Chiunque sia armonicamente composto trae diletto dall’armonia; per cui diffido grandemente della simmetria di quelle menti che declamano contro qualsiasi musica da chiesa. Quanto a me, non solo per obbedienza, ma per mia speciale inclinazione, io l’accetto con entusiasmo; poiché perfino quella volgare musica da taverna, che rende un uomo allegro e un altro pazzo, suscita in me un profondo impeto di devozione, spingendomi a un’approfondita contemplazione del primo Compositore; vi è in essa qualcosa della Divinità, piú di quanto l’orecchio non percepisca. È un geroglifico e una recondita lezione sul mondo intero e sulle creature di Dio; una tale melodia all’udito, quale l’intero mondo, giustamente compreso, offrirebbe all’intelletto. Essa, insomma, è una fase sensibile di quell’armonia che, attraverso la mente, raggiunge l’orecchio di Dio.
THOMAS BROWNE, Religio medici (1642)a.
La partitura autografa di Bach per la Passione secondo Matteo è un miracolo di calligrafia. È di gran lunga la piú preziosa tra quelle della «enorme pila di musica per la Passione»1, inserita nel 1805 all’interno del secondo inventario dell’eredità di Carl Philipp Emanuel Bach2. La fenomenale eleganza e la scorrevolezza della notazione, tipiche del Bach quarantenne, contrasta con i passaggi vergati nella rigida e contratta grafia dei suoi anni successivi, gravati dai problemi alla vista, e con le correzioni e le strisce incollate di carta meticolosamente inserite. La cura e lo sforzo che gli costò è visibile ovunque. Cosí come una manciata di altri compositori (Rameau, Debussy, Stravinskij), Bach pianifica ogni sezione della pagina, lasciando inutilizzato il minor numero di pentagrammi possibile, tutti indizi della sua risolutezza nel catturare ogni raffinato dettaglio di questa immensa creazione. Caso unico tra i suoi manoscritti, Bach usa un inchiostro rosso, ma generalmente solo per le parole del Vangelo, che quindi si distinguono dal resto come in un messale medievale, e dall’inchiostro seppia marrone scuro che utilizzava normalmente. Nel corso della sua esistenza il manoscritto è stato danneggiato due volte. Una volta, durante i suoi ultimi anni di vita, Bach stesso ne riparò delle sezioni che si erano accidentalmente danneggiate per l’uso. Poi, nei primi anni della Seconda guerra mondiale, minacciosi segnali indicarono che la carta stessa iniziava ad assottigliarsi: l’inchiostro ferrogallico aveva cominciato a ossidarsi, rendendo fragile la carta. Nel 1941, con un ingegnoso e appassionato lavoro, il restauratore berlinese Hugo Ibscher distese una sottile garza di seta sulle pagine danneggiate, fissandola con amido di riso. Funzionò, per un po’ di tempo, ma l’inchiostro rosso stava iniziando a svanire.
La sensazione di una partitura costruita, elaborata, revisionata, riparata cosí meticolosamente, e lasciata in una condizione quasi ideale, è tutt’una con le proporzioni monumentali dell’opera stessa. Eppure, potendo avvalersi solo di questa unica partitura in bella copia risalente alla metà degli anni Trenta del Settecento, e di un insieme di parti per l’esecuzione, intere generazioni di studiosi di Bach non sono ancora riuscite a rintracciare con certezza la nascita, la concezione o le fasi successive dell’evoluzione della Passione. Esistono parti separate per i due ensemble a quattro voci, in cui le linee del tenore e del basso del Coro 1 sono indicate rispettivamente come Evangelista e Jesus, cosí come copie separate per i personaggi minori e il soprano in ripieno previsto in «O Lamm Gottes, unschuldig», l’Agnus Dei in tedesco del coro iniziale. Non sappiamo con esattezza chi prese parte alle esecuzioni tenutesi sotto la direzione dell’autore, né la composizione delle formazioni vocali e orchestrali, né il numero preciso dei musicisti, né quanti di essi furono collocati nella tribuna occidentale della Thomaskirche dedicata al coro (anche se abbiamo un’idea verosimile, vedi fig. che segue). Inoltre, non abbiamo nessun responso da parte dei contemporanei, e nemmeno un elemento di testimonianza su cosa ne pensò il pubblico all’epoca.
Ma allora cosa possiamo dire con sicurezza? Dall’evidenza della partitura autografa, che l’opera è senza pari in quanto ad ampiezza e grandeur, che nella sua composizione Bach si era enormemente impegnato sul piano personale, e che si era preparato con la sua tipica accuratezza alle sfide senza precedenti che avrebbe comportato dal punto di vista compositivo. Ma ciò non è sufficiente a spiegare l’irresistibile esperienza rappresentata dall’esecuzione dell’opera. Abbiamo già indicato che Bach aveva preparato il suo pubblico a questa Passione attraverso anticipazioni inequivocabili delle tematiche teologiche nelle cantate che precedettero il Venerdí santo del 1725 (vedi cap. IX). Esiste, come abbiamo ugualmente visto, una concreta possibilità – ma nemmeno una prova – che la Passione secondo Matteo fosse concepita come parte del suo secondo ciclo annuale di cantate di Lipsia, quello del 1724-25, condividendo con questo un’accentuazione di determinati corali intesi come base o punto focale di ogni cantata. La Passione sarebbe stata concepita per figurare al centro del ciclo, e vi si sarebbe adattata perfettamente, come l’umbone di uno scudo. Eppure potrebbe non essere andata cosí: la sua prima rappresentazione fu procrastinata di altri due anni. Abbiamo visto che i problemi che nel 1725 Bach ebbe nel terminarla in tempo ebbero un effetto a catena sulle cantate post-Resurrezione, perturbando la conclusione del ciclo di cantate corali (diagramma alla fig. 16). Ciononostante, ritengo che possiamo comprendere appieno la Passione secondo Matteo – avvicinarci al suo disegno, al suo fine intreccio di temi musicali e teologici – solo se la consideriamo non come un’opera isolata ma come parte di un ciclo di cantate. Nel corso degli anni Trenta e Quaranta del Settecento, Bach la modificò, non drasticamente come la Passione secondo Giovanni, ma comunque con grande attenzione e serietà. Ancora, basandoci semplicemente sull’aspetto della partitura autografa, percepiamo in maniera forte l’intenzione di lasciare la musica in una condizione che superasse la sua originale funzione liturgica e vi sopravvivesse e abbiamo la sensazione di un’entità estetica sui generis, affidata ai posteri. Questa sensazione è sostenuta dalla potenza che la Passione secondo Matteo ha acquisito fin dalla celebre riproposizione che Felix Mendelssohn operò nel 1829, e che è rimasta intatta nel tempo.
Dopo due esibizioni consecutive in due diverse versioni, nel 1724 e nel 1725, della veloce Passione secondo Giovanni, e le controversie che a quanto pare la circondarono, sembra che Bach si fosse deciso a concepire una musica che desse ai suoi ascoltatori piú tempo per riflettere e per contemplare le diverse scene dei racconti evangelici. Il banco di prova della sua nuova Passione, concepita su una scala ancora piú ampia, sarebbe stato riuscire a mantenere viva l’attenzione degli ascoltatori per oltre due ore e mezza. La lunghezza della Passione secondo Matteo e la complessità della sua elaborazione musicale riescono a intimidire anche chi la ascolta per la seconda o la terza volta, e non va dimenticato che, come fa notare John Butt, «uno degli elementi piú paradossali, riguardo alle Passioni di Bach, è che il pubblico originario era molto meno abituato al genere rispetto a noi; inoltre, come accade per tutta la musica piú celebre di Bach, probabilmente l’abbiamo ascoltata molte piú volte di quanto abbiano mai fatto gli esecutori originali, o perfino Bach stesso». Ciò è particolarmente vero per la Passione secondo Matteo: qualora la si affronti con le aspettative o il ricordo della Passione secondo Giovanni si rischia di sentirsi spiazzati, perplessi, perfino esclusi. In quanto ascoltatori, l’attenzione viene concentrata sulla progressione lineare della storia. Nel momento in cui questa viene interrotta da prolungati momenti di contemplazione, la struttura «a singhiozzo» dei due archi temporali, costituiti dal discorso riferito e dalla reazione contemporanea agli eventi, può causare confusione. Dove ci troviamo? All’interno dell’evento storico o della reazione a esso? E in questa, chi è a reagire? Gesú, i suoi discepoli, la «Figlia di Sion», la comunità cristiana o l’umanità intera? E in quale momento si svolgono i fatti? Nel primo secolo avanti Cristo, nell’arco temporale luterano del corale, nel tempo della congregazione della Lipsia di Bach, tra gli anni Venti e Quaranta del Settecento oppure nel presente, coinvolgendoci cosí direttamente? Nonostante l’irresistibile bellezza dei numeri individuali, l’impressione collettiva può essere quella di un ritmo spezzettato: non appena ci proiettiamo nel racconto del tradimento e del processo di Gesú, il movimento narrativo si arresta.
Un indizio della struttura voluta da Bach si trova nell’efficacia del suo ritmo, che è relativamente piú solenne e misurato di quello della Passione secondo Giovanni, e il successo di ogni interpretazione dipende da come l’esecuzione si collega a quel ritmo, replicandolo senza perdere lo slancio drammatico. I singoli musicisti, profondamente impegnati nelle difficoltà dell’interpretazione dei movimenti uno dopo l’altro – come raggi che si dipartono dal centro della composizione –, possono facilmente perdere di vista la forma complessiva dell’opera. Tuttavia, se il ritmo è corretto l’ascoltatore riesce a cogliere ognuna delle ventiquattro scene (vedi infra, cap. XI) man mano che queste si avvicendano, rivivendo e assaporandone il racconto. Cosí, invece di aspettare con impazienza la fine di un’aria e la ripresa della storia, iniziamo ad apprezzare la voce che ci esorta a immedesimarci con il rimorso, l’oltraggio e lo sfogo di dolore articolato dai vari portavoce nel corso del dramma, e dall’intera comunità che esprime la propria contrizione nei corali. Una volta che come ascoltatori ci siamo adeguati al ritmo strutturale e alla lunghezza, la Passione secondo Matteo può essere in qualche modo un percorso piú facile rispetto alla Passione secondo Giovanni. Lí, come abbiamo visto, tutto è drammatico e mozzafiato, ma anche inesorabilmente giovanneo nella sua teologia: ci sentiamo afferrati per la collottola (proprio come nella lettura del Vangelo di Giovanni) e portati ad affrontare tematiche importanti: l’essenza della regalità, dell’identità, e quel che succede quando la verità si oppone alla menzogna.
