’istinto quale sia il momento esatto in cui interrompere la narrazione e rallentare il passo, in cui intercalare le arie solistiche allo scopo di aggiungere una nota personale allo svolgersi degli eventi, e quando inserire i corali «pubblici» in cui gli ascoltatori potessero esprimere (o ascoltare) la reazione collettiva. Esistevano solidi precedenti teologici per questo schema nel fatto che ai luterani veniva insegnato prima a leggere la Bibbia, poi a meditare sul suo significato, e infine a pregare, proprio in quest’ordine19. Adesso però sembra che Bach avesse una guida utile a portata di mano, un commento al racconto della Passione di Giovanni sotto forma di dieci sermoni elaborati dal teologo pietista August Hermann Francke (1663-1727) e pubblicati nel 171620. Il commento di Francke rivela inequivocabili parallelismi: nella struttura dei paragrafi, nella posizione e nel contenuto tematico degli inserimenti meditativi di Bach. Perciò, ad esempio, nella parte I di Bach, vediamo che:

– Il primo tema della dissertazione d’apertura di Francke è la stessa Herrlichkeit, la divinità di Gesú, che abbiamo notato nel coro d’apertura di Bach.

– Questa, a sua volta, deriva dal suo amore per il Padre e per l’umanità in generale, che si riflette nella collocazione da parte di Bach del suo primo corale: «O große Lieb» (O grande amore, n. 3).

– Francke indica il momento in cui Gesú, nel momento in cui gli viene offerta la possibilità di evitare il corso della Passione, rimprovera Pietro per aver usato la spada e accetta il «calice» della sofferenza; Bach risponde con un secondo corale: «Dein Will gescheh» (Sia fatta la tua volontà, n. 5).

– Francke sceglie di concludere il suo primo sermone nel momento in cui Caifa consiglia agli ebrei che sarebbe vantaggioso mettere a morte un solo uomo per il popolo, indicando i benefici dell’immolazione volontaria di Cristo per l’umanità: non in senso letterale ma spirituale, per accentuare l’opposizione tra l’intento malvagio di Caifa e la bontà di Dio. Bach inserisce la sua prima personalissima aria, «Von den Stricken» (n. 7), in questo momento: una descrizione di Gesú che viene legato «con le corde dei miei peccati» per «liberarmi» e «guarirmi completamente».

– Francke esorta i fedeli a emulare il fervore di Pietro nel seguire il maestro; Bach adotta lo stesso tono molto positivo nel suo primo movimento in tonalità maggiore, l’aria per soprano «Ich folge dir gleichfalls» (n. 9).

– Nella scena in cui Gesú viene disonorato nel tribunale del Sommo Sacerdote, Francke ribadisce la sua innocenza ed esorta gli ascoltatori a riflettere sulle proprie colpe. In perfetta sincronia, Bach colloca qui il corale «Wer hat dich so geschlagen» (n. 11) per dare voce, in versi successivi, prima allo sbigottimento dei fedeli nel vedere Gesú maltrattato, e poi al loro coinvolgimento nel processo: «Io, io e i miei peccati, che sono come granelli di sabbia sulla spiaggia, ti hanno causato la pena che ti assale e l’atroce dolore».

– Con la negazione e il tormentato senso di colpa di Pietro, Francke incita alla penitenza individuale, un tema espresso in maniera toccante e veemente da Bach nell’esplosiva aria «Ach mein Sinn» (n. 13).

L’aspetto particolarmente notevole è che Bach, nell’assimilare tanti dei temi delineati da questo teologo pietista, ebbe molta cura nello strutturare la sua prima Passione, radicandola nel forte contrasto drammatico tra la folla animata dalla vendetta e la serenità del prigioniero Gesú, il cui trionfo finale è evidente nel sollevarsi della Croce a cui fu inchiodato. L’interpretazione e la semplice profondità della fusione di teologia e musica operata da Bach sono visibili e udibili da chiunque. Infatti, una spiegazione per la travolgente impressione che la musica di Bach può fare nell’ascoltatore è, paradossalmente, data dalla teologia «pura» e priva di emotività del racconto di Giovanni. Oggi, con il nostro punto di vista meno influenzato dalla teologia, sembra incomprensibile che ci fossero dubbi sull’aspetto teologico della Passione secondo Giovanni di Bach. Ciò che piú ci turba oggi, dopo l’Olocausto, è la demonizzazione degli ebrei in entrambe le Passioni, per la quale a volte si rimprovera Bach. Eppure tracce di antisemitismo, per quanto sia deplorevole, sono parte integrante del racconto dei Vangeli: non sono attribuibili a Bach, e la sua Passione è notevolmente libera dai vergognosi riflessi anti-ebraici che si trovano nel testo di Brockes messo in musica da altri compositori tedeschi dell’epoca21. Come in ogni mito eroico, la presenza dei malfattori è un espediente drammaturgico, che fornisce lo sfondo necessario per giustificare (o quantomeno agevolare) l’affermazione dell’eroe o, nel caso del racconto della Passione, del Salvatore dell’umanità. Bach stava musicando una versione degli eventi connaturata alla tradizione luterana; certamente non ammissibile, ma sostanzialmente non diversa dalla demonizzazione degli egiziani nel libro dell’Esodo, cosí come viene ritratta da Händel nel suo oratorio Israele in Egitto (o dei babilonesi ritratti da Verdi nel Nabucco). Si potrebbero disapprovare ancora di piú gli attacchi ai papisti e ai turchi negli adattamenti delle litanie di Lutero realizzati da Bach, come nella BWV 18, poiché non facevano parte delle Sacre Scritture, ma erano invece dei bersagli dell’epoca inseriti arbitrariamente – i nemici giurati della Riforma luterana – che Bach decise di trattare con un certo humour, quasi come i cattivi di una pantomima.

Ciò fa sorgere una domanda: come fa la folla assetata di sangue del racconto dei Vangeli, caratterizzata crudamente da Bach e raggruppata nella denominazione die Jüden, a convivere nelle sue Passioni con l’espressione accorata della pietà luterana? La risposta si trova nell’esplicita ammissione collettiva di colpevolezza espressa nella contrita reazione dei cristiani nei corali, simboleggiata dall’utilizzo da parte di Bach di cantanti identici che si raddoppiano raffigurando sia la folla inferocita sia la comunità dei fedeli. Che gli stessi persecutori di Cristo da cui rifuggiamo con sdegno e disgusto non siamo altro che noi stessi rende l’esperienza delle sue Passioni ancora piú straziante dal punto di vista emotivo. Proprio per questa ragione, quando dirigo questi cori rispetto le forme stilizzate di Bach (fuga, sequenza e ricorso all’imitazione e alla figura corta ecc.) ma non mi trattengo dal tirar fuori le espressioni di enorme presunzione, di tendenza allo sterile battibecco e di vera e propria sete di sangue delle turbae, né dal portare in superficie il travolgente senso di rimorso e autoaccusa nei corali successivi. Ascoltati in rapida successione, rispecchiano sia comportamenti umani riprovevoli sia la nostra reazione orripilata davanti a essi che, Bach lo rivela in modo particolarmente toccante, spesso vanno di pari passo: una generazione di vittime sotto ogni aspetto che, con tragica ironia, si trasforma in una generazione di esecutori di simili atrocità.

Dopo un racconto cosí pieno di azione e, in particolare, dopo gli incessanti interventi di una folla impazzita, i corali spiccano come oasi di serenità musicale, e infatti potrebbe essere proprio questo il modo in cui li considerava lo stesso Bach. Come chiunque abbia familiarità con le Passioni di Bach giunte fino a noi, e che le abbia vissute dall’esterno come ascoltatore o dall’interno come esecutore, la posizione dei corali è fondamentale per l’esperienza complessiva, per attirare l’azione nel qui e ora, confermare, reagire o ripudiare quanto è appena accaduto nella narrazione, e obbligare a considerarne il significato. Anche se gli studiosi odierni concordano sul fatto che i corali non fossero destinati a essere cantati dalla congregazione, certamente fornivano una cornice culturale e momenti che permettevano all’ascoltatore del tempo di collegare istantaneamente il dispiegarsi degli eventi biblici e di riconoscere in modo confortante e rassicurante versi e melodie familiari che erano accettati come la forma piú diretta di dialogo tra i fedeli e il loro Dio. Le melodie sono costruite con solidità e sono particolarmente soddisfacenti nella loro suddivisione regolare. Meravigliosamente luminosa, l’armonizzazione di Bach eleva le parole spesso monotone degli autori degli inni a un livello superiore, concedendo uguale importanza alla profondità del sentimento e all’umanità. È improduttivo tentare di separarne la ricchezza armonica dalla squisita forma di tutte e tre le linee inferiori, ognuna è una melodia credibile a tutti gli effettio. L’intersezione di questi piani verticali e orizzontali è cruciale, nel senso etimologico piú antico del termine, per la percezione dei corali.

Di uguale importanza per l’articolazione del racconto della Passione di Giovanni è la collocazione strategica delle arie. In momenti chiave queste tirano le fila del significato dottrinale sottinteso, stabilendo un rapporto attivo con l’ascoltatore senza sminuire l’inesorabile svolgersi del dramma. Bach è talvolta stato criticato dai commentatori del XX secolo per aver collocato le prime due arie della parte I vicinissime (con solo tre battute di recitativo a separarle), ma ciò significa non comprendere le sue intenzioni. È una delle tante occasioni in cui avvertiamo i suoi impulsi creativi, che in questo caso producono un dittico contrastante che prende spunto dalle riflessioni di Francke e ha la funzione di comunicare delle immagini in sequenza: nell’aria per contralto Gesú è nuovamente incatenato e ammanettato, le sue costrizioni servono a «sciogliere» l’uomo e liberarlo dai «vincoli del peccato», mentre nell’aria per soprano i contriti fedeli si affrettano a seguirlo, se necessario fino alla fine del mondo, o almeno fino al tribunale del Sommo Sacerdote. Nel primo caso, Bach insiste sul riferimento e sul gioco di parole relativo alla prigionia: «per liberarmi dai vincoli dei miei peccati, il mio Salvatore è ridotto in vincoli», e nel motivo di questo tema d’apertura escogita un sottile intreccio delle due linee di oboe a simbolizzare i «vincoli» nello stile che i tedeschi chiamano gebundener, o «legato»: una quinta perfetta discendente (secondo oboe) ha una risposta in canone da una quinta diminuita, o «diabolica» (primo oboe), il «vincolo» di Cristo, volutamente sopportato per disfare i «vincoli del peccato» dell’uomo e, per aumentare la portata simbolica, la seconda nota è «legata» sopra la linea della divisione di battuta. Gli strumenti scelti da Bach per la seconda aria sono una coppia di flauti traversi, che vengono coinvolti in scambi a canone con il sopranop. Un solo flauto avrebbe dato un credibile ansimare alla fuga d’amore, ma con due musicisti a dividersi la stessa parte, e quindi in grado di alternare, o «sfalsare», la respirazione per garantire una linea ininterrotta, l’impressione di una ruota (forse una ruota della preghiera) è piú pronunciata. L’effetto è rafforzato dall’utilizzo da parte di Bach di una palpitante discesa melismatica sulla parola ziehen (un riferimento alla crocifissione: «E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me», Giovanni 12,32). In ogni caso, la riuscita di questo brano incantevole, un passepied in Si maggiore, consiste nel comunicare la fervida innocenza del fedele che vuole accompagnare il Cristo e partecipare agli eventi. Rende il successivo racconto della caduta di Pietro ancora piú toccante. «Ich folge dir» si colloca a pieno diritto in quel genere bachiano di arie ingenue, fedeli, fiduciose, perfino beate, e che spesso sono l’ultimo numero di una cantata prima del corale finale.

Il racconto dell’apparizione di Gesú davanti al Sommo Sacerdote Caifa, di cui Giovanni fu testimone oculare, ha il sapore di un teso dramma giuridico (il processo romano, piú importante, segue nella parte II). Nell’aria aleggiano aggressività e sospetto: il prigioniero alla sbarra, il sangue freddo e la ragionevolezza delle sue risposte sufficienti a far infuriare i suoi accusatori. Che si tratti di un processo farsa è chiaro dal gratuito colpo al volto di Gesú inferto dal servo del Sommo Sacerdote: come osserva John Drury, è «tutto ciò che può avere come reazione di fronte a lui». Il passo della narrazione non rallenta mai, sebbene la recitazione si avvicendi tra reportage in terza persona e lirismo carico di emozione. Il dramma di un evento secondario che si svolge in fondo al tribunale è ugualmente avvincente: trasformandosi in un discreto burattinaio Giovanni, il narratore, convoca Pietro, che viene riconosciuto e identificato come complice. Mentre le accuse diventano piú violente, le laconiche smentite di Pietro diventano sempre piú enfaticheq.

Bach porta tutto a termine per mezzo di un pettegolo coro fugato (nel suo mondo, a quanto pare, perfino i fannulloni conversavano in fughe) che termina con un urlo omofonico di scherno. Quasi riusciamo a vedere i loro profili da gargouille a pochi centimetri dal viso di Pietro, come nei dipinti fiamminghi e tedeschi del Rinascimento, in particolare quelli di Matthias Grünewald. Inevitabilmente soffriamo insieme a Pietro, ma la questione disturbante che Bach ci chiede di considerare è: esiste qualcuno tra noi in grado di uscire piú dignitosamente da una tale ordalia? La tensione nell’aula di tribunale monta con lo sguardo che Gesú lancia a Pietro nel momento in cui il gallo cantar. E poi, con l’inserimento in questo punto del racconto di Matteo sul pianto di Pietro, Bach abbandona qualsiasi oggettività attraverso un momentaneo spostamento di prospettiva e identità del suo narratore. Per Pietro, il dolore del tradimento e il ricordo di non essere «il prediletto» sono devastanti. Bach costruisce un melisma che cambia tonalità ogni due tempi e non sembra mai stabilizzarsi, cosí che l’angoscia e l’afflizione perpetuino se stessi. Questo è il preludio per un’aria che racchiude il dolore di Pietro, che viene vissuto per lui da Giovanni e da tutti i testimoni successivi, anche se non viene esplicitamente inflitto a loro. Fino a questo punto la parte di Pietro è stata cantata da un basso. Durante l’esecuzione, quando il tenore solista che canta l’Evangelista interpreta l’aria che segue (cosa che potrebbe essere comunque stata intenzione di Bach), il senso di doppia identità, quella di Pietro e dello spettatore cristiano (noi stessi, in altre parole) si intensifica specialmente quando evoca die Schmerzen meine Missetat, «l’agonia del mio misfatto».

