Capitolo dodicesimo

Collisione e collusione

Beate due sirene, pegno della gioia del cielo,

Armoniose sorelle nate dalle sfere, Voce, e Verso,

Sposate i vostri suoni divini, e usate il commisto potere

Capace d’approfondir le morte cose con l’ispirato senso,

E alla nostra alta fantasia presentate

Quell’indisturbato suono di pura armonia.…

JOHN MILTON, At a Solemn Musicka.

«Spesso la gente si lamenta del fatto che la musica sia troppo ambigua,» scrisse Mendelssohn nel 1842. Tutti capiscono le parole naturalmente, ma chi ascolta non sa cosa pensare di fronte alla musica. «Per me, – disse, – è esattamente l’opposto, e non solo quando si tratta di un intero discorso, ma perfino di singole parole. Anche queste mi sembrano cosí ambigue, cosí vaghe, cosí facili da fraintendere rispetto alla vera musica, che riempie l’anima di mille cose migliori delle parole. I pensieri che vengono espressi nella musica che amo non sono troppo indefiniti per essere comunicati in parole, ma al contrario, sono troppo definiti»1. È un’affermazione sorprendente, che molti musicisti condividerebbero, eppure è l’esatto opposto di ciò che altri si aspetterebbero. La relazione tra musica e linguaggio è complessa tanto quanto quella tra linguaggio e pensiero. Il linguaggio può spiegare, ma anche soffocare la sensibilità durante la sua trasmissione (vedi supra, cap. II). La musica, invece, quando viene eseguita fa sí che quel flusso di pensiero e sensibilità scorra in totale libertà: non sarebbe molto utile nell’esprimere le nostre faccende quotidiane, ma i pensieri che riesce a esprimere sono veicolati piú chiaramente e pienamente di quanto sarebbero espressi a parole. Quindi cosa succede quando si mettono insieme i due, come è accaduto dalla notte dei tempi fino all’ultima canzone pop? Per necessità ogni opera e ogni cantata mettono il testo e la sua interpretazione vocale in un rapporto simbiotico, che per il compositore crea sia delle opportunità che dei vincoli.

Spero sia ovvio da quanto abbiamo visto nei precedenti tre capitoli che pensando a Bach abbiamo a che fare con un compositore che non fu mai soddisfatto del semplice «adattamento» dei testi religiosi, che fossero cantate, mottetti o Passioni. Emanuel Bach disse a Forkel che suo padre «lavorava diligentemente, regolandosi in base al contenuto del testo, senza strani spostamenti di parole, e senza elaborare autonomamente parole alle spese del senso generale, cosa che porta spesso a pensieri ridicoli, come il desiderio di suscitare l’ammirazione in persone che si dichiarano intenditori ma non lo sono»2. Potrebbe essere proprio questa l’impressione che voleva dare Emanuel: normalmente suo padre non trasgrediva le convenzioni settecentesche nell’adattamento del testo. Ma la verità è che la musica su testo di Bach è tutt’altro che docile: apre la porta a ogni tipo di stato d’animo, evocato in modo tanto piú potente ed eloquente di quanto le parole avrebbero potuto da sole, soprattutto dal momento in cui le sue texture sono spesso stratificate e perciò in grado di trasmettere Affekte paralleli, complementari e perfino contraddittori. Una lettura attenta dei testi che mise in musica ci restituisce il contesto liturgico, ma in se stessa non ci dice nulla di affidabile sulla musica o, naturalmente, su come si sia creata nella sua immaginazione. Con lui ci accorgiamo subito che la musica è ben altro che un involucro per le parole. Bach affrontava la specificità del testo – a volte rinforzandolo con musica dotata di pari precisione, a volte contrapponendogli una musica contraddittoria e, nel senso inteso da Mendelssohn, di superiore precisione. Le parole aggiungono un’ulteriore dimensione alla musica e viceversa, cosí che la loro unione sia maggiore della somma delle singole parti; ma anche quando la musica circonda il testo con un codice di accentuazione o con lo stesso stato d’animo, essa non sempre raggiunge una sinergia perfetta nel fondersi con il linguaggio. Il processo è di collusione, a un estremo, oppure, dall’altro, di collisione, o una combinazione delle due. Naturalmente esistono molte gradazioni intermedie, tra cui una (forse la piú interessante) in cui la musica sembra assorbire una componente metatestuale. Questo capitolo evidenzia alcuni degli esempi piú notevoli dell’articolata prassi usata da Bach per le cantate e i mottetti, esempi in cui il suo approccio fu nettamente diverso da quello dei suoi contemporanei, e arrivò addirittura a esporlo all’accusa di essere inadeguato.

Anche se non lo ammise mai, Bach probabilmente capí che in qualche modo stava un po’ andando in direzione opposta alle mode in vigore nella musica sacra, e puntava molto piú in alto degli altri compositori del suo tempo. Ciò appare subito chiaro se confrontiamo i suoi risultati con quelli di Telemann, quando affrontarono entrambi il medesimo testo, nel periodo (tra il 1708 e il 1712) in cui i due erano regolarmente in contatto: Bach a Weimar, Telemann, che fece da padrino a C. P. E. Bach e gli dette il suo secondo nome, a Eisenach. In quanto pioniere del nuovo stile di cantata inaugurato da Erdmann Neumeister, Telemann fu ampiamente ammirato per la sua capacità di innestare la tecnica dell’opera contemporanea sulla vecchia radice della cantata. Il libretto di Gleichwie der Regen fu addirittura scritto appositamente per lui da Neumeister, nel 1711, e la sua cantata basata su di esso venne eseguita a Eisenach poco dopo, e forse anche a Weimar, dove Telemann era tenuto in grandissima considerazione dal datore di lavoro di Bach, il duca Ernst August.

A partire dall’assolo di apertura, in cui Isaia (55,4-15) paragona il seme, e l’effetto degli agenti atmosferici sul suo germogliare e crescere, alla Parola Divina, è evidente che l’adattamento realizzato da Bach nel 1713 (BWV 18) sarà il piú avventuroso, nonché il piú emotivo, proprio nei punti in cui sceglie di tralasciare la «corretta» declamazione delle parole. Se nel secondo movimento il poeta mette insieme segnali di pericolo verso la Parola di Dio con una specie di sermone dotato di quattro versi presi da una litania di Lutero, Telemann invece cerca di sfumare la divisione tra salmodia e recitativo parlato e di evitare eccessi nell’espressività, e la sua musica si comporta da modesta ancella delle parole. Bach fa l’esatto contrario: assaporando il contrasto fra il tono arcaico da salmo (iniziato dal soprano ma completato dall’intero ensemble) e il moderno recitativo operistico (che dimostra di padroneggiare completamente, anche se questa è la prima volta che lo utilizza), rende il tenore e il basso liberi di dar voce ai propri personali appelli di fede e risolutezza di fronte alla «diabolica furbizia», con colorature virtuosistiche, modulazioni amplissime e vivaci descrizioni poetiche su berauben («derubare») e irregehen («perdere il cammino»), riservando alla parola Verfolgung («persecuzione») una sontuosa successione di cinquantacinque note. In tal modo trasforma questo movimento nel pezzo forte dell’opera, un arazzo in durchkomponiert composto da quattro sezioni di recitativo accompagnato, un episodio unico nelle sue cantate.

Laddove la strumentazione di Telemann prevede le tradizionali quattro parti per archi, quella di Bach è improbabile e davvero originale: quattro viole e un basso continuo che comprende anche un fagotto, che dà all’ouverture e ai movimenti successivi una sonorità magica e dalle tinte scure. La svelta reattività della sua musica ai sentimenti cangianti del testo gli permette di descrivere, dapprima, coloro che rinunciano alla Parola e «cadono come frutti marci» (in una fiorita frase strumentale che ondeggia verso il basso) e, un momento dopo, il modo in cui «altri pensano solo al loro ventre». Tutto ciò dà vita a un vivace ritratto bruegheliano di una società rurale intenta al lavoro: il seminatore, il ghiottone, il diavolo in agguato, e villici da pantomima sotto forma di turchi e papisti. Come accade normalmente nelle litanie, i passaggi di collegamento sono musicalmente uniformi (e magari contengono una sfumatura di satira all’intonazione monotona dei sacerdoti?), tranne che per la parte di basso continuo, che s’infuria alla menzione dei turchi e dei papisti «blasfemi e inferociti». In Telemann, invece, non si percepisce lo stesso coinvolgimento con il testo, né l’utilizzo pieno di tutte le risorse musicali, cosa che invece Bach fa magistralmente, allo scopo di issarlo con il suo messaggio implicito fin dentro la coscienza dell’ascoltatore, aumentando considerevolmente la sostanza, la sottigliezza e l’interesse della musica.

A partire dagli anni trascorsi a Weimar, la procedura di Bach nell’adattare i commentari poetici corrisponde solo raramente a una modalità espositiva convenzionale. Le arie, per esempio, vengono presentate di rado come un sermone di quei tempi, e cioè sotto forma di ordinata esegesi, e nel piegarle a un contesto particolare Bach si prende delle libertà, seguendo una propria logica autonoma. Come ha dimostrato Laurence Dreyfus, «dai suoi testi sviluppa selettivamente idee che innescano una melodia strumentale dominante, ma appone anche segni, generi e stili estranei al testo che impongono, attraverso un determinato tipo di interpretazione o di esecuzione del testo, un palinsesto che oscura la poesia»3. Prendiamo la Cantata di Pasqua BWV 31, Der Himmel lacht, eseguita per la prima volta a Weimar il 21 aprile 1715. Di fronte a una strofa di dogma purissimo, che inizia con «Adamo deve perire se deve nascere l’uomo nuovo», senza alcuna emozione e alcuna occasione figurale, Bach mette in atto un ordito di archi pulsanti e sanguigni, che ricordano piú i riti di primavera che la decisione dell’uomo di voltare pagina. Questo ignorare le regole musicali appropriate avrebbe fatto trasalire un teorico puntiglioso come Johann Mattheson, poiché, in senso stretto, la musica non è il risultato diretto del testo e di certo esso non è messo in musica con sobrio stile sillabico. È uno dei primi esempi della collisione che spesso caratterizza la risposta di Bach al genere, e che dà alla musica che ne emerge tale duratura vitalità. Il modo in cui affronta un determinato testo o tema dottrinale, e la sfumatura personale e profondamente umana che vi applica, ci dicono molto di piú sul suo carattere che le parole modeste che impiega («sono stato costretto a lavorare») per descrivere il suo approccio fondamentalmente libero alla composizione. Per un compositore della sua statura non può trattarsi solo di questo. All’inizio del libro ho affermato che concepire Bach come una sorta di spirito sovversivo potrebbe essere una chiave per comprendere la sua opera, che, come quella di altri grandi artisti, era «incline alle piú sottili manipolazioni e rifondazioni dell’esperienza umana»4. Gli esempi che stiamo incontrando adesso sembrano corroborare questa affermazione.

La musica astratta ci dà emozioni purificate da narrazioni stabilite, e libere da ogni pressione della realtà. Sentiamo la tristezza della perdita senza aver perso nulla, la sensazione del terrore senza alcun oggetto di terrore a cui reagire, la luce della gioia che sparisce appena la percepiamo5. Quando la musica si sposa con la poesia, anche con la poesia di scarso valore intrinseco, avviene qualcosa di diverso. In quel momento si crea un delicato equilibrio tra suono e senso: la musica ora diventa perdita e terrore tanto quanto le parole. Paul Valéry ha definito la poesia «un linguaggio dentro un linguaggio», ma non è forse questa una descrizione precisa di come musica e poesia interagiscono? L’effetto della musica sui versi va oltre la semplice aggiunta di uno strato di impasto, a irrobustire la presenza fisica delle parole che trasmettono il significato. È l’equivalente della metafora: mette un freno al flusso del discorso e del verso recitato e li organizza secondo un tempo e un ritmo strutturati diversamente, una cosa che, se ben fatta, fa sí che l’ascoltatore si senta coinvolto nel modo in cui il compositore interpreta quelle paroleb.

Tradizionalmente la teologia viene espressa con la parola, mentre la musica, abituale forma espressiva di Bach, obbedisce a regole che scavalcano le considerazioni basate sulla parola, con procedimenti che secondo quanto dimostrato da Dreyfus erano piuttosto antiletterari per l’epoca6. Dall’interazione, perfino dall’attrito, tra parole e musica nelle sue cantate sacre, emerge la forte sensazione che Bach cercasse di raggiungere una formulazione del significato definitiva e totalec. Nel fare ciò, Bach sembra costantemente voler sfidare i suoi ascoltatori a riflettere sul significato dell’essere cristiani (gravati da obblighi cosí come da gioie). Usa la musica per trovare nuovi significati nei testi del Vangelo e allo stesso tempo per alludere ad altri che gli sovvengono, forse inconsciamente, durante la composizione e l’esecuzione della sua musica.

Il pericolo che correva Bach è sempre quello di sovraccaricare: aveva semplicemente troppe cose da dire (troppe, almeno, perché il predicatore se ne rimanesse tranquillo ad aspettare), e troppi modi diversi di esprimersi, sostenuto com’era da un’abilità e una tecnica che erano di gran lunga piú grandi rispetto a quelle della maggioranza dei suoi colleghi. Si potrebbe sospettare che proprio questo sia all’origine delle critiche da parte di compositori meno bravi diventati poi pedanti, come Johann Adolph Scheibe e Johann Mattheson. Bach era un uomo che amava spingere piú in là i confini: i confini del gusto condiviso, di ciò che la musica era in grado di fare per espandere il suo vocabolario formale ed espressivo, del modo in cui poteva comunicare le emozioni umane, lodare Dio e edificare il prossimo, portandoli al di là di quanto egli stesso aveva realizzato in precedenza. Nonostante avesse viaggiato poco – come Shakespeare aveva raramente superato i confini della propria esperienza personale –, Bach ci porta in territori ancora poco esplorati, e in regioni molto lontane dalla portata intellettuale dei suoi critici. In un attacco anonimo, Scheibe condannò l’abitudine di Bach di «togliere l’elemento naturale nei suoi brani e dare loro uno stile roboante e confuso», oscurandone la bellezza con ciò che chiamò «un eccesso d’arte». Non solo: lo strigliò poiché si aspettava «che cantanti e strumentisti fossero in grado di fare con la voce e con gli strumenti tutto ciò che egli sa suonare sul clavicembalo». A questo, Bach (attraverso il portavoce Abraham Birnbaum) ribatté: «È vero che ci sono problemi, ma ciò non significa che siano insormontabili»: occorre solo trovare una soluzione, cosí che i cantanti e gli strumentisti, nel loro dialogo armonioso, possano aggiungere un ulteriore significato alla semplice lettura di un testo, e le loro voci «mescolarsi meravigliosamente, ma senza la minima confusione»7.