Qui, nella Passione secondo Matteo, Bach adotta una tattica meno polemica, dettata in parte dall’approccio di Matteo, e sceglie di lasciare molto piú spazio all’ascoltatore per assimilare il dramma, di concedergli tempo per riflettere e metabolizzarlo. Mentre nella Passione secondo Giovanni le arie sono distribuite in maniera irregolare – due brevi in rapida successione verso l’inizio, una terza come sconvolgente conclusione della parte I, il vertice di «Erwäge» nel punto centrale (dove il tempo si ferma o sembra fermarsi prima che il dramma riprenda rapidamente) e altre quattro ravvicinate verso la fine –, qui Bach crea invece una sensazione generale di maggiore regolarità e stabilità. Fin dall’inizio concorda con Picander (se addirittura non glielo chiede), che per la maggior parte le arie dovrebbero essere precedute da un arioso, per formare una fase intermedia, come a voler preparare l’ascoltatore allo spazio contemplativo che sarà occupato dall’aria. Vi è cosí il tempo sufficiente per assaporare la prodigiosa bellezza di ognuna di esse, la sottile sfumatura degli accompagnamenti obbligati, e la vasta gamma di reazioni emotive e meditative che racchiudono. Ogni decremento delle vivide scene dell’inesorabile spinta drammatica che apprezziamo nella Passione secondo Giovanni è compensata, nella Passione secondo Matteo, dall’abilità con cui Bach personifica queste diverse «voci» – quelle allegoriche che cantano le arie e quelle coinvolte nel dramma stesso (spesso impegnate in dialogo) – e dall’efficacia con cui tiene tutti questi salti temporali consecutivi, quasi simultanei, in tensione. L’unità di questo ritmo è uno dei piú grandi risultati della Passione secondo Matteo: Bach sa esattamente quando e come modificare la forma da capo, quando sopprimere e scavalcare le pause naturali del testo assicurandosi che non siano presenti false interruzioni, inutili rotture cadenzali, cosí da mantenere lo slancio in avanti. A differenza di Telemann, che asseconda tale forma e non si preoccupa particolarmente di costruire il climax, Bach reinventa ripetutamente il da capo quasi come Mozart e Beethoven avrebbero rielaborato la sonata in modi infinitamente creativi.
La cosa straordinaria nella Passione secondo Matteo è l’abilità di Bach nel prevedere allo stesso tempo tutte le potenzialità del materiale e tenere insieme cosí tanti fili; la sua capacità di combinare giudizi di carattere pratico con considerazioni relative a struttura, esegesi teologica e ritmo narrativo, fino addirittura alla scelta del tono di voce piú adatto per rivolgersi alla sua specifica assemblea di fedeli in questa ricorrenza cardine del calendario ecclesiastico. Con la liturgia ridotta a poche preghiere, gli inni collocati in apertura e chiusura degli eventi e il sermone, malgrado la sua considerevole lunghezza, previsto al centro, essa rappresentò il banco di prova definitivo per giustificare la grande idea di Lutero sulla musica: quella secondo cui le note «rendono vivo il testo»3. Fu la sua occasione per mostrare, usando le parole del poeta Hunold (suo collega a Cöthen), che «la musica bella può seminare una migliore impressione nel cuore di ognuno»4.
Inevitabilmente, ciò ci riporta alla questione di quanto fosse efficace Bach nel mantenere viva l’attenzione dei suoi ascoltatori: naturalmente ognuno di loro era in grado di sentire, ma si premurava anche di ascoltare? Quanto riuscivano ad assorbire, in che misura erano favorevoli al suo approccio, e quante differenze ci furono nel modo in cui i contemporanei avevano reagito all’altra Passione in altre zone della Germania o nel Meridione cattolico? Naturalmente, non abbiamo modo di saperlo con esattezza. Abbiamo già visto che gli abitanti di Lipsia erano attaccati ai vecchi rituali del Venerdí santo, le meditazioni in canto piano e i lunghi inni strofici, e opponevano resistenza alla moda delle Passioni-oratorio concertanti fino all’ultimo periodo del cantorato di Kuhnau. Nel giro di un anno dall’arrivo di Bach, i Vespri del Venerdí santo si erano improvvisamente trasformati nell’apice del calendario musicale. La Passione secondo Matteo di Bach era, in sostanza, un lungo concert spirituelb.
Nel capitolo precedente abbiamo confrontato la situazione di Lipsia con la fenomenale popolarità del libretto della Passione di Brockes in tutto il resto della Germania, e in particolare nelle corti ducali e nei porti mercantili piú cosmopoliti come Amburgo. Abbiamo visto che, nella sua evocazione cruda e realistica del dolore di Gesú, Brockes non si risparmiò nessun espediente letterario e nessuna immagine poetica esplicita, né evitò artifici retorici, se questi servivano a provocare una reazione piú intensa da parte degli ascoltatori. Eppure, anche se Bach scelse di parafrasare e incorporare alcuni dei versi di Brockes nella sua Passione secondo Giovanni, il suo approccio fu radicalmente diverso da quello, per esempio, di Telemann o Stölzel, non per l’utilizzo di una minore retorica, ma per una maggiore concentrazione di sostanza musicale, come dimostra la Passione secondo Matteo. Ma i suoi ascoltatori nelle due chiese principali di Lipsia erano forse di un’altra pasta rispetto a quelli che gremivano la famosa Drill Hall di Amburgo, ansiosi di assaggiare i modi diversi con cui quattro compositori rivali avevano musicato il libretto di Brockes. Sprovviste dell’aspetto di funzione liturgica, queste serate consecutive di intrattenimento «spirituale» avevano il carattere dell’evento di massa. Ma in ogni caso, chi erano gli Stadtbürger di Amburgo? È attestato che erano colti, letterati e esigenti, «consapevoli della tradizione protestante [eppure] ormai insoddisfatti dalla sua tradizionale forma ecclesiastica … non accettavano piú ciecamente le verità religiose [ma] avevano bisogno di riacquisirle attraverso un’esperienza emozionale»5. Data la sofisticatezza di questi amburghesi, Brockes si sentí di giocare su un fenomeno che presto avrebbe caratterizzato molta dell’Europa dell’Illuminismo: soffiare sulla fiamma vacillante della fede enfatizzando platealmente gli aspetti fisici della sofferenza di Gesú, descritti con dettagli raccapriccianti. Il tipico Stadtbürger di Lipsia ai tempi di Bach era, invece, piú conservatore e autenticamente pio, e non aveva certo bisogno di dosi cosí massicce di stimolanti psichedelici. Lo si trovava puntualmente nella panca a lui assegnata, membro di una società urbana consapevole di se stessa, stratificata e provinciale. Indubbiamente conosceva bene tutte le parole della Bibbia e i riferimenti alle Scritture, e la maggior parte, se non addirittura tutti, dei corali inclusi nella musica figurata di Bach. Tra le mani teneva i Testi per la Musica della Passione secondo l’Evangelista Matteo per i Vespri del Venerdí santo nella Thomaskirche, opera del poeta Christian Friedrich Henrici, alias Picander, il collaboratore letterario di cui Bach si avvalse con maggior regolaritàc.
La questione, dunque, è se il nostro Stadtbürger aveva intenzione di accettare e abbracciare la Passione di Bach nelle sue varie elaborazioni, ed era capace della concentrazione prolungata richiesta per affrontarne le complessità. Nella propria autobiografia, il pastore Adam Bernd scrisse: «Si è detto che la devozione di una persona viene ostacolata dal desiderio di trovarsi altrove, perché non conosce l’inno e non può unirsi al coro … Mentre tornava a casa, un cittadino una volta mi chiese se questa non fosse una lamentela nei confronti degli inni di oggi?»6. Possiamo prendere per buona questa affermazione o dobbiamo chiederci se aveva origine da un senso di parziale esclusione? Di certo, per un ascoltatore che si limitava a rimanere seduto passivamente su una dura panca di legno all’interno di una chiesa non riscaldata alla fine di marzo, opere lunghe e difficili come i due grandi adattamenti della Passione di Bach erano una prova di resistenza. Conoscere tutte le otto melodie intrecciate da Bach nel corale poteva essere rassicurante, ma in ogni caso non possiamo aspettarci che un membro della congregazione si unisse al canto come ai vecchi tempi (e in tal caso, le tonalità sconosciute, l’unione a volte inusuale di versi e melodia e la complessità delle armonizzazioni utilizzate da Bach l’avrebbe comunque lasciato un po’ confuso).
Senza concedere nulla alle trovate teatrali, Bach regala al suo pubblico un magnifico spettacolo di ricostruzione drammatica. Sviluppando le tecniche utilizzate nella Passione secondo Giovanni e nelle cantate sacre piú drammatiche, Bach affronta il suo compito col talento di un drammaturgo nato. Gli antichi greci assistevano ai riti teatrali seduti su gradoni di pietra, i sassoni del XVIII secolo invece rimanevano seduti per quasi tre ore sulle loro panche di legno mentre Bach scagliava contro di loro i suoi missili musicali. Come i greci piú istruiti, che conoscevano profondamente la tragedia di Edipo, la sua violenza, l’oltraggio morale e il livello di afflizione e di degradazione dell’eroed, riuscivano ugualmente a rimanere avvinti dal lento e controllato svolgimento del racconto di Sofocle come se lo stessero vivendo per la prima volta, cosí gli ascoltatori di Bach a Lipsia, che conoscevano ogni passo del percorso verso il Calvario, riuscivano ancora a esserne intensamente commossi. La città, l’Atene del V secolo a. C. o la Lipsia negli anni Venti del Settecento, ha le sue fondamenta nel riconoscimento rituale della colpa, ripetuto e stabilizzato tramite la sua rinarrazione e sublimazione in arte. Cosí come oggi compriamo biglietti per il Re Lear e usciamo dall’esperienza abbattuti, pacificati e ridimensionati, cosí gli abitanti di Lipsia (il loro Teatro dell’opera era chiuso da sei anni) il Venerdí santo sciamavano verso la Thomaskirche, nella speranza che l’eccitazione e lo straziante svolgersi del dramma umano riuscissero ancora ad avvincerli, pur sapendo che ne sarebbero rimasti turbati (e forse delusi, qualora si fossero accorti del contrario).
La domanda era: la musica di Passione di Bach sarebbe riuscita a rianimare le convenzioni del racconto della Pasqua, e per estensione del mito tragico, e «riportare in vita quel mondo della immaginazione e ridare un valore ai simboli» fondamentali per il corretto funzionamento del dramma musicale?7. Suonando dalla tribuna dell’organo all’estremità occidentale della chiesa, Bach e i suoi musicisti erano solo parzialmente visibili dalla congregazione, i cantanti al centro divisi antifonalmente per coro, i fiati in una galleria rialzata a nord, gli archi in una omologa a sud, impegnati a reagire e ascoltarsi a vicenda, in uno scambio dialettico. Il Thomaner non era una troupe di attori, né un gruppo di artisti circensi, e tantomeno indossavano maschere o costumi. Eppure né l’assenza di un palco né la particolare configurazione architettonica dello spazio destinato all’esecuzione riuscivano a nascondere il fatto che quella di Bach era una musica sostanzialmente drammatica: una musica destinata ad attirare, e talvolta perfino ad aggredire, i sensi dei suoi ascoltatori.