Questa aria (n. 13, «Ach, mein Sinn») è la risposta perfetta per chi rileva, nella musica di Bach, solo un freddo controllo cerebrale. Bach impiega tutti gli strumenti a sua disposizione per partecipare a questo finale nella parte I della sua Passione, piena di contrizione tormentata, ma ampliata per comunicare la lezione di Pietro a tutta l’umanità, e per provocare nell’ascoltatore «un violento stato di shock»22. La cosa piú inusuale per questa espressione di rimorso è il ricorso allo stile eroico francese, normalmente associato ai cerimoniali in pompa magna, e il modo in cui lo fonde con le tecniche strutturali all’italiana, per cui ogni misura, fatta eccezione per le tre dell’epilogo, deriva dal tema iniziale23. Tre caratteristiche contribuiscono a questo effetto: il Fa minore, definito dai francesi come «la tonalità della capra», la costruzione di una linea di basso cromatica discendente su cui vengono elaborate armonie dissonanti e stridenti, e la decisione di scriverlo in forma di ciaccona veloce. Un vantaggio dell’utilizzo di una danza in stile francese come base di quest’aria consiste nel fatto che ciò permise a Bach di variare la forma interna dei ritmi puntati, che a volte «ondeggiano» dolcemente in moto congiunto per i passaggi lirici (come nel blues), altre volte sono bruscamente iperpuntati per le esplosioni di impetuosi arpeggi (wo willt du endlich hin), le frasi vocali vengono di conseguenza costantemente variate, ora a rinforzare il secondo tempo della battuta, com’è tipico della ciaccona, ora a contraddirlo tramite emiole collocate a cavallo della linea di battuta. Qui, insomma, ha messo insieme tutti gli ingredienti necessari per una dichiarazione appassionatas. L’energia e la temperatura emotiva sono alte e la tessitura vocale è portata all’estremo: nella sua frenesia e nel disprezzo di sé l’aria prefigura il Florestano di Beethoven (e c’è proprio una stravaganza protoromantica nelle immagini evocate dal testo, con i suoi riferimenti alla profezia, enunciata da Cristo, del giorno in cui il fedele «dirà alle montagne, | Cadete su di noi; | e alle colline, | Dateci riparo»). Nascosto sotto la turbolenta superficie della musica concepita da Bach per comunicare l’orrore di Pietro nel realizzare il suo tradimento si trova implicito il bisogno del perdono. Che Bach lo comprendesse perfettamente è chiaro dalle sottolineature che fece nei passaggi della sua copia del commento alla Bibbia di Calov. Questi scrive: «Il piú alto e migliore tra gli apostoli, Pietro, cade con piú vergogna degli altri apostoli, eppure si rialza. Se fossi in grado di descrivere o raffigurare Pietro scriverei su ogni capello della sua testa “perdono dei peccati” perché lui è un esempio di questo articolo di fede: il perdono dei peccati. È cosí che gli Evangelisti lo ritraggono, poiché nessuna parte dell’intero racconto della Passione è descritta con piú parole della caduta di Pietro»24.

Fu forse nella scoperta di questo passaggio di Calov che Bach trovò l’impulso per la scelta ispirata di passare a questo punto da Giovanni a Matteo?t. L’effetto non è (come in molte arie di Passioni oratoriali del periodo e del resto in molte delle arie per la Passione di Bach) quello di trasportarci all’esterno del «tempo reale» per fare una riflessione – ciò è testimoniato dal modo in cui manipola i ritornelli per confondere le nostre aspettative sulla struttura dell’aria stessa, dove un progetto piú «rotondo» potrebbe sembrare piú autonomo e di conseguenza meno «impiantato» nell’azione.

Mentre le ultime battute dell’aria del tenore si dissolvono – in modo appropriato con un richiamo accelerato del tema delle lacrime di Pietro e del motivo ricorrente usato per comunicare il suo tremare in fondo all’aula di tribunale –, Bach ci riporta dolcemente sulla terra, al nostro presente. La sua scelta del corale per estrapolare le lezioni dal racconto di Pietro è al contempo strategica e discreta: il Jesu, Leiden, Pein und Tod di Paul Stockman, uno degli inni piú cantati dai fedeli di Lipsia il Venerdí santo, la sua imponente melodia di Vulpius di un meraviglioso conforto in questo momento (n. 14). Le parole si riferiscono nuovamente allo sguardo «serio» di Gesú e al perdono dei peccati che offre ai fedeli contriti. Con il sermone che a questo punto doveva seguire, è difficile credere che sia passata non piú di mezz’ora, meno del tempo richiesto da una delle cantate in due parti di Bach, ma con tanta azione compressa nella sua durata, e tanta musica di folgorante intensità. Secondo l’usanza di Lipsia, il sermone dei Vespri del Venerdí santo si basava su testi dell’Antico Testamento che profetizzano la crocifissione (Isaia 53 e il Salmo 22 ad anni alterni). Ma, a meno che il ruolo del sermone fosse ridotto all’equivalente di una «traduzione» o alla funzione di sottotitolo, verrebbe da chiederci cosa mai potesse predicare il sovrintendente Deyling che non fosse già stato detto dal suo Cantor con una musica di tale appassionata eloquenza e capacità di persuasione?

Dopo il sermone, l’azione e i cambi di tonalità si velocizzano, rafforzando l’autorità delle voci in prima persona. Ancora una volta, come nella parte I, Bach mostra un approccio simile a quello dei sermoni sulla Passione di Francke, sebbene qui la struttura simmetrica del suo «processo simbolico» non coincide cosí precisamente con quanto delineato da Francke25. I corali delimitano il sermone del predicatore come fermalibri, un’impressione a stento attenuata dalla richiesta liturgica di un «Lied da pulpito» e di corali per organo a questo punto. Ma il primo corale della parte II porta effettivamente avanti la narrazione: siamo testimoni indiretti del modo in cui Gesú fu «afferrato come un ladro nella notte … portato davanti agli infedeli, falsamente accusato, deriso, colpito da sputi e vilmente insultato». Nel costruire la musica per questa scena centrale, in cui Gesú si trova davanti a Pilato – il processo romano –, Bach segue in modo molto fedele il profilo del Vangelo di Giovanni. La semplice dinamica teatrale qui è senza precedenti. Nemmeno la tempesta sul lago della sua cantata BWV 81, Jesus schläft, riesce a eguagliarne la prolungata intensità drammatica. Fondamentale per la sua efficacia è, di nuovo, lo schieramento fisico su un palcoscenico immaginario: Cristo come prigioniero, immobile (forse immobilizzato) nella sala del giudizio, la folla trattenuta nella corte esterna, «affinché non possano macchiarsi», Ponzio Pilato a fare da tramiteu.

Il contrasto tra il difficile confronto pubblico del governatore romano con la folla e il loro portavoce da una parte, e i tentativi di Pilato di avere un dialogo da uomo a uomo con Gesú dall’altra, è di immensa potenza. Anche il soggetto è differente: discussioni sulla legge, le usanze e l’autorità politica nella corte esterna, questioni di natura piú filosofica (tra cui la natura stessa della verità) scambiate tra i due uomini nella sala del giudizio. Sottintesa in entrambi è la questione dell’identità: chi è Gesú, esattamente? L’intero racconto della Passione gira intorno a questo tema. Risolverlo in un modo o nell’altro determinerà se Pilato cederà o meno alla pressione della folla e infliggerà la condanna a Gesú; indicherà anche le ramificazioni piú ampie che coinvolgeranno l’umanità. Vengono dibattuti due concetti opposti di regalità: quello spirituale, rivelato nel momento in cui Gesú annuncia a Pilato che il suo regno non è di questo mondo, e quello secolare che culmina con l’obiezione della folla («Non abbiamo altro re che Cesare»). Una volta che quell’opzione viene stravolta e interpretata come opposizione al potere coloniale romano, il rilascio di Gesú si rivela impossibile. Leggendo e rileggendo il racconto di Giovanni sulla scena del processo (capp. 18 e 19), e poi vivendo dall’interno l’esegesi musicale di Bach nel corso di molti anni ed esecuzioni, non riesco a fare a meno di pensare come la fede che senza dubbio sostiene entrambe le parti, sia essa letta, recitata o cantata, piú che con il dogma abbia a che fare con l’impresa di mettere a nudo la condizione umana e di trovare il senso ultimo della vita.

In ciascuna delle situazioni Bach sembra trovare una risposta vivida e un tono appropriato, per ogni accusa e controaccusa, mantenendo un controllo preciso del ritmo complessivo. Benché preoccupato di conservare lo slancio e di preservare lo spietato svolgersi di eventi e discussioni, specialmente nella scena centrale del processo, ci mostra nuovamente una consapevolezza infallibile del momento giusto per congelare il momento, introdurre intervalli di riflessione e commento e di quando riassumere, creando di conseguenza spazio perché la storia venga recepita dall’ascoltatore. Poiché il suo obiettivo è quello di estrapolare e chiarire all’ascoltatore il significato degli eventi della Passione (in modi che sono fuori dalla portata del predicatore), costruisce un’intera rete di linee, costantemente tenuta sotto controllo, per connettere ogni punto dello svolgimento dell’azione drammatica con i dati biblici fondamentali che lo raccontano. Di conseguenza, il tempo si muove sempre su due piani, il presente che implica il (e reagisce al) passato e il passato che condiziona il presente. Ancora una volta è la scelta e la collocazione giudiziosa dei corali a fornire l’intelaiatura e la punteggiatura della narrazione, e simultaneamente ad articolare i temi teologici sottintesi. Si potrebbe ovviamente rimuoverli (insieme alle arie meditative) e il brano avrebbe ancora senso, su un livello; ma cosí facendo si interromperebbe il circuito, facendo svanire i collegamenti con l’epoca di Bach e con la nostra. Ciò che rimarrebbe sarebbe l’equivalente di una tragedia greca senza il corov.

I commentatori recenti, ingannati dalla facilità con cui è possibile identificare le indicazioni che Bach lascia lungo il suo percorso – la pletora di ricorrenze e collegamenti tematici, le progressioni, i riferimenti incrociati e le autocitazioni –, dichiarano di aver individuato intenzionali schemi simmetrici a sostegno della struttura musicale. A un primo sguardo le loro scoperte appaiono promettenti, ma incontrano presto degli ostacoli. In primo luogo non riescono a essere sempre completamente d’accordo su dove queste simmetrie si trovino nell’opera e, come ci si aspetterebbe, Bach stesso non ha niente da dire a questo proposito. Poi, il fatto di isolare uno o due schemi strutturali evidenti corre il rischio di dare a ognuno un significato sproporzionato, come se fosse questo l’aspetto piú importante della musicaw. A me sembra molto piú probabile che Bach, nel concepire il suo piano complessivo per l’opera, impiegasse diversi principî organizzativi allo stesso tempo. Considerarne solo uno come chiave per la nostra comprensione significa svalutare il modo in cui il suo processo creativo può aver agito su diversi livelli simultanei. Qualsiasi schema singolo, rudimentale o complesso, porta verosimilmente a una visione distorta e riduttiva di un brano il cui significato piú profondo si trova proprio nella sua specificità, di testo, stile, grammatica e, soprattutto, di concezione e intenzioni. Infatti, Bach sembra regolarmente distogliere la nostra attenzione dalla struttura generale, dalla «macrostruttura», verso la specificità, e sui dettagli del testo e dell’Affekt. Una caratteristica comune che distingue tutte le sue principali composizioni sacre è il modo in cui attingono da tutte le risorse della sua arte, un aspetto che considerava come una sacra missione. È la sua abilità nell’individuare i mezzi musicali per rispecchiare immagini matematiche di Dio o della natura a dare alla musica di Bach la sua straordinaria potenza, e di conseguenza questi schemi e immagini sono impressi nelle nostre abitudini d’ascolto subconsce in molteplici modi. Ma la questione rimane: il nostro esserne consapevoli arricchisce davvero la nostra esperienza dell’esecuzione della Passione secondo Giovanni?

Per me il loro significato si imprime piú sulla retina che nelle orecchie, piú sulla partitura che nell’esecuzionex. Ciò è distinto, ma ne è forse parallelo, dagli schemi tonali chiaramente percepibili che Eric Chafe ha individuato come sezioni divisorie dell’opera secondo il «cerchio tonale»: nove regioni (tonali) distinte. Egli le fa risalire al concetto di Johann David Heinichen di Musicalischer Circul (1711), o ciclo delle tonalità (fig. a destra)26, che «costituiva il nuovo paradigma dei rapporti tonali» poco prima dell’importantissima introduzione delle ventiquattro tonalità maggiori e minori dell’epoca di Bach, e del temperamento equabile «che ne rese possibile l’utilizzo». Chafe sostiene in modo molto convincente che l’uso di questi «ambiti» successivi è un espediente arbitrario adottato da Bach per controllare e organizzare la musica della Passione secondo Giovanni su una tela cosí ampia. Inoltre, suggerisce, Bach lo usa per evidenziare i contrasti fondamentali contenuti nella teologia di Giovanni, cosí che, per esempio, le sofferenze di Gesú sono associate con tonalità bemollizzate, mentre i loro benefici per l’umanità con tonalità in diesis27.

La capacità dell’ascoltatore di «registrare» tutte queste escursioni di modulazione nel loro svolgimento, e nel modo in cui Bach avrebbe immaginato, può arricchire l’esperienza, ma non è fondamentale. Allo stesso modo, nel riconoscere che è questo ciò che sta accadendo nella musica, possiamo «goderci» la Passione senza essere invischiati dall’armamentario della teologia luterana contemporanea e dal modo in cui è interconnessa con gli schemi e i gesti formali della musica di Bach, oppure dal modo in cui, a volte, vi entra perfino in conflitto. La mia impressione è che ci sia molta intrinseca sostanza umana, oltre che musicale, e che, anche se il proposito esegetico secondario di Bach era inteso a ravvivare ed elevare la meditazione dei suoi primi ascoltatori sulle implicazioni del racconto del Vangelo, è la sua musica – e l’inesplicabile ma cionondimeno potente effetto che può avere su di noi – a essere sempre la forza dominante. Cosí colma di quel senso inimitabile di ordine, coesione ed eloquenza lirica, ha dimostrato di poter sopravvivere al passare del tempo e attraversare ogni confine, confessione o assenza di fede. Ma, contemporaneamente, c’è la convinzione, fondamentale per il tema di questo libro, che per scoprire di piú sull’uomo Bach (e per approfondire la nostra comprensione della stessa passione) dobbiamo esplorare sotto la superficie della sua musica: cercare di dissotterrare le radici della sua ispirazioney.

Qui ci accorgiamo, come spesso nella sua musica sacra, che Bach è come un Giano bifronte: guarda all’indietro per trarre ispirazione e stimolo dalla musica che aveva imparato da soprano, risalente a un periodo in cui la musica tedesca viveva ancora nell’ebbrezza della scoperta e giocava a far coincidere la propria lingua con il recitativo emancipatosi grazie agli italiani e con l’armonia fondata sul basso continuo, un’epoca in cui «la musica luterana seguiva ogni venatura del testo»28, al tempo stesso però guarda in avanti, verso la nuova complessità e inventiva della propria arte. Anche se accettiamo il fatto che prese come spunto il modello base di una qualsiasi delle Storie della Passione del secolo precedente – opere di Selle, Flor, Sebastiani, Theile o Meder, o perfino del grande Schütz (vedi supra, cap. x) –, questi non sono necessariamente i modelli piú significativi nei termini di materiali e linguaggi musicali che aveva deciso di rielaborare e perfezionare.