Bach, inoltre, non era avverso solo al compiacimento dello stile sorvegliato dell’epoca, ma anche alla cattiva interpretazione di fondo delle sue intenzioni e della sua prassi: procedendo verso la radicale rielaborazione dei materiali musicali, esplorando nuovi modi per integrare ma anche per far collidere musica e testo, incoraggiando un’interazione senza precedenti tra i cantanti e i musicisti, e infine esaminando gli effetti che tutto ciò aveva sull’ascoltatore8. Naturalmente opponeva resistenza al tipo di approccio scolastico rappresentato da Mattheson, che ribadiva: «strumenti e voci collaborano, e gli strumenti non devono prevalere». Bach non aveva intenzione di ridurre la sua orchestra al ruolo di docile accompagnamento, con il compito di esporre nel ritornello d’apertura il materiale che il cantante avrebbe poi sviluppato e abbellito. Al contrario: per lui i momenti strumentali di apertura di una cantata sono l’occasione per entrare in una realtà di ritmo e suoni separata dal rumore della vita quotidiana, per poi fondersi in un fecondo dialogo con il cantante.

Mattheson non voleva proprio saperne. «Molti bellissimi dipinti sono oscurati in questo modo, quando vengono racchiusi in una cornice dorata e scolpita che da sola attrae lo sguardo e distrae dal dipinto. Ogni intenditore di pittura preferirà una cornice scura a una chiara. Lo stesso vale per gli strumenti, che non devono essere altro che una cornice alle parole adattate in musica»9. Mattheson sembra desiderare che i musicisti si comportino in modo conforme, proprio come un pittore quando chiude in un rettangolo ciò che intende dipingere, lo incornicia e lo piazza al chiuso, addomesticando l’occhio per far sí che aumenti la distanza tra il paesaggio originale e lo spettatore. Attenersi strettamente alla «cornice» delle arie e dei cori delle cantate avrebbe ostacolato l’ondata di inventiva che dilaga in tutta la musica di Bach. Con molta piú ambizione di tutti i suoi contemporanei, egli confeziona una grande quantità di materiale che esige, e con insistenza, la nostra attenzione e il nostro attivo coinvolgimento. Ciò non lo trasforma però in un equivalente di Van Gogh o Howard Hodgkin, artisti che hanno dipinto direttamente sulla cornice dei propri quadri; nonostante non si preoccupasse dell’appropriatezza e della pubblica approvazione, seguiva comunque le costrizioni della formad.

Nel capitolo V abbiamo visto che anche nelle sue primissime cantate, le BWV 4, 131 e 106, Bach stava esplorando nuovi territori musicali, usandoli sia come punto di osservazione dell’universo, sia come una sorta di megafono critico. Analizzando la musica, riusciamo a distinguere lo stretto sentiero che egli segue tra un sostegno in osservanza della teologia di un testo e l’elaborazione individuale – con un’intera gamma di gradazioni ambivalenti intermedie. Sappiamo che la musica di Bach non si fonde uniformemente con il linguaggio creando una forma drammatica integrata come quella che troviamo, ad esempio, nelle opere di Monteverdi o, molto piú tardi, di Mozart. Al contrario, ogni volta incontriamo una relazione dialettica insolita che Bach sembra instaurare tra la sua musica sacra e la parola, in particolare la parola vernacolare, che dall’epoca di Lutero era diventata dominante nella coscienza collettiva tedescae. Bach ha l’abilità di riuscire a ravvivare un messaggio dottrinale e, al momento opportuno, di trasmetterlo con grande vigore drammatico, per controbilanciarlo un attimo dopo con una musica di eccezionale tenerezza. Riesce ad ammorbidire e insieme a umanizzare l’abituale severità delle parole senza diminuirne in nessun modo l’impatto. Si rifiuta di essere intimorito dalla solennità della liturgia, vuole guardare dietro il velo della religione e, come ogni navigato uomo di teatro (che certo non era, almeno non in modo convenzionale), era pronto a usare l’ironia e perfino la satira al fine di aprire i suoi ascoltatori alla realtà della vita, al mondo e alle sue vie.

Il termine utilizzato a volte per descrivere un linguaggio che descrive se stesso è «metalinguaggio». Tra ciò che chiamo «collusione», quando la musica di Bach è in effetti conforme al testo, e la «collisione», quando vi si scontra direttamente, c’è una fase intermedia simile a ciò che Walter Benjamin, in un altro contesto, chiamò «antitesi tra suono e significato»10: in questa circostanza, la musica può commentare, approfondire, speculare, essere d’accordo o in disaccordo con il testo da una posizione di uguaglianza. Questo è ciò che Bach fa a volte, ed è ciò che mi interessa.

Il tipico libretto di una cantata di Bach possiede una morale che viene articolata in varie di forme. Prendiamo ad esempio la BWV 169, Gott soll allein mein Herze haben, composta nell’ottobre del 1726, l’ultima e piú uniformemente bella delle sue cantate per contralto solo. Qui vediamo Bach abbordare un testo nel modo piú collusivo, formulando un motivo in rondò per seguire la frase, simile a un motto, presa dal Vangelo della Domenica (Matteo 22,34-46): «Solo Dio avrà il mio cuore». Questa semplice idea (la propositio, in termini retorici) fa da base a un’unità complessiva, permettendo al contempo un dialogo implicito tra questa figura, il ripetuto offrire se stessi all’amore di Dio, e la glossa (confirmatio) che ne fanno il poeta e il compositore. Questo è il caso in cui Bach si trovò piú vicino a un «adattamento» diretto delle parole, con la musica che segue ogni gesto e inflessione del testo. Il suo stato d’animo, la pietà delicatamente ribadita, basata sull’osservanza dei due comandamenti gemelli di Cristo, amare Dio e il proprio prossimo, è in estremo contrasto con la severa esposizione di queste leggi nella BWV 77 (vedi infra, cap. XII). Quasi altrettanto obbediente è la Cantata di Natale BWV 151, Süßer Trost, mein Jesus kömmt, di sorprendente bellezza. Nel seguire il conforto delle parole («Dolce conforto: il mio Gesú viene, Gesú adesso è nato»), Bach progetta l’aria di apertura come una siciliana in Sol maggiore in in tempo molt’adagio, per soprano, flauto obbligato e archi, con un oboe d’amore a raddoppiare i primi violini. La sua unica chiosa è quella di suggerire per associazione, attraverso la berceuse, che sia la Madonna in persona a cantare una ninna nanna al figlio appena nato. L’atmosfera è ineffabilmente placida, e anticipa Gluck e Brahms, mentre gli arabeschi dell’assolo di flauto hanno una suggestione folklorica – di origine forse levantina o addirittura basca. Ogni associazione fugace con la pensierosa Madonna è, tuttavia, presto fugata quando la sezione B in vivace esplode in una gioiosa danza alla breve, in parte gavotta, in parte giga: «Cuore e anima sono pieni di gioia». Flauto, soprano e (momentaneamente) i primi violini esultano in eleganti fioriture in terzine – simili nello stile e nell’umore al tipo di musica profana che Händel scriveva da giovane, quando in Italia conobbe le opere di Scarlatti e Steffani –, prima del ritorno della ninna nanna d’apertura. Naturalmente non c’è motivo per cui la Beata Vergine non dovesse reagire con tale spontaneità, come una ragazza, ma ciò non appartiene al racconto biblico secondo cui «Maria custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore». Difficilmente si può rimproverare Bach di aver costruito questo fugace collegamento nella mente dell’ascoltatore, e un adattamento rigoroso del testo sarebbe stato in questa occasione tanto poco illuminante (affascinante ma trito) quanto i concerti pastorali di Natale dei compositori italiani dell’epoca, Corelli, Manfredini e altri, un minigenere che Bach stesso adottò e trasformò nell’introduzione alla parte II del suo Oratorio di Natale.

In precedenza, durante il suo soggiorno a Weimar, Bach aveva composto la prima di diverse notevoli cantate per voce solista, la BWV 199, Mein Herze schwimmt in Blut, un’opera che mostra competenza e sensibilità operistiche tali da suggerire che avesse in mente una particolare cantante d’opera, di un tipo sconosciuto a Weimar (dove erano impiegati solo falsettisti), forse una diva come Christine Pauline Kellner, che calcava regolarmente il palco dell’Opera di quella città, cosí come quelli di Amburgo, Wolfenbüttel e Kassel. Ciò che Bach ci offre non è tanto un sermone, quanto il ritratto della complessa trasformazione psicologica ed emotiva dell’individuo preso da rimorsi di coscienza. Il messaggio teologico sottinteso basato sulla parabola del Fariseo e del pubblicano (Luca 18,9-14) è ancora presente, ma adesso è espresso in termini personali. Una cristiana, consumata dall’orrore di se stessa e conscia che i propri peccati l’hanno trasformata in «un mostro agli occhi santi di Dio», è tormentata dal dolore (recitativo accompagnato d’apertura). L’agonia la fa ammutolire (sezione A della prima aria); le lacrime ne testimoniano il rimorso (sezione B); in un lampo improvviso di autoconsapevolezza (sezione C estremamente insolita interpolata nel recitativo secco) porta a uno sfogo retorico e al ritorno a un «silenzioso sospiro» (ripetizione di A). Segue altra autoimmolazione (accompagnato), che culmina con il pianto di pentimento del pubblicano della parabola: «Dio sia misericordioso con me peccatore!» Poi, senza interruzione, arriva un’aria di profonda umiltà e contrizione (A), la confessione di colpa (B) che culmina nell’appello alla pazienza (il tempo rallenta in adagio) e precede una rinnovata espressione di pentimento (ripetizione di A). Questo è il punto di svolta (un recitativo di due battute). Ora il peccatore compie un ulteriore atto di contrizione, in cui affida i suoi peccati alle piaghe di Cristo (corale). Da ora in poi sarà questo il suo luogo di riposo (accompagnato) da cui cantare un’ode di gioiosa riconciliazione (A), benedizione (B) e rinnovata gioia (ripetizione di A).

Bach sta provando a presentare in modo chiaro il testo, o piuttosto le idee che si trovano alle sue origini, offerte all’ascoltatore sotto diversi punti di vista privilegiati in uno stile molto personale di sua invenzione. Il chiacchierare meccanico del recitativo operistico contemporaneo non fa per lui; al suo posto, sviluppa una declamazione musicale cosí flessibile da poter sbocciare in un arioso nei momenti di maggiore significato, e modellata sulle evoluzioni delle immagini verbali. Ogni recitativo fa da trampolino all’aria seguente e di conseguenza a ogni cambiamento di espressione e stato d’animo. Per ogni aria, Bach tesse un’atmosfera cosí straordinariamente vivida, che le parole (anche quelle di aperta emotività scritte da Georg Christian Lehms) non sono quasi piú necessarie per trasmettere l’Affekt desiderato. Si potrebbe persino eliminarle ed essere certi che le inflessioni e le sfumature emotive verrebbero comprese comunque, e Bach stesso arriva quasi a questo punto durante la prima aria, «Stumme Seufzer».

Davanti a un testo che tratta delle limitazioni dell’espressione verbale («la mia bocca è chiusa»), Bach sposta il carico espressivo sugli strumenti, cosí che la toccante cantilena dell’oboe esprime il tumulto dei sospiri dell’anima con la stessa, se non maggiore, eloquenza della voce. La carica emotiva viene poi raddoppiata quando la voce ritorna incorporando nuovo materiale nel ritornello dell’oboe, con una tecnica conosciuta come Vokaleinbau. Ancora una volta, Bach potrebbe aver sovvertito la convenzionale prassi operistica in cui la cantante diventa il punto di focalizzazione principale: il fatto stesso che questa sia musicalmente contestualizzata potrebbe aver provocato delle critiche religiose nei confronti di questa convenzione profana. Allo stesso modo, non c’è bisogno di sapere che la seconda aria inizia con «Profondamente prostrato e pieno di rimorso» poiché la curva melodica degli archi di questa ampia sarabanda suggerisce cosí visibilmente la prostrazione, e l’allungarsi delle frasi sopra la divisione delle battute raffigura il gesto della supplica. Il successo di questa strategia dipende in larga parte, naturalmente, dall’abilità oratoria e dall’empatia della cantante, dalla sua capacità di toccare ed «emozionare» letteralmente l’ascoltatore, non solo tramite virtuosismi vocali.

La prassi di Bach di impiantare parole e materiale vocale su una struttura preesistente spesso porta a una collusione tra sensibilità ed espressione emotiva, ma è in due lavori contrapposti che ciò gli riesce meglio che altrove: uno per Natale, l’altro per il Jubilate (Pasqua +3). La piú festosa e brillante delle cantate di Bach per il giorno di Natale è la sua terza, la BWV 110, Unser Mund sei voll Lachens, composta nel 1725. Il movimento d’apertura è identico a quello dell’ouverture della quarta Suite in Re per orchestra, BWV 1069, con l’aggiunta di una coppia di flauti alla linea del primo oboe. Qui prende la struttura francese dell’ouverture (lento-veloce-lento) e usa le sezioni esterne cerimoniali come cornice del veloce segmento fugato, ma con un coro a quattro voci integrato di fresco al tessuto strumentale. In quanto parafrasi del Salmo 126, il pezzo riemerge come nuovo, ravvivato da sonorità inaspettate e da una meravigliosa traduzione in musica della risata, cosí diversa dal modo rigido e serio con cui era spesso suonata dall’orchestra. Quando d’un tratto vengono raddoppiati, come accade qui, da voci che cantano il riso, gli strumentisti devono ripensare le linee e i fraseggi consueti. In cambio, i cantanti devono adattarsi alle convenzioni strumentali dell’ouverture francese. Su una struttura esistente con un’antifona già implicita tra gruppi strumentali separati, Bach fu in seguito piú incline ad aggiungere effetti concertanti differenziati. Per una delle nuove esibizioni della cantata (avvenuta nel 1728 o nel 1731) scrisse nuove parti di ripieno per le tre linee superiori (la parte del basso è perduta) in modo da rafforzare il contrasto tra le sezioni di solo e tutti. L’intero brano ha un incedere spavaldo e irresistibile, che grazie alla sua eleganza e leggerezza di tocco riesce a non degenerare in danza contadina.