Fin dall’inizio, Bach era stato diffidato dallo scrivere musica operisticae, eppure il suo intento era irreprensibile: ricostruire il racconto della Passione nella mente dei suoi ascoltatori, affermarne la rilevanza per gli uomini e le donne della sua epoca, rivolgendosi direttamente alle loro preoccupazioni e alle loro paure, e guidarli verso il sollievo e l’ispirazione che si trovano nella narrazione della Passione. Da buon luterano, sapeva che non era con atti di contrizione, né con «opere di bene», né per mezzo della Messa (che Lutero definí la «coda del dragone»: una sfida che sarebbe stata riservata a un’altra occasione) che il credente può affrontare o celebrare il sacrificio di Cristo al posto suo sul Calvario, ma rivivendo invece gli eventi dolorosi di quel sacrificio in ogni suo anniversario, e per far sí che i suoi ascoltatori raggiungessero questo risultato, la sua musica era insuperabilef. Era un sentimento colto dal coro nel modo in cui Bach adatta le parole Drum muß uns sein verdienstlich Leiden | Recht bitter und doch süße sein («Dunque per noi queste preziosissime passioni | devono essere amare e non già dolci», n. 20). Questo perché la Passione secondo Matteo di Bach va oltre il dogma e molto al di là della dottrina settaria, stagliandosi al di sopra della liturgia che aveva inizialmente legittimato la sua esistenza.
Come accade nella Passione secondo Giovanni, l’importanza primaria viene data alla parola biblica. Bach controbilanciò la linea narrativa principale, la versione di Matteo del racconto della Passione, con reazioni immediate e riflessioni piú misurate, espresse dagli spettatori turbati, cosí da riportarla nel presente. Come ogni bravo narratore, Bach sapeva esattamente come giocare con le aspettative dei suoi ascoltatori: come tenerli in suspense, raccontare e poi ripetere il racconto da diversi punti di vista. Cosí come i romanzieri, da Flaubert ad Arundhati Roy, Bach produce una successione di caratteri per aiutare il lettore/ascoltatore a rivivere il dramma da prospettive mutevoli. Nella precedente Passione era la testimonianza diretta di Giovanni a dare all’opera autenticità e acume, e la collocazione irregolare di arie e corali rafforzava questa suspense. La versione di Matteo richiede un cast piú ampio, e un pathos piú profondo che scaturisce dalla raffigurazione di Gesú come «un uomo dei dolori». Sarebbe difficile migliorarlo in quanto dramma essenzialmente umano – che implica una grande quantità di lotta e avversità, tradimento e perdono, amore e sacrificio, compassione e pietà –, materia grezza con cui la maggior parte delle persone riesce a identificarsi all’istante. A volte la musica di Bach suggerisce un rapporto quasi fisico con le ossa e il sangue della storia, che dà vita sia alla narrazione di Matteo sia all’inorridita reazione dei suoi commentatori immaginari, cosí che «noi tremiamo, raggeliamo, versiamo lacrime, il nostro cuore batte all’impazzata, riusciamo appena a respirare»g.
Per eguagliare la potente idea della maestosità di Cristo nella Passione secondo Giovanni, cosa avrebbe mai potuto inventare Bach per il suo movimento iniziale? La sua visione questa volta era diversa: un’allegoria del fedele che scala il Monte Sion per raggiungere la città sacra di Gerusalemme. Come molte delle cantate del Secondo ciclo di Lipsia, Bach lo costruisce come fantasia corale, ma con un pedale lancinante, nello stile del tombeau francese8. Si potrebbe considerarlo un exordium, un metaforico «movimento verso l’alto», che anticipa il modo in cui Cristo verrà presto issato sulla Croce, un appello all’ascoltatore devoto ad «aprirsi» e, come in Omero, un’invocazione alle muse della poesia. Si percepisce la ricca esperienza di Bach nella composizione di cantate concentrata in due o tre anni di lavoro frenetico, ma anche la sua aspirazione a superare tutto ciò che aveva composto in precedenza. Questo potente ed evocativo lamento, reminiscente della BWV 198, la Trauer-Ode (vedi supra, cap. VII), nella magniloquenza dei suoi gesti musicali finisce per costituire il microcosmo della nuova Passione, racchiudendone sia la particolare inclinazione teologica che la struttura assegnata da Bach a ognuno dei movimenti successivi. Non sappiamo se fu sua oppure di Picander l’idea di collegare la tradizionale interpretazione di Cristo come lo sposo dell’allegoria (Cantico dei Cantici) a quella della sua identità di agnello sacrificale: «Era come agnello condotto al macello, e non aprí la sua bocca» (Isaia 53,7). Ciò che realmente sappiamo è che il punto di partenza di Bach – e deve averlo discusso e concordato con Picander fin dall’inizio –, è il concetto di dialogo, un espediente che aveva già messo in atto con successo in due movimenti della Passione secondo Giovanni (tra il basso solista e il resto dei cantanti (vedi supra, cap. X), e ora sviluppato al punto da condurre logicamente a una divisione in due cori, ognuno sostenuto da un ensemble strumentale.
Ancora una volta, l’evidente modello letterario fu il libretto per la Passione realizzato da Brockes nel 1711, che richiede uno scambio tra «i Credenti» e «la Figlia di Sion»; eppure è interessante che nessuno dei compositori che avevano adattato il testo di Brockes (Keiser, Händel, Telemann, Mattheson e Stölzel) avesse colto l’opportunità di comporre per cori in antifona. È affascinante il fatto che Picander, sebbene evidentemente influenzato da Brockes, inverte i pronomi: al posto dei «Credenti» di Brockes colloca «l’Anima [individuale]», a cui assegna un’«aria», in uno scambio con le «Figlie di Sion». Evidentemente Bach sentí la necessità di trasformare il suo prologo in un lamento collettivo: per piú gruppi, in altre parole. Qualunque sia stata la sua forma primitiva o ulteriore, Bach volle che il primo coro parlasse per l’intera comunità dei credenti, che esprimesse un’autoaccusa da parte dell’intera umanità – e anche per la singola anima e sposa del Cantico dei Cantici, la quale deve rinunciare al suo sposo il giorno delle nozze. Nel frattempo, sembra che anche le «Figlie di Sion», impersonate dal secondo coro, rappresentino nel trattamento musicale quella «grande moltitudine di popolo e di donne, che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui», e che seguirono Gesú fino al Golgota (Luca 23,27). Implicite, ma non musicate da Bach, sono le parole di Gesú: «Non piangete per me, ma per voi stessi e i vostri figli»h.
Visto in questo modo, il coro iniziale di Bach ci viene presentato come un’immensa scena, l’equivalente sonoro di una grande pala d’altare, per esempio, di Veronese o Tintoretto, in cui, come già Albert Schweitzer, vediamo Gesú che viene condotto prigioniero attraverso la città e lungo la Via crucis, con le voci della folla a rincorrersi in una tragica antifona9. La musica sembra del tutto compiuta, una struttura architettonica dotata di un preludio corale sovrapposto a un coro autonomo a quattro voci (Coro 1), e ci riempie di meraviglia la facilità con cui Bach crea spazio per una serie di scambi in antifona tra il primo e secondo coro e le orchestre. Ma c’è molto altro in serbo: nel momento in cui il primo coro si riferisce a Gesú come allo «sposo» e poi come all’«agnello», Bach introduce un terzo coro con il corale «O Agnello di Dio immacolato» con un improvviso ampliamento dello spettro sonoro: Sol maggiore in un contesto di Mi minorei. Cantato all’unisono da un gruppo di voci bianche (soprano in ripieno) collocate sul «nido di rondine», la tribuna dell’organo della Thomaskirche al tempo (ma, ahinoi, ormai non piú) situata a un’intera navata di distanza a est dello spazio principale dedicato agli altri interpreti, l’effetto doveva essere stupefacente: un utilizzo magico dello spazio e dell’acustica, simile a quello delle celebri antifone policorali veneziane concepite nel tardo Cinquecento da Andrea e Giovanni Gabrieli per esplorare la misteriosa configurazione spaziale della Basilica di San Marco. Eppure l’intento di Bach non si limita a una propagazione della sonorità nello spazio. Scegliendo di sovrapporre a questa scena corale l’immortale Agnus Dei della liturgia nella sua versione tedesca, che era già stata ascoltata in conclusione della funzione mattutina, poteva contrapporre la Gerusalemme terrena, il luogo dell’imminente processo e Passione di Cristo, a quella celeste, sulla quale, secondo l’Apocalisse, regna l’Agnello. La ripetuta ammissione di colpa (l’auf unsre Schuld del Coro 1) riceve una risposta da parte dei bambini, che viaggia lungo l’altro lato delle volte gotiche: All Sünd hast Du ertragen («Hai sopportato tutti i nostri peccati … Abbi pietà di noi, o Gesú!»). Quella tra l’Agnello di Dio senza peccato e il mondo dell’umanità imperfetta, dei cui peccati Gesú deve farsi carico, è la dicotomia fondamentale che si trova alla base dell’intera Passione, il destino del primo legato a quello del secondo. Qui Bach aggiunge una forma tonale simbolica: Mi minore per la fantasia corale principale, Sol maggiore per l’Agnus Dei, tonalità distinte, coesistenti, che si urtano, eppure mai risolte. Ha dichiarato il suo intento. Adesso la narrazione biblica può avere inizio.