Per fare un esempio, è sufficiente indicare il modo in cui Bach si appropria dello stile concitato di Monteverdi (la sua codificazione dei modi in cui la musica può imitare le emozioni «guerriere»), impiegandolo con impatto devastante sia per il clamore belligerante della turba che per la celebrazione dell’immanente vittoria di Cristo sulla morte e sul Demonio nella sezione centrale di «Es ist vollbracht» (n. 30). Già nella parte I abbiamo osservato la sua abitudine a costruire un movimento d’apertura di proporzioni sinfoniche, che prefigura l’epoca dello Sturm und Drang, quella della generazione dei suoi figli. Abbiamo avuto un assaggio del suo stile recitativo, sviluppato di recente, sia nel modo in cui esso riflette le piú piccole inflessioni del testo dei Vangeli creando significative frizioni, e sia nel modo in cui il movimento armonico «porta gli innumerevoli eventi melodici sulle proprie spalle, per cosí dire», fornendo a Bach occasioni «di dispiegare la sbalorditiva gamma di corrispondenze musical-testuali che troviamo [qui e] virtualmente in ogni suo lavoro»29. Abbiamo anche osservato la collocazione strategica dei corali.

Ora, nella parte II, ritmo, tono e struttura si adattano a uno schermo piú grande: Gesú è faccia a faccia con Pilato, l’unico ad avere il potere di determinare l’esito finale. In quest’opera, molto piú che nella Passione secondo Matteo, Pilato emerge come una figura interessante e non del tutto insensibile: un governatore di provincia intimidito dalla folla, che comunque richiede ulteriori prove per le accuse di eversione mosse contro Gesú. Nelle esecuzioni odierne, specialmente se Pilato è ben caratterizzato, si percepisce che gli ascoltatori sono attratti dalla sua ambiguità e dal dilemma che affrontò, nel barcamenarsi tra Gesú, che considera chiaramente innocente, e la follaz.

Due caratteristiche degli incisivi cori della folla si distinguono immediatamente: il cromatismo ascendente delle quattro linee vocali in imitazione a canone, e le frenetiche figure vorticose (generalmente ai flauti, una sola volta ai violini primi, diverse volte insieme) che si collegano alla «folla» da quando essa ha inviato una delegazione per arrestare Gesú nella parte I. Facilmente identificabile, inoltre, è un’incipiente figura dattilica (lungo-corto-corto) all’inizio associata alla «consegna» di Gesú a Pilato, ma presto utilizzata con insistenza ossessiva, prima dall’Evangelista per comunicare (con durezza) la flagellazione ordinata da Pilato e poi (teneramente) nella lunga aria che il tenore intona meditando su quella pena. Questa figura diventerà anche il motivo di base dei due cori fanatici Kreuzige; tuttavia, in essi la sua spietata bellicosità è saldata a una stridente dissonanza, risultato di entrate fugate che scaturiscono dalle primitive collisioni tra oboe e flauto che abbiamo notato nel coro d’apertura. La ferocia e la vera e propria cattiveria di queste esplosioni dànno i brividi, specialmente poiché si riflette su tutti noi (non solo sui giudei e i romani): nella visione di Lutero e di Bach siamo tutti simul iustus et peccator, sia immacolati che peccatori, e per questo inevitabilmente coinvolti nella frenesia della folla e nella cieca brutalità della condanna di un uomo innocente alla crocifissione.

Bach trova due strategie molto diverse ma ugualmente avvincenti per completare questo ritratto: un sarcastico ritmo ternario per la guardia romana a cui viene ordinato di inscenare la finta incoronazione di Gesú (in cui appare un’altra delle figure piroettanti dei legni, a suggerire un grottesco giocare a moscacieca) e un pomposo, e arrogante, soggetto di fuga, del tipo che Händel avrebbe presto usato nei suoi oratori inglesi per caratterizzare i cattivi dell’Antico Testamento. Bach lo utilizza per cogliere l’ipocrita applicazione della legge da parte del Sommo Sacerdote e dei suoi compari, una evidente trappola per Pilato. I pittori, da Giotto a Hans Fries e Pieter Bruegel il Vecchio, hanno trovato modi di apportare un realismo vernacolare alle scene bibliche e ai volti contratti dall’odio. Ma nessun compositore era mai riuscito ad avvicinarsi a Bach nel rendere la sottile ironia e il sarcasmo con tale penetrante intelligenza. Ci vorrà Hector Berlioz, e un secolo di storia musicale, per realizzare un ritratto piú crudo di scherno e grotesquerie in musica.

In tutto, ci sono otto cori per gli ebrei e uno per la guardia romana distribuiti nella scena del processo, a cui Bach ne aggiunge un decimo («Sei gegrüßet»), forse per realizzare un collegamento simbolico tra la legge secolare e i dieci Comandamenti. C’è un’abbondanza di varianti, riferimenti incrociati e ripetizioni. Sono facili da individuare e possono essere modellati in schemi chiastici sinottici o simmetrici quasi a volontà. C’è anche un significativo incremento delle tonalità nel corso della scena. Cosí, per esempio, la figura del flauto assimilata alla coppia di cori «Gesú di Nazareth» ascoltati nella parte I riappare in altre cinque occasioni nel corso della scena del processo, e si sposta dal Sol minore nella parte I a uno stridulo Si minore (che costringe il flauto sulle sue note piú acute) nella sua ultima apparizione, nel coro «Non abbiamo altro re all’infuori di Cesare» (n. 23f). Tale è l’invadente predominio della folla per tutta questa scena – che spia dall’esterno nella sala del giudizio e, di fatto, manovra Pilato come un burattino – che potremmo non accorgerci di cos’altro stia succedendo.

Tra gli studiosi di Bach contemporanei, solo Chafe, che io sappia, ha percepito il modo in cui Bach ha introdotto un elemento palliativo incorporato in queste turbae. Afferma che, tramite l’associazione di «Gesú di Nazareth» con il riconoscibile motivo vorticoso del flauto, Bach inserisce costantemente il nome di Gesú «in situazioni in cui l’identità del Re dei Giudei è messa in discussione», e lo collega a testi «tutti associati con la negazione dell’identità messianica di Gesú da parte della folla». Dopodiché sottolinea come ognuna delle cinque turbae racchiuda l’intero raggio di accordi associati con l’«ambito» di ogni particolare tonalità in cui sono utilizzati e trova «una straordinaria somiglianza con l’idea antica di Cristo come Creatore-Logos che unisce tutte le cose in un sistema cosmico, o systema» (vedi fig. precedente). In altre parole, Bach ha trovato una formula armonica in miniatura che raffigura l’immagine della Parola incarnata da Giovanni, e che utilizza per rafforzare gli espedienti strutturali del suo ritratto di Gesú di Nazareth nascosti sotto la superficie della musica. Tutto ciò culmina con l’ironica iscrizione che Pilato ordina di affiggere sulla croce, che proclama Gesú come re dei Giudei in diverse lingue. Infine, Chafe identifica il modo in cui Bach intesse il messaggio di questa iscrizione per tutta la porzione centrale della Passione stabilendo uno schema di trasposizione che alterna ascese di quarta con discese di terza: Sol minore, Do minore, La minore, Re minore, Si minore. «Mentre gli eventi fisici della narrazione discendono e procedono verso la morte di Gesú … la direzione definitiva è verso l’alto a indicare il fatto che Giovanni percepisce la crocifissione come un innalzamento». Dunque, «l’allegoria complessiva dei cori “Gesú di Nazareth” è senza dubbio la capacità da parte della fede di vedere la verità attraverso l’apparenza»: «l’identità divina di Gesú è velata sotto il suo contrario».

Ciò che abbiamo, quindi, è contemporaneamente: (1) la vera identità di Gesú rienfatizzata con insistenza tramite l’associazione tematica nel ricordo dell’ascoltatore; (2) una formula armonica che raffigura Gesú nell’«ambito» chiuso e circolare inscritto in ognuna delle turbae successive, e (3) ciò che Chafe definisce «allegoria tonale» del viaggio di Cristo sulla terra, che termina con il suo essere issato sulla Croce, la sua vittoria fregiata nell’iscrizione regale. È come se Bach, fedele all’abituale uso dell’ironia da parte di Giovanni nel dire il vero attraverso il suo contrario, sia intenzionato a sovvertire le connotazioni negative delle denunce della folla creando formule simultanee che affermano il contrario. Poiché, per quanto le parole da loro pronunciate possano essere derisorie e ostili, e da Bach accompagnate con ritmi e dissonanze violenti, nel momento stesso in cui vengono cantate proclamano, piú o meno consciamente, il loro significato contrario con la reiterata affermazione di «Gesú di Nazareth», della Parola e della sua progressione trionfante. Perciò, quanto piú virulenta è la loro denuncia, tanto piú i suoi detrattori dànno credito alla sua autorità e alla sua vera identità. Solo un «ascoltatore» dalla sensibilità religiosa penetrante come Bach poteva concepire una tale ingegnosa ed esauriente strategia di codici e simboli. Dobbiamo concludere che considerava un anatema lasciare senza risposta qualsiasi volgare denigrazione del suo Dio? E ci fu qualcuno, tra i suoi primi ascoltatori, in grado di cogliere il sottotesto? E infine, quando – e se – Bach fu contestato, e gli venne richiesto di spiegare la sua scelta di testi e stili compositivi, tentò almeno di chiarire le sue intenzioni e la sua strategia al clero di Lipsia? Oppure si limitò ad andarsene, scrollando le spalle davanti alle loro obiezioni e incomprensioni, e scagliando fulmini contro la loro ottusità?

Avendo creato questa rete di interconnessioni e sottotesti teologici – chiari a Bach, se non a tutti – e avendo presentato con una messa in musica di vivida intensità il racconto di Giovanni, probabilmente ritenne di aver fatto abbastanza per accattivarsi gli ascoltatori e per evidenziare ai fedeli di Lipsia l’attualità di quegli eventi. Ai suoi occhi, infatti, la musica era incompleta finché non poneva costantemente questioni che attiravano e suscitavano una reazione del suo pubblico. Questo, certamente, spiega la sua decisione di interrompere il flusso in tre punti: una volta in risposta alla definizione della regalità di Gesú per mezzo di un corale che riafferma la fedeltà del credente («Ach großer König», n. 17); un’altra come reazione all’ordine di Pilato di flagellare Gesú; e, infine, nel momento immediatamente precedente alle urla della folla assetata di sangue quando Pilato «cerca di liberarlo».

L’ultima di queste tre interruzioni – l’inserzione dello pseudo-corale «Durch dein Gefängnis» (n. 22) – ha attratto il maggior numero di commenti degli studiosi dal momento in cui Friedrich Smend la individuò come cardine della scena del processo30. Smend indicò la presenza di diversi schemi simmetrici presenti nella struttura di Bach in momenti chiave: il piú significativo di questi è di gran lunga il chiasmus (derivato dalla lettera greca χ, il «segno della croce»), incentrato su questa intersezione: non solo il punto centrale della scena del processo, ma il «cuore» (o Herzstück) dell’intera Passione. Bach colloca qui questo corale per permettere alla congregazione di afferrare il messaggio teologico fondamentale, il paradosso per cui «la nostra libertà è giunta» come conseguenza della cattura e del sacrificio di Cristoaa. È fiancheggiato da due cori di turbae («Wir haben ein Gesetz» e «Lässest du diesen los») adattate sulla stessa musica ma in tonalità diverse (nn. 21f e 23b). Bach trasforma il primo in un coro di spavalda arroganza («Abbiamo una legge, e secondo questa legge egli dovrà morire»), una colossale parodia della pomposità ecclesiastica, tanto satirica da risultare comica. Poi, modulando a tonalità con diesis per il secondo, aumenta la tensione nel momento in cui gli ebrei tentano di incunearsi tra Pilato e Cesare («Se lasci andare quest’uomo, non sei un amico di Cesare»).

Questi cori, a loro volta, sono incorniciati da ulteriori coppie di turbae e, muovendosi verso l’esterno in entrambe le direzioni, da arie, e alle estremità da due corali («Ach großer König» e «In meines Herzens Grunde»). Il secondo di questi ha una magia particolare: quantomeno a causa della sua luminosa tonalità di Mi maggiore e della maniera intensamente personale in cui Bach lo armonizza. Oltre a ciò, occupa una posizione cardine nella deliberata variazione di tonalità che Bach adotta, da quelle col bemolle a quella col diesis. Eppure, come centro di una struttura simmetrica globale, ciò si apprezza piú facilmente sulla partitura che in esecuzione. Il frequente paragone tra architettura e concezione simmetrica della musica di Bach è fuorviante. L’evolversi della musica nel tempo crea una prospettiva di scorcio, molto diversa dalla sensazione panoramica di simmetria percepita dalla vista di, per esempio, un palazzo barocco. La mia esperienza è che in concerto questo corale, nonostante l’incantevole cadenza che lo precede, come ad annunciare una riflessione di grandissima importanza – il destino che viene ordinato –, non viene percepito né come asse della scena del processo né come fulcro dell’intera Passione.