Questo effetto, l’illuminare un originale noto attraverso un innesto, fu raggiunto in modo ancora piú impressionante sei mesi dopo. Ciò che era iniziato come un concerto per violino (oggi perduto) e che in seguito aveva preso la forma del famoso Concerto in Re minore per clavicembalo (BWV 1052) riaffiora nei due movimenti d’apertura della BWV 146, Wir müssen durch viel Trübsal, eseguita per la prima volta al Jubilate del 1726. Il primo è un’imponente sinfonia introduttiva (sebbene non sia del tutto evidente cosa ci faccia un movimento da concerto cosí vigoroso e risoluto ad annunciare il testo del Vangelo «Dobbiamo attraversare molte tribolazioni per entrare nel Regno di Dio»), e il secondo è la messa in musica di queste parole sotto forma di corale a parti intere, sovrapposte a un materiale esistente, con l’organista nel ruolo solista in entrambi i movimenti. Nell’esecuzione, sia i cantanti che i musicisti devono mantenere grande moderazione e grande controllo nel sostenere l’atmosfera sommessa e irreale del secondo movimento per piú di ottantasette lente battute. È già abbastanza impressionante come esempio di grande abilità nell’innesto, se di questo si trattò, dato che forse non sapremo mai con certezza se Bach avesse previsto dall’inizio questa particolare soluzione, o se, con il testo davanti, gli venne in mente la possibilità di una stratificazione gemella, che gli permettesse di anticipare parecchie permutazioni possibili di mosse futuref. Come disse Glenn Gould, «il presupposto del contrappunto, piú evidente in Bach che in qualunque altro compositore, è la capacità di concepire a priori idee melodiche che, anche se trasposte, invertite, retrogradate o trasformate sul piano ritmico, presentano sempre, in unione col materiale tematico originale, un profilo del tutto nuovo ma perfettamente armonioso»11.

Ci dedicheremo ora all’analisi di alcuni esempi della concezione a piú strati di Bach, dove musica e testo finiscono per puntare in direzioni diverse, quando invece di essere il pensiero a guidare stati d’animo ed emozioni sono gli stati d’animo e le emozioni suggerite dalla musica a guidare il pensiero, e di conseguenza alterano il modo in cui le idee si imprimono nella mente. L’«interpretazione» personale di Bach del testo evangelico, se era intesa per annunciare e sostenere il sermone che precedeva, occasionalmente dava al sermone stesso un’inclinazione alternativa e imprevista. Abbiamo visto quanto sia raro che l’adattamento musicale del movimento di una cantata venga guidato esclusivamente dal senso semantico delle parole. Al contrario, Bach le circonda spesso del suo codice privato di enfatizzazioni, o di Affekte corrispondenti. Di questa manciata di cantate, che ci fanno percepire piú efficacemente come la musica segua il proprio percorso con un’angolazione obliqua rispetto al testo, quella che si distingue maggiormente è la BWV 103, Ihr werdet weinen und heulen. Nel capitolo IX abbiamo visto come la sua apertura, ingannevolmente festosa, fornisca un esempio di ritornello strumentale bachiano che si scontra con il senso del testo che segue, e come ciò sbilanci l’ascoltatore. Un approccio piú convenzionale sarebbe stato lasciare intatta l’antitesi dei due passaggi d’apertura con, ad esempio, un movimento scuro e pieno di tristezza (come nelle BWV 12 e 146, scritte per la stessa festività), seguito da qualche forma di scherzo sorridente. Quello che fa Bach in realtà è davvero stupefacente. Anticipando di un secolo la «Heiliger Dankgesang» del Quartetto d’archi in La minore di Beethoven, op. 132, la strategia di Bach è combinare questi opposti stati d’animo, legandoli in una contingenza reciproca e sottolineando che è lo stesso Dio a dispensarli e perfezionarli. Rallentando di colpo a adagio e piano, il basso solista intona Ihr aber werdet traurig sein («E voi sarete tristi») con armonie sostenute e distorte. Poi, proprio quando la gioia sembra lontanissima, riemerge improvvisa col ritorno del soggetto fugato, il precedente tema fintamente festoso, ora trasformato in autentico piacere, cosa non solo straordinariamente intelligente, ma di per sé illuminante.

Ci sono numerose occasioni in cui la musica di Bach offre una varietà di svolte interpretative che non emergono dalla sola lettura del testo. Nel capitolo IX abbiamo affrontato due arie di cantata per basso le cui parole indicano un risvolto positivo della difficoltà della vita, ma in cui la musica di Bach sembra tuttavia completamente cupa, impregnata di dolore e di un’inconsolabile tristezza. Esattamente tre anni dopo la sua nomina al ruolo di Cantor e in occasione dell’importante prima domenica dopo la Trinità che segnò l’inizio dei primi due cicli di Lipsia, ci ritroviamo scagliati in un mondo di disastri naturali e appelli alla carità: la BWV 39, Brich dem Hungrigen dein Brot, fu la seconda volta in cui Bach usò un testo della corte di Meiningen, dove lavorava suo cugino Johann Ludwig. Lo schema di Einingen richiedeva la citazione di due testi biblici: dall’Antico Testamento per il movimento d’apertura, «Dividi [o spezza] il pane con l’affamato» (Isaia 58,7-8), e dal Nuovo Testamento, «Non dimenticatevi della beneficenza e della comunione dei beni» (Ebrei 13,16); il filo conduttore è il comandamento di soccorrere i poveri. Il coro d’apertura è articolato ed enorme: le sue 218 battute occupano piú di un terzo dell’intera lunghezza della cantata. In modo quasi sperimentale, Bach parte con una sinfonia introduttiva di crome ripetute lanciate da una coppia di flauti dolci a una coppia di oboi fino agli archi e ritorno, sulle crome rigidamente disgiunte del basso continuo. Gli studiosi tedeschi, da Spitta a Schering e Dürr, affermano che ciò «raffigura inequivocabilmente il gesto di spezzare il pane»g12. Schweitzer giustamente si oppone a questa conclusione affermando che «nessuno che ascolti la musica può concludere che sia un’immagine dello spezzare il pane […] questa raffigura gli sventurati che vengono sostenuti e portati all’interno della casa»h 13. È sicuramente questa l’immagine che viene alla mente quando dopo tredici battute entra il coro, e per il modo in cui Bach accoppia i suoi cantanti con frasi spezzate in terze. Il loro è un gesto di supplica, emozionato e strozzato; le preghiere sono rotte e balbettanti. Ciò conduce a prolungate frasi cromatiche, und die, so im Elend sind («e quelli che sono nella miseria»), dopodiché un passaggio di semicrome in terze per führe in’s Haus («conducili in casa tua»), con melismi intrecciati. Proprio quando ci si aspetterebbe un appello degno della Oxfam, viene portata direttamente la ciotola del mendicante. Bach scrive il suo coro non in veste di Direttore degli Appelli, ma in quella di vittima della carestia; in altre parole sta architettando un ruolo corale variabile: da membri di un cast (che qui attendono la carità in fila indiana) a insegnanti biblici che dettano le regole per un comportamento consono e caritatevole.

I tenori si lanciano ora in un nuovo tema fugato condensato fortemente caratterizzato da La e Re, dotato di un pathos tutto suo, specialmente poiché per otto battute è raggiunto in imitazione dai contralti. Dopo novantatre battute l’indicazione di tempo passa a un . I bassi iniziano senza accompagnamento con le parole «Se vedi uno nudo, rivestilo, e non ritrarti da chi è carne tua» e ricevono poi risposta da tutte le voci e gli strumenti grosso modo come nel vecchio stile delle cantate di Weimar, con un controsoggetto fiorito a suggerire il «vestire» dell’ignudo. Chiaramente le voci che ascoltiamo si sono spostate: non sono piú gli affamati che soffrono, ora, ma i portavoce della beneficenza. Bach torna in collusione con il testo. Alla battuta 106 il tempo cambia ancora una volta, questa volta in (ancora una caratteristica dei tempi di Weimar) e i tenori cominciano la prima di due esposizioni fugate separate da un interludio con una coda. Il senso di sollievo dopo il pathos opprimente delle sezioni d’apertura è palpabile e arriva a un’eccitante conclusione omofona con und deine Besserung wird schnell wachsen («e la tua guarigione progredirà rapida»). I bassi ora incitano una seconda esposizione fugata, e, dopo tanto pathos, la coda finale guidata dai soprani, und die Herrlichkeit des Herrn wird dich zu sich nehmen («la gloria del Signore sarà la tua ricompensa»), sprigiona l’energia repressa in un’esplosione di gioia.

In quanto climax di una serie inscritta nel ciclo, del suo primo Jahrgang, Bach vide nella BWV 77, Du sollt Gott, deinen Herren, lieben, l’opportunità di dare un’espressione fragorosa e conclusiva alle dottrine cardine della fede già abbozzate nelle prime quattro domeniche della stagione della Trinità. Il suo obiettivo è dimostrare con ogni mezzo musicale a sua disposizione la centralità dei due «grandi» comandamenti del Nuovo Testamento e come «da questi due comandamenti dipendono tutte le leggi e i profeti». Ciò lo porta ad architettare una grandissima fantasia corale in cui il coro, preceduto dalle tre linee superiori degli archi in imitazione, scandisce il messaggio del Nuovo Testamento. A questo punto decide di incastonare il canto dei Comandamenti del Nuovo Testamento con una presentazione senza parole della melodia del corale luterano Dies sind die heil’gen zehn Gebot («Questi sono i sacri Dieci Comandamenti»), per dimostrare come l’intera Legge sia contenuta dentro il comandamento di amare. Stimando di poter contare sui suoi ascoltatori per creare il collegamento tra melodia e testo, lo introduce come canone, un simbolo potente della Legge, fra la tromba da tirarsi in cima al suo ensemble e il basso continuo alla base, un espediente vivido per dimostrare che l’Antico Testamento costituisce il fondamento per il Nuovo, o piuttosto che l’intera Legge è intesa a racchiudere – ed esserne inseparabile – l’ordine di Gesú di amare Dio e il proprio prossimo.

Questo è solo l’inizio. Bach prosegue estrapolando le linee vocali dal tema corale cosí che emergano in modo udibile nell’inversione retrograda della melodia corale in diminuzione. Un modo per comprendere il suo metodo è immaginarlo come un gigantesco kilim caucasico, con un disegno geometrico e un motivo decorativo che formano un tutt’uno. Lo sguardo viene attirato prima dall’intreccio elegante delle linee corali, ma poi inizia a distinguere un profilo piú ampio: lo stesso disegno di base, ma su una scala molto maggiore, che circonda il tutto, e il cui schema si sviluppa nella direzione opposta. Questo è l’equivalente del canone per aumentazione, con la linea di basso che procede sulla quinta piú bassa a velocità dimezzata (in minime), simbolo della Legge fondamentale. La struttura di Bach permette alle trombe (in semiminime) di eseguire nove frasi individuali del corale e, in una decima frase, di ripetere simbolicamente l’intera melodia per sicurezza, di modo che al climax del movimento l’«antico» e il «nuovo» siano inequivocabilmente fusi nella mente dell’ascoltatorei.

Ciò che è strano è che ogni volta che la melodia corale si ferma (in realtà anche prima che si metta in movimento) la musica rivela un carattere indagatore, quasi fragile: un introito tranquillo e innocente privo del solito basso di otto piedi. Dopodiché arriva l’entrata forte e stentorea del tema del comandamento (che, si può star certi, cattura senz’altro l’attenzione della congregazione) e le voci corali tuonano «Amerai Dio, il tuo Signore» come tanti scultori evangelici che cesellano le parole nella superficie rocciosa della musica. Improvvisamente si apre un enorme divario nell’altezza, nella struttura e nella dinamica tra il delicato intreccio delle linee contrappuntistiche in imitazione e il peso pieno e impressionante del doppio canone. Qualcuno trova utile ritenere questa enfatica rappresentazione di altezza e profondità una metafora delle sfere umana e divina: distanti eppure interconnesse. Oltre l’ovvio fondersi dei comandamenti dell’Antico e del Nuovo Testamento, il primo stretto nel suo trattamento canonico, il secondo piú libero e «umano» nell’elaborazione delle linee vocali, esiste la separazione simbolica del controllo esercitato da Dio sulle sfere di «alto» e «basso» (cinque frasi per ognuna, per un totale di dieci). A questo punto la musica è meravigliosa, le voci si inseguono prima verso il basso, poi verso l’alto, sotto il baldacchino dell’ultima proclamazione delle trombe che eseguono la melodia del corale. Questa è un’apertura di cantata mozzafiato, monumentale, che sfugge a una spiegazione razionale. Il risultato finale è una potente miscela di armonie modali e diatoniche che lascia un solco indimenticabile e guarda avanti verso il mondo del Deutsches Requiem di Brahms e oltre, fino al Quartetto per la fine del tempo di Messiaen, due opere irresistibili in cui le soluzioni musicali, molto diverse tra loro, prolungano la visione di Bach ampliando il messaggio biblico attraverso la musica per rispondere cosí alle questioni ultime sul timore e sulla fede.

A ciò segue una riflessione su quanto si dimostri vana la volontà del credente nel tentativo di obbedire al comandamento di Dio, e un assaggio della vita eterna. Ingannevole nella propria semplicità e intimità, un’aria per contralto è scritta in forma di sarabanda; con il suo debole inizio e le cadenze femminee che rispecchiano l’implicita inferiorità dell’uomo. A fare da contraltare al cantante, Bach decide a questo punto di richiamare la sua tromba principale, cosí sicura e maestosa nel coro d’apertura, ma adesso sola e senza supporto all’infuori del basso continuo. Il suo compito qui è quello di comunicare l’imperfezione umana (Unvollkommenheit) nei termini piú semplici. Se avesse deciso di scrivere una melodia in obbligato per la tromba naturale (senza pistoni), difficilmente Bach avrebbe potuto ideare degli intervalli piú goffi e delle note piú instabili: Do e Si ricorrenti, e di tanto in tanto Sol e Mi, che non esistono sullo strumento oppure appaiono dolorosamente stonate. In altre parole Bach sta mettendo in mostra le manchevolezze e la fragilità dell’umanità in modo chiaro, perché tutti le ascoltino e forse addirittura ne rifuggano.