Dal primo momento ci vengono offerte nuove brusche giustapposizioni di texture e sonorità: la grande arcata del recitativo secco per il narratore, un’«aureola» di archi a quattro voci che circonda ognuna delle affermazioni di Gesú, interventi antifonali della folla ricchi di tensione (a volte divisi, come nel 4b, tra Sommo Sacerdote e Scribi), una riduzione a coro singolo per i discepoli (4d) e una nuova unione per la preghiera collettiva. Presto riusciamo a distinguere l’emergere di una serie di schemi in tre parti: narrazione biblica (in recitativo), commento (in arioso) e preghiera (in aria). Gradualmente questi iniziano ad assumere le sembianze di una sequenza ordinata di scene separate, come prese in prestito dall’opera del tempo: ognuna a preparare una risposta individuale (aria) o collettiva (corale) alla narrazione precedente. La suddivisione della narrazione evangelica in «atti» aveva numerosi precedenti. Johann Jacob Bendeler, per esempio, propose una ripartizione in sei parti del racconto di Matteo, secondo altrettante «azioni» principali10: la preparazione alla Passione, il Giardino (Actus hortus), il processo davanti al Sinedrio (Actus pontifices), il processo romano (Actus Pilatus), la crocifissione (Actus crux) e la Sepoltura (Actus sepulchrum). Sebbene il manoscritto di Bach non indichi suddivisioni cosí nette, questo potrebbe essere un metodo utile per seguire il profilo strutturale della Passione, come per una tragédie lyrique del compositore francese contemporaneo di Bach, Rameau, che comprende un prologo e cinque atti, ognuno suddiviso in scenej:
Parte I | ||
EXORDIUM | ||
«Kommt ihr Töchter» | n. 1 | |
PROLOGO – Preparazione alla Passione (Matteo 26,1-29) | ||
Sc. I | Gesú predice la sua crocifissione | nn. 2-3 |
Sc. II | Congiura per uccidere Gesú | nn. 4a-4b |
Sc. III | Unzione di Betania | |
Sc. IV | Tradimento di Giuda | nn. 7-8 |
Sc. V | Preparazione alla Pasqua | nn. 9a-10 |
Sc. VI | L’Ultima Cena | nn. 11-13 |
ATTO I – ACTUS HORTUS – «Atto del Giardino» (Matteo 26,30-56) | ||
Sc. I | Monte degli Ulivi I | nn. 14-15 |
Sc. II | Monte degli Ulivi II | nn. 16-17 |
Sc. III | Getsemani: Gesú avverte i discepoli | nn. 18-20 |
Sc. IV | Agonia nel Giardino I: Primo appello di Gesú a Dio |
nn. 21-23 |
Sc. V | Agonia nel Giardino II: Secondo appello di Gesú a Dio |
nn. 24-25 |
Sc. VI | Tradimento e arresto di Gesú | nn. 26-27a |
Sc. VII | Dispersione del gregge | nn. 28-29 |
SERMONE | ||
Parte II | ||
EXORDIUM | ||
Aria: «Ach nun ist mein Jesus hin» | n. 30 | |
ATTO II – ACTUS PONTIFICES – «Atto del Sommo Sacerdote» (Matteo 26,57-75) | ||
Sc. I | Gesú al cospetto di Caifa | nn. 31-32 |
Sc. II | Deposizione delle false testimonianze | nn. 33-35 |
Sc. III | Falsa accusa e derisione | nn. 36a-37 |
Sc. IV | Rinnegamento di Pietro | nn. 38a–40 |
ATTO III – ACTUS PILATUS – «Atto di Pilato» (Matteo 27,1-29) | ||
Sc. I | Rimorso di Giuda | nn. 41a-42 |
Sc. II | Gesú al cospetto di Pilato | nn. 43-44 |
Sc. III | Pilato affronta la folla | nn. 45a-446 |
Sc. IV | Dilemma di Pilato | nn. 47-49 |
Sc. V | Pilato soccombe alle richieste della folla | nn. 50a-52 |
Sc. VI | La corona di spine | nn. 53a-54 |
ATTO IV – ACTUS CRUX – «Atto della Croce» (Matteo 27,30-50) | ||
Sc. I | Via Dolorosa | nn. 55-57 |
Sc. II | Golgota | nn. 58a-60 |
Sc. III | Morte di Gesú | nn. 61a-62 |
ATTO V – ACTUS SEPULCHRUM – «Atto del Sepolcro» (Matteo 27,51-60) | ||
Sc. I | Terremoto e rivelazione | nn. 63a-65 |
Sc. II | Gesú nella tomba | nn. 66a-66c |
CONCLUSIO | ||
Recit.: «Nun ist der Herr zur Ruh gebracht» | n. 67 | |
Coro: «Wir setzen uns mit Tränen nieder» | n. 68 |
Come nell’opera barocca, ogni «atto» comporta una variazione della scena o un cambiamento di luogo, e un rimescolamento degli attori principali. Le singole «scene» in cui Bach sembra dividere i cinque «atti» della narrazione di Matteo hanno una lunghezza variabile. Per esempio, l’elemento puramente narrativo nella quarta scena dell’Actus Pilatus, il punto di svolta della parte II, momento in cui il destino di Gesú è sospeso, è lungo appena due battute (n. 47). Ma per Bach ogni «scena» richiedeva evidentemente una pausa e un commento, come se, nei panni di un osservatore coinvolto, dovesse temporaneamente distogliere lo sguardo dall’azione: tempo sufficiente perché egli, e noi, possiamo ponderarne le implicazioni. Furono questi i momenti critici in cui chiese aiuto a Picander: dare al lungo racconto della Passione una patina di riflessione poetica con cui il fedele potesse immedesimarsi facilmente, e poi riempire queste riflessioni con musica contemplativa, oppure concludere le scene con un corale nei momenti (quattordici in tutto) in cui Bach considerava appropriata una riflessione collettiva della congregazione. In questo modo i suoi ascoltatori potevano accettare oppure reagire ai sentimenti espressi dal cantante nel numero precedente riconsiderando inni che conoscevano bene.
I tipi e gli stati d’animo dei commenti contemplativi inseriti da Picander e musicati da Bach variano enormemente, sia nel percorrere la via della Croce, sia allo stesso tempo, nell’articolare le tre fasi della Meditazione sulla Passione di Cristo di Lutero: la prima, il riconoscimento e l’ammissione del peccato; la seconda, la crescita della fede tramite l’amore e la liberazione dei propri peccati in Cristo; e, terza, il considerare la Passione di Gesú come modello dell’amore cristiano11. Di conseguenza, la coppia arioso/aria nella parte I, «Du lieber Heiland, du» (n. 5), seguita da «Buß und Reu» (n. 6), pone l’enfasi sulla colpa non in un modo astratto ed esterno all’azione, ma come reazione al litigio tra i discepoli riguardo lo «spreco» del prezioso unguento. Anche in questa fase iniziale Bach riesce a portare azione e reazione nel presente, rafforzando il senso di colpa (Buß) e rimorso (Reu) con il profilo della linea melodica dell’aria: brevi frasi epigrammatiche dotate di accentuazioni variabili, che hanno poco in comune con i ritornelli dei flauti, e dànno piuttosto l’impressione di una reazione spontanea. Bach trova un primo mezzo per rendere l’idea dello scricchiolare (knirscht) del corpo e dello spirito che diventerà una caratteristica importantissima della sua Passione secondo Matteo.
La seconda aria, «Blute nur» (n. 8), indica un collegamento diretto tra l’innocenza e la sofferenza di Gesú e il modo in cui l’uomo è stato determinante nel suo tradimento. Prende il tema dell’Agnello sacrificale del coro iniziale, quello legato allo spargimento di sangue innocente, e vi aggiunge l’immagine del serpente allattato da una donna. La figura di Giuda, capo della sua comunità e amico prediletto di Gesú determinato a tradirlo, è implicita, ma allo stesso modo, per associazione, lo siamo noi tutti. La terza interpolazione, in completo contrasto, va dalle lacrime versate al pensiero dell’imminente dipartita di Gesú (l’arioso «Wiewohl», n. 12) alla gratitudine per l’istituzione dell’Eucaristia (l’aria «Ich will dir», n. 13). Come è giusto, è l’unica musica autenticamente gioiosa della Passione; inoltre, è apertamente erotica nel suo immaginario: l’idea di fondere o «immergermi in te».
La quarta coppia, «O Schmerz» (n. 19) e «Ich will bei meinem Jesu wachen» (n. 20), giunge nel momento centrale della parte I e, di nuovo, è strutturata come dialogo. Rispondendo all’ordine di guardare e pregare, impartito da Gesú al Getsemani, il tenore impersona il guardiano notturno che osserva l’anima tormentata di Gesú ed è determinato a rimanere all’erta (proprio come le generazioni precedenti a quella di Bach avevano fatto nel lavoro di Türmer, vedi supra, cap. III). Eppure, come il dolce coro di risposta esprime chiaramente, egli è indifeso e non può alleviare il fardello dei peccati che, come ribadiva Lutero, l’umanità aveva posto sulle spalle di Gesú attraverso la fede nella sua resurrezione. Ciò gli conferisce una qualità misteriosa, quasi come se lontano dall’azione principale si stesse svolgendo un dramma silenzioso: l’«Agonia nel Giardino» di Cristo e l’accettazione del suo ruolo di Redentore. La quinta coppia (nn. 22 e 23), una reazione all’appello che Gesú agonizzante rivolge a suo padre perché gli risparmiasse l’amaro calice, dà voce al fervore del credente nel partecipare alla sofferenza di Cristo e accettare il precetto di Lutero a seguire la via della Croce. Amarezza e dolcezza, del gusto e dell’esperienza, vengono giustapposti; ma accettando di bere dall’«amaro calice della morte», Gesú rende dolce il suo contenuto e lo offre all’umanità intera. La linea melodica dell’aria si muove incerta in un’inebriata imitazione del calice versato: qui una settima ascendente che ricorda uno yodel, lí una serie di accenti ubriachi su una sola parola (gerne, «piacevolmente»), e il tempo che oscilla costantemente sopra le linee di battuta, fanno sí che l’aria rimanga appena nei limiti della grazia barocca. Ma cosí riesce a distogliere l’attenzione dalla banale rima baciata di Picander, a patto che però il cantante sappia muoversi con scorrevolezza tra le astute emiole di Bach, ignorando la suddivisione in versi del poeta: Gerne will ich mich bequemen, | Kreuz und Becher anzunehmen … («Con piacere io, in spregio della paura, | Bevo dal calice senza un lamento»). La sezione B dell’aria raddrizza tutte le ebbre irregolarità viste finora (a eccezione di des Leidens herbe Schmach, «l’amaro sapore della pena»), ma getta al cantante una nuova sfida, che consiste nel modulare la melodia senza sacrificare la forma e la linea globale, da ritmo ternario (vedi l’immagine qui sotto).
La parte I culmina con il terzo dialogo, «So ist mein Jesus nun gefangen» (n. 27a), strategicamente collocato. Qui il violoncello e il basso, le fondamenta della musica, tacciono, lasciando agli altri archi il ruolo di bassetchen, per raffigurare i passi incerti e vacillanti di Gesú, spintonato e pungolato dal plotone armato lungo tutto il percorso dal Getsemani al tribunale, dove a breve affronterà il processo davanti al Sinedrio. Il soprano e il contralto del Coro 1 si uniscono in un desolato lamento per il prigioniero (e cosí facendo indulgono a quel «modo errato di meditare sulla Passione» contro cui si pronunciava Lutero), mentre una strana congiunzione di flauti e di oboi in coppie miste porta in scena un volteggiare ossessivo, come di libellule nell’aria. La texture aperta della musica consente di distinguere sulla media distanza i discepoli (Coro 2) che si spostano di albero in albero nell’uliveto avvolto dall’oscurità, oltraggiati ma impotenti, senza il coraggio di intervenire, ma audaci abbastanza da esprimere, di tanto in tanto, borbottii di protesta, perché cessino le angherie verso Gesú.
Questa scena cupa e affascinante è in conflitto con il dogma barocco che consente la raffigurazione di un solo Affekt in ogni dato momento. Piuttosto che creare una collisione, Bach fa in modo che i due ensemble, diversi per composizione, agiscano simultaneamente su piani differenti, cosí che i rispettivi Affekte si compensino in una sofisticata tensione dinamica, come due pianeti che orbitano su diverse traiettorie intorno allo stesso sole. Questo contrasto viene risolto nel momento in cui entrambi gli ensemble, ora uguali e al completo, convergono e si uniscono nel dare voce allo sdegno dell’intera comunità cristiana davanti alla cattura di Gesú: «Sind Blitze, sind Donner» (n. 27b). Con i suoi scambi rapidi, che invocano le forze della natura perché esplodano e distruggano Giuda e la gente del Sommo Sacerdote, questa scrittura per doppio coro è dotata di un entusiasmo e di una potenza da far rizzare i capelli. Benché si possa dire che derivi dalla tradizione veneziana dei cori spezzati, nessun compositore tedesco aveva concepito niente di simile dopo Hans Leo Hassler e Schütz, nel secolo precedente. Il vigore e l’ampiezza della scrittura di Bach per doppio coro, perfino nei brevi cori di turba che raffigurano la violenta minaccia della folla (n. 4b), l’orrenda realtà di tale violenza (n. 45b e 50b) e la crudele derisione della sua vittima principale (n. 58b), sono straordinari.