Questa prerogativa è riservata alla straordinaria aria per tenore «Erwäge» (n. 20), una meditazione sul sacrificio di Cristo in cui, dopo l’inasprirsi della violenza dei cori di turbae, ci viene offerta la metafora del «piú bello degli arcobaleni» che riflette il sangue e l’acqua sulla schiena straziata di Gesú, come un ricordo dell’antico giuramento tra Dio e Noè dopo il diluvioab. È significativo che Bach l’abbia collocata esattamente a cavallo della divisione tra capitoli del Vangelo di Giovanni: immediatamente dopo l’insistenza della folla affinché sia Barabba il prigioniero da rilasciare, che culmina con la flagellazione di Gesú, uno dei due momenti in cui Bach mette eccezionalmente da parte la narrazione dell’Evangelista e assegna una specificità e un orrore teatrale alla cruenta realtà del supplizio di Gesú inflitto dai soldati romani. È una delle giustapposizioni piú sconvolgenti dell’intera opera: lo scoppio di forte «rabbia» melismatica, oltraggiato e oltraggioso, dell’Evangelista, seguito immediatamente dalla soave tonalità del successivo arioso («Betrachte, meine Seele», n. 19). Per un istante vediamo la schiena di Gesú lacerata e insanguinata dal flagello, e subito dopo siamo portati a vederla come qualcosa di meraviglioso, come se il cielo in cui spunta l’arcobaleno fosse un segno della grazia divina, simile a ciò che aveva forse in mente J. G. Ballard quando si riferiva al «misterioso erotismo delle ferite»31. Che Bach investisse di un’eccezionale importanza questo arioso e l’aria successiva è evidente sia dalla loro lunghezza (contando il da capo dell’aria, la scena dura piú di undici minuti) sia dalla strumentazione davvero insolita, per due viole d’amore e un basso continuo (sottinteso) con liuto, viola da gamba e organoac. Esteriormente, questa sembra una strategia molto rischiosa: arrestare l’avvincente slancio in avanti della scena del processo romano con la sua stratificazione di atteggiamento politico, collusione e confutazione. Eppure l’istinto di Bach aveva fatto centro. Questo, il nadir della degradazione fisica di Gesú, era precisamente il momento per congelare l’azione e riflettere e meditare sulle sue conseguenze per l’umanità: per controbilanciare con un arioso e un’aria di commovente soggettività l’oggettività complessiva del racconto di Giovanni. L’ascoltatore è guidato con metafore suggestive (e teologicamente pregne), e ancor piú da seducenti texture musicali, a contemplare il corpo lacerato di Gesú, proprio come la pala d’altare di Isenheim di Grünewald e il Corpo di Cristo morto nella tomba di Hans Holbein, con ängstlichen Vergnügen («ansioso piacere») poiché porta a una sofferente e inquieta gratitudinead. La forza, la sensualità e l’erotismo esplosivi con i quali Bach esprime il sentimento religioso in quest’aria centrale potrebbero essere stati un altro momento per turbare e inimicarsi il clero ortodosso di Lipsia. Nell’arioso che segue ci viene presentato l’equivalente delle incisioni realizzate da Dürer per il Tempo di Passione, in cui dei fiori, in questo caso Himmelschlüsselblumen (primule) sbocciano dalla corona di spine. Qui Bach è ultrapreciso nella scelta degli strumenti: due viole d’amore, gli strumenti piú teneri e consolanti a sua disposizione, dotati di corde «di simpatia», contrastate dal liuto (o, in una versione successiva, dal clavicembalo) per suggerire la puntura delle spine, e con la funzione di accentuare il contrasto tra i mezzi tonali, molto evidenti, un salto tritono della voce da Do a Fa sulla parola Schmerzen per lanciare armonie diesizzate in cui le note piú acute e il tritono ascendente dànno un’equivalenza musicale subito riconducibile alle spine, con il rilassamento celestiale che segue assegnato alle tonalità bemollizzate (Sol minore) per lo sbocciare del «fiore chiave del paradiso». L’impressione è resa ancora piú forte da un’evidente immagine visiva: basta solo guardare la curva regolare del ponticelloae di una viola d’amore a sei (e talvolta sette) corde (dotata di un’ulteriore e altamente simbolica fila di sette corde «simpatiche») per chiedersi se sia stata questa gentile ellissi a dare a Bach l’idea di usare una coppia di questi rari strumenti a corde come mezzo per evocare l’arcobaleno, o forse sono state scelte per il loro suono iridescente o per una combinazione delle due cose? Poi un’occhiata alla partitura rivela che il motivo della frase iniziale dell’aria, con tre note ascendenti e tre discendenti ad attraversare il pentagramma, evoca sia alla vista che all’udito la forma dell’arcobaleno (fig. 20). Oltre a ciò, Bach fornisce altre figure ascendenti e discendenti che rispecchiano la forma del firmamento – e plausibilmente del processo a Gesú – e tutto contribuisce all’immagine delle sue umiliazioni come segno della grazia di Dio che emana dall’alto.

A questa si potrebbe aggiungere l’eccezionale difficoltà che il cantante deve affrontare, mai (come abbiamo già visto in numerose occasioni) segno di distrazione o tantomeno di testardaggine da parte di Bach, ma un scelta connaturata al suo proposito filosofico. Il mirabile sforzo tecnico richiesto al tenore, che praticamente non ha tempo di respirare, per emulare la melliflua e incorporea fluidità delle viole sovrumane, ci costringe a riflettere sulla fallibilità dell’uomo. Il motivo dattilico cantato dall’Evangelista nel descrivere la flagellazione di Gesú ritorna e permea l’intera aria, con sufficiente insistenza da ricordarci che sono le piaghe sulla schiena di Gesú a essere evocate, ma ora addolcite e curvate in modo tale da suggerire l’arcobaleno promesso. Dopodiché, verso l’inizio della sezione B, dopo che il tenore ha cantato il ritmo della flagellazione per la prima volta e gli strumenti si sforzano di delineare «le onde del diluvio dei nostri peccati», Bach apre le nuvole e appare miracolosamente l’arcobaleno. Per raggiungere questo effetto in concerto occorrono, oltre che resistenza, immaginazione e una solida tecnica, una combinazione di elasticità e lirismo che non si ottiene mai facilmente.

Il modo in cui Giovanni introduce la sezione finale del suo racconto della Passione è sorprendentemente conciso: non appena Pilato pronuncia la condanna a morte, Gesú viene legato e «condotto via … a portare la sua Croce» (19,16-17) sul Golgota. Con poche parole a disposizione, Bach estende il racconto con una serie di drastiche modulazioni, da Si minore (usando dei diesis per l’ultima delle turbae) attraverso un simbolico e tortuoso ritorno ai bemolliaf e successivamente al Sol minore, la tonalità in cui la Passione era iniziata, e nel frattempo spingendo il sistema tonale della sua epoca al di là dei limiti normalmente accettati. Durante una pausa nella narrazione i fedeli sono esortati a cercare conforto nella crocifissione di Gesú e ad affrettarsi verso il Golgota, dove il suo pellegrinaggio sarà concluso. Per questa nuova scena, Bach, o il suo ignoto librettista, adatta il testo di Brockes – con la sua sgradevole ingiunzione degli ebrei a uscire dalle «tane del loro tormento» – per chiarire che sono le nostre «anime tormentate» a essere chiamate in questo momento ad affrettarsi per «abbracciare le ali della fede» ai piedi della Croce. Questa variazione nell’enfasi viene confermata permettendo alle anime intimorite di liberarsi in un’aria (n. 24) con il loro ripetuto Wohin? … Wohin?… Wohin? per esprimere il loro desiderio di redenzione. (Forse dovremmo ricordare la disperata exclamatio del tenore, Pietro: Wohin? in «Ach, mein Sinn» al termine della parte I). Userà nuovamente la stessa figura retorica (una serie staccata di quinte e seste ascendenti) per O Trost in «Es ist vollbracht». Ancora una volta Bach usa un espediente teatrale – protagonista e coro, ribalta e sfondo – per aiutarci a vivere nello stesso istante l’evolversi dell’azione storica e la sensazione che questa stia anche accadendo nell’immediato. Prende solo ciò che gli serve dal testo parafrasato di Brockes, lo modifica, lo corregge e racconta nuovamente la storia da una prospettiva contemporanea. Questi quadri – un unico solista con l’intromissione del coro alle sue spalle – sono tanto piú potenti per la loro rarità.

Quest’ultima sezione della Passione secondo Giovanni di Bach è contrassegnata dalla rapida giustapposizione di stati d’animo. Prima ci viene presentata la narrazione della crocifissione di Cristo e l’insistenza di Pilato perché l’iscrizione reale venga tradotta in diverse lingue. Poi la folla, in un ultimo sbuffo di presunzione, si appropria della musica che Bach aveva attribuito in precedenza ai soldati romani che avevano inscenato la finta incoronazione di Gesú. Questa volta serve a contestare il diritto di Gesú al titolo di «Re dei Giudei», l’unica concessione da parte di Pilato, su cui ora si rifiuta di tornare. La scena si chiude con il corale «In meines Herzens Grunde» (n. 26): splendente affermazione della fusione «del nome e della Croce» di Gesú, segna l’arrivo dei fedeli al Golgota (in reazione alla precedente esortazione del basso).

Da qui inizia una temporanea discesa verso la leggerezza, con una svolta decisamente sinistra, quando i soldati romani litigano sulla divisione delle vesti di Gesú: come la scena dei becchini nell’Amleto, è molto piú di un numero secondario, ma l’inserimento in questo momento di una dose di vita quotidiana in qualche modo ci riporta alle componenti piú importanti del dramma conclusivo che si sta svolgendo sulla ribalta. All’interno della pianificazione tonale complessiva di Bach essa ha un ruolo significativo: essendo scritta nella tonalità neutra di Do maggiore segna il confine tra l’«ambito» delle tonalità in bemolle usate da Bach per la crocifissione e per l’iscrizione reale, e quelle in diesis a cui farà ricorso per le ultime parole e la morte di Gesú. Questo in sé potrebbe essere un indizio che spiega la sua lunghezza sproporzionata, poiché occorre equilibrare l’«ambito» equivalente in Do maggiore (e le sue tonalità strettamente collegate) usato all’inizio della scena del processo. Come unico «ambito» a rimanere solidamente all’interno di una sola tonalità, dà una sfumatura ironica alle parole «Non dividiamola» pronunciate dai soldati. Sotto il profilo puramente compositivo è un pezzo interessante, che richiede al coro delle capacità da virtuosi. Elasticità ritmica, coloratura agile e sincopi gioiose sono tutte richieste per illustrare la lite su chi avrà il diritto di portarsi via la tunica di Gesú, come dei ratti frenetici. Allo stesso tempo i cantanti devono far sí che le proprie linee siano in sincrono con la linea di basso albertino, una raffigurazione dei dadi che vengono agitati prima del lancio. È tutto molto efficace: parodistico, naturalistico e teatrale allo stesso tempo, ma anche grottesco, come una scena di Hogarth, che culmina nel salto di ottava del soprano fino a un La acuto, come un macabro grido, nella penultima misura. L’utilizzo da parte di Bach di ritmi orecchiabili e trascinanti in un contesto cosí vile mi suggerisce che, dal suo punto di vista, questo è il piú basso dei comportamenti umani, inferiore perfino alla politica dell’odioag.

Ci viene mostrato in modo simbolico un mondo diviso tra «capre» e «pecore»: i soldati che bisticciano e i fedeli ai piedi della Croce. Dalla folla emergono ora le tre Marie e il narratore, il discepolo «amato da Gesú». Bach raggiunge nuove vette nella sensibilità dell’adattamento del testo e nel modo in cui il recitativo entra ed esce da un arioso lirico eppure privo di istrionismi. Per la seconda volta nella Passione fa ricorso alla memorabile melodia di Vulpius, che qui riconosce Gesú come il figlio fedele che provvede a sua madre.

Ciò che è piú toccante è il modo in cui le sue ultime parole – Est is vollbracht – sono portate, imitate e trasposte dalla viola da gamba nella celebre aria per contralto (n. 30). L’utilizzo di questo strumento ormai desueto, con la sua sonorità estremamente caratteristica e lamentosa, un debole riflesso della voce umana, è un espediente calcolato, che aveva utilizzato solo una volta in precedenza, nel suo primo ciclo di cantate (BWV 76) e avrebbe usato ancora nella Passione secondo Matteo. Di nuovo, come in «Ach mein Sinn», Bach adotta il maestoso linguaggio gestuale dello stile alto francese, ma questa volta con l’effetto opposto: laddove nell’aria di Pietro era velocizzato per comunicare un’estrema agitazione, qui è simile a un lamento funebre per esplorare il confine tra vita e morteah. Nella sezione B il suono e la melodia della viola da gamba scompaiono completamente sotto i feroci arpeggi degli archi, un’apparizione in cameo del Cristo eroe di Giuda. L’appello imperioso degli archi a corde vuote, l’adozione dello stile marziale di Monteverdi, la tonalità in Re maggiore: è difficile immaginare un’articolazione piú drammatica dell’idea di Giovanni della crocifissione come vittoria suprema. Eppure, con un’improvvisa cadenza su una settima diminuita Bach mette un freno a questa esplosione, e immediatamente un punto interrogativo appare accanto alle parole und schliesst dem Kampf («e termina la sua vittoriosa battaglia»). Il ritorno all’adornata ed elegiaca melodia per viola da gamba, sulle ultime parole di Gesú («È finita») che vedono l’aggiungersi del cantante nel loro profilo melodico e poi, in totale rottura con la prassi convenzionale, ripetute un’ultima volta dalla cadenza morente della viola da gamba, è un chiaro segno che qui non c’è traccia di vuoto trionfalismo. Questa aria è il modo piú potente ma anche piú equilibrato in cui Bach interpreta il racconto di Giovanni, come meditazione sulla sofferenza di Dio e al tempo stesso come vittoriosa affermazione della sua identità di Dio nascosto che si rivela tramite la fede nella Croce. È anche un modo di ribadire che quelle anime «tormentate» (angefochtnen) e «afflitte» (gekränkten) a cui queste due ultime due arie sono rivolte avranno ora conforto e consolazione (Trost).

Due sole battute, per descrivere la morte di Gesú, separano quest’aria dalla successiva. La delicata linea melodica discendente di Bach è il perfetto contraltare per le parole di Giovanni (Und neiget das Haupt und verschied, «ed egli chinò il capo e rese l’anima»). Arriva ora il secondo dei dialoghi di Bach per basso e coro (n. 32), in un momento terribile. Dapprima lascia perplessi il fatto che inizi con una fiera e vivace melodia in Re maggiore per violoncello solista, dopo il timbro etereo della viola da gamba. L’eroico leone di Giuda sembra ora impennarsi con le zampe nell’aria, mentre nel mezzo del brano precedente ruggiva la sua vittoria; ma non appena la voce entra è chiaro dalla spigolosità del tema principale, e dai tentativi del cantante di contrapporne le seste e settime discendenti con balzi verso l’alto, che si tratta solo di una finta per celare una profonda inquietudine. Una sequenza di domande viene rivolta al teurer Heiland («adorato Salvatore») e dà voce alle paure e ai dubbi dell’intera comunità che ha appena vissuto il lutto. Cosa significa? Ne è valsa la pena? La morte è stata sconfitta? Quale sarà l’esito per l’umanità? Tra queste preoccupazioni il coro a quattro voci mormora un corale funebre sullo stesso adattamento della melodia di Vulpius, ma ora una quinta piú grave rispetto a pochi minuti prima. L’intrecciarsi di due testi poetici, uno retorico e l’altro un corale in risposta, è un espediente dialogico che abbiamo già incontrato nelle cantate, e che Bach amplierà ulteriormente nella Passione secondo Matteo, parole e musica giustapposte su due differenti piani temporali: il «presente» culturale o reale del canto collettivo degli inni rallentato per sicronizzarsi con il tempo «soggettivo» dell’individuo che riflette su questi temi misteriosi.