Essere colui che illustra la distinzione tra Dio (perfetto) e uomo (imperfetto e fallibile) è un compito difficile per un musicista, a meno che non sia un clown triste con la faccia dipinta, abituato a suonare (male) la tromba al circo. Ma prima di arrivare alla conclusione affrettata che qui Bach voglia essere sadico, dovremmo guardare al di là della superficie della musica. Richard Taruskin afferma che in certe occasioni «sembra deliberatamente architettare una cattiva esecuzione mettendo le evidenti esigenze della musica fuori dalla portata dei suoi musicisti e dei loro strumenti»14. Per fare ciò, Bach non avrebbe dovuto concedere alcun rimedio al suo trombettista, nessun bocchino largo per «piegare» o «soffiare verso il basso» (o «verso l’alto») la nota non armonica per renderla un po’ piú accettabile, oppure la possibilità di suonare la parte su una tromba da tirarsi, come invece richiede spesso in altri contesti. La questione è che Bach si preoccupa di illustrare lo sforzo come parte integrante della musica15, e poi, in stridente contrasto, la facilità con cui, nella sezione B dell’aria, affronta senza difficoltà un assolo di dieci battute di inesprimibile bellezza, composto interamente dalle note diatoniche della tromba naturale senza neanche un’alterazione: come uno scintillante velivolo che emerge dalle nuvole verso la luce pura del sole. Improvvisamente ci viene concesso uno sguardo al regno di Dio, un augurio di vita eterna, in toccante giustapposizione alla sensazione di difficoltà, addirittura incapacità, del credente ad assolvere da solo ai comandamenti di Dioj. L’espediente può essere un po’ drastico, ma è brillantemente efficace. È necessaria l’intrinseca irregolarità della tromba naturale perché mantenga il suo effetto, che semplicemente si perde se viene suonato su una moderna tromba a pistoni cromatica. Questo è soltanto un esempio dei vantaggi che gli strumenti antichi possono dare alle esecuzioni di Bach. Le tecniche utilizzate in questa cantata sono di estrema sofisticatezza: nel primo coro con l’esposizione della Legge e in questa aria con la presentazione dell’aspra dicotomia tra la perfezione di Dio e i tentativi dell’uomo di imitarla. Restiamo a domandarci come un musicista di chiesa sovraccarico di lavoro, costretto a routine alienanti, poté giungere a un risultato di tale inventiva, e non per un’opera isolata, ma, lo abbiamo visto nel capitolo IX, come parte di un ciclo di cantate coerente e davvero notevole.

Che cosa può aver spronato Bach a inventare musica di tale densità, veemenza e grande originalità, capace di incantarci in questo modo? È una domanda che ha interessato gli studiosi fin dall’inizio. Fu fervore religioso e quel tipo di ostinata dedizione che mostrano le pagine dei titoli, e il suo siglare ogni cantata con «SDG» («Gloria soltanto a Dio»)k, o fu piuttosto il suo innato senso drammatico, e un’immaginazione pronta ad accendersi davanti a un forte immaginario verbale? Crediamo di conoscere la risposta, e cioè che a volte si trattava dell’una e a volte dell’altro, ma poi arrivano i teologi dell’ultima ora, sicuri di individuare nelle cantate un messaggio dottrinale in codice, e alle loro calcagna gli scettici che ribadiscono che si lasci perdere del tutto la religione nell’interpretare Bach, o ancora i musicisti senza immaginazione, che preferiscono tenere separate musica e Scritture. Ma anche se riteniamo che lo zelo luterano di Bach fosse sincero (e non ci sono basi per credere che non lo fosse), ciò non lo trasforma automaticamente in un teologo, e non significa che queste cantate debbano essere interpretate in termini prevalentemente teologici? Sicuramente no: come abbiamo visto, la teologia è espressa principalmente nelle parole, mentre la forma espressiva naturale di Bach e le sue procedure musicali hanno una logica propria, che scavalca le considerazioni del testo. Eppure Gottfried Ephraim Scheibel, per esempio, ribadí che «chiunque vuole comporre testi poetici sacri deve essere [allo stesso tempo] un buon teologo e un buon moralista. Non dipende solo dalle nozioni possedute; occorre anche essere in accordo con le Scritture. Altrimenti la musica delle nostre chiese consisterà di parole vacue che, come gusci vuoti, non hanno anima, e saranno puro rumore che non darà alcuna gioia a Dio. Occorre coniugare un testo intriso dello spirito e una composizione commovente»16.

Tuttavia, non dovremmo giustificare la tendenza dei commentatori motivati teologicamente a trattare le cantate come dissertazioni dottrinali, in contrasto con composizioni musicali separate, non piú di quanto dovremmo accettare la soddisfazione con cui gli atei piú aggressivi provano a sfatare ogni base teologica dell’esegesi musicale bachiana. In ultima analisi, niente può contestare o diminuire la travolgente forza trasformativa della musica di Bach, la qualità che rende le sue cantate affascinanti sia per i cristiani che per i non credenti. Quando pensieri ed emozioni ci vengono presentati in musica, con tanto piú candore, chiarezza e profondità di quanto saremmo d’altronde capaci, possiamo provare una sensazione di sollievo. All’inizio potremmo sentirci oggetto di una predica o di una lezione, e opporre resistenza. Ma poi ci si rende conto che ci si può lasciar andare: nessuno è costretto a condividere la dottrina, poiché l’approccio di Bach, anche nei momenti piú veementi, non è un programma di allenamento morale impostoci du haut en bas. Piuttosto, il tratto distintivo si trova nel modo in cui esprime la sua comprensione di cosa significhi esattamente essere umani, con tutte le nostre colpe, paure e debolezze, interpretando per noi la parola come un grande romanziere, e catturando il senso stesso della vital.

Ci sono volte, tuttavia, in cui il trattamento musicale di Bach è cosí conciliante e cosí vicino alla collusione che si ha l’impressione che avesse deciso, per una volta, di ascoltare le ammonizioni dei teorici musicali a lui contemporanei ad «afferrare il senso del testo» (M. J. Vogt, 1719), con l’obiettivo di «[rendere] il vero scopo della musica: un’espressione musicale raffinata e legata al testo» (J. D. Heinichen, 1711). Eppure, proprio quando sentiamo la loro approvazione, Bach si riappropria (a modo suo) delle regole e crea dei contrasti estremi di Affekte in movimenti successivi di una sola cantata, di certo per stupire e forse seminare confusione nelle menti dei suoi ascoltatori.

La BWV 78, Jesu, der du meine Seele, si apre con un immenso lamento corale in Sol minore, un fregio musicale che tiene testa agli inizi di entrambe le sue Passioni in quanto a proporzioni, intensità e potenza espressiva. Bach la modella come passacaglia su un ostinato cromatico discendente, con il «terreno» del basso ostinato che fa da contrappeso a una melodia innica, e gli intesse intorno linee contrappuntistiche di ogni tipo. Dove ci potremmo aspettare che le tre voci piú gravi offrano un rispettoso accompagnamento al cantus firmus, Bach dà loro un’insolita importanza, poiché servono da intermediari tra la passacaglia e il corale, anticipando e interpretando il testo del corale proprio come farebbe il predicatore con il suo sermone. In piú, tale è il potere dell’esegesi che ci si potrebbe domandare se Bach stia ancora una volta rubando inavvertitamente la scena al predicatore con la propria eloquenza musicale. È uno di quei movimenti d’apertura di cantata in cui si pende da ogni battito di ogni battuta in un tentativo pieno di concentrazione, e quasi disperato, di cogliere ogni briciola di valore musicale dalle note che entrano nelle nostre orecchie.

Nemmeno con la piú fervida immaginazione, dunque, si potrebbe prevedere un seguito per questo nobile coro di apertura piú brusco del delizioso, quasi frivolo duetto «Wir eilen mit schwachen, doch emsigen Schritten» («Noi ci affrettiamo con passi deboli ma instancabili»). La semplice lettura del testo non potrebbe suggerire un pezzo di tale irriverenza e frivolezza: ci aspettiamo qualcosa di compunto, e invece arriva una commedia giocosa. Nel violoncello obbligato in moto perpetuo ci sono echi di Purcell («Hark the echoing air») e anticipazioni di Rossini. La magia di Bach incoraggia a sorridere, battere il piede e annuire a questa preghiera: «Il Tuo volto pieno di grazia sia per noi fonte di gioia!»

La tregua è solo momentanea, però. Con il recitativo del tenore, che insolitamente inizia con un piano, torniamo nel concetto miltoniano di «peccato lebbroso», che Bach ha esposto in diverse altre cantate successive alla Trinità. La linea vocale è spigolosa, l’espressione afflitta e l’adattamento del testo esemplare: quasi un prolungamento del rimorso di Pietro nella Passione secondo Giovanni, che aveva presentato al suo pubblico sei mesi prima. La redenzione passa per il sangue versato da Cristo, e, nell’aria con il flauto obbligato (la n. 4), il tenore dichiara con sicurezza che anche se «la schiera infernale mi chiamasse a battaglia, Gesú però sta al mio fianco affinché io sia intrepido e vincitore». Ci aspetteremmo una tromba, o come minimo l’intera orchestra di archi, a evocare questa battaglia contro le forze del male, ma Bach è piú sottile. Ciò che lo interessa è la capacità della graziosa figurazione del flauto di cancellare o «depennare» il senso di colpa dell’uomo, utilizzando una melodia orecchiabile e ballabile per dipingere il modo in cui la fede può purificare l’anima e far sí che «il cuore si senta di nuovo leggero». Per la sezione vivace di un accompagnato («Quando un giudizio spaventevole pronuncia sui dannati la maledizione»), Bach chiede al basso di cantare con ardore. Questa è infatti una musica di passione, con la P sia maiuscola che minuscola, straordinariamente simile per tecnica, stato d’animo ed espressività alla Passione secondo Giovanni e a quell’altro inimitabile adattamento delle parole «Es ist vollbracht» che è la BWV 159 (vedi supra, cap. IX). In un’esecuzione bachiana, la passione è una merce rara, dato il clima odierno di purezza antiquaria e correttezza musicologica, ma la sua assenza cozza contro il miracolo dell’abilità tecnica di Bach, la sua padronanza della struttura, dell’armonia e del contrappunto, e che egli impregna di veemenza, significato e, per l’appunto, passione.

Anche se siamo ormai abituati al modo originale, drammatico e spesso capriccioso con cui Bach mette le parole in musica, di tanto in tanto incorriamo in un movimento che sembra mal riuscito o che tradisce una rara perdita di concentrazione. Prendiamo ad esempio la melodia dell’aria del soprano «Lebens Sonne, Licht der Sinnen» dalla BWV 180, Schmücke dich, o liebe Seele. Inizia in modo seducente, ma dopo diciannove battute consecutive in cui la cantante continua a ripetere ancora e ancora le stesse parole («Sole della vita, luce dei sensi»), comincia a diventare insopportabile. L’aria «Ich bin herrlich, ich bin schön» dalla BWV 49, Ich geh und suchte mit Verlangen non è molto meglio. Sembra una prima bozza di «I feel pretty, oh, so pretty» di West Side Story; ma, a differenza di Bernstein (e a differenza, per esempio, di «Nur ein Wink» dall’Oratorio di Natale, in cui ogni ripetizione è benvenuta), la melodia di Bach non è abbastanza interessante, al di là di una certa attrattiva superficiale, da permettere tutte queste ripetizioni delle stesse parole. Di fronte al compito di «parodizzare» una delle piú gioiose delle sue cantate di Cöthen, la BWV 134, Ein Herz, das seinen Jesum lebend weiß, Bach all’inizio fece copiare le parti vocali dell’originale senza il testo; poi scrisse egli stesso le nuove parole «sacre», nota per nota, facendo qualche aggiustamento alla musica mentre procedeva. Evidentemente era di fretta o distratto, e i recitativi (normalmente esemplari in quanto a adattamento del testo) sono quelli che soffrono di piú, e infatti sembra che siano stati completati nel sonno. Soltanto sette anni dopo Bach si impegnò a riparare il danno, componendo dei recitativi completamente nuovi per tre numeri e coprendo le vecchie pagine compromettenti.

Uno dei modi in cui Bach riuscí ad aggirare le regole e le costrizioni dell’adattamento del testo fu quello di scegliere un’idea generale che accendesse nella sua immaginazione l’idea di una sonorità strumentale predominante. Arrivò a capire esattamente, per esempio, come usare al meglio le risorse del coro e dell’orchestra (guidata dalla tromba) cerimoniale della sua epoca per comunicare gioia incontenibile e maestosità, senza sapere scientificamente che i parziali acuti della tromba hanno un effetto stimolante sul sistema nervoso dell’ascoltatore. Chiaramente fu spronato dalla presenza a Lipsia dello Stadtpfeifer municipale, un gruppo di virtuosi della tromba guidati dal Capo, Gottfried Reiche, che erano a sua disposizione per rimpolpare il suo Thomaner nei giorni di festività, e da cui potrebbe aver appreso le possibilità melodiche possedute da questi strumenti, sia singolarmente che in contrappunto, al di là del loro fondamentale ruolo ritmico all’interno di una fanfara militare. Basti pensare solo alla scrittura per tromba nell’acuto di uno qualsiasi dei cori della Messa in Si minore per capire quale grande e trascinante potere fu messo a disposizione di Bach. Dal Sanctus ci accorgiamo che Bach concepiva un cosmo pervaso da un’invisibile presenza, fatta di puro spirito, fuori dalla portata delle normali facoltà. Come esseri incorporei, gli angeli avevano il loro posto nella gerarchia dell’esistenza: nel Salmo 8, l’umanità è collocata «poco al di sotto degli angeli». Il concetto di un coro paradisiaco di angeli che suonano le trombe fu recepito da Bach durante gli anni di scuola a Eisenach. Anche i libri degli inni e dei salmi dell’epoca riportavano vividi ritratti di questo concetto. Il compito degli angeli, come fu inculcato a Bach, era lodare Dio con il canto e con la danza, fungere da messaggeri per gli uomini, accorrere in loro soccorso e combattere al fianco di Dio nella battaglia universale contro il male. Lo stupefacente gruppo di cantate che Bach scrisse in onore dell’arcangelo Michele è immenso nella sua prolungata manifestazione di bravuram.