Nel suo libretto stampato, in cui non appare nessuna delle parole di Matteo (che si presumeva fossero ben conosciute), e nessun corale, tranne quelli integrati nei suoi versi, dopo aver introdotto il dialogo precedente con le parole «dopo la cattura di Gesú» Picander si ferma qui. Un musicologo ha scritto: «quale enorme effetto avrebbe raggiunto questo coro selvaggio, se fosse giunto alla fine della prima parte»12, ed è sicuramente vero; chiudere il Don Giovanni al termine della scena del banchetto avrebbe avuto (e può avere) un effetto simile. Ma questo non è il «sipario» di un’opera messa realmente in scena, e dubito che Bach abbia avuto seriamente la tentazione di chiudere in tal modo la parte I. Nelle cantate sacre composte a Lipsia, e di certo nella Passione secondo Giovanni, era sua abitudine quella di terminare con una preghiera, un corale per concentrare i pensieri su ciò che era accaduto fino a quel momento, ed è proprio questo che accade qui. Inoltre, in questo punto si trovava un discorso di Gesú in risposta all’intervento fisico dei suoi discepoli (l’incidente di Pietro e l’orecchio di Malco), dopo il quale Matteo colloca il verso conclusivo «Allora tutti i discepoli, abbandonatolo, fuggirono». Se anche Bach avesse avuto un momento di incertezza nell’adattare questo verso alla conclusione della parte I, sarebbe stato il predicatore a riportarlo subito all’ordine, poiché la dispersione del gregge faceva spesso parte del contenuto del sermonek. Quello che Bach concepí originariamente come ponte verso il sermone era una semplice armonizzazione del corale «Jesum laß ich nicht von mir». Quando volle revisionare e ricopiare la partitura a metà degli anni Trenta, dovette accorgersi che ciò non riusciva affatto a bilanciare la massa strutturale del coro iniziale dopo l’accentuato movimento a doppio coro «Sind Blitze, sind Donner». In quel momento prese la decisione di sostituirlo con una fantasia corale ben piú elaborata, adattamento di «O Mensch, bewein dein Sünde groß» (n. 29), l’inno per il Tempo di Passione di Sebald Heyden. In questo modo venne eretto un pilastro equivalente al grande prologo corale; come conclusione della parte I, offriva un’occasione ideale per la meditazione da parte della comunità cristiana unita in contrizione, e sottolineava il significato luterano del racconto della Passione, fungendo da risposta diretta alle ultime parole di Gesú relative al «compimento» delle Scritture. Dall’esterno, sembra adattarsi alla perfezione, e ciò viene confermato da piccoli dettagli come le semicrome svolazzanti dei flauti che raffigurano il disperdersi del gregge. Proprio nel momento in cui il predicatore sale gli scalini del pulpito, il «gregge» scompare e la musica svanisce nell’aria. Con il suo tocco, Bach assicura una giuntura perfetta con il sermone del Venerdí santo.
Per anni tutti gli studiosi hanno ipotizzato che questo coro fosse parte integrante della Passione secondo Matteo, mentre di fatto vi fu inserito ad arte dopo nove anni dalla prima esecuzione, e risaliva quantomeno a dieci anni prima. Non c’è nulla di strano in sé nel desiderio di Bach di trovare una nuova collocazione per una delle sue fantasie corali piú grandiose e straordinarie, che aveva un’ottima giustificazione per il suo nuovo utilizzo. Nessuno di noi rimane turbato, per esempio, dal fatto che la Messa in Si minore collochi fianco a fianco movimenti le cui origini differiscono di trent’anni o piú (come vedremo nel cap. XIII). Eppure, nonostante i dettagli che suggeriscono la sua adeguatezza nel contesto della Passione secondo Matteo, dove la varietà di forme musicali presenta una coerenza stilistica fenomenale, questa fantasia corale si fa notare. Ogni volta che dirigo questa Passione, arrivato a questo punto percepisco una variazione strutturale, un temporaneo cambio di passo: dura solo pochi secondi e poi tutto torna ad andar benel.
Quando la musica riprende dopo il sermone, è necessario qualche secondo per capire a che punto del racconto ci troviamo. In superficie sembra che niente sia cambiato. La scena si svolge sempre nel Getsemani, ora dopo il calare della sera. Vediamo la Figlia di Sion cercare distrattamente il suo amante fatto prigioniero, sebbene Gesú, legato mani e piedi, sia già lontano, condotto davanti ai Sommi Sacerdoti. Per capire il motivo per cui la figura allegorica viene reintrodotta in questo momento da Bach e Picander, dobbiamo tenere a mente l’enorme richiamo che l’immaginario del Cantico dei Cantici aveva nei confronti del pubblico, e la forza della tradizione (che rimanda fino a Origene e alla prima metà del III secolo) secondo cui lo sposo e la sposa simboleggiano Cristo e l’anima cristiana. Il linguaggio visibilmente erotico del Cantico dei Cantici è stato da tempo legittimato dalla Chiesa romana: venne adottato con entusiasmo dai riformatori protestanti come unio mystica, e fu estremamente popolare tra i compositori dei precedenti centocinquant’anni, sia in Italia che in Germania. La Figlia di Sion coincide con la sposa di Cristo e il simbolo della Chiesa cristiana, mentre l’anima brama appassionatamente l’unione con Cristo. Il giorno delle loro nozze è il primo giorno della Passione di Cristo: il giorno in cui egli dimostrò la sua volontà di diventare la vittima sacrificale per la redenzione dei peccati dell’uomo. È questo il motivo per cui la Figlia di Sion appare nel prologo di entrambe le parti della Passione secondo Matteo: il credente dell’epoca poteva in questo modo cogliere che il proprio amore contrastato per la figura sofferente di Gesú è il suo destino e la sua fortuna (sein Glück). I movimenti di dialogo (collocati strategicamente lungo tutta la Passione secondo Matteo) articolano questo bisogno di una relazione coerente con Cristo, anche se ciò significa perderlo in questo momento per rivederlo in seguito restituito in un’altra forma. Cosí, in questo nuovo exordium (n. 30), il compito del secondo coro che si rivolge alla sposa sconvolta con le parole del Cantico dei Cantici (6,1: «Dov’è andato il tuo amato, tu che sei bellissima tra le donne?») è quello di darle conforto per conto della comunità dei credenti. La loro musica è madrigalesca, leggera e piacevole in contrasto con la singhiozzante angoscia del contralto solista, che si riferisce al suo «agnello nelle grinfie della tigre». Ancora una volta, Bach ha trovato un modo intelligente per combinare due Affekte radicalmente diversi, sebbene collegati da un identico metro di danza in tempo ternariom.
Ora che l’azione si è spostata nella corte del Sinedrio, Bach non può piú fare affidamento sulla testimonianza diretta di Giovanni, cionondimeno riesce a portare vividamente nel presente il processo e il plateale fallimento della giustizia per mezzo dell’arioso per tenore «Mein Jesus schweigt» (n. 34) e il suo seguito, l’aria «Geduld!» (n. 35). Il silenzio di Gesú in risposta ai suoi accusatori si riflette nei trentanove sinistri battiti staccati degli oboi, che alludono al secondo verso del Salmo 39, «metterò il morso alla mia bocca | finché ho davanti il malvagio», dopo i quali tacciono anch’essi. Con il basso continuo come unico sostegno, il fuoco si sposta su uno spettatore della scena (il tenore solista) che lotta con se stesso per riuscire a controllarsi. Negatagli la calma della melodia ricamata del violoncello nella battuta iniziale, questi inizia con un ammonimento a se stesso, una frase vocale che sembra piú un grido angosciato che l’inizio di un’aria. «Pazienza!» dice a se stesso già dalla prima parola (Geduld!), benché la perda nell’istante successivo, poiché «lingue false mi pungono». La linea melodica oscilla sul confine di un naturalismo quasi da recitativo, con brevi momenti di lirismo, del tutto indipendente – eppure a esso reattivo – dal violoncello che continua la propria intima lotta, tra indulgenza (regolate coppie di crome) e protesta (irregolari ritmi puntati). L’energia dell’inventiva di Bach balza fuori dalla pagina in ogni singola frase e sottofrase variata della linea vocale, un’energia che in esecuzione il cantante rischierebbe facilmente di soffocare con un’enunciazione troppo dolce o anodina. Perfino nelle pause vocali, e in particolare nell’improvviso ritorno dell’invocazione iniziale, Geduld! (misure 39-43), o nel modo in cui lo sfogo finale sembra scemare nella rassegnazione, Bach ci permette di percepire e di immedesimarci in questo conflitto fra l’oltraggio morale e lo studiato imperativo di rimanere in silenzio, proprio mentre esso si svolge nella mente del tenore. Questo doppio ritratto, lo stoicismo di Gesú e la lotta interiore dello spettatore per riuscire a imitarlo, appare intelligente dal punto di vista psicologico e straordinariamente moderno. Entra in risonanza con i tormenti sofferti dall’umanità di tutte le epoche e tutti i luoghi – dalle calunnie della vita privata o domestica di ognuno, fino agli oltraggi dei regimi di tortura – e forse riesce perfino a spiegare l’importanza simbolica che la Passione secondo Matteo ha avuto nel mondo tedesco in tutto il XX secolo.
Al di là di ciò, in questa particolare aria sembra però essere presente un elemento speciale, che va oltre «Geduld! Wenn mich falsche Zungen stechen»: la funzione formalmente illustrativa o esegetica. Nella sua copia della Bibbia di Calov, Bach evidenzia due versetti di Matteo 5,25-26: «Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo!» Bach, come abbiamo visto, aveva vissuto la prigione in prima persona, e nel momento in cui aveva terminato di scrivere la partitura per la Passione secondo Matteo nel 1736 era gravato da una serie di dispute personali con le autorità cittadine di Lipsia. Appaiono straordinariamente pertinenti le parole che individuò in Calov, dedicate a versetti di Matteo che parlavano della differenza tra la rabbia relativa al proprio interesse e la rabbia relativa alla difesa della propria carica (vedi supra, cap. VI). Sono questi i conflitti di coscienza raffigurati in maniera cosí toccante in quest’aria: una rabbia repressa ma sempre appena sotto la superficie, pronta a scoppiare nella figura puntata del violoncello, quell’appello alla Geduld pronunciato a denti stretti dal cantante. Le sue sottolineature confermano ciò che sentiamo nella musica: prese nel loro insieme ci offrono uno scorcio raro sulle difficoltà private di Bach, e ci forniscono indizi per comprendere il suo carattere.