Ora per la seconda volta Bach interrompe il racconto di Giovanni con un’interpolazione tratta da Matteo, e di nuovo per un intento specifico. In precedenza lo aveva fatto per descrivere le lacrime di Pietro e per rafforzare il modo in cui rappresentare una persona che soffre una crisi di fede. Ora rettifica e preserva l’equilibrio che ha cercato di mantenere dall’inizio tra la sofferenza e il trionfo finale di Cristo. Egli segue la descrizione fatta da Matteo del terremoto, dell’eclissi solare e del velo del Tempio «squarciato in due da cima a fondo» (27,51-52) con un drammatico arioso per tenore che, pur rimanendo all’interno della gamma espressiva dello stile dell’Evangelista, ne amplia la visione dello sconvolgimento apocalittico. Ciò porta senza interruzioni alla trenodia per soprano «Zerfließe, mein Herze» (n. 35). Dapprima il tono elegiaco e il pathos umano di quest’aria sembrano fuori luogo in questa Passione che mette fortemente l’accento sulla regalità di Cristo, ma presto ci accorgiamo che si tratta del contraltare perfetto alla precedente aria di soprano, la spensierata «Ich folge dir» della parte I, marcando la lunghezza del viaggio che abbiamo compiuto nel frattempo. Per un’ultima volta Bach escogita una selezione di strumenti di straordinaria originalitàai, idealmente adattata allo stato d’animo di profonda afflizione e pena. Egli combina un flauto traverso e un oboe tenore, o oboe da caccia, cosí chiamato a causa dell’apertura d’ottone, simile a quella di un corno, con il soprano al di sopra di un vibrante basso continuo, e li intesse in un discorso lineare in quattro parti. Ancora, per la sua coppia finale di arioso e aria si rivolge a Brockes, sebbene epurandone alcuni degli eccessi piú vistosi. Ormai siamo cosí abituati alla miriade di modi che Bach trova per alleviare la pena e per calmare i cuori infranti, che il quadro di lutto purissimo che dipinge qui arriva come uno shock. Tuttavia è carico di un’incomparabile profondità di sentimenti, e l’effetto complessivo è meraviglioso.

La temperatura emotiva adesso deve calare. La coda della Passione rimane elegiaca ma priva di sdolcinatezza. Le ultime affermazioni dell’Evangelista sono le due piú lunghe dell’opera. (Ciò incoraggia la tendenza di alcuni Evangelisti moderni di cantarle come se fossero le parole finali della Winterreise di Schubert, dimenticando però di essere principalmente narratori responsabili di far andare avanti le cose, e non parti della storia stessa). Nella prima Giovanni fa fatica a spiegare i costumi e le tradizioni ebraiche che nell’epoca in cui scriveva erano diventati sconosciuti ai suoi vastissimi lettori. Il momento piú fisico nella Passione secondo Giovanni è quando «uno dei soldati con una lancia gli colpí il fianco, e subito ne uscí sangue e acqua» (Giovanni 19,34). Si percepisce che Bach vuole che il suo Evangelista in questo momento carpisca l’attenzione degli ascoltatori, per ribadire che Giovanni fu un testimone di questa azione, e che ciò che dice è la veritàaj. Il fervore del loro assenso può dunque trovare voce nel corale «O hilf, Christe, Gottes Sohn» (n. 37), sebbene si esaurisca un po’ nella cadenza finale, ambigua sotto il profilo modale; è un Fa maggiore o la dominante (implicita) di Si? L’ultimo recitativo racconta la deposizione e la sepoltura. Le sue armonie sono esplorative come prima, ma ora si estendono al registro piú grave dell’Evangelista: di colpo deve avere a che fare con cinque Do gravi, laddove ce ne sono stati solo altri due in tutto il resto della Passione. Sono lí per un motivo, e mostrano ancora una volta l’abilità di Bach nello stabilire uno stato d’animo e una sfumatura precisa nel suo adattamento delle singole parole. C’è una nuova tenerezza nella sua descrizione del sudario di lino che avvolge il corpo di Gesú, che ci ricorda le fasce della sua nascita. Questa tenerezza rimane fino alla fine.

Arrivando alla Passione secondo Giovanni attraverso le cantate che la precedono, a questo punto ci si aspetterebbe un corale conclusivo, e naturalmente sarà cosí, ma non prima che Bach abbia controbilanciato il suo monumentale coro d’apertura con un altro di pari ampiezza. «Ruth wohl» (n. 39) deve magari qualcosa alle Passioni-oratorio di Amburgo, che spesso terminavano con una ninnananna corale, ma se esiste un altro modello piú vicino per questo rondò corale – almeno nella forma melodica e nell’ambiguità ritmica del suo avvio –: è il rondeau, il secondo movimento della sua Suite per flauto in Si minore, BWV 1067, l’«Ouvertüre», n. 2. Quel pezzo ci fornisce sicuramente un’idea di cosa intendesse Bach in questa circostanza, un coro che è allo stesso tempo canto e danza, con le sue linee individuali intrecciate a suggerire una delicata coreografiaak. Occorre rivolgersi a Brahms per una simile unione di texture e bilanciamento ritmico. Il tono espressivo riesce a essere collettivo eppure intensamente personale, le linee sono le piú liriche e le piú favorevoli al cantante di praticamente qualsiasi altro coro scritto da Bach. È significativo che questa sia una delle uniche due occasioni (l’altra è nell’ultimo di ogni serie di Wohin nella n. 24) in cui Bach richiede un coro non accompagnato, o almeno non doppiato dagli strumenti. Un senso rituale, della deposizione e del calare reverente del corpo nella tomba, permea il coro. «Sii pienamente in pace» è l’invocazione, deliberatamente ripetuta ancora e ancora, sempre nella stessa tonalità, toccante e di conforto; ma il modo in cui ci si avvicina all’ultima cadenza in Do minore (tramite un La acuto dei soprani) erode e contraddice questa pace.

La decisione di Bach di far seguire «Ruht wohl» da un corale (n. 40) è stata oggetto di critiche; la verità però è che in esecuzione funziona, riportandoci al qui e ora – in questa chiesa e in questo giorno –, eliminando le ultime tracce di pena e ricordandoci un futuro di incertezza. Questo non è altro che l’ultimo esempio dell’immensa cura che Bach prodigò alle armonizzazioni dei corali della Passione secondo Giovanni. La prima metà si concentra sulla quiete della tomba ed è adeguatamente a mezze tinte, ma alla menzione dell’«ultimo giorno», della resurrezione del corpo e della vita nel mondo a venire, Bach aumenta la tensione. Gli spazi tra le quattro voci iniziano ad aprirsi, e l’andamento si fa magistrale. Sei delle sette successive cadenze sono «perfette» e in maggiore, e permeano la musica di una forza colossale con la ripetuta implorazione erhöre mich … erhöre mich … erhöre mich («ascoltami … ascoltami … ascoltami»). Mancano ancora due giorni a Pasqua, ma questa affermazione è comunque definitiva.

Fu forse questa cadenza conclusiva il grave errore commesso da Bach agli occhi del clero di Lipsia, poiché anticipare la Resurrezione, o l’«ultimo giorno» in questo corale e altrove nel corso della Passione secondo Giovanni significava stonare con il tradizionale atteggiamento, prevalentemente cupo, delle commemorazioni del Venerdí santo che si tenevano a Lipsia. Bach poté aver controbattuto che aveva previsto l’esecuzione tradizionale del mottetto funebre Ecce quomodo moritur iustus di Jacob Gallus e l’inno congregazionale «Nun danket alle Gott», in linea con la pratica liturgica dal 1721, quando, secondo il sacrestano della Thomaskirche, la Passione fu eseguita per la prima volta in stile figurato (vedi supra, cap. X)32. In questo modo riportò i suoi ascoltatori a contemplare gli eventi del Venerdí santo e creò la simmetria finale con il coro conclusivo, «Ruht wohl»33. A dire il vero, non possiamo essere certi che Bach avesse concordato in anticipo con il clero il testo della Passione secondo Giovanni. In questa occasione potrebbe aver fatto sfuggire il suo testo della Passione al radar dello scrutinio del concistoro; nel fare ciò, tuttavia, potrebbe aver inavvertitamente messo in allarme gli uomini di chiesa. Anche prima di ascoltare una sola nota della sua musica, già la sola lettura del libretto stampato avrebbe potuto provocare la loro ostilità. Ascoltando e assistendo al lavoro di Bach per la prima volta, potrebbero essere stati turbati dalla forza esplosiva con cui la musica esprime sentimenti religiosi (sembra sempre che i guardiani piú ortodossi della fede muovano un’accusa di blasfemia ogniqualvolta una forza spirituale o emotiva li colga di sorpresa). La sensualità e l’erotismo dell’aria centrale, «Erwäge», potrebbe aver esposto Bach all’accusa di irriverenza (sebbene il clero fosse apparentemente contento di mandar giú l’erotismo dei sermoni poetici dell’epoca).

Piú probabilmente offensiva, forse, fu l’assenza nella Passione di una forte enfasi generale sulla penitenza, la sua grande somiglianza con i sermoni pietisti di Francke, il fallimento dei suoi movimenti interpolati (con l’eccezione di «Erwäge») nell’interpretare la Passione come atto di espiazione di Dio per lo stato di decadimento dell’uomo, e, soprattutto la «semplice intensità della visione del mondo di Giovanni» che Bach raffigura34. In contrasto con l’immagine che ricaviamo da Matteo e dagli altri autori dei Vangeli sinottici, che ribadiscono l’enfasi sull’umanità di Cristo e sulle sue sofferenze, Giovanni ritrae Gesú come dotato di un intuito sovrannaturale: sereno e magistrale nel controllo del suo destino e, in definitiva, un vincitore35. In questo Bach è sommamente fedele a Giovanni, e mostra Gesú come apparentemente distaccato rispetto alle vicissitudini del suo processo, mentre assolve alla misteriosa volontà del Padre nella piena consapevolezza di ciò che lo attende. Proprio il suo ascendente e la sua sicurezza si elevano dalla meschinità tipicamente umana che lo circonda, in un contrasto che rende la musica di Bach straordinariamente drammatica. Tale approccio rivela un pedigree perfettamente rispettabile, che i teologi hanno fatto risalire all’idea di espiazione degli antichi padri greci, e che fu sposata dallo stesso Lutero, il quale dichiarò che «il Vangelo di Giovanni è unico nella sua grazia … è il Vangelo piú bello, vero e importante … che andrebbe preferito di gran lunga agli altri tre, e collocato al di sopra di essi». Ciascuno vi può trovare un «magistrale racconto di come la fede in Cristo vince il peccato, la morte e l’inferno, e dà vita, rettitudine e salvezza»36.

Per quale motivo, allora, questo poteva essere un approccio controverso, nella Lipsia del 1724? Secondo il teologo svedese Gustaf Aulén37, Lutero fu spesso incompreso sotto questo punto di vista dai suoi contemporanei e dai teologi di epoca successiva, che videro nei suoi insegnamenti un’inequivocabile preferenza per la teoria della «soddisfazione» relativa all’espiazione, come quella articolata da Matteo e ulteriormente enfatizzata nelle Epistole di Paolo, secondo la quale Gesú si offre alla punizione e al sacrificio per conto dell’umanità composta da peccatori e per conquistare la libertà dall’ira di Dio, invece che dalle forze del maleal. La visione che probabilmente prevaleva tra il clero ortodosso della Lipsia del tempo di Bach, tramandata alla congregazione, era che solo la teoria della «soddisfazione» fosse legittima. Bach, invece, a giudicare dal contenuto della sua biblioteca (che, oltre a due edizioni delle opere di Lutero, comprendeva una Bibbia in tre volumi dotata di estesi commentari teologici, e tutti i testi fondamentali sia del pietismo che dell’ortodossia), sembra aver compreso e accettato la legittimità di entrambe le idee sulla teoria dell’espiazione e la loro coesistenza in Lutero. La sua intenzione evidente fu di dare un’espressione equilibrata a ognuna di queste visioni concorrenti nelle sue opere successive, prima nella Passione secondo Giovanni e poi in quella secondo Matteo. Nell’elaborare tali affermazioni teologico-musicali cosí esaurienti e contrastanti – cosa che nessun compositore contemporaneo aveva mai tentatoam –, piú che come un compositore Bach si comportò come un pittore, mostrando lo stesso soggetto da due angolazioni diverse, ognuna con efficacia e convinzione38. Fu solo spavalderia da parte sua? Voleva sfidare intenzionalmente la suscettibilità degli abitanti del luogo? Dalla nostra prospettiva, vediamo che le due Passioni furono concepite per rientrare – e di fatto incorporare – nei due cicli complementari di cantate, adattati alla liturgia allora in vigore a Lipsia. Tuttavia i membri del concistoro potrebbero aver considerato questo progetto come un’arbitraria trasgressione della loro autorità, aggravata dal rifiuto di Bach di chiarire i propri obiettivi in un linguaggio che potessero comprendere.

Di ciò non abbiamo alcuna testimonianza diretta. Tuttavia sembra che una reazione negativa precorse altre dispute piú accese, per la maggior parte non documentate, che circondarono la Passione secondo Giovanni nei successivi quindici anni, tanto da portare Bach a ben quattro revisioni: due volte con rimaneggiamenti importanti al contenuto e all’inclinazione dottrinale; una volta, nel 1739, prima di abbandonare del tutto l’opera per dieci anni; e infine, in un’ultimo slancio, per riproporla un’ultima volta, restituita piú o meno alla sua forma originale. Possiamo avvicinarci a misurare la reazione del clero alla prima versione della Passione secondo Giovanni osservando le drastiche revisioni che adottò a un anno esatto dalla sua prima esecuzione. L’epico coro d’apertura («Herr, unser Herrscher») e il corale di chiusura scioccante («Ach Herr, lass dein lieb Engelein») vengono eliminati per fare spazio alla fantasia in corale «O Mensch bewein dein Sünde groß», concepita e in seguito utilizzata da Bach per concludere la parte I della Passione secondo Matteo, e un corale conclusivo piú elaborato, «Christe, du Lamm Gottes», il movimento finale della cantata che aveva presentato alla sua audizione a Lipsia (BWV 23). Non senza scricchiolii nelle giunture, la Passione secondo Giovanni fu adattata alla sua nuova posizione come culmine del ciclo di cantate corali. Spariti, inoltre, erano l’aria per tenore «Ach mein Sinn», sostituita con «Zerschmettert mich», e un corale di dialogo tra basso e soprano «Himmel reiße, Welt erbebe». La sostituzione piú drastica di tutte fu forse la nuova aria per tenore, «Ach windet euch nicht so», al posto della magica accoppiata «Betrachte/Erwäge», chiave di volta del piano originale di Bach per la parte II. Da un punto di vista puramente musicale, se è vero che la qualità generale dei nuovi numeri è considerevolmente alta, è difficile tuttavia considerarli «miglioramenti». Nell’insieme, la conseguenza fu uno smembramento dello schema e della struttura della versione originale, e un’alterazione del suo tono teologico per mezzo di una accentuata prominenza della teologia paolina della giustificazione per fede.