La festa di San Michele arcangelo doveva essere un gradito diversivo durante la stagione della Trinità, dove prevalevano temi tetri e legati al peccato. Prendiamo l’apertura della BWV 130, Herr Gott, dich loben alle wir, una canzone di lode e gratitudine a Dio per aver creato l’armata degli angeli. Bach ci presenta un quadro di angeli in parata: si tratta delle manovre militari celesti, alcune di esse perfino danzate, in preparazione del combattimento. Nella parte centrale della cantata, un’aria di basso in Do maggiore scritta insolitamente per tre trombe, timpani e basso continuo, la battaglia viene descritta non come evento passato ma come pericolo sempre incombente causato dal «vecchio dragone [che] brucia di invidia e rimugina sempre su nuovi mali» allo scopo di disperdere il «povero gregge» di Cristo. Nonostante tutto il fulgore della spada d’acciaio di Michele (tra cui cinquantotto semicrome consecutive per la tromba principale, da suonare due volte), non si tratta di un episodio di Blitzkrieg. Bach è piú concentrato sull’evocazione di due superpotenze intente a regolare i conti: una vigilante e pronta a proteggere l’armes Häuflein (il «povero gregge») contro l’assalto (segnalato da una pulsazione tremolante di tutte e tre le trombe in crome legate); l’altra subdola e ingannevole (e forse i timpani e il basso continuo sono concepiti per stare dalla parte del dragone, proprio come sembrerebbe nella BWV 19, vedi supra, cap. III). Senza dubbio nessun compositore prima o dopo di lui ha scritto una tale profusione di musica celeste da far cantare e suonare ai mortali, e nessuno può vantare un trio di trombe dall’effetto cosí stupefacente come quello di Bach.

La prospettiva di unirsi al coro o al concerto degli angeli dopo la morte era considerata un privilegio per i musicisti tedeschi del tempo. È uno specchio delle ragioni profonde di Bach, oltre alle sue strategie, coscienti o meno, per colmare in musica lo spazio tra il suo mondo e l’aldilà, e in tal modo arricchire l’esperienza dell’ascoltatore. Tali strategie dipendono dal suo uso di alcune specifiche sonorità, come le trombe acute o i timpani negli esempi a cui abbiamo appena accennato, ma allo stesso tempo tramite l’evocazione di alcuni stati d’animo: la fragilità al momento della morte, o il modo in cui affrontare il lutto. È in questo contesto che la famosa formulazione di Keats sulla «capacità negativa» assume una particolare pertinenza: «quando un uomo è capace di stare nell’incertezza, nel Mistero, nel dubbio senza l’impazienza di correre dietro ai fatti e alla ragione». La razionalizzazione di Keats del soggettivo permette la coesistenza di gioia e incertezze, e offre un’involontaria descrizione dell’effetto sull’ascoltatore della musica consolatrice di Bach. Penetrare nelle grandi ricchezze che offre richiede sia rilassamento che sforzo, un’assenza di tensione volontaria, ma la piú lucida concentrazione. Richiede che l’ascoltatore si lasci andare e allo stesso tempo sia sommamente vigile. Ted Hughes disse una volta che scrivere significa affrontare ciò che siamo troppo spaventati per affrontare, dire ciò che preferiremmo non dire, ma che abbiamo disperatamente bisogno di condividere. Questa è anche la funzione catartica delle cantate di Bach, che hanno a che fare con l’arte di morire: il loro effetto è quello di renderci capaci di affrontare l’inaffrontabile.

Sta di fatto che tutte e quattro le cantate di Bach per la Trinità +16 (BWV 161, 27, 8 e 95) dànno voce al desiderio luterano della morte e della liberazione del corpo dalle preoccupazioni, dalle lotte e dalle amarezze terrene. In tutte tranne una sentiamo i rintocchi delle campane a morto, noti come Leichenglocken, che all’epoca di Bach rappresentavano il passaggio dell’anima ed evocavano la sua commemorazione perpetua. Insieme compongono un quartetto profondamente emozionante di musica concertata salutare e vivificante. Nonostante l’unità tematica, sono cionondimeno piene di tensione creativa, e presentano trattamenti diversi della convergenza tra musica e testo, e tra tessuto, struttura e stato d’animo. Per la prima di esse, la BWV 161, Komm, du süße Todesstunde, Bach utilizza una tavolozza insolitamente ristretta di strumenti dal suono morbido, guidati da due flauti dolci contralti (proprio come nell’Actus tragicus), spesso accoppiati in terze o seste. Sono l’elemento di coloritura principale nella straordinaria scena che costituisce il movimento centrale della cantata, in cui il credente (in un recitativo accompagnato per contralto), arrivato al termine del suo pellegrinaggio spirituale, si prepara al momento della morte. Ogni immagine testuale è replicata in musica: il «dolce sonno» dell’anima che sprofonda nel riposo tra le braccia di Gesú è rappresentato da una scala discendente della voce, del basso continuo e dei due flauti dolci, in quest’ordine; semplici accordi separati suggeriscono la «fredda tomba» coperta di rose; improvvise semicrome animate descrivono il risorgere dai morti e l’avvicinarsi del «lieto giorno», quando il desiderio di morte diventa gioia; e il rintocco delle minuscole campane a morto segna il «momento finale», punteggiato dal suono delle quattro corde vuote dei violini.

Due dei movimenti sono in tempo ternario, e segnano lo schema di diverse cantate successive di Bach, anch’esse incentrate sul richiamo della morte, un espediente che culla e calma il cuore addolorato, come nel magico coro d’apertura della BWV 27, Wer weiß, wie nahe mir mein Ende, un lamento elegiaco in cui Bach intesse una melodia modale legata all’inno di Neumark Wer nur den lieben Gott läßt walten. Il passaggio del tempo è suggerito dai lenti rintocchi di pendolo nel basso dell’orchestra. In contrapposizione a questo, la figura discendente degli archi e un toccante tema spezzato degli oboi fanno da sfondo all’evocativa melodia del corale, intrecciata con il recitativo dal tono contemplativo. Perfino il clavicembalo obbligato e la linea del basso continuo dell’aria del contralto sembrano impregnati del concetto del tempo che si appresta a terminare, enfatizzato dall’articolazione percussiva dei tasti del clavicembalo, una caratteristica ricorrente in queste cantate dal carattere funebre.

Un quadro sonoro ugualmente evocativo, quasi come un corteo funebre, viene creato con mezzi puramente strumentali all’inizio della BWV 8, Liebster Gott, wenn werd ich sterben, che consiste di un movimento quasi continuo di semicrome in Mi maggiore per due oboi d’amore, un accompagnamento smorzato di crome in staccato degli archi, e una linea di basso pizzicato che punteggia il lento pulsare in . A librarsi sopra tutto ciò è l’acuto tintinnare del flauto traverso, che suona oltre la sua normale tessitura, ed è cosí diverso dalla simulazione delle diverse grandezze delle campane cui Bach ricorre per commemorare la scomparsa della regina Christiane nel Trauer-Ode, BWV 198 (vedi supra, cap. VII). Prima che sia stata cantata anche una sola nota, in questo movimento si è creata una tenerezza elegiaca e iridescente, il che dà l’impressione di qualcuno che si avvicina al termine della vita e osserva la processione della sua stessa famiglia in lutto. Se a volte la scrittura dell’oboe porta alla mente la musica di Brahms, qualcuna delle progressioni armoniche anticipa L’Enfance du Christ di Berlioz; Bach dà un ampio bilanciamento all’entrata della melodia innica cantata dai soprani. Tornano le campane a morto (almeno implicitamente) nelle crome staccate dell’aria del tenore sulle parole wenn meine letzte Stunde schlä-ä-ä-ä-ä-ä-gt, e nel basso continuo pizzicato.

La capacità immaginativa di Bach di comunicare attraverso la musica e le parole gli ultimi momenti del pellegrinaggio cristiano raggiunge un picco nella seconda parte del coro d’apertura della BWV 95, Christus, der ist mein Leben. Qui dipinge la lotta tra le forze della vita e della morte prima che l’anima raggiunga la sua agognata destinazione. È simile al climax del Pilgrim’s progress di John Bunyan, quando Christian «trapassò, e dall’altra parte le trombe suonarono per lui». Bach usa quattro inni funebri consecutivi come pilastri della sua struttura, infondendo coraggio al credente (tenore) che contempla la morte. Gli scambi d’apertura sincopati, e piuttosto muscolari, tra gli oboi raddoppiati e i violini pulsano di vitalità e spianano la strada al primo corale in ritmo ternario. Questo si dissolve alla parola sterben («morire»), un’entrata voce su voce costruisce un accordo di settima diminuita, che si placa e riesplode con ist mein Gewinn («è il mio guadagno»). Il culmine arriva con il verso mit Freud fahr ich dahin, che serve da anello di congiunzione al corale successivo, la parafrasi di Lutero del Nunc dimittis.

A tenere insieme le due affermazioni del corale è un arioso, «Mit Freuden, ja, mit Herzenslust will ich von hinnen scheiden» («con gioia, sí, con vero piacere mi voglio separare da questa terra»). Bach è molto sperimentale nel modo in cui spezza questi segmenti di ritmo libero, contenendoli con l’inserimento di frammenti nel motivo sincopato d’apertura. Si ha l’impressione di una successione di battute implicitamente in (i recitativi dell’epoca erano sempre scritti in ). Al suo climax il tenore canta senza accompagnamento «Il mio canto di morte è già composto», silenzio, «Ah, potessi cantarlo oggi stesso!» Senza soluzione di continuità il dialogo tra il corno e gli oboi annuncia il secondo corale, lo spumeggiante «Mit Fried und Freud» di Luteron. Alla conclusione, il soprano solista esplode nell’esclamazione «Ebbene, falso mondo! Ora non ho piú nulla a che fare con te». Ciò porta, sempre senza interruzione, a un’accattivante melodia ad arco, «Valet will ich dir geben, du arge, falsche Welt» («Un addio voglio darti, maligno, falso mondo»). L’unica vera aria in questa cantata è per l’ambizioso tenore, l’ipnotica «Ach, schlage doch bald» («Ah, batti perciò presto, ora beata»), in cui due oboi d’amore procedono per nude quarte, fermandosi di tanto in tanto per posarsi su una dissonanza (l’effetto è simile al modo in cui rimane sospesa nell’aria un’eco di campane incrinate), sempre accompagnati da un persistente Leichenglocken pizzicato.

Ma che cosa rappresentano per l’esattezza? Sono soltanto simboli introdotti per risuonare nella mente degli ascoltatori, mezzi non verbali per innescare schemi ritmici e sonorità nell’immaginazione auditiva dei partecipanti al lutto? A seguito delle nostre esecuzioni di tutte e quattro le cantate a Santiago de Compostela nel 2000, nel bar dell’hotel ci fu una grande discussione tra i musicisti sul significato e l’immaginario suggerito da questi Leichenglocken. Alcuni ritenevano che le crome ripetute del flauto nella BWV 161 iv e nella BWV 8 i rappresentassero le acute campane a morto associate con la morte di un bambino, e nient’altro. Altri erano convinti che la musica nell’aria della BWV 95 v rappresentasse gli ingranaggi di un orologio, con il tenore che aspetta il risuonare della sua ora: gli archi imitano il ticchettio meccanico dell’orologio, mentre gli oboi imitano il meccanismo della ruota, che al dodicesimo rintocco si arresta, proprio come sembra fare il tempo quando siamo impazienti. L’eco del secondo oboe dà una piccola spinta all’orologio tirando il contrappeso, e cosí lo rimette nuovamente in movimentoo. Questa ingegnosa (e secondo me plausibile) spiegazione porta a riflettere su quali potessero essere le preoccupazioni di Bach durante la composizione di questi pezzi. Fu forse una preparazione interiore per la possibile morte di un gracile bambino a ispirare in lui questa successione di cantate incentrate sulla fede e sulla fiducia, e dotate di una semplicità cosí innocente? La sua ottava figlia, Christiana Sophia (la prima con Anna Magdalena, nata nel 1723) era infatti malata e sarebbe morta il 29 giugno 1726, proprio pochi mesi prima della composizione della BWV 27, una cantata impregnata di semplicità e innocenza, che si apre con le parole «Chissà quanto vicina è la mia fine? Passa il tempo, la morte si avvicina»p.

Nel suo manuale di comportamento per i giovani cavalieri tedeschi (1728), Julius Bernhard von Rohr dedica trentuno pagine al tema della morte, della sepoltura e del lutto. Da precettore scrupolosamente illuminato, von Rohr consiglia la condotta «ragionevole» per prepararsi alla morte, la sistemazione delle proprietà, l’abbigliamento, la cerimonia e gli elogi funebri piú adeguati. Riserva parole dure a coloro che descrive come Heuchel-Schein und Maul-Christen («cristiani ipocriti e di facciata»), e ai pastori che permettono che i propri sermoni funebri si trasformino in Lügen-Predigt («sermoni bugiardi»), ed è a favore della messa al bando dei funerali notturni privati (Beisetzung)17. Bach doveva essere d’accordo: l’abitudine consolidata di eseguire sepolture di notte senza alcuna musica riduceva le sue occasioni di introito aggiuntivo sotto forma di tariffe funebri. Per lo stesso motivo, anche la buona salute dei cittadini di Lipsia era una particolare preoccupazione per Bach; si lamentò infatti con il suo amico Georg Erdmann: «Quando soffia il vento della salute […] come l’anno scorso […] perdo compensi […] per piú di 100 talleri»18.

Dall’altra parte, la morte di una celebrità come Augusto II di Polonia il Forte, o del suo vecchio datore di lavoro Leopoldo di Cöthen, offriva una rara occasione per composizioni ed esecuzioni proficue, benché fosse seguita anche da un periodo di lutto e quindi di silenzio, senza alcun introito. La cruda esperienza di Bach nei confronti della morte era forse superiore alla media nella Sassonia del XVIII secolo (ricordiamo che una sorella, due fratelli e uno zio morirono mentre era bambino. Poi arrivò la morte di entrambi i genitori prima che compisse dieci anni, la perdita della prima moglie, Maria Barbara, nel 1720, e quella del terzo figlio, Johann Gottfried Bernhard, poco dopo i vent’anni, piú quattro figlie e tre figli della terza moglie, Anna Magdalena).