Giungendo al culmine di quello che abbiamo indicato come «Atto dei Sommi Sacerdoti», la successiva coppia di arie dà espressione alla differenza fondamentale tra il pentimento e il rimorso cristiani: nella prima, l’estrema contrizione è cantata come da una posizione genuflessa, mentre nella seconda è espressa con veementi lamentazioni. Benché siano strettamente collegati ai due discepoli Pietro e Giuda, i quali, ognuno a proprio modo, hanno rinnegato Gesú, i cantanti che Bach assegna a questi ruoli nel racconto non eseguono la «loro» aria in senso stretto, e sono assenti dalla corte dei Sommi Sacerdoti. Pietro, per esempio, è un basso, ma la sua colpa viene trasferita a un altro cantante, un contralto, per la «sua» aria, quasi a voler sottolineare il concetto luterano che in quanto individui siamo tutti colpevoli e fallibili. Sebbene Giuda e il cantante che canta la «sua» aria siano entrambi bassi, questa viene collocata dopo il suicidio del personaggio. Bach fu molto preciso su questo aspetto, e arrivò perfino a scrivere il discorso diretto di Giuda su una parte separata, assegnata a un cantante che rimane in disparte rispetto agli altri e non appare in nessun’altra aria o coro. Il basso che canta l’aria fa da intermediario, vincolando l’ascoltatore al progredire del racconto e spingendolo a immedesimarsi con i temi di lealtà e tradimento e a estrapolare individualmente il loro significato13.
Bach sottolinea la polarità tra le due arie, anche dal punto di vista dello stile e della tonalità di questi movimenti che appaiono simili a concerti, e della loro collocazione all’interno della narrazione. Emergendo dal toccante melisma dell’Evangelista, che ricrea il pianto di Pietro nel presente storico dell’ascoltatore, il violino solista entra introducendo in otto misure «Erbarme dich» (n. 39) e approfondisce senza una parola l’immedesimazione con Pietro, toccando con ineffabile tenerezza i nervi scoperti del dolore, della pena e del pentimento. In melodioso stile siciliano, il violino fluttua sul cantabile sostenuto degli archi mediani e sopra una pulsante linea dei bassi (un basso continuo di organo con violoncello pizzicato e contrabbasso), ma con appoggiature di passaggio che stridono contro la versione spoglia di abbellimenti della stessa nota nella linea vocale. Questa melodia evocativa appare nella sua forma completa solo quando viene suonata dal violino solista; ci aspettiamo che il cantante lo segua, ma, essendosi già cimentata nel gesto iniziale, la linea vocale prende un’altra direzione e torna in un’eco semplificata, soltanto l’ombra della melodia sontuosamente abbellita dal violino. Bach ha trovato un simbolo musicale della fragilità umana, del fallimento, come quello di Pietro che, una volta accusato, cade davanti al primo ostacolo. Come spiega Naomi Cumming: «Il linguaggio non è fondamentale, in questo momento, e non è nemmeno adeguato. La voce del contralto esprime un pentimento verbale, ma il violino articola un’angoscia piú universale»14. È questa cruda espressione dei fallimenti umani a rendere «Erbarme dich» cosí avvincente e straziante, il coraggio con cui la voce di un contralto (che parla in prima persona senza rivelarsi, rendendo comunque possibile identificarci con essa) tenta di emulare il violino e si unisce alla sua linea, eppure riesce ad affrontare solo alcuni segmenti della melodia (che va oltre l’estensione del contralto). Lo scossone emotivo che la musica di Bach dà all’ascoltatore deriva dal riconoscere il sogno infranto e il fallimento del tentativo di vivere secondo un ideale divino.
In nettissimo contrasto, «Gebt mir meinen Jesum wieder» (n. 42) è un’esplosione di rimorso cristiano che coincide con quello di Giuda: una richiesta perentoria per il rilascio del Redentore prigioniero espressa dalla stessa persona che l’ha tradito. Un robusto movimento di concerto all’italiana in Sol maggiore, dotato anch’esso di grandissima carica emotiva, ma in un modo piú descrittivo. Il bariolage del violino sembra seguire il movimento del polso di Giuda mentre, preso dal disgusto per se stesso, scaglia sul pavimento del Tempio le monete che ormai non hanno piú valore: trenta note, una per ogni pezzo d’argento. Una volta tanto nella Passione il cantante si comporta inizialmente in maniera convenzionale, e attacca con la stessa melodia del ritornello del violino, ma presto si lancia nella seconda frase di Picander, Seht, das Geld, der Mörderlohn («Ecco il prezzo, la ricompensa per l’assassinio»). Ciò si adatterebbe meglio alla sezione B dell’aria, la piú concisa della Passione, ma qui ci troviamo ancora nella sezione A (cosí che tecnicamente diventa un’aria durchkomponiert). Potremmo liquidare l’episodio come l’ennesimo esempio del modo rapido e libero con cui Bach affronta la simmetria convenzionalmente accettata per la forma da capo, finché non ci rendiamo conto che questa sovversione esprime efficacemente il disorientamento che sta alla base dell’angoscia di Giuda, e della nostra, di fronte al denaro sporco di sangue.
Non possiamo non essere colpiti dalla giustapposizione di sgradevole intimidazione e violenza, prima nei due cori di scherno quasi consecutivi (n. 36b e d) e poi nel corale che segue (n. 37), in cui Bach riesce a smussare l’aggressività interponendo una grande tenerezza e un silenzioso sdegno davanti al maltrattamento di un prigioniero innocente. In seguito, dopo lo spaventoso grido Barrabam! e il primo dei cori assetati di sangue «Laß ihn kreuzigen!» (n. 45b) chiede ai cantanti di passare, dopo solo una piccola pausa, dall’aver impersonato la folla isterica e vendicativa all’esprimere l’angosciato smarrimento della fedele comunità dei credenti (n. 46). Ciò si potrebbe interpretare come un semplice riempitivo della struttura convenzionale, oppure come una decisione da parte di Bach di tenere a bada qualcosa di molto piú oscuro, per impedire alla sete di sangue di sfuggire al controllo. Bach concepisce il modo ideale di risolvere il problema: un accorato atto di contrizione espresso in un corale (n. 46) dall’intero coro, l’ammissione per conto dell’ascoltatore della propria complicità al crimine: «Com’è imponente questa punizione … Il maestro paga il debito che i suoi servi hanno verso di lui, ed essi lo tradiscono!»
Nello spazio centrale, simile a quello dell’«aria dell’arcobaleno» («Erwäge») della Passione secondo Giovanni, si trova l’aria per soprano «Aus Liebe will mein Heiland sterben» (n. 49). Questo crea un contrasto straordinariamente toccante e meditativo con la tensione accumulata del processo romano, ora giunto al suo punto di svolta. Intimidito dalla folla che insiste per liberare Barabba e crocifiggere Gesú, Pilato viene messo in guardia dai presentimenti di sua moglie sul pericolo che comporterebbe immischiarsi nel processo a Gesú, e flebilmente domanda: «Perché, che male ha fatto?» Il silenzio dura non piú di una semiminima, ma in quel lasso di tempo (prima che la folla riesca a trovare la voce per ribadire la sua sete di sangue) il soprano fa un passo in avanti e reclama con misurata recitazione che «Egli ha fatto il bene di noi tutti» (n. 48). Dalla musica di quest’aria sublime emana un’aria di eterna guarigione e benedizione, un’oasi di temporaneo equilibrio in un mondo ormai impazzito. Il suo acuto senso della sfumatura guida Bach verso una scelta insolita nella strumentazione: sono due oboi da caccia a sostenere i lamentosi scambi tra voce e flauto. La loro impalpabile pulsazione permette all’eterea grazia degli arabeschi del flauto di sprigionarsi, proteggendo allo stesso tempo il timbro puro e la fragilità del soprano. Questi oboi tenore erano già apparsi nell’accompagnato (n. 19) per descrivere il tormento di Gesú nel Getsemani, doppiati in quell’occasione da flauti dolci, prima di cedere il passo alla sonorità piú esplicita dell’oboe soprano, adatta al richiamo del guardiano (n. 20). Dando a questi oboi da caccia una maggior prominenza lungo tutta la Passione, Bach crea nella mente dell’ascoltatore un collegamento tra le due idee di sofferenza e amore: non però amore in senso astratto, bensí, come in «Aus Liebe», l’amore supremo e protettivo di Gesú che tiene il credente al riparo dal prezzo del peccato; chi si pente, anche negli ultimi momenti di vita, non può essere toccato dal male, e passa dal dolore straziante alla serenità. In assenza del consueto basso continuo, il messaggio di Gesú viene isolato dai versi animaleschi dei suoi persecutori grazie all’ipnotica vibrazione degli oboi da caccia. Durante l’esecuzione si può davvero essere travolti da questi elementi vitali, con il sentimento che l’amore è presente eppure vulnerabile, in particolare quando la folla torna a irrompere con raddoppiata brutalità: «sicuramente uno dei momenti piú inquietanti della storia della musica occidentale»15.
Le successive coppie inserite rappresentano le reazioni emotive di fronte alla degradazione di Gesú: la sua flagellazione (nn. 51 e 52) e il cammino con la Croce (nn. 56 e 57), ognuna osservata da un nuovo punto di vista. Entrambe hanno ritmi puntati pervasivi, ma organizzati in modi cosí differenti che ogni rassomiglianza di fondo scompare: le aspre scudisciate del recitativo (n. 51) (non dissimili da «Egli offrí la schiena a chi lo colpiva» della sezione B di «He was despised», nel Messiah di Händel) si sciolgono in singhiozzi convulsi nel suo seguito, l’aria per contralto «Können Tränen» (n. 52). Dopodiché, la profonda tristezza dell’umanità e il passo vacillante di Gesú, gravato dal peso della Croce, sono racchiusi nell’intera estensione della viola da gamba a sette corde. Sebbene molti, tra i primi ascoltatori, non fossero in grado di vedere direttamente il gesto stravagante e difficile del gambista costretto a saltare da una corda all’altra, riuscivano tuttavia a udirne il suono, i difficili arpeggi, le tante figure incrociate che mantengono l’ascoltatore concentrato sul simbolo della Croce e sulla figura di Simone di Cirene. Ancora una volta, gli ariosi preparatori ci rivolgono un invito – con l’intermediazione dei singoli cantanti che parlano per noi – a intervenire, perfino a protestare, per tentare di bloccare gli eventi narrati, cosí da risparmiare a Gesú tutta questa sofferenza; nelle arie, invece, il cantante sembra fare un passo indietro e contemplare gli eventi da un punto di vista piú distaccato.