Solo un duro ammonimento da parte del concistoro potrebbe spiegare il motivo per cui Bach decise di scartare elementi chiave del suo progetto iniziale e sbarazzarsi della coerente idea giovannea dell’espiazione di Gesú per il beneficio dell’umanità, e la ben piú grande importanza che dette, in ognuno dei nuovi movimenti introdotti, all’ammissione delle colpe dell’uomo. Se il consiglio ribadí che la Passione-oratorio doveva dare un’enfasi maggiore alla teoria ortodossa della «soddisfazione» (vedi infra, cap. XI), pazienza: Bach fece quanto richiesto introducendo nuova musica compatibile con l’immaginario intriso di peccato e l’enfasi sul Dio «giudice severo». Uno degli effetti, ma di certo non la motivazione, delle revisioni del 1725 alla Passione secondo Giovanni fu riportarla in linea con il tono del ciclo di cantate corali che aveva presentato nei dieci mesi precedenti (come abbiamo visto nel cap. IX). Una conseguenza ancora piú drastica fu il distruggere ciò che sembra essere stato il suo progetto, in corso da due anni, di rendere i due racconti evangelici e le due teorie sull’espiazione gli apici dei suoi cicli di cantate attraverso espressioni consecutive e contrastate. Non riuscendo a completare la Passione secondo Matteo in tempo per il Venerdí santo, Bach si ritrovò messo all’angolo. La seconda versione della Passione secondo Giovanni era un pis-aller. Alla successiva occasione per eseguirla, circa cinque anni dopo, tutti gli elementi estranei erano spariti e il coro d’apertura era di nuovo al suo posto, cosí come l’accoppiata «Betrachte/Erwäge». Tuttavia, questa volta erano stranamente tagliati gli inserti tratti da Matteo e il corale finale. Un’aria, oggi purtroppo perduta, aveva sostituito «Ach, mein Sinn» e una sinfonia strumentale aveva preso il posto dei movimenti 33, 34 e 35 (il recitativo sul velo del Tempio, l’arioso per tenore «Mein Herz» e l’aria per soprano «Zerfließe»).

Forse il conflitto non si era davvero esaurito. Sappiamo, per esempio, che nel marzo 1739 un emissario del segretario comunale annunciò a Bach che «la musica che intendeva eseguire il successivo Venerdí santo non doveva essere suonata finché non avesse ricevuto uno specifico permesso, al qual punto egli gli rispose che cosí era sempre stato, e non gli importava particolarmente, poiché non ne aveva comunque ricavato nulla, ed era soltanto un peso. Avrebbe notificato al Sovrintendente che gli era stato proibito di eseguirla. Se esistevano obiezioni al testo, be’, era stata eseguita già diverse volte»39. Quanto dolore e pena e indifferenza simulata in queste parole riportate dal funzionario! Gli occorsero altri dieci anni perché gli passasse il dolore per questa ingiustizia; e fu solo quando gli rimanevano due anni di vita che riportò la Passione secondo Giovanni alla versione originale del 1724, restaurata in tutti gli elementi fondamentali.

Se mai è esistita una prova dell’importanza che Bach dava al suo lavoro e, in modo significativo, alla sua concezione e al suo progetto iniziali, è quella, recentemente scoperta, di esecuzioni consecutive negli ultimi suoi due anni di vita: quella del 4 aprile 1749 fu forse l’ultima esecuzione in assoluto a essere diretta da lui. Una lettera autografa di referenze per Johann Nathanael Bammler (un ex prefetto del Thomaner che aiutò Bach nella copia e nella revisione del testo per la versione finale della Passione secondo Giovanni) risale al 12 aprile 1749, una settimana dopo; qui la grafia di Bach40 è notevolmente piú stabile e piú fluente che negli ultimi inserimenti sulle parti per l’esecuzione della Passione, che in precedenza si riteneva fossero proprio i suoi ultimi. L’improvviso e temporaneo collasso della sua salute sembra essere avvenuto nella seconda metà di aprile; tuttavia a giugno, sebbene chiaramente indebolito, era di nuovo al lavoro sulla Messa in Si minore e sulla prima serie di bozze dell’Arte della Fuga. Sulla base della prova della sua grafia, gli ultimi inserimenti autografi nel materiale d’esecuzione della Passione secondo Giovanni non possono essere precedenti alla primavera del 1750. Quella esecuzione ebbe luogo il 27 marzo, forse sotto la direzione del primo prefetto del coro, il giorno precedente l’intervento del dottor Taylor agli occhi di Bach, il sabato prima di Pasqua41. Aveva finalmente raggiunto qualche tipo di accordo con il concistoro o fu l’ultimo gesto di sfida, una trasgressione del decreto concistoriale, e un ribadire che aveva sempre avuto «ragione»? In ogni caso, aveva preparato una nuova partitura per la Passione, per cui scrisse egli stesso i primi diciotto fogli prima di affidare il resto a un copista. Scegliendo la versione originale, quest’ultima porta «Fassung Erster» e «Letzter Hand» a riallinearsi.

Potrebbero esserci stati altri fattori, oltre alla differenza teologica, dietro le revisioni forzate del 1725 e 1729, a spiegare il ritorno finale di Bach alla versione iniziale dell’opera, forse riserve piú profonde sulla musica stessa, un nervo scoperto e toccato dal continuo dibattito sul senso profondo del ruolo della musica nel culto. Poiché, sebbene il clero di Lipsia possa aver ritenuto difficile trovare qualcosa di dichiaratamente sovversivo nell’iniziativa creativa di Bach (è sicuramente al di sopra di critiche nella sua fedeltà al Vangelo di Giovanni), rivela certamente cosa abbiano riconosciuto come una pericolosa impennata di autonomia artistica. Essa indica le differenze fondamentali tra il Logos come parola viva e il Logos come adattato in (e trasformato dalla) musicaan. Al di là del fatto che fossero o meno interessati – o anche solo capaci di distinguerli – agli schemi nascosti che Bach costruí dietro quelli piú evidenti in primo piano (come la giustapposizione di prospettive mondane e spirituali sull’identità di Gesú ecc.) – qualità stesse che distinguevano la Passione secondo Giovanni da quelle dei suoi contemporanei –, è improbabile che non siano stati in grado di cogliere la trascinante potenza emotiva sprigionata dalla musica. Dimostrando scarso senso tattico, forse, Bach faceva il lavoro del predicatore in modo piú efficace di quanto era possibile con le sole parole. Possiamo domandarci se i dialoghi tra Pilato e la folla, e tra Pilato e Gesú, elementi che oggi troviamo particolarmente toccanti, fossero scomodamente teatrali – forse troppo «operistici» rispetto a quanto consideravano appropriato per la musica sacra (sebbene sia interessante che non riuscirono mai a far ridimensionare questo aspetto nelle revisioni successive). Tornando all’opera negli ultimi due anni della sua vita e ripristinando la sua concezione iniziale, Bach stava riaffermando con forza la sua posizione sul ruolo che la musica della sua Passione secondo Giovanni poteva giocare nel volgere la mente del pubblico al significato della Passione di Cristo nelle loro vite.

Torniamo un’ultima volta a considerare l’opera dal nostro punto di vista. Deve esserci una spiegazione per cui, nella nostra epoca secolarizzata, l’ascolto della Passione secondo Giovanni sembra essere per molti un’esperienza tanto esaltante. Suggerirei che la struttura stratificata che sostiene la Passione di Bach può essere «provata», se non immediatamente vista o sentita, dall’ascoltatore, allo stesso modo in cui i contrafforti, invisibili ai visitatori che entrano in una chiesa gotica, sono fondamentali per l’illusione di leggerezza, assenza di gravità e l’impressione di altezza. Difatti, piú le si studia piú sembrano essere numerose le strutture geometriche di ripetizione, simmetria e di rimandi incrociati, variabili nella curvatura o nella sottigliezza del loro profilo. Per cambiare analogia, è un’esperienza simile a quella di osservare il letto pietroso di un torrente poco profondo attraverso il prisma rifrangente dell’acqua, che ne cambia di continuo ma leggermente la definizione. Solo guardando sotto la superficie le strutture diventano chiare, e a quel punto il rapporto intrinsecamente instabile tra parole e musica, e quello dialettico tra voce e strumento, cantante e musicista, possono essere messi a fuoco. Potenzialmente ogni esecuzione attraversa questo processo di decifrazione e chiarificazione in direzione di un obiettivo sconosciuto. Ogni conoscenza frammentaria del contesto che possiamo ricostruire non recupererà certo l’esperienza degli ascoltatori della prima esecuzione, ma può servire a intensificare la nostra reazione ogni volta che oggi incontriamo questa musica. Sebbene la sua collocazione originaria sia inevitabilmente perduta, l’opera porta in sé una potenziale novità per chi come noi è disposto a recepirla, poiché «questa è una musica che sembra intimamente legata a un mondo di certezza e interconnessione, eppure le sue conseguenze, almeno per molti ascoltatori, sembrano essere completamente inaspettate e trasformative»42. I musicisti (che naturalmente qui hanno un interesse personale) tendono a credere che ciò che Bach espresse nella sua prima Passione, e il modo in cui lo esprime, abbia una validità perpetua e di conseguenza meriti di essere riprodotto a ogni nuova esecuzione. Se possiamo mirare a produrre qualcosa che si avvicini all’esecuzione di Bach, si manifesterà in modo inevitabilmente diverso in ogni occasione e in ogni nuovo contesto. È come se il materiale musicale che ci ha lasciato fosse contemporaneamente completo e incompleto, e riflettendo sul significato delle nostre esecuzioni dovremmo ricordare l’enfasi che T. S. Eliot accordò alla consapevolezza che «non solo il passato è passato, ma che è anche presente»43. È ancorandola al nostro tempo che possiamo ricollegarci alla fertilità senza tempo dell’immaginazione di Bach.

Il trampolino di lancio del suo successo è la sua diretta interazione con il Vangelo stesso, i suoi temi impliciti, le sue antitesi e i suoi simboli, qui in maniera piú evidente che nella successiva Passione secondo Matteo. I simboli prendono vita ogni volta che la musica viene eseguita e ci aiutano a capire il senso dell’oltraggio e del dolore della sofferenza, le contraddizioni e le perplessità del racconto della Passione. Bach si collega continuamente con il dramma umano implicito nel racconto di Giovanni e lo porta in superficie con il compassionevole realismo di Caravaggio o di Rembrandt. L’equivalente delle loro magistrali pennellate è il suo sviluppatissimo senso del dramma narrativo, e la sua intuizione infallibile della giusta proporzione e del tono appropriato per ognuna delle scene. Simile alla priorità che entrambi i pittori dettero all’interazione tra oscurità e luce è il modo in cui la musica di Bach è soffusa di una trasparenza eccezionale, perfino per i suoi parametri. Nel parlare dei dipinti religiosi di Rembrandt, Goethe suggerí che il pittore non si limitava a «illustrare» gli eventi biblici ma li portava «al di là del loro fondamento scritturale»44. Bach fa esattamente la stessa cosa, ma invece della pittura, è la sostanza musicale a «trasparire».

È particolarmente difficile per noi afferrare la prodigiosa abilità e la palpabile visione d’insieme in un’opera tanto complessa come la Passione secondo Giovanni. Bach attira raramente l’attenzione sui meccanismi tecnici che sostengono le sue abilità musicali. Eppure, come Brahms, sarebbe stato pronto a riconoscere che «senza tecnica, l’ispirazione non è che una canna agitata dal vento»ao. Se ciò sta a significare che la sua musica era ispirata spiritualmente (o, come qualcuno sostiene, era di origine divina) dipende naturalmente da come decidiamo di riflettere sulle fonti della sua ispirazione. Quando gli veniva chiesto di specificare le fonti della sua ispirazione, Brahms indicava il Vangelo di Giovanni e le parole di Gesú: «il Padre, che rimane in me, compie le sue opere … chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di piú grandi di queste» (14,10-12). La risposta di Bach poteva essere identica. La Passione secondo Giovanni cattura la nostra attenzione dall’inizio alla fine: la sua musica è entusiasmante, inquietante, gioiosa e profondamente commovente. In quest’opera Bach trovò la prima trionfale giustificazione del precetto di Lutero secondo cui «la Passione di Cristo non deve essere accolta con parole o forme, ma con vita e verità».

a. Si può far risalire il sorprendente utilizzo, da parte di Bach, di contrasti tra la glorificazione di Gesú (Herrlichkeit) e la sua umiliazione (Niedrigkeit) ai tre sermoni di Johann Arndt sul Salmo 8 (Auslegung des gantzen Psalters Davids, Stern, Lüneburg 1643).

b. John Butt suggerisce che in Gran Bretagna, in ogni caso, «la disgrazia pubblica di non eseguire nello stile storicamente “approvato” era semplicemente troppo pesante da sopportare per le orchestre sempre a corto di denaro; inoltre, la tradizionale esecuzione della Passione secondo Matteo al Venerdí santo cominciò a perdere significato nel momento in cui il pubblico divenne sempre piú indifferente alla nozione di quella giornata. La Passione secondo Matteo godeva ancora di altissima considerazione e veniva ancora eseguita, ma non piú come parte incontestabile del repertorio convenzionale» (JOHN BUTT, Bach’s Dialogues with Modernity. Perspectives on the Passions, Cambridge University Press, Cambridge 2010, p. 18).

c. Esisteva tuttavia una tradizione di sostegno per la musica concertata all’interno della liturgia da parte di alcuni sacerdoti ortodossi, a Lipsia, tra cui August Pfeiffer (1640-1698), che era entusiasta dell’importanza della musica nel culto, sebbene fosse completamente sordo (il suo Apostolische Christen-Schule del 1695 era presente nella biblioteca di Bach) e Johann Benedikt Carpzov III, arcidiacono della Thomaskirche tra il 1714 e il 1730, la cui famiglia aveva una relazione con i Bach (vedi supra, cap. IX). Non è da escludere la possibilità che alcuni sacerdoti fossero rimasti sbalorditi dalle dimensioni della Passione secondo Giovanni di Bach, che non aveva precedenti in quanto a lunghezza, drammaticità e potenza retorica.

d. Nella sua Meditazione sulla Passione di Cristo, Lutero ne sottolineava la grande importanza per il credente: «Dà piú beneficio riflettere anche solo una volta sulla Passione di Cristo che digiunare per un anno intero o recitare un salmo ogni giorno, eccetera»; «Se il nostro cuore non è ispirato da Dio, è impossibile per noi meditare profondamente sulla Passione di Cristo» (Eyn Sermon von der Betrachtung des heyligen Christi, 1519, in LW, XLII).

e. L’ensemble di studenti di Telemann, il collegium musicum, continuò a tenere concerti di musica sacra nella chiesa dell’università nelle festività e in occasione delle fiere, mentre alla Neukirche, sotto la direzione dei successori di Telemann (Hoffmann, Vogler e Schott), si continuò a eseguire musica intrisa di stile operistico italiano per i primi due decenni del XVIII secolo.