Non sappiamo in che modo tutto questo dolore venisse espresso nella sua vita privata. Abbiamo però le espressioni pubbliche di lutto del compositore e le sue toccanti reazioni ai testi funebri, nelle cantate e nei mottetti. Arnold Toynbee affermò che nel rapporto tra i vivi e i morenti «ci sono due vittime della sofferenza che infligge la morte; e, nella ripartizione di questa sofferenza, è il sopravvissuto a venire colpito maggiormente»19. Bach, secondo la buona usanza luterana, si rivolge a entrambe le parti: i defunti cadono in un sonno benedetto e i parenti in lutto cercano conforto spirituale nell’infinita mietitura della morte. Le sue strategie sono molto piú empatiche, ad esempio, del modo in cui Rembrandt dipinge la cruda verità della morte «con un’esplosione di nera allegria»20 dopo la logorante peste del 1668, che portò via il suo unico figlio, Titus, all’età di ventisette anni. Bach evita la morbosità di fronte alla sofferenza tipica di alcune correnti del pietismo, che fanno venire in mente «il misterioso erotismo delle ferite»21 e quelle sgradevoli narrazioni di violenza e vendetta che riflettono la nostra psicopatologia ogni volta che la morte viene posta al centro della religione.

Mentre la sua biblioteca conteneva numerosi esempi di teologi che assaporavano l’opportunità di raffigurare in termini strazianti l’avvicinarsi alla morte e la corruzione del corpo, le cantate di Bach che affrontano questo tema offrono grandi riserve di conforto a coloro che sono in lutto. Uno degli esempi piú commoventi è l’aria per soprano «Letzte Stunde, brich herein, mir die Augen zuzudrücken» («Ultima ora, irrompi a chiudere i miei occhi») dalla sua cantata di Weimar BWV 31, Der Himmel lacht, in cui raggiunge un momento di grandissimo dolore ma all’interno del movimento altalenante di una ninna nanna. La melodia introduttiva dell’oboe con crome accoppiate e alternanza di battute forti e deboli, e il modo in cui gli archi acuti intonano senza parole il corale del letto di morte «Wenn mein Stündlein vorhanden ist» («Quando la mia ora è vicina»), creano un’indimenticabile evocazione del passaggio da questa vita alla prossima e perfino di «entità celesti che fluttuano sul letto del credente che si diparte»22. Le melodie di Bach sono descritte nel Nekrolog come «originali; ma sempre variate, piene d’invenzione, e diverse da quelle d’ogni altro compositore», ma questo esempio del 1715 ce lo mostra mentre perde un po’ di quella «stranezza». L’originalità è ancora presente, comunque, nella lunghezza e nella spigolosità di alcune frasi vocali che nessuno Stölzel, Graupner o perfino Telemann sarebbe mai riuscito a scrivereq.

Non c’è esempio migliore di questa evoluzione verso la facilità della melodia del quarto movimento di una delle sue cantate piú conosciute, la BWV 82, Ich habe genug, l’aria «Schlummert ein, ihr matten Augen» («Addormentatevi, voi occhi spossati»), forse il paradigma della collusione tra musica e testo in tutta l’opera vocale di Bach. Composta per la Festività della Purificazione nel 1727, non solo arriva come gradito contrappeso alla successione di arie piene di dolore che caratterizzano la stagione dell’Epifania (come la BWV 123 v e la BWV 13 v, già discusse supra e nel cap. IX), ma incarna con la delicata cadenza di una ninna nanna la descrizione di Lutero «La morte è diventata il mio sonno», un effetto rinforzato dalla soave sonorità dell’oboe da caccia aggiunto per la sesta e ultima revisione del 1748. Questo è l’ultimo verso del suo inno «Mit Fried und Freud», il suo libero adattamento del Nunc dimittis. Bach l’aveva usato per la stessa festività due anni prima come base della BWV 125, la cantata dal titolo Mit Fried und Freud ich fahr dahin, una versione piú pubblica della prospettiva consolante della morte rispetto a quella di Ich habe genug, eppure, a modo suo, ugualmente intima ed evocativa, quando la musica del primo coro scivola in un quieto registro sepolcrale sulle parole sanft und stille («calmo e tranquillo») e ancora, con un pathos straordinario, sulle parole Der Tod is mein Schlaf worden («la morte è diventata il mio sonno») che, come la BWV 77, sembra catapultare l’ascoltatore centocinquant’anni in avanti, nel mondo di Brahmsr. A questo punto il librettista di Bach inserisce versi suoi, parole che evidenziano il collasso fisico, contraddicendo cosí la serenità e la gioia espresse in tutti gli altri movimenti: «Anche con occhi spenti, io voglio guardare a Te, mio fedele Salvatore, anche se la forma del mio corpo è cadente», una toccante anticipazione di ciò che stava accadendo a Bach. Egli li assegna al contralto con un flauto e un oboe d’amore, e un basso continuo segnato ligato per tutto è senza accompagn. Interpretato come tasto solo di violoncello e organo (sarebbe a dire in unisono e senza armonizzazioni), dà un tono sepolcrale (e invero «vuoto», come se lo stesso organista fosse morto all’improvviso) a quest’aria lamentosa e intensamente dolente, con i suoi ritmi persistenti da sarabanda francese fortemente puntati e intrecciati in una scrittura a tre voci (a volte quattro) riccamente ornata con appoggiature sospiranti. Nonostante tutta la nobiltà e la grandiosità del gesto con cui vengono espressi la fragilità del corpo che spira e l’aspetto «spezzato» dell’offuscarsi dello sguardo, sembra esserci un dolore privato, riconoscibile nella fragilità stessa delle tre voci superiori che Bach sovrappone ai suoni cavi dello spoglio basso continuo, con le sue inesorabili coppie di crome ripetute. Il cuore della coinvolgente espressione di lutto privato da parte di quest’aria è prolungato anche quando il testo evoca la consolazione («anche se il mio corpo è infranto, il mio cuore e la mia fede non cadranno»).

Quest’aria non ha niente della sensualità o dell’alchimia consolante della BWV 82, o anche della sua primissima opera funebre, l’Actus tragicus, in cui, come abbiamo visto nel capitolo V (supra, cap. V), Bach come Montaigne tentò di privare la morte della sua capacità di terrorizzare. Montaigne era preoccupato di stabilire dei legami tra le attività fisiche e l’«imparare a morire». «Il saper morire ci affranca da ogni soggezione e costrizione», scrisse nel capitolo XX del libro I «Filosofare è imparare a morire» dei Saggi23. «Non c’è nulla di male nella vita per chi ha ben compreso che la privazione della vita non è male». È una «vera e sovrana libertà, che ci dà modo di far gli sberleffi alla forza e all’ingiustizia e prenderci gioco delle prigioni e dei ferri». Essere coscienti della brevità e dell’imprevedibilità della vita, e di conseguenza «sempre pronti a partire», Montaigne desidera che la morte lo colga mentre è al lavoro sui suoi affari quotidiani, ma senza preoccuparsi dei frutti della sua fatica: «Voglio che la morte mi trovi mentre pianto i miei cavoli, ma incurante di essa, e ancor piú del mio giardino non terminato». Bach potrebbe aver trovato sollievo dal trauma della perdita in cosí giovane età di entrambi i genitori attraverso la sua profonda passione per la musica. Nel bisogno improvviso di affrontare la sua stessa mortalità, egli potrebbe aver trovato nella musica la via per sbloccare la parte di sé che lo aveva condotto a una percezione molto personale del divino, qualcosa che condivideva con altre persone straordinariamente creative e mistiche come Jakob Boehme, il quale scrisse: «Siamo tutti archi nel concerto della gioia di Dio»24. Secondo questa interpretazione, la musica potrebbe essere stata il mezzo per esprimere il suo tumulto interiore: è possibile che usò quel dolore per liberare un energico flusso di ispirazione.

La vita intesa sia come pellegrinaggio che come viaggio per mare è la metafora sottintesa della BWV 56, Ich will den Kreuzstab gerne tragen, una cantata per basso solo che è l’eguale della BWV 82 nel modo in cui la sua ingegnosa struttura è cosí ben elaborata. Ciò che la rende particolarmente interessante è l’approccio apparentemente romantico di Bach alla messa in musica del testo: un sofisticato esempio di collusione. Egli modella la linea melodica per permettere successivi cambiamenti dello stato d’animo, spostandola da una concisa scalata verso l’alto iniziale, uno straziante arpeggio verso la settima col diesis (come quelli che in seguito avrebbe utilizzato Hugo Wolf), che forma un gioco di parole musicale sulla parola Kreuzstab (la «Croce»), e successivamente per sei battute e mezzo di dolente discesa a significare il continuo fardello della Croce e il sollievo che «viene dall’amata mano di Dio». Bach riserva il cambiamento maggiore per la sezione B, passando a un ritmo in terzine per la parte vocale in una sorta di arioso mentre il pellegrino porta tutto il proprio dolore nella tomba: «Là il mio Salvatore in persona mi asciugherà le lacrime». Modella un arioso con arpeggi di violoncello per raffigurare il sovrapporsi delle onde, mentre la linea vocale descrive come «il dolore, l’afflizione e l’angoscia mi attanagliano». Laddove il primo movimento guardava in avanti, l’arioso sembra risalire alla musica che Bach aveva appreso da bambino, quella dei suoi antenati. Si riescono a cogliere delle allusioni a una precoce fiducia nell’affidarsi alla protezione di Dio nel conforto sussurrato di Ich bin bei dir («Io sono con te»).

Come abbiamo visto, con la morte di entrambi i genitori all’età di soli nove anni non c’era alcun sostituto umano a cui potesse affidarsi completamente. Mentre le onde scemano e il violoncello si arresta su un Re grave, la voce del pellegrino continua in un recitativo secco sulle parole simili a quelle di Bunyan, «Allora dalla nave entrerò nella mia città, che è il regno dei cieli, dove io e tutti i giusti entreremo, sfuggendo alle tribolazioni». Un’ulteriore metafora, con l’oboe obbligato nelle vesti di angelo custode del pellegrino ora giubilante, è sviluppata nell’estesa aria con da capo «Endlich wird mein Joch» («Finalmente, il mio giogo cadrà di nuovo dalle mie spalle»). Bach riserva la sorpresa piú grande per il momento in cui il desiderio del pellegrino di volare come un’aquila non può piú avere confini: «Che accada oggi!» esclama, con l’enfasi spostandosi da O! a gescheh a heute e infine a noch. Questi sono i momenti in cui sentiamo Bach colmare la distanza tra vivere e morire con totale chiarezza e grande coraggio. Mozart poteva parlare anche per Bach quando scrisse a suo padre nell’aprile del 1787 ispirandosi a Montaigne: «Dato che la morte, a ben guardare, è la vera meta della nostra vita, già da un paio di anni sono in buoni rapporti con questa vera, ottima amica dell’uomo, cosí che la sua immagine non solo non ha per me piú niente di terribile, ma anzi molto di tranquillizzante e consolante!»25.

Abbiamo provato a esplorare il confine tra musica e linguaggio. Nelle sue cantate sacre la musica di Bach opera sul linguaggio della sua lingua madre, un processo che a volte porta a collusione e altre finisce in collisione o dislocamento. Spesso, come ho cercato di dimostrare, i risultati arrivano dritti al cuore della condizione umana. Quando si tratta dei suoi mottetti (che risalgono a tutto il suo periodo centrale, ma dei quali solo pochi sono sopravvissuti), la relazione tra musica e linguaggio non è proprio la stessa, poiché non comporta alcuna collaborazione con un poeta o librettista, a differenza delle cantate. Al contrario, attingono a solidi passaggi biblici e aforistici combinati a corali, selezionati e arrangiati dal compositore e (per quanto ne sappiamo) da nessun altro, cosa che gli permise di sviluppare soddisfacenti unità armoniose, molto piú difficili da ottenere nelle cantate sacre, con i loro testi eterogenei e la loro forma leggermente asimmetrica. Come pezzi prevalentemente funebri, i mottetti incarnano il desiderio luterano all’unione con Dio e innestano profondamente l’idea dell’amore divino che dona la sua giustificazione alle vite dei fedeli. Ci parlano in maniera molto diretta poiché, come diverse cantate che hanno come argomento l’ars moriendi, affrontano qualcosa che tutti condividiamo con Bach: la nostra mortalità.

Si tratta essenzialmente di musica per voci non accompagnate, resa avvincente dall’abilità da parte di Bach di convertire un insieme di figure di concezione strumentale in frasi vocalmente espressive attraverso la loro fusione con le paroles. Ciò la rende enormemente difficile da eseguire, e dunque non stupisce che Bach, a quanto pare, abbia insistito sul fatto che tutti e cinquantaquattro i Thomaner fossero in teoria disponibili a eseguire quella che veniva chiamata «la musica del Cantor», che fosse divisa in separate Kantoreien a otto voci (ce n’erano quattro, ognuna con due ragazzi per parte) o in multipli di otto26. Come per Mozart dopo di lui, in Bach non c’è alcuna rigida divisione tra le melodie strumentali e le arie o frasi cantate, cosí che quando alcuni dei suoi cantanti migliori venivano improvvisamente costretti a fare da strumentisti per una funzione particolare, non c’era alcun cambiamento drastico di stile. Prendiamo la sezione mediana del suo mottetto in cinque parti BWV 227, Jesu, meine Freude, la sottile fuga vocale «Ihr aber seid nicht fleischlich sondern geistlich» («Ma tu non sei nella carne, ma nello Spirito»): il modo in cui Bach organizza l’avvicinamento graduale verso la parola fleischlich nel tema principale, la allunga languidamente al di sopra della linea della battuta e poi la contrasta con un lungo ed enigmatico melisma su geistlich, è prova sufficiente che anche quando pensava contrappuntisticamente riusciva a dare spazio a espressive inflessioni vocali per dare vita ed enfasi particolari alle parole che metteva in musicat.

Un altro esempio impareggiabile di questa fluidità si trova nella lunga sezione mediana di uno dei suoi primi mottetti, il BWV 228, Fürchte dich nicht, arrangiato questa volta come doppia fuga in cui le tre voci piú gravi si scambiano soggetti che sono inversioni libere l’uno dell’altro. Se vi venisse detto all’inizio che i soggetti ascendenti derivano dal motivo di apertura del corale che presto apparirà come cantus firmus del soprano, vi colpirebbe come uno dei tanti esempi dell’infinita abilità di Bach. Ma quando questo motivo appare per la terza volta, cantato ora dai contralti nella tonalità del corale (Re maggiore), il collegamento diventa subito udibile (oltre che abile), specialmente per la successione delle parole, le bibliche ich habe dich bei deinem Namen gerufen («Ti ho chiamato per nome») che conducono a un climax sul verso innico «ich bin dein, weil du dein Leben … [gegeben]» («Io sono tuo, poiché tu hai dato la tua vita»). Bach aveva appreso dal suo grande predecessore Johann Christoph, che aveva a sua volta realizzato un mottetto da una versione di queste parole prese da Isaia, come contrastare, sovrapporre e fondere parole o idee simili per scopi espressivi ed esegetici, e sempre con una musica naturale e affascinante. Cosa c’è di piú semplice e di piú eloquente della breve frase separata du bist mein inserita come quinta discendente tra i soggetti di fuga in collisione?