Si tratta di una differenza sostanziale dalla normale prassi adottata da Bach nelle sue cantate, una tecnica protocinematografica in cui congegna un improvviso cambio di fuoco, passando dalla narrazione al commentatore, che si fa largo a gomitate nell’inquadratura, per poi ammorbidire e allargare l’immagine quando l’arioso si dissolve nell’aria successiva. Nel caso di «Erbarm es Gott!» (n. 51) non è solo il profilo incisivo del ritmo ad ammorbidire il passaggio all’aria «Können Tränen», ma l’estrema instabilità dell’armonia sottostante, fatta di catene di accordi di settima, che virano da diesis a bemolle e di nuovo a diesis e (proprio quando ci si aspetterebbe una cadenza finale in Fa minore) effettua un imprevisto scarto enarmonico in bemolle, in direzione di un Sol minore. Il testo dell’arioso di Picander si riferisce a una «visione di immenso dolore» (der Anblick solches Jammers). L’impatto visivo degli archi che sferzano le corde dei violini e delle viole contribuisce molto all’evocativa raffigurazione data da Bach del supplizio di Gesú, e richiama alla mente la Flagellazione di Cristo di Caravaggio (Napoli, 1607), in cui i muscoli dei soldati sono tesi nello sforzo di legarlo a una colonna.
Mentre la Passione procede verso il culmine, diventa sempre piú chiara la strategia adottata da Bach per attirarci all’interno dell’azione (negli ariosi), e disporre le diverse angolazioni da cui contemplare il rapporto tra questa e noi (nelle arie e nei corali). Partendo da una voce specifica e selezionando uno specifico timbro obbligato per ogni aria, che sia questo di violino, flauto, oboe o viola da gamba, Bach determina quindi l’accompagnamento piú adatto: potrebbe essere l’intero ensemble di archi, a sinistra o a destra, oppure sottili combinazioni sonore, come abbiamo visto nel caso del rapporto efficace e interessante che stringono gli oboi da caccia, il soprano e il flauto in «Aus Liebe». Nell’arioso precedente i due oboi da caccia si trovavano in primo piano, per essere poi spostati a un ruolo piú subordinato una volta iniziata l’aria. In queste accoppiate arioso/aria, con tutto il loro contrasto apparente di stati d’animo, il comune denominatore diventa il timbro strumentale prescelto: un collegamento tra voce e filo narrativo. Le caleidoscopiche permutazioni di colore trovate da Bach nella strumentazione appaiono infinite. Cosí, per esempio, nonostante i flauti occupino la ribalta in «Ja freilich» (n. 56), la viola da gamba, che sarà strumento solista obbligato in «Komm, süßes Kreuz» (n. 57) è già presente, mentre arpeggia discreta sullo sfondo. È interessante anche dal punto di vista teatrale osservare come Bach abbia sviluppato un movimento fluido di dramatis personae strumentali che si adoperano per raggiungere una propria posizione, pronte ad avanzare o ritirarsi, o rimanere semplicemente in attesa del proprio turno. Nel momento in cui un musicista si fa avanti con la sua «particina», questi assume improvvisamente un significato piú ampio quando il contesto cambia. Poi, quando si avvia un dialogo con un altro musicista, o con un altro cantante, noi ascoltatori acquisiamo una percepibile sensazione di diversi soggetti umani impegnati in un dialogo animato, proprio come nelle pagine di un romanzo.
Ora, con la crisi rappresentata dalla crocifissione, che qui è davvero una crisi, e non la trionfale «ascesa» che troviamo nell’adattamento di Bach del Vangelo di Giovanni, gli oboi da caccia ottengono una posizione di maggiore evidenza nell’accoppiata «Ach Golgotha» (n. 59) e «Sehet Jesus hat die Hand» (n. 60). L’impatto iniziale del loro imitare il cupo rintocco delle campane a morto, non il «Leichen-Glocken» leggero e argentino delle cantate funebri (vedi cap. XII), ma un sonoro fragore metallico, è la prima reazione cristiana di protesta per la crocifissione e la maledizione (Fluch) dell’imminente morte di Gesú. Le contorte circonvoluzioni armoniche di questo straordinario recitativo, parte della scomoda modulazione da Mi minore (Ich bin Gottes Sohn) a Mi maggiore (Sehet), sottolineano con enfasi il concetto luterano per cui la colpa dell’umanità è la causa principale che porta gli innocenti a «morire colpevoli».
Con l’inizio dell’aria, ora serenamente in Mi maggiore, lo stato d’animo cambia dall’orrore del Golgota alla benedizione pastorale, e trasforma la precedente «maledizione» in una benedizione. È difficile dire come faccia la minacciosa sonorità del rintocco delle campane emulata dagli oboi da caccia a diventare improvvisamente piacevole, addirittura radiosa. Per la prima volta questi ci vengono mostrati in tutto il loro splendore di strumenti melodici, un’epitome dell’amore che emana dalla Croce e dalle braccia aperte di Gesú che offrono rifugio al peccatore, e radunano i fedeli come «uccellini smarriti» (Ihr verlass’ner Küchlein)n. Qui l’esotismo del timbro degli oboi da caccia non sta nei lunghi passaggi eufonici in cui scivolano su una linea staccata di basso, ma nelle battute (dalla 2 alla 4) in cui questi si lanciano in ascese abbellite da trilli e sincopi bizzarre, forse per anticipare gli uccellini abbandonati che verranno presto raccolti, ma ricordano anche gli strumenti del Vicino Oriente che sfruttano le cavità di risonanza delle loro campane svasate d’ottone. Il cambio di sonorità tra arioso ad aria naturalmente non è casuale, ma riflette il passaggio dalla colpa all’amore in cui Bach, in accordo con Lutero, mostra al credente i principali benefici della fede. Ciò serve a sottolineare quel «conforto per la coscienza» (Tröstung des Gewissens) fornito dal racconto della Passione, indicato alla comunità dalla Figlia di Sion (Coro 2): In Jesu Armen Sucht Erlösung, nehmt Erbarmen, suchet! («Cercate redenzione tra le braccia di Gesú!»)
Dopo l’angosciante crocifissione, queste fluide esortazioni del cantante e degli oboi da caccia trasudano calore e dolcezza. Ma la legittimazione definitiva di questi strumenti magici e del ruolo speciale che Bach assegna loro nella Passione arriva con l’aria conclusiva, «Mache dich, mein Herze, rein» (n. 65), quando essi vengono riassorbiti dall’orchestra, e conferiscono una sfumatura vagamente brunita all’aureola di archi finora associata a Gesú e adesso a questa aria (nelle esecuzioni di Bach era lo stesso cantante in entrambi i casi)o. La linea vocale è un tutt’uno sia con il materiale strumentale presentato all’inizio sia con questa texture: la morte di Cristo, nel portare la remissione dei peccati, è ora sepolta nel cuore del credente. L’aria è in se stessa una celebrazione della forza trasformativa della musica, che permette di riflettere e trarre una lezione dalla riproposizione del racconto della Passione. Unica aria con da capo che funziona in modo convenzionale nella Passione secondo Matteo, è al tempo stesso esuberante e tranquillizzante, ampia eppure scorrevole, ed è una delle arie piú genuinamente soddisfacenti e confortanti dell’intera opera di Bach. Una battuta particolarmente vivace, la 52, il passaggio che riporta alla sezione A, sembra riassumere il precedente messaggio, «Mondo, sparisci e lascia entrare Gesú», in un momento di pura gioia.
Sebbene la storia della sepoltura di Gesú, e l’imponente doppio coro della delegazione di Sommi Sacerdoti e Farisei inviati a influenzare Pilato debbano ancora arrivare, questa magnifica aria di basso segna l’inizio della fine. Le ultime note sono eseguite in un recitativo accompagnato per quattro voci soliste, forse a rappresentare i quattro autori del Vangelo in cerca di una ricapitolazione elegiaca della propria testimonianza personale, come qualcuno che piange un proprio caro. Nel suo essere un semplice discorso di commiato, la risposta del secondo coro ha un carattere quasi folklorico, e prepara la danza sacra dell’epilogo. Mentre la Passione secondo Giovanni si conclude con un rondò corale («Ruht wohl») e accompagna con reverenza la deposizione del corpo del Redentore nella tomba, e di conseguenza evoca una sorta di punto finale, qui, per concludere la Passione secondo Matteo, Bach sceglie una sarabanda simile per gesto motivico e tonalità alla Suite in Do minore BWV 997. La sensazione è di movimento continuo, come se l’intero rituale del racconto della Passione fosse stato ascoltato interiormente dall’ascoltatore e avesse ormai bisogno di essere rivissuto ogni Venerdí santo. Un ultimo memento arriva con un’inattesa e quasi lancinante dissonanza che Bach inserisce sull’accordo finale: gli strumenti melodici insistono su un Si, la discordante sensibile, prima di sciogliersi finalmente in una cadenza in Do minore.
Riesaminando la conclusione della Passione secondo Matteo, si rimane colpiti da come il personaggio di Gesú, una figura molto piú umana rispetto a quella ritratta nella Passione secondo Giovanni, sia delineato in modo potente e sottile, perfino quando viene ridotto, come in tutta la parte II, a tre affermazioni lapidarie: il suo Eli, Eli, lama sabachthani? («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?») finale, e il precedente Du sagests («Tu l’hai detto»), una volta rivolto a Caifa e una volta a Pilato. Oltre a ciò, Matteo ci dice: «Ma non gli rispose neanche una parola». Eppure non passa un momento senza che la sua presenza sia percepita. Come può essere? Bach dà un’impronta talmente forte ai suoi interventi, sempre (a eccezione di quell’ultimo grido dalla Croce) con la caratteristica aureola di archi, e fin da subito (l’incitamento dell’Eucaristia durante l’Ultima Cena e l’Agonia nel Giardino nella parte I) la sua presenza non cessa mai di incombere sulla narrazione; non solo: questa viene costantemente ribadita dai riferimenti nel discorso indiretto e ancora di piú nel modo in cui i cantanti lo invocano negli ariosi e nelle arie. Lo vediamo riflesso negli occhi e nelle voci degli altri, soprattutto nella commovente conclusione «Era veramente il Figlio di Dio» (n. 63b) – due delle misure piú cariche di emozione di tutta l’opera di Bach, nelle quali la musica magnifica la presenza di Cristo nel momento esatto della della sua morte fisica e stabilisce per la prima volta la vera essenza della sua identità. Come sempre, è nella musica che troviamo anche Bach stesso. Proprio come la sua intera impresa consiste nel dare voce agli altri – ai protagonisti, alla folla, all’autore del Vangelo –, cosí anche la sua è sempre presente nel racconto. La percepiamo nel suo fervore, nella sua empatia con la sofferenza del Cristo innocente, nel suo senso della misura, nelle sue scelte e giustapposizioni di narrazione e commento, e soprattutto nel modo improvviso in cui sembra arginare l’isteria di vendetta, inserendosi nella narrazione di Matteo e interrompendola con un corale che esprime profonda contrizione e sdegnop.