f. Tutto ciò che mancava erano i costumi e le scenografie operistiche. Brockes era il piú celebre in un genere chiamato Passione-oratorio, che comprendeva testi poetici originali e non liturgici che erano distinti nel proposito e nella struttura dalle Passioni oratoriali che aderivano fedelmente al testo biblico (che normalmente si limitava a uno dei quattro Vangeli ma spesso sintetizzava i loro racconti), anche quando erano variati con interpolazioni di arie meditative e, naturalmente, corali. L’essere letterale e sentimentale di Brockes ha molto in comune con le sculture che si trovano nelle chiese cattoliche bavaresi dell’epoca, che, nel peggiore dei casi, degenerano in un kitch pieno di zelo ma deplorevole, uno spettacolo di immagini spesso sadomasochistiche. Basil Smallman ha senz’altro ragione nel richiamare l’attenzione sul paradosso per cui «questi libretti [di Brockes e altri] erano parte di una reazione al culto pietista della semplicità: il loro immaginario privo di gusto e il loro interesse per gli aspetti fisici piú nauseanti del dolore e della sofferenza, tratti che erano caratteristici della poesia pietista» (The Background of Passion Music. J. S. Bach and His Predecessors, Dover, London 19712, p. 76).

g. Si tratta di una pratica, risalente al 1530, in cui, durante la funzione principale del Venerdí santo, al posto del Vangelo il racconto della Passione di Giovanni era salmodiato davanti al leggio nell’area adibita al coro «da un alunno nei panni dell’Evangelista … [mentre] a un diacono era assegnato il ruolo di Cristo e al coro quello del popolo» (CARL CHRISTIAN BÖHME, Bildnisse der sämmtlichen Superintendenten der Leipziger Diöces, Polet, Leipzig 1839, p. 54). Il fatto che perfino nel 1722 un nuovo insieme di parti della Passione di Walter furono scritte per il coro turba (delle semplici risposte omofone a quattro voci, in contrasto con la scrittura monodica della narrazione biblica) è indicativo del resistere di questa tradizione (HANS-JOACHIM SCHULZE, Bachs Aufführungsapparat, in C. WOLFF e T. KOOPMAN, Die Welt der Bach-Kantaten cit., vol. III, p. 148).

h. Apprendiamo che Bach fu pagato dodici talleri per questo invito, e che per l’utilizzo da parte dei cortigiani furono stampati venti copie del libretto di quella particolare Passione; tuttavia non sappiamo se il compenso fu pagato per la composizione o per la supervisione all’esecuzione della musica di qualcun altro (ANDREAS GLÖCKNER, Neue Spuren zu Bachs «Weimarer» Passion, in «Leipziger Beiträge zur Bach-Forschung», I, 1995, p. 35; NBR, p. 78).

i. Una partitura «ridotta» per direzione ci è giunta in una piú tarda versione manoscritta di un copista, estratti della quale apparvero in ARNOLD SCHERING, Musikgeschichte Leipzig, II. Von 1650 bis 1723, Kistner & Siegel, Leipzig 1926, pp. 25-33, sufficiente a dimostrare la maestria di Kuhnau nello stile recitativo ma in poco altro. Johann Adolph Scheibe evidentemente conosceva la Passione secondo Marco di Kuhnau: «a volte riusciva a scrivere musica profonda e poetica [come] dimostrato da … le sue ultime opere sacre, specialmente la sua Passione-oratorio che terminò pochi anni prima della sua morte … Vediamo quanto chiaramente avesse compreso l’impiego e le leggi del ritmo, vediamo anche quanta attenzione dedicò sempre nel rendere le sue opere sacre melodiose e scorrevoli, e in molti casi davvero toccanti» (in «Der critischer Musikus», II, 1737, p. 334). Di contro, lo studio di Schering del frammento sopravvissuto di Kuhnau portò a osservazioni denigratorie: il suo valore complessivo «è sorprendentemente limitato in termini di fantasia … ristretto nella prospettiva musicale … un mosaico di forme retrograde in termini di stile e di espressione» (A. SCHERING, Musikgeschichte Leipzig cit.). Eppure il sacrestano della Thomaskirche, Johann Christoph Rost, annotò nel suo diario la prima della Passione di Kuhnau come un giorno memorabile: «Il Venerdí santo dell’anno 1721, nella funzione dei Vespri, la Passione fu eseguita per la prima volta in stile concertato» (BD II, n. 180; NBR, p. 114).

j. Alle spalle dell’esperimento di Kuhnau si trovava un secolo e mezzo di tentativi di Passioni-oratorio e Passioni oratoriali a partire dalla Passione secondo Giovanni di Antonio Scandello (1561), in cui il canto piano si alternava con brevi esplosioni di polifonia. Quelli che secondo me sono di gran lunga i piú interessanti tra questi prototipi sono i tre adattamenti a struttura modale di Heinrich Schütz: la sua Passione secondo Luca del 1664, la Giovanni del 1665 e la Matteo del 1666. Ridotte per un ristretto ensemble vocale a cappella, Schütz evolve il proprio stile personale di recitazione, che si dimostra molto piú espressivo di quello di tanti suoi successori, equilibrandolo con brevi ma impressionanti interventi corali. Tra Schütz e Kuhnau probabilmente gli esempi piú notevoli sono quelli di Thomas Selle (la sua Passione secondo Giovanni del 1641 fu la prima a includere interludi strumentali) e quattro Passioni secondo Matteo: quella di Christian Flor (1667), in cui si trova l’embrione delle turbae accompagnate dall’orchestra; quella di Johann Sebastiani (1672), la prima a includere corali semplici; quella di Johann Theile (1673), in cui l’Evangelista è accompagnato da viole; e quella di Johann Meder (1701), in cui le parole di Gesú sono messe in musica sotto forma di arioso. Qui, infine, si trovano segni di tensione espressiva nei momenti piú drammatici, oltre a qualche aria strofica di buona fattura. Ma solo nelle Passioni di Schütz si può incontrare un’immaginazione creativa forte che si libera delle restrizioni imposte dalla liturgia, sebbene in uno stile piú spoglio di quello dei suoi successori, che apre le porte al ricco mondo dell’esegesi biblica. Le esecuzioni odierne di uno qualsiasi di questi tre adattamenti si dimostrano ancora in grado di mantenere il pubblico in una morsa spirituale ed emotiva.

k. Nel confrontare le due versioni della Deposizione dalla Croce dei due pittori, Simon Schama suggerisce: «mentre nell’opera di Rubens tutto è azione e reazione, nella versione di Rembrandt l’accento è posto sulla contemplazione e sulla testimonianza … gli attori sono sostituiti da osservatori» (Rembrandt’s Eyes, Allen Lane, London 1999, pp. 292-93; trad. it. Gli occhi di Rembrandt, Mondadori, Milano 2000, pp. 318-19). Questa, benché molto semplificata, è anche la differenza tra la Passione secondo Giovanni e la Passione secondo Matteo di Bach.

l. Spitta è il primo di una serie di commentatori che non sono riusciti a rintracciare nel coro di apertura di Bach nessuna delle «idee di tenerezza e amore» che associamo al Vangelo di Giovanni. Credo che ciò sia sbagliato. Molto, naturalmente, si basa sull’interpretazione. Per me, l’inizio della sezione B, «Zeig uns durch deine Passion» (Mostraci la tua Passione) implica un canto tenero, dolce, mentre la scala ascendente in La minore dei soprani (misure 77-78) indica la gioia e la liberazione intrinseche all’espiazione di Cristo. Che la strada per la vittoria dell’umanità sia mostrata come accidentata e impervia è evidente dai bruschi contrasti tra questi positivi arpeggi ascendenti (zu aller Zeit, «in tutti i tempi») e la ridiscesa dissonante piano (auch in der größten Niedrichkeit, «anche nella piú grande umiliazione»). La sincronia di un gioioso melisma vocale (verherrlicht worden ist, «tu sei glorificato») con il movimento turbolento degli archi piú acuti è una brillante associazione di idee opposte, da lui già adombrata nel corale finale della BWV 105, «Herr, gehe nicht ins Gericht» (vedi supra, cap. IX).

m. Daniel R. Melamed ha dimostrato che l’attribuzione a Keiser si trova «in una sola fonte senza legami con le esecuzioni [di Amburgo] ed è dunque discutibile» (Hearing Bach’s Passions, Oxford University Press, Oxford 2005, p. 81). Nel 1723, Bach portò con sé le parti per l’esecuzione di questa Passione secondo Marco. Don O. Franklin è molto convincente nel considerare quest’opera (spesso citata come modello della Passione secondo Matteo di Bach) come una fonte importante per la Passione secondo Giovanni: «Bach attinse largamente [da essa] … nel compilare il libretto per la sua prima Passione oratoriale», «nel profilo e nello stile generale», ed esiste inoltre una straordinaria «somiglianza nelle proporzioni complessive delle due opere» (The Libretto of Bach’s John Passion and the Doctrine of Reconciliation. An Historical Perspective in ALBERT A. CLEMENT (a cura di), Das Blut Jesu und die Lehre von der Versöhnung im Werk Johann Sebastian Bachs, in «Proceedings of the Royal Netherlands Academy of Arts and Sciences», CXLIII, 1995, pp. 191-92, 195). Che Bach avesse un’alta considerazione di questa partitura è ulteriormente provato dalla sua decisione di tornare a lavorarci per riproporla a Lipsia nel 1726.

n. Addirittura Bertolt Brecht era affascinato dalla «musica esemplarmente gestuale» di Bach. Brecht ne ammirava la precisione nel definire la localizzazione dell’inizio, nelle primissime parole dell’Evangelista: «Gesú uscí con i suoi discepoli al di là del torrente Cedron» (Giovanni 18,1).

o. Un’altra indicazione della potenza dell’uso dei corali da parte di Bach nella Passione secondo Giovanni si trova nella loro omofonia: aggiungendo strumenti per raddoppiare le linee vocali, Bach spostò l’equilibrio in favore delle parti piú alte e piú basse, il mordente degli oboi si aggiunge a quello dei violini ma è addolcito dai flauti, il fagotto funziona allo stesso modo ed è sostenuto da contrabbasso e organo: l’effetto è ricco ma mai opaco. Tutto ciò non serve a nulla, naturalmente, se non c’è un’identificazione e comprensione totale del testo da parte degli strumentisti, fino al punto di imitare la forma esatta delle parole e le inflessioni vocali dei cantanti sotto sforzo. La musica di Bach è piena di esempi in cui i cantanti sono chiamati a emulare l’agilità e la scioltezza tecnica degli strumenti nell’interesse di articolare in maniera chiara passaggi veloci e ritmi percussivi. Laddove nei cori di turba vengono portati al limite, qui nei corali gli strumentisti devono restituire la cortesia: aggiungere colore e profondità ma mai nascondere o travolgere i cantanti, né, al tempo stesso, ridurre l’impatto ieratico dell’espressione cantata del testo.

p. Wilfrid Mellers sottolinea un suggestivo parallelo con William Blake: questa è una «Canzone di Innocenza» che completa la precedente «Canzone di Esperienza» (Bach and the Dance of God, Faber and Faber, London 1980, p. 103).

q. La duplice negazione di Pietro (Ich bins nicht) secondo la tradizione luterana, e da teologi di epoca successiva, era ritenuta la «controparte negativa» delle precedenti affermazioni di Gesú (Ich bins). Bach scrive su entrambi una forte cadenza dominante-tonica, ma nel caso di Pietro aggiunge un’appoggiatura enfatica alla parola nicht. È significativo che le modulazioni confermate dalle cadenze di Pietro, prima in Sol, poi in La, siano già presenti nei recitativi di transizione: come osserva Eric Chave, rendendo Gesú «l’agente della modulazione verso il diesis», Bach si assicura che si possa comprendere che egli è anche l’agente della redenzione di Pietro (J. S. Bach’s Johannine Theology cit.).

r. A dire il vero questo sguardo non si trova né nel racconto di Matteo né in quello di Giovanni: è piuttosto in Luca (22,61) ed è parafrasato nella decima strofa dell’inno di Paul Stockmann che Bach usò qui come culmine della parte I. Bach possedeva una copia dei sermoni di Heinrich Müller sulla Passione di Cristo (Von Leyden Christi) in cui scrive: «Lo sguardo del Redentore era come il sole, che scaldava il freddo cuore di Pietro» (Der Blick des Heylandes war gleichsam die Sonne, die das kalte Herz in Petro erwärmete).

s. W. MELLERS (Bach and the Dance of God cit., p. 109) la ritiene «la musica piú umanamente appassionata mai scritta da Bach» ed è difficile non essere d’accordo. Ma nel frattempo, come osserva molto giustamente Laurence Dreyfus, Bach gioca rapido e libero con le strutture poetiche del testo e ignora «determinate visioni sancite dalla dottrina in modo da sottolineare gli aspetti dell’esperienza che riteneva piú avvincenti». Per quanto sia inusuale l’adattamento del testo di Bach in questa circostanza, il suo essere cosí disgiunto è, a mio parere, una strategia intenzionale, un modo di comunicare disperazione e un rimorso soffocante. Se qualcuno compie qualcosa di riprovevole (come tradire il proprio idolo) non parla o canta necessariamente in rime baciate. Dreyfus riconosce questo: Bach, «nella sua maniera antiletteraria, è concentrato su una lettura del testo particolarmente personale e visibilmente autoautorizzata». Ma affermare che «la maggior parte [delle parole] è sommersa dalla musica, data tutta l’attenzione che Bach ha prestato al ritornello» sarebbe per me il segno di un’esecuzione mal condotta. («The Triumph of «Instrumental Melody». Aspects of Musical Poetics in Bach’s St John Passion, in «Bach Perspectives», VIII, 2010). Infatti, è proprio la soggettività della sua interpretazione e l’esplosiva espressività della sua musica che la rendono cosí avvincente per noi. In questa aria in particolare, Bach, come Monteverdi prima di lui, mira a commuovere i suoi ascoltatori. Per arrivare a tanto (ancora come Monteverdi) egli stesso deve essere commosso. Bach è evidentemente scosso dalla disperata condizione di Pietro ed è del tutto fedele alla sua implicita rivelazione dei difetti umani. La prova della sua riuscita arriva attraverso i misteriosi processi trasformativi noti a tutte le persone di teatro (e ad alcuni musicisti): esperienze di azioni e condizioni condivise tra gli esecutori e il pubblico che sembrano scavalcare le barriere temporali, culturali e linguistiche. Per questo fenomeno il neurofisiologo italiano Giacomo Rizzolatti sostiene di avere una spiegazione biologica. La sua scoperta di «neuroni specchio» sembra indicare la nostra capacità di comprendere all’istante le emozioni degli altri tramite l’imitazione neuronale, e che esistono processi cognitivi che ci permettono di interpretare le informazioni sensoriali come cariche di un particolare significato emotivo (GIACOMO RIZZOLATTI e CORRADO SINIGAGLIA, So quel che fai, il cervello che agisce e i neuroni specchio, Cortina, Milano 2006).