In ogni momento di questi mottetti Bach mostra di essere consapevole di tutto ciò che può dare buoni risultati in una melodia, o di cosa ne possa essere estratto. Con Jesu, meine Freude non si può non rimanere meravigliati dalla straordinaria simmetria e dai riferimenti incrociati che Bach ha architettato per fornire una struttura poco invasiva per la messa in musica (vedi il diagramma a destra). Ciò gli ha permesso di giustapporre con evidente facilità dei partner letterari platealmente male assortiti (le zuccherose strofe inniche di Johann Franck e i versetti austeri dell’ottava Epistola ai Romani di San Paolo) con apparente facilità e con una feconda alternanza drammatica. Non si incontra facilmente un simile livello di disposizione simmetrica nei movimenti delle cantate sacre, se non nella BWV 4, Christ lag in Todesbanden, una delle piú antiche.

Né possiamo dire che Bach si tiri indietro dal vestire i panni dell’attore di tanto in tanto, per afferrare la forza e il ritmo di una sola parola come trotz! e scagliarla in lungo e in largo per la chiesa. Grammaticalmente questa parola è una preposizione che significa «nonostante», ma nel contesto dell’inno di Franck e dell’adattamento di Bach ha la risonanza del nome Trotz, che indica sfida e ripicca, un guanto lanciato al «vecchio dragone» convocato davanti ai nostri occhi con la vivacità visuale di un Cranach o di un Grünewald. Poi contrappone tutto ciò all’immagine ugualmente potente di un Martin Lutero, intrepido nella sua isolata ribellione (ich steh hier und singe) e, come lo stesso arcangelo Michele, coraggioso e irremovibile nella sua sfida (in gar sichrer Ruh), o come Archimede: «Datemi un punto d’appoggio e solleverò il mondo». L’identificazione di Bach con Lutero è cosí stretta in questo passaggio da farci percepire che anche lui «si erge e canta con cosí tanta pace», incitandoci a fare lo stesso con uguale veemenza. Se volessimo scegliere un solo esempio di come Bach fosse in grado di imbrigliare la sua prodezza compositiva e la sua capacità inventiva per articolare il proprio ardore e la propria fede, sarebbe proprio questo mottetto.

Un uguale fervore, ma meno militante e piú sensuale, si trova nel piú intimo e toccante dei suoi mottetti a doppio coro, il BWV 229, Komm, Jesu, Komm. Le esplorazioni di Bach delle possibilità dialettiche di otto voci disposte in due cori antifonali, qui e nella sua Passione secondo Matteo (vedi supra, cap. XI), va molto al di là della manipolazione di blocchi di suono spazialmente separati esplorati dai polifonisti veneziani, e dei dialoghi concepiti retoricamente dal pupillo di Gabrieli, Heinrich Schütz. Avendo chiaramente appreso la potenza espressiva della ripetizione e degli scambi di parole da Schütz, Bach trova dei modi per intrecciare tutte e otto le linee in un ricco arazzo contrappuntistico, con cadenze estese e appoggiature trascinate sulle parole müde («logoro»), sehne («desiderare») e Frieden («libertà») che anticipano il male di vivere e la nostalgia che si incontreranno un secolo e mezzo piú tardi nei mottetti a doppio coro di Brahms.

Le invocazioni a Cristo di apertura – suppliche di una sola parola di entrambi i cori, prima alternati e poi insieme – sono pronunciate nel linguaggio espressivo e fisicamente esplicito di una canzone d’amore. Bach trova un carattere musicale caratteristico e adeguato a ogni verso del testo metrico in rima di questo inno funebre. Per il profilo melodico di die Kraft verschwindt («la forza svanisce») descrive un arco che accenna al percorso discendente della vita, che inizia in modo energetico con semiminime prima che la sabbia della vita si esaurisca (je mehr und mehr, «sempre di piú») e poi riguadagna temporaneamente slancio mentre uno dei cori si arresta solo per aumentare l’eloquenza espressiva dell’altro. Ancora una volta sono i bassi a evocare il der saure Weg («l’amaro cammino della vita») con l’angosciato intervallo discendente di una settima diminuita con lente minime e in canone. Nel momento in cui ha passato in rassegna tutte e otto le voci e ha intessuto una fitta rete contrappuntistica, Bach ha raggiunto una travolgente descrizione del disagio personale e collettivo: «la vergogna | Dei motivi di un tempo svelati, e la coscienza | Di cose fatte male e fatte a danno degli altri»27. Ma Bach non ha ancora finito. Con due cori a disposizione può dare a uno il testo frammentato e può fare in modo che l’altro si interponga con due sole toccanti parole, zu schwer! («troppo pesante»): l’amaro cammino della vita è troppo duro da sopportare per chiunque. Poi conclude questa sezione con poco piú di tre battute di pedale in Re, con armonie di passaggio di incantevole pathos.

A questo punto è necessaria una specie di liberazione di qualche tipo, che arriva nell’inattesa forma di una nuova esposizione fugata che inizia dai contralti, Komm, komm, ich will mich dir ergeben («Vieni, mi darò a te»), piú madrigalesca che ecclesiastica, alla quale il secondo coro fornisce un commento sillabico, gaio ed entusiasta cosí come le ripetizioni di Komm, komm in apertura erano languide e imploranti. Ora cambia metro in , scambiando segmenti di due battute di un minuetto francese da un coro all’altro per le parole Du bist der rechte Weg, die Wahrheit und das Leben.

Chiunque altro avesse avuto l’idea di un movimento di danza, a questo punto si accontenterebbe di fargli seguire il suo corso e di passare rapidamente alla seconda strofa dell’inno di Paul Thymich. Bach, invece, ha appena iniziato. Per le successive ottantotto battute elabora lunghe e superbe sequenze una dopo l’altra, prima per un coro, poi per l’altro, cosí che la musica sembra non fermarsi mai nel comunicare l’effetto balsamico e rassicurante delle parole di Cristo «Io sono la via, la verità e la vita» (Giovanni 14,6). Un tale lirismo e una tale estasi si trovano in diverse arie delle sue cantate, ma raramente nei cori. Qui, in Komm, Jesu, komm Bach rompe con la tradizione del mottetto barocco cosí come l’aveva ereditata, approfittando della presenza dei due cori a quattro parti e scrivendo con una fantasia contrappuntistica audace e senza precedenti. La conclusione, due battute di scambio antifonale, seguite da altre otto di contrappunto imitativo a otto voci, viene poi ripetuta come un’eco, un giusto envoi, che spinge i limiti tecnici del suo coro (e di tutti quelli a seguire) al livello piú alto. La strofa finale è scritta per il coro a quattro voci, adesso riunito, che chiama aria, ma ciò non deve confonderci, come è accaduto ai suoi commentatori del passato, poiché chiaramente questo non è un corale, non ha cantus firmus e si adatta perfettamente alla definizione di Mattheson di un’aria corale per voci: «si muove con passi uguali senza che nessuna delle voci tenti ciò che le altre voci non siano in grado di eguagliare in qualche modo»28. Questa descrizione, tuttavia, fa poca giustizia all’impennarsi delle linee vocali di Bach, che emergono da un arrangiamento notevolmente flessibile delle parole (con battute in che si alternano con altre in un implicito ) in una lirica preghiera di sottomissione alla guida e alla protezione di Gesú quando la sua vita è alla fine.

«Il coro aveva cantato a malapena poche battute quando Mozart si alzò in piedi turbato; dopo poche altre misure gridò: “Che cos’è questo?” E ora tutta la sua anima sembrava essersi ritirata nelle sue orecchie. Quando il canto fu finito gridò, pieno di gioia: “Allora esiste qualcosa da cui imparare!”»29. E perché no? Il BWV 225, Singet dem Herrn, è di gran lunga il piú ricco e tecnicamente impegnativo dei mottetti a doppio coro di Bach, ma non fu questo a colpire Mozart nella Thomaskirche di Lipsia nell’aprile 1789, e a spingerlo a richiedere le parti, che poi «sparse tutt’intorno a sé, in entrambe le mani, sulle ginocchia, sulle sedie accanto a lui, e dimentico di tutto, non si alzò di nuovo finché non aveva visto tutto ciò che vi era di Sebastian Bach in quelle carte». Nessuno dei precedenti contatti di Mozart con la musica sacra lo aveva preparato a questo, uno degli esempi piú inebrianti e intrisi di danza tra la musica vocale che Bach abbia mai scritto. Nessuno strumento è richiesto oltre a un convenzionale basso continuo (generalmente si è d’accordo che il raddoppio colla parte è permesso ma non obbligatorio); eppure anche senza l’appoggio dell’orchestra delle sue cantate, questo è il mottetto dalla concezione piú orchestrale, che evoca non solo le percussioni e le arpe richieste dal salmista in lode del nome di Dio, ma anche una miriade di altri strumenti ed effetti percussivi.

All’inizio Bach assegna catene di figure corte strumentali a uno dei suoi cori, mentre dal modo in cui arrangia la sola parola Singet! per il Coro 2 dimostra di essere determinato a ricavare il massimo effetto percussivo e di emozione dal testo tedesco, al di là del suo fungere da basso continuo e fornire supporto armonico al Coro 1. Il suo modo per celebrare, prima la comunità dei santi, poi Israele «[che] gioisce in colui che l’ha creato», è quello di sfruttare le onde d’urto prodotte da colpi di glottide piazzate strategicamente e la forza sincopata di consonanti occlusive e fricative. Se venissero tolte le vocali o perfino le note, il carattere esuberante del testo rimarrebbe comunque percepibile solo dalla collisione di queste animate consonanti.

Nel momento in cui Bach raggiunge la sezione finale, «Lobet dem Herrn in seinen Taten», è come se avesse schierato tutti gli strumenti del Tempio dell’Antico Testamento – le arpe, i salteri e i cimbali –, al servizio della lode del Signore, come un cuadro flamenco di un’epoca successiva o il leader di una Big Band. Si dice che re Davide avesse al suo servizio circa trecento musicisti; Bach a Lipsia ne aveva appena trenta, ma ciò non gli impedí di inserirsi nella discendenza dei musicisti sacri incaricati di formare cori per i canti di ringraziamento fin dai tempi biblici. Nei margini della sua copia personale del commento alla Bibbia di Abraham Calov, Bach scrisse: «la musica […] è stata specialmente ordinata dallo spirito di Dio attraverso Davide». Su un’altra pagina, in risposta al passaggio (Esodo 15,20) che descrive come «dietro a lei [Miriam] uscirono le donne con i tamburelli e con danze», Calov specula su quale «possente melodia e straordinaria risonanza e riverberi dovevano esservi tra questi due cori [Mosè e gli uomini di Israele, Miriam e le donne israelite]» nell’occasione in cui «Davide il re e profeta danzò pubblicamente davanti all’Arca dell’Alleanza», e qui Bach aggiunge sul margine «NB. Primo preludio per due cori da eseguire per la gloria di Dio». E cosa canta Miriam? «Cantate al Signore, poiché ha mirabilmente trionfato»u Il «primo preludio» conduce dunque a una fuga perché i figli di Sion possano danzare. Solo nel Cum sancto spiritu dalla Messa in Si minore (a cui assomiglia) Bach fu in grado di scrivere un soggetto di fuga piú gioioso e piú agile.

Passaggi come questo ci ricordano che la visione di Bach è una versione barocca della «religione danzata» medievale. Proprio come molti linguaggi africani non hanno parole distinte per musica e danza, cosí queste due un tempo erano considerate inseparabili nel culto cristiano, la loro fusione pagana e dionisiaca legittimata dagli antichi Padri della Chiesa. Per invocare «entusiasmo e delizia dello spirito» secondo Clemente Alessandrino (ca. 150-216), i cristiani dovevano «alzare la testa e le mani al cielo e muovere i piedi proprio alla fine della preghiera: pedes excitamus»30. Istruí anche i fedeli a «danzare in cerchio, insieme agli angeli, intorno a Colui che è senza inizio e senza fine», un’idea che, nonostante i successivi tentativi della Chiesa tra IV e XVI secolo di dare un severo giro di vite alla danza religiosa in chiesa, era ancora diffusa per pittori rinascimentali come Botticelli e Filippino Lippi e, suggerirei, anche in Bach, in particolare nella sua musica natalizia. Almeno Bach poteva rivendicare la protezione e il supporto di Lutero che, accettando la legittimità delle «usanze di campagna», disse «purché si faccia con decenza, io rispetto i riti e le usanze dei matrimoni […] e comunque io stesso danzo!»31. Non è molto diverso dal concetto di «effervescenza collettiva» di Émile Durkheim, la passione o l’estasi indotte ritualmente che rinsaldano i vincoli sociali e che, suggerí, formano la base definitiva della religionev32.

All’improvviso si apre una finestra sulle abituali riunioni della famiglia Bach, su come il loro pio canto corale all’inizio della giornata scivolava in ubriachi quodlibet al calare della sera. Bach condivideva con i suoi parenti una visione edonistica della comunità basata sulla convivialità della relazione umana, che in nessun modo cozzava con la sua visione della serietà della vocazione di musicista o il suo canalizzare i talenti creativi per la gloria di Dio. Quando Bach ha questo approccio, si percepisce che, pur con tutta la sua eleganza, destrezza e complessità, la sua musica ha radici primitive e pagane. Questa è musica per celebrare una ricorrenza festiva, il momento di svolta dell’anno, la vita stessa.

Le altre qualità che Mozart poté ammirare in Singet sono il disegno della sua architettura, e il modo in cui la retorica espressiva è conciliata con la continuità su scala piú grande. Ciò va al di là della somiglianza superficiale della sequenza dei suoi tre movimenti con quella di un concerto strumentale italiano (veloce-lento-veloce): entrambi i due movimenti esterni sono liberamente fondati sul modello «preludio e fuga». Una volta che il «primo preludio» ha raggiunto il picco con la «effervesceza collettiva» del giubilo di Israele, Bach spiana la strada a Miriam e alle sue ancelle perché avanzino e guidino la danza fugata «Die Kinder Zion».