Non esiste una sola opera seria, del periodo che ho studiato o diretto, che sia paragonabile alle due Passioni di Bach in termini di intensità del dramma umano e del dilemma morale, espresso con tale convinzione e profondità. Nessun’altra Passione-oratorio tedesca, né una sola opera seria giunte fino a noi da quegli anni riescono a eguagliarle nel loro essere un esteso dramma musicale. Di quella brillante generazione dell’85, solo Händel, da esperto compositore d’opera qual era, nella gloriosa sequenza di drammi ispirati alla Bibbia, composti per il pubblico londinese tra il 1737 e il 1752 «nello stile dell’Oratorio», mostrò di essere in grado di realizzare capolavori drammatici efficaci anche lontano dal palcoscenico, nel teatro creato dalla sua immaginazione. Bach sapeva perfettamente che cosa fosse l’opera, e sembra che abbia deciso molto presto che non faceva per lui. Ciò che distingue maggiormente le sue Passioni dalle opere del tempo è il modo in cui elimina la convenzione di stabilire un punto di riferimento fisso per il pubblico, rifiutando l’idea che l’ascoltatore debba seguire lo sviluppo di una narrazione drammatica come un consumatore, intrattenuto, magari commosso, impegnato a ingoiare le immagini che gli vengono imboccate, e mai partecipe dell’azione. Bach prese spunto da Lutero, il quale, avendo conosciuto la persecuzione in prima persona, ribadí che la Passione di Cristo «non dovrebbe essere messa in atto solo a parole o nell’apparenza, ma con la propria stessa vita»16. È proprio questo che fa Bach, rivolgendosi a noi direttamente e personalmente, inventando nuovi modi per coinvolgerci e spingendoci a metterla in atto nelle nostre stesse vite: cosí diventiamo partecipi della ricostruzione di una storia che, per quanto familiare, viene raccontata con modi studiati appositamente per sorprenderci, scuoterci dal nostro autocompiacimento, ma gettandoci al tempo stesso un’ancora di salvezza di rimorso e di fede e, in definitiva, indicandoci il percorso verso la salvazione. Perfino quando sembra ammiccare all’opera, Bach evita sempre tutto ciò che puzza di rappresentazione teatrale. Anche nelle occasioni in cui nelle Passioni è possibile individuare «scene» distinte, come quelle semirealistiche in cui Gesú è sottoposto a processo davanti a Pilato o ai Sommi Sacerdoti, Bach interrompe la narrazione per inserire momenti di riflessione o reazione.
E dunque qual è il loro posto? Nel suo libro Morte della tragedia, George Steiner sostiene:
non c’è mai stata una tragedia specificamente cristiana, nemmeno quando la fede era in pieno rigoglio. Il cristianesimo esprime una concezione antitragica del mondo … La Passione di Cristo è un avvenimento di inenarrabile dolore … la morte dell’eroe cristiano può essere causa di dolore, non di tragedia … La vera tragedia può avvenire soltanto quando l’anima tormentata crede che non c’è piú tempo per la misericordia di Dio. «E ora è troppo tardi», dice Faust nell’unico dramma che giunge vicino alla soluzione della contraddizione inerente alla tragedia cristiana. Ma sbaglia: non è mai troppo tardi per pentirsi e il melodramma romantico fa della schietta teologia quando mostra l’anima afferrata al volo proprio sull’orlo della dannazione17.
Questo, naturalmente, è il punto cruciale del ritratto che Byron fa del suo eroe Manfred nell’istante della morte.
ABBOT: … Volgi una preghiera al Cielo – Prega – anche solo con il pensiero, – ma non morire cosí.
MANFRED: Vecchio! Non è cosí difficile morire [MANFRED spira].
Nel comporre le sublimi musiche di scena per il «poema drammatico» di Byron circa trent’anni dopo, nel 1848, Robert Schumann fece seguire questo testo parlato da un breve ma toccante Requiem corale, e ne fece la conclusione dell’opera. Schumann aveva assistito alla celebre riproposizione della Passione secondo Matteo eseguita da Mendelssohn a Berlino nel 1829, ed è possibile che avesse riconosciuto e imparato dalle latenti caratteristiche melodrammatiche della partitura di Bach la sensazione di puntare direttamente alla giugulare delle emozioni con la sua visione dell’«uomo dei dolori».
È significativo che Steiner non faccia alcun cenno alle Passioni di Bach, forse perché ritiene che non si qualifichino come vere tragedie, dal momento che «la prospettiva cristiana conosce soltanto la tragedia parziale o episodica. Nel suo essenziale ottimismo vi sono momenti di disperazione; nell’ascesa verso la grazia si possono verificare crudeli contrattempi». Vero: è impossibile per il racconto cristiano seguire la traiettoria di una tragedia classica, poiché Gesú è il principale protagonista e in qualche modo anche l’autore della Passione. Tra i due racconti, quello di Matteo vi arriva piú vicino, poiché prende in prestito alcune convenzioni tragiche e riporta con grande emotività l’ingiusto trattamento da parte degli uomini malvagi del Gesú perfettamente buono; nel Vangelo di Giovanni, invece, la figura semitragica sembra avere il controllo del proprio destino e volerlo assecondare. La mia obiezione, tuttavia, è che in entrambe le sue Passioni Bach dimostra come la musica possa davvero «rianimare le convenzioni del mito e della struttura tragica, scadute in teatro dopo il XVII secolo», un risultato che Steiner attribuisce in primo luogo a Mozart, con la sua padronanza «delle risorse drammatiche musicali» e poi a Wagner, con il suo «genio nel sollevare questioni decisive … poteva il dramma in musica riportare in vita quel mondo dell’immaginazione e ridare un valore ai simboli, che sono essenziali in un teatro tragico, e che il razionalismo e l’era della prosa avevano bandito dalla cultura occidentale?»18. Pur senza sminuire in nessun modo il ruolo di Mozart (quello di Wagner è stato comunque esagerato da lui stesso, e può agevolmente sopravvivere a una rivendicazione di anteriorità), vedo in ciò uno dei piú grandi traguardi raggiunti da Bach. Basandosi sulle fondamenta non operistiche del dramma musicale (vedi il cap. IV) cosí come si era evoluto nel corso del secolo precedente al di fuori del teatro, e spesso in chiesa (diciamo tra la pubblicazione dei Vespri della Beata Vergine di Monteverdi e la prima esecuzione della Passione secondo Giovanni), Bach inaugura una nuova fioritura del genere, portando i suoi ascoltatori ad affrontare la loro mortalità e spingendoli a testimoniare eventi da cui normalmente avrebbero distolto lo sguardo. Forse Steiner potrebbe concedere che, a questo proposito, la portata mitica delle due grandi Passioni di Bach è tale da poterle considerare il seguito ideale dei drammi recitati di Racine e degli autori inglesi del primo Seicento, nella misura in cui questi risuonano ben al di là dei propri confini temporali e liturgici, e dimostrano quel «contesto di fede e convenzione che l’artista condivide con il pubblico».
Se esistono prove documentali sufficienti a ricostruire l’originale collocazione liturgica delle Passioni di Bachq, naturalmente non siamo in grado di ricostruire come furono percepite all’epoca. Dopo aver mostrato di poter reggere trattamenti diversi come i cori massicci dei vecchi rituali vittoriani (e il loro forte sentore di bigottismo) o, all’estremo opposto, le soluzioni minimaliste della prassi filologica, e riuscire ciononostante a commuovere il pubblico, possiamo essere certi che non esiste un modo esclusivo di interpretarle, in chiesa o in sale da concerto o nell’abbraccio profano del teatro. La ricerca del modo migliore di presentare (quando, dove, come e a chi) questi lavori estremamente impegnativi ha portato, in molti casi, ma non per questo universalmente, a un opportuno abbandono dei rigidi rituali reverenziali dell’oratorio, secondo i quali i cantanti in abito da sera erano un tempo seduti in fila su una piattaforma da concerto, e si alzavano in piedi solo per eseguire i propri numeri solistici. Si comprendono i motivi che hanno portato alcuni registi a smantellare le Passioni di Bach ed esplorare modi diversi di riprodurre questi potenti drammi musicali e le loro profonde implicazioni umane. La scelta di Bach di schierare non una ma addirittura due orchestre e (almeno temporaneamente) tre cori nella Passione secondo Matteo indica che il dramma è implicito nell’opera. Ma partire di là e trattare le sue Passioni come opere irrealizzate, incentrate su una «rappresentazione» di qualche tipo, incontra molti ostacoli, come il doversi adattare ai repentini cambi temporali e alle molteplici caratterizzazioni contenute nell’insolita struttura. Tali approcci tendono a mettere un maggiore accento sulle singole individualità dei cantanti nei panni dei personaggi biblici, laddove Bach si preoccupò di raggiungere l’esatto opposto, premurandosi di non trasferire le reazioni emotive agli specifici cantanti (che, ricordiamo, erano invisibili a tutti tranne che ai piú ricchi, che occupavano le panche nelle gallerie laterali) quando dovevano dar voce al dolore, al rimorso e allo sdegno per loro stessi e per noi. Allo stesso modo, i membri del coro, per quanto abili riescano a essere nel gestire i rapidi cambi tra i ruoli stabiliti di discepoli, osservatori, soldati o folla vociante, e a trasformarsi in un batter d’occhio in meditativi commentatori, in un trattamento drammatico rischierebbero di essere considerati come appartenenti a un mondo separato da quello del pubblico.
Il grande rischio è che si crei una distrazione dai meccanismi e dalla forza inesplicabile della musica, un rischio che Jonathan Miller riuscí a evitare con la sua rivelatrice «attivazione» della Passione secondo Matteo (rappresentata per la prima volta a Londra nel 1993 e successivamente in molte altre parti del mondo), limitandosi a fare solo il necessario in termini di giustapposizione e separazione nello spazio (i cantanti si muovono tra gli strumentisti e intorno a loro), per suggerire diverse sfumature di dialogo: ora incline allo scontro (come tra cori di credenti e di membri della folla), ora intimista, come quando il cantante di un’aria e il musicista impegnato in obbligato si trovano collocati a poca distanza, liberi da partiture e leggii. Il mio personale approccio si basa sulla convinzione che un simile compromesso tra azione e meditazione si possa raggiungere con gli stessi risultati attraverso una ponderata dislocazione dei musicisti in una chiesa o su un palcoscenico, senza sostituire un insieme di rituali con un altro. Mentre molti di noi gioiscono della morte dei vecchi rituali da oratorio, come se una grande lastra di ghiaccio di riverenza fuori luogo finalmente si fosse rotta, non vedo grandi vantaggi, né alcuna necessità intrinseca, nel definire e circoscrivere l’essenza drammatica delle Passioni di Bach mettendole in scena come opere per procura. Al contrario, nel momento in cui il dramma viene appesantito da un bagaglio estetico esterno, rischia di rimanere appiattito, e la musica finisce per esserne sminuita. È l’intensa concentrazione drammatica all’interno della musica e la colossale forza d’immaginazione che Bach mette nelle sue Passioni a renderle pari ai piú grandi drammi teatrali: la loro forza si trova in ciò che lasciano inespresso. E che noi possiamo ignorare, ma a nostro rischio e pericolo.