t. In questo modo Bach seguiva la tradizione dei sermoni per la Passione del XVII secolo, come fa presente Elke Axmacher (Aus Liebe will mein Heyland sterben, Hänssler, Neuhausen-Stuttgart 1984, p. 155), in cui il tradimento di Pietro e la seconda interpolazione di Matteo (la scena del «terremoto», come vedremo in seguito) sono introdotti per rafforzare il bisogno di pentimento.

u. Gli ebrei consideravano gli edifici dei gentili, tra cui naturalmente il praetorium romano, come impuri, e la purezza era una delle preoccupazioni principali durante la Pasqua ebraica.

v. Per farsi un’idea di quanto sia efficace in questa circostanza il ritmo drammatico di Bach, è sufficiente confrontare il suo adattamento del processo romano con l’equivalente nella Passione-oratorio di Johann Mattheson, Das Lied des Lammes (1723), un’opera che Bach probabilmente conosceva. Entrambi i compositori si appoggiano su una fonte letteraria comune, un libretto di Christian Heinrich Postel; entrambi suddividono la narrazione di Giovanni negli stessi punti; entrambi iniziano con il corale «Christus, der uns selig macht»; entrambi utilizzano il testo di Postel per «Durch dein Gefängnis» (Mattheson come duetto, Bach come corale), ed entrambi lo collocano nella seconda parte della strofa 12. Al di là delle enormi discrepanze nello stile e nella sostanza musicale, la differenza principale sta nel passo e nelle proporzioni. Come osserva Don O. Franklin (The Libretto of Bach’s John Passion cit. pp. 188-89) laddove Mattheson, seguendo Postel, mette la sua enfasi maggiore nelle arie, sette delle quali sono lunghi ariosi per Gesú e Pilato, Bach interrompe il flusso dell’azione solo tre volte (per «Betrachte/Erwäge», lo pseudo-corale «Durch dein Gefängnis» e l’aria-dialogo «Eilt») ed è perciò in grado di portarla avanti, concentrando la nostra attenzione sull’intensa interazione tra Gesú, Pilato e la folla (cosa che andava al di là delle capacità di Mattheson) e incorniciando l’intera scena tra due corali.

w. Parte del problema in questo aspetto, come indica Chafe, è che «i teologi contemporanei interessati a Bach e al luteranesimo storico, che sono i piú inclini a comprendere il motivo per cui Bach possa aver fatto ciò che ha fatto nella Passione secondo Giovanni, hanno raramente avuto una formazione musicale, mentre i musicisti [o piuttosto, a mio avviso, i musicologi] non sono quasi mai sufficientemente coinvolti nelle necessarie modalità teologiche delle sue decisioni. Di conseguenza, le questioni di simmetria nel piano generale della Passione sono continuamente considerate un “problema” di forma musicale, su cui, a quanto pare, si può speculare senza una particolare conoscenza delle sue correlazioni teologiche. Tali interpretazioni hanno tutto l’aspetto di essere tirate fuori dal cilindro» (E. CHAFE, J. S. Bach’s Johannine Theology cit.).

x. In modo molto ragionevole, Eric Chafe risponde che «il confine tra l’“udibile” e l’“inudibile” non è certo, che la nostra intera persona è composta di qualità intellettuali e affettive la cui separazione fa violenza all’insieme. Sotto questo aspetto, ciò che Bach ha raggiunto nel progetto della Passione secondo San Giovanni è ciò che lo divide dai suoi contemporanei meno capaci». Nello stesso capitolo aveva concesso che «a volte pare che ci siano schemi multipli, perfino sovrapposti, o parziali, nessuno dei quali può essere però considerato come la “struttura” dell’opera» (ibid., cap. V).

y. John Butt indica che l’indagine teologica nelle radici che hanno ispirato le Passioni di Bach «sarebbe utile se suggerisse processi mentali che siano tutt’uno con il pensiero dietro la musica come arte estetica» (Interpreting Bach’s Passions. Outline of Proposed Scheme of Research per la Leverhulme Foundation, 2005), tenendo in equilibrio diverse forme di complessità, elementi «sentiti» e «mai sentiti», il contrappunto di idee, voci e tempi storici.

z. Forse piú che nel 1724, ciò potrebbe essere una conseguenza della nostra epoca agnostica piuttosto che il risultato del ritratto che ne fa Bach. La domanda «Cosa sarebbe accaduto se avesse compiuto la scelta giusta e liberato Gesú?» si nasconde da qualche parte nella nostra reazione odierna. Egli, naturalmente, «si trova al centro esatto del racconto cristiano, e del piano di redenzione di Dio. Senza il suo fatidico giudizio, il mondo non avrebbe potuto essere salvato. Senza la morte di Cristo non ci sarebbe stata Resurrezione, il miracolo fondante del cristianesimo» (ANN WROE, Pontius Pilate. Biography of an Invented Man, Jonathan Cape, London 1999). Come capo delle forze occupanti nella problematica provincia della Giudea, e con seimila legionari, secondo la ricostruzione, a controllare una popolazione di due milioni e mezzo di persone, Pilato affrontava un grave problema di gestione del governo, in particolare in un periodo esplosivo come la Pasqua giudaica, la festività piú importante della fondazione della nazione, in cui molte persone si riunivano a Gerusalemme per celebrarla. (JOHN DRURY, Bach: John Passion, discorso introduttivo al concerto del 22 aprile 2011, Snape Maltings, p. 1).

aa. Alterando una sola parola del testo di Postel, ist invece di muss, Bach altera l’intero significato del corale in linea con la sua posizione teologica del Christus victor. La libertà dell’uomo non è piú un’accorata speranza ma un fatto compiuto.

ab. Chafe si riferisce alla «immagine tradizionale del trionfo di Cristo ritratto … seduto sull’arcobaleno in giudizio, una spada sporge da dietro un orecchio e un giglio dall’altro, simboli della divisione dell’umanità che Giovanni rimarca continuamente» (Tonal Allegory cit., pp. 316-17). Secondo Roland Bainton, «Lutero aveva visto immagini come queste e aveva riportato di essere stato completamente avvinto dal terrore alla vista del Cristo giudice» (Here I stand. A Life of Martin Luther, Abingdon-Cokesbury, New York - Nashville 1950, pp. 22-25).

ac. Prendendo forse spunto da Albert Schweitzer, che trovava «un’indescrivibile felicità» in questi due movimenti (J. S. Bach, Adam & Charles Black, London 1911, vol. II, p. 181), Wilfrid Mellers (Bach and the Dance of God cit., pp. 118-24), dà una patina lirica sulla «quiete dispensatrice di balsamo» del precedente arioso per basso, in apparenza calma grazie alla combinazione di liuto e viola d’amore, ma tonalmente instabile. Egli la collega al mito di Orfeo (che in seguito ricevette legittimazione dalla mistica cristiana e dai platonici medievali), sia per il canto sia per il liuto, come sostituto postrinascimentale della lira di Orfeo. Se a questo punto Bach alludeva consciamente all’analogia percepita tra Orfeo e Cristo, ciò avrebbe in qualche modo senso: il balsamo della lira a sette corde per mezzo della quale l’anima cristiana (mentre contempla il «bene superiore» come conseguenza della sofferenza di Cristo) compie il suo viaggio verso il paradiso, ritornando «alle origini della magia della musica, e cioè al paradiso» (Macrobius, Commento al sogno di Scipione, citato in JOSCELYN GODWIN, Harmonies of Heaven and Earth, Thames & Hudson, London 1987, p. 61). Per quanto tenue sia qui il collegamento, si può solo speculare su quanto Bach potesse essere d’accordo con il tentativo di Johann Mattheson di dimostrare che in paradiso c’è musica, ben superiore a qualsiasi cosa noi possiamo immaginare, che esisteva da prima della creazione dell’Uomo, e allo stesso modo resterà per sempre (Behauptung der Himmlischen Kunst, Herold, Hamburg 1747, pp. 3, 6, 19). Da qui ci vuol poco per considerare che, come ho già esplorato in un’altra occasione nel corso di questo libro, Bach stesse cercando di imitare la musica «celeste», e il modo in cui incarnava un tipo di completezza e perfezione terapeutiche (vedi fig. nel cap. XIV).

ad. Qui, come fa notare John Drury, «non potrebbe essere piú estrema l’ambigua soggettività. Chiaramente sia i testi dell’arioso che quelli dell’aria sono coscienti della propria ambivalenza tra pena e dolore, piacere e pena … l’ambiguità … radicata nell’antica istituzione del sacrificio, per cui la vittima innocente sopporta il dolore, perfino la morte, che altrimenti ricadrebbe sui votati. L’afflizione della vittima è la loro salvezza» (J. DRURY, Bach: John Passion cit.). In altre parole, Bach e il suo librettista iniettano una forte dose della teoria della «soddisfazione» utilizzata in precedenza per controbilanciare l’immagine resa da Giovanni della gloria di Gesú.

ae. I normali ponticelli per violino e viola non disegnano un’ellissi regolare: la curva è piú pronunciata per accomodare le due corde di budello piú gravi e piú spesse. Dato il tono affascinante delle viole d’amore (oltre alla loro adeguatezza simbolica) ci lascia interdetti osservare che Bach nei movimenti 31 e 32 le sostituisca con violini in sordina (e metta un organo o un clavicembalo al posto del liuto) nelle riprese successive. Dürr in seguito avrebbe commentato seccamente: «Sembra inappropriato considerare la sostituzione degli strumenti originali come un espediente a cui l’esecutore moderno dovrebbe aderire solo qualora si trovasse davanti agli stessi problemi di Bach» (ALFRED DÜRR, Johann Sebastian Bach’s John Passion cit., p. 112).

af. Nel fare questo inscrive il simbolo della Croce nella linea melodica dell’Evangelista, proprio come aveva fatto all’età di ventidue anni nella BWV 4 (vedi supra, cap. V), utilizzandolo per marchiarla a fuoco nella coscienza degli ascoltatori.

ag. Un altro modo di interpretarlo (come indicatomi da Robert Quinney) è che il comportamento dei soldati è stranamente neutrale e distaccato, cosí com’è delineato: è come se uscissimo dal racconto vero e proprio, approdando a una scena che, sebbene si stia effettivamente svolgendo ai piedi della Croce, sembra lontana chilometri. Proprio l’assenza di coinvolgimento da parte dei soldati negli avvenimenti fatidici che si svolgono intorno a loro potrebbe portare il fedele intento all’ascolto a un maggiore coinvolgimento e alla riflessione (anche su se stesso).

ah. L’utilizzo da parte di Bach di ritmi puntati associati con il maestoso stile di Lully è solo superficialmente «eroico». Come afferma Michael Marissen, «solo sulla pagina, che gli ascoltatori non vedono, la musica apparte maestosa. Per come la musica di Bach la intende, invece, la maestà di Gesú è “nascosta” nel suo contrario, mostrando un approccio prettamente luterano» (Lutheranism, Anti-Judaism, and Bach’s John Passion, 1998, p. 19).

ai. In verità ciò è vero solo per l’esecuzione del 1725, quando effettuò la prima delle quattro revisioni. In precedenza, le fonti indicano che sia il flauto che l’oboe da caccia erano doppiati, mentre nella quarta versione il flauto era doppiato da un violino in sordina (A. DÜRR, Johann Sebastian Bach’s John Passion cit., p. 114).

aj. «È molto strano che nel Vangelo di san Giovanni, sebbene per buona parte del tempo sia platonico e greco e di nobili principî, di tanto in tanto, e in particolare in merito alle ferite di Cristo (come nel caso di Tommaso, che vi mette il proprio dito), ci siano scoppi occasionali di una fisicità piuttosto sconcertante» (John Drury, corrispondenza privata).

ak. Wilfrid Mellers la indica come «una danza di Dio … che incarna l’idea dei mistici cristiani delle origini, che hanno visto nel Cristo che suonava la lira, o la viola o il flauto come “leader della danza, lui sa come toccare le corde, portare di gioia in gioia, con cherubini e serafini l’anima a danzare in cerchio”» (Bach and the Dance of God cit., p. 148).

al. Laddove Giovanni celebra il trionfo di Gesú sulle forze del male e sulla legge (che descrive come «maledizione» o «collera»), Matteo sottolinea l’espiazione di Cristo per la «soddisfazione» di Dio. Il fatto che Lutero non lasciò alcuna dichiarazione certa sull’argomento dell’espiazione non vuol dire necessariamente che avesse una preferenza per queste due diverse, ma non contrarie, teorie, o che le due non coesistessero nella sua teologia. È opinione di Aulén che nel corso del tempo Lutero fosse sempre piú incline alla piú antica visione di Giovanni (Christus victor) «con maggiore intensità e forza di prima». Secondo quanto afferma, «basta solo ascoltare gli inni di Lutero per sentire il fremito del loro trionfo, come una fanfara di trombe». Ciò è vero anche per gli adattamenti che Bach realizza per le sue cantate.

am. Telemann, per esempio, a cui era richiesto di comporre una nuova Passione per ognuno degli anni in cui fu direttore musicale delle cinque chiese principali di Amburgo (1721-67) non sembra aver provato il bisogno di distinguere le inclinazioni teologiche dei quattro autori evangelici. Al contrario, adottò una tecnica molto utilizzata da Bach nelle sue cantate: l’inserimento di un testo parallelo dell’Antico Testamento per preparare ognuna delle cinque sezioni in cui suddivideva il racconto della Passione.

an. Anche qui le alterazioni strutturali ai movimenti restaurati del 1724 mostrano segni di prescrizioni teologiche e forse riflettono anche cambiamenti nel gusto letterario: la fresca gioiosità dell’originale aria per soprano «Ich folge dir» è sminuita dal riferimento al «mio cammino timoroso» e dalla necessità di «soffrire pazientemente». L’arioso «Betrachte» perde la sua metafora delle primule celesti che sbocciano dalla corona di spine, e si riferisce piú apertamente, ora, alla flagellazione di Gesú. L’aria per tenore «Erwäge» perde la gloriosa similitudine con l’arcobaleno a favore di qualcosa di molto piú blando, sebbene «Mein Jesu, ach!» sia leggermente piú facile da cantare.

ao. La frase potrebbe essere apocrifa, proviene da un resoconto di una conversazione tra Brahms e Joachim svoltasi nell’autunno del 1896 (riportata dal violinista tedesco-americano ARTHUR M. ABELL, Talks with Great Composers, Philosophical Library, New York 1955, pp. 9, 13-14, 58). Molti musicologi sono scettici a proposito della trascrizione di Abell sulle fonti religiose dell’ispirazione musicale. Comunque, anche se Brahms, come Bach (eccettuate le sue annotazioni nella sua Bibbia Calov), non parlava quasi mai di religione, la frase che gli viene attribuita da Abell sembra plausibile.