Egli sceglie in modo brillante di insistere sul motivo Singet che accompagnava l’effusione imitativa del suo preludio iniziale, ora sotto forma di commento ritmato, in controtempo, della sua fuga in quattro parti. Questo dà ottimi risultati nella costruzione del lungo movimento, poiché una per una le voci di entrambi i cori rientrano con enfasi, questa volta in ordine inverso (B-T-A-S), mentre il ricco «accompagnamento» è ridistribuito tra le voci non occupate nella fuga. Nel suo secondo accoppiamento, il finale del mottetto, Bach raggiunge un altro tipo di transizione dal preludio alla fuga stringendo il fuoco: improvvisamente e senza interruzione, le otto voci convergono diventando quattro. I bassi riuniti di entrambi i cori si fanno strada nel trambusto con un passepied sulle parole «Che tutto ciò che respira lodi il Signore». Sembrerebbe piuttosto semplice, ma in pratica si tratta di una sfida per raggiungere una transizione ininterrotta e fluida in questo momento di decollo. È necessario un riaggiustamento del «radar» dei cantanti, di modo che passino da una polifonia piena e densa in otto parti in a una fusione in una linea singola, una per battuta, con voci spazialmente distanziate che ora si librano nell’aria, impalpabili eppure ancora danzanti. Diversi episodi si susseguono rapidamente: esposizione, stretto, sequenza, riapparizione del soggetto nella sopratonica, sequenza, stretto, e tutti lasciano intendere che la conclusione sia imminente. Ma il funambolismo di Bach ha ancora 113 battute davanti a sé, e quello che prometteva di essere uno scatto verso il traguardo si trasforma in una corsa sui 1500 metri. Mentre i cantanti arrivano sulla dirittura d’arrivo, si percepisce l’eccitazione della folla. Da un momento all’altro non è piú una corsa in piano: appare un grande ostacolo, che porta i soprani a lanciarsi su un Si acuto prima di buttarsi petto in avanti sulla linea del traguardo, usando l’ultimo Odem («respiro») di cui sono capaci.

Se il finale è una corsa di mezzo fondo, il movimento centrale è piú come un’esibizione aeronautica. Mentre il Coro 2 plana in una grandiosa formazione omofonica con un corale armonizzato a quattro voci, il Coro 1 entra volando, inscrivendo traiettorie indipendenti eppure intrecciate, che rispondono alle correnti termiche e ai versi del suo testo poetico libero. L’antifonia tra i due testi paralleli, uno misurato e formale come si addice a un corale, l’altro lirico, perfino rapsodico, è senza precedenti (l’appellativo di «aria» dato da Bach qui ha connotazioni metaforiche oltre che stilistiche). Le sue cantate e Passioni sono disseminate di interessanti giustapposizioni di risposte personali e collettive tra le arie solistiche e i corali, ma questo tipo di litania corale, in cui i ruoli dei due cori si invertono per la seconda strofa, è un’altra differenza radicale rispetto alle teorie contemporanee sul supposto funzionamento dei mottetti. Quelli di Bach contengono esplosioni uniche di creatività festosa e meditativa, spinte ai limiti di ciò che il clero luterano del suo tempo avrebbe trovato accettabile.

La loro popolarità nel nostro tempo contribuisce un poco a invertire il processo di desocializzazione che ha cacciato la danza corale prima dalla Chiesa e poi dalla ricreazione collettiva, come quella che sappiamo praticava la famiglia di Bach33. Questa fu anche una caratteristica della mia infanzia, grazie alla (senz’altro inconsapevole) ricostruzione di questo schema da parte dei miei genitori: intense sessioni di canto a cappella, seguite da sessioni fisicamente liberatorie di danza folkloristica inglese, basate su The English Dancing Master di John Playford (1651). Nonostante la loro straordinaria densità e complessità, i mottetti richiedono sforzi colossali agli esecutori, con eccezionali virtuosismi, energie e sensibilità per gli improvvisi cambi di tono e texture e per rendere il significato esatto di ogni parola. Verso la fine dei suoi oltre trent’anni come direttore musicale della Singakademie di Berlino, nel 1827, Carl Friedrich Zelter scrisse al suo amico Goethe: «Se potessi farti sentire un bel giorno uno dei mottetti di Sebastian Bach, ti sentiresti al centro del mondo, proprio come dovrebbe sentirsi un uomo come te. Ascolto le opere per l’ennesima volta e ancora non ho finito con loro, né finirò mai»34. Li conosco ormai da piú di sessant’anni e provo esattamente la stessa cosa. La gloriosa libertà che Bach mostra nei suoi mottetti, la gioia leggiadra nella lode del suo Creatore e la sua totale certezza nella contemplazione della morte: è, certamente, la migliore reazione immaginabile alla nostra trappola mortale.

Legare insieme questi fili della musica vocale di Bach ci permette di apprezzare i suoi straordinari risultati nell’esprimere l’essenza dell’escatologia luterana: visioni dell’eternità che non potrebbero mai essere espresse in parole in maniera soddisfacente. Parte dell’attrazione che questa musica esercita oggi su di noi potrebbe stare in ciò che essa afferma, e che molti di noi non trovano piú nella religione o nella politica convenzionale (sebbene ciò possa essere vero anche per le reazioni a Bach nei tempi passati, come quando Mendelssohn ripropose la Passione secondo Matteo nel 1829). Nel carattere consolatorio molto particolare che trasmette la sua musica, abbiamo la sensazione che il passato e il presente siano legati insieme. Si tratta di un principio centrale nell’«eterno futuro» immaginato dai teologi luterani del XVII secolo che si trovavano nella biblioteca di Bach, come Heinrich Müller, che vedeva la partecipazione alla «musica piú benedetta» come un’evocazione del paradiso e un potente incentivo ad accogliere la morte35. Questa musica, che la si suoni, vi si prenda parte o la si ascolti, trasmette un forte sentimento di essere nel presente e mette in ombra tutto il resto. L’atto stesso di eseguire un pezzo di Bach come questo produce un tipo di escatologia realizzata, nella quale la «fine dei tempi» in un certo senso è già qui.

Abbiamo visto come la musica di Bach vada regolarmente al di là di una conferma diretta dei suoi testi e come, occasionalmente, li sovverta in modi che poteva non aver previsto quando aveva iniziato a metterli in musica. Il problema del clero di Lipsia forse fu ammettere, senza sentirsi contraddetto o minacciato, che, malgrado il suo comportamento burbero, questo Cantor era una risorsa eccezionale per la Chiesa. Poteva far girare la testa ai fedeli e perfino farli ascoltare (benché possiamo solo immaginare, naturalmente, in quale misura). I suoi mottetti e le sue cantate fornirono una rotta alternativa all’edificazione e alla contemplazione cristiana, affermando le nude verità dei loro testi e offrendo allo stesso tempo dei palliativi che i testi spesso negano. Oggi noi possiamo certamente ascoltarli in questo modo, se vogliamo. Per certi aspetti gli approcci alla sua musica sono diventati piú diretti: come nei primi due decenni del XIX secolo, quando uomini e donne iniziarono a cercare nell’arte e nella musica l’ispirazione, la speranza e la consolazione che non trovavano piú nella religione; e come ai nostri giorni, in cui la religione è allo stesso tempo in ascesa in alcune parti del mondo e sempre piú assente in altre. Ma a questa distanza ci è piú facile riconoscere la poesia della sua musica e allo stesso tempo la sua abilità nel rivelare, perfino ribadire, la verità nuda e cruda della debolezza umana, l’attaccamento sottile e fragile dell’uomo al bene morale, e nel tracciare un percorso di redenzione verso il bene, la compassione e quello che egli chiamava «buon vicinato».

Finora abbiamo visto che uno dei monumentali risultati di Bach fu dimostrare che musica e linguaggio insieme possono fare cose che nessuno dei due può fare da solo. Ma prova anche che la musica a volte supera il linguaggio, scritto o parlato, nella sua capacità di penetrare i recessi piú nascosti della coscienza e di scalfire i pregiudizi della gente e i nostri modi di pensare, spesso nocivi. Possiamo sempre rivolgerci alle sue cantate e ai suoi mottetti per essere illuminati (con la i minuscola) sul peccato, sulla redenzione, sul male e il pentimento, senza trovare difficoltà maggiori di quelle che vi possono essere, per esempio, in uno scrittore dell’Ottocento come Dostoevskij, uno che «trovò nella religione cristiana l’unica soluzione all’enigma dell’esistenza» e che «scoprí un cratere vulcanico in ogni essere umano»36.

Bach in realtà ci rende parecchio piú facile concentrarci sul comandamento ad amare il prossimo piuttosto che sullo squallore e l’orrore del mondo. Dall’esecuzione e dall’ascolto di un mottetto di Bach emergiamo pentiti, forse, ma piú spesso esultanti, tale è il potere purificatore della musica. Non c’è alcuna traccia, qui, di quelle «disgustose esalazioni di fervore religioso» che Richard Eyre vede oggi intente «a diffondere bigotteria e intolleranza per tutto il globo, mentre le tutt’altro che esclusive virtú cristiane – amore, misericordia, pietà, pace – vengono soffocate»37.

a. Nell’ascoltare una musica solenne, in JOHN MILTON, Liriche e drammi, a cura di Alberto Castelli, Montuoro, Milano 1941, p. 35.

b. Valéry riteneva che la musica costituisse il modello della poesia per come le opere musicali vengono percepite. Nell’ascoltare la musica, scrisse, «sono portato a generare movimenti, portato a sviluppare lo spazio in una terza e quarta dimensione, mi vengono trasmesse impressioni quasi astratte di equilibrio, di movimento dell’equilibrio» (PAUL VALÉRY, Œuvres, Gallimard, Paris 1960, vol. II, p. 70).

c. A volte è come se fosse tacitamente d’accordo con la famigerata battuta di Beaumarchais: «Se qualcosa non merita di essere detto, lo si canti». Beaumarchais nutriva una grande passione per la musica, e arrivò a chiudere il suo testo teatrale Le Mariage de Figaro con il verso tout finit par des chansons. Rossini andò addirittura oltre. Un compositore, disse, «non dovrebbe curarsi delle parole, tranne che fare attenzione che la musica si adatti a esse senza, tuttavia, distaccarsi dal suo carattere. Dovrebbe fare sí che siano le parole subordinate alla musica piuttosto che subordinare la musica alle parole […] Se il compositore intende seguire passo passo il significato delle parole, scriverà musica priva di espressività in sé, ma povera, volgare, frammentata come un mosaico, e incongrua o ridicola». La musica italiana ha fatto grandi passi in avanti da Monteverdi e l’antico ideale di prima la parola, dopo la musica (vedi supra, cap. IV).

d. Nel mettere a paragone le dinamiche della pittura e della musica, c’è un altro aspetto immediatamente evidente. Nella pittura lo spettatore è sempre libero di osservare e scegliere i dettagli secondo la propria volontà, e senza un condizionamento nel tempo. La musica, invece, porta con sé un obbligo implicito da parte dell’ascoltatore a seguirla in tempo reale (a meno che naturalmente non la si stia leggendo in partitura): non permette di saltellare qua e là come le arti visive. Come i dipinti ci offrono uno scorcio per mero gusto visuale, cosí è possibile ascoltare la musica come suono puro. Ma c’è una differenza: la musica crea l’aspettativa di una risoluzione di qualche tipo (che è in grado di fornire e che fornirà essa stessa): un aspetto condiviso con la letteratura ma non con la pittura. Al di là delle rappresentazioni semplicistiche, la musica presuppone la capacità e l’intenzione da parte dell’ascoltatore di collegare una serie di eventi il cui rapporto non è dettato dal mondo materiale, e nemmeno, come nel caso di Bach, dalla divisione artificiale in natura grezza e artificio totale (vedi J. BUTT, Do Musical Works Contain an Implied Listener? cit.).

e. Dreyfus fa un’osservazione pertinente sul modo in cui Bach trasforma «la musica in una forma di commento genuinamente nuova», quasi fosse una critica della sua epoca e della musica del primo Illuminismo, con il suo «superficiale edonismo», e con il rifiuto (per di piú obbligatorio) della musica come branca della metafisica (L. DREYFUS, Bach and the Patterns of Invention cit., pp. 242-44).

f. Con questo intendo il modo, per esempio, in cui le quattro linee vocali potevano intersecarsi l’una con l’altra in alcuni momenti, e allo stesso tempo entrare in collisione con gli abbellimenti della mano destra dell’assolo di organo nell’adagio del concerto. È vero che Bach si concesse una base meravigliosamente solida ai processi gemelli di invenzione ed elaborazione tramite una linea di basso ostinato che viene ripetuta sei volte nel corso del movimento.

g. Questa interpretazione si basa su quella letterale della prima parola, brich, dal verbo tedesco brechen, che significa spezzare, in opposizione a «distribuire», o piú metaforicamente sottinteso, «dividere» in italiano (o partager in francese). La Nuova Bibbia inglese (1970) traduce il verso cosí: «Non è dividere [corsivo mio] il cibo con gli affamati, portare nella tua dimora i poveri senza casa, vestire gli ignudi sul tuo cammino, e mai mancare a un dovere verso i tuoi parenti?»

h. L’interpretazione non trasforma automaticamente questa opera nella «Cantata dei rifugiati», come alcuni hanno sostenuto, collegandola a una funzione per coincidere con una cause célèbre, la messa al bando di circa 20000 protestanti da parte dell’arcivescovo di Salisburgo nel 1732 e il loro esodo verso la Prussia come parte della Peuplierungspolitik di re Federico Guglielmo I (vedi T. BLANNING, The Pursuit of Glory cit., p. 88; trad. it. cit., p. 102). La cantata fu eseguita per la prima volta sei anni prima, nel giugno del 1726, ma è concepibile, come chiarisce Dürr, che potrebbe aver «trovato un nuovo scopo […] inatteso sia dal librettista che dal compositore» quando fu riproposta nel 1732 (The Cantatas of J. S. Bach cit., p. 394).

i. La melodia stessa, la cui origine risale almeno al XIII secolo, era inizialmente un inno di pellegrinaggio sulle parole In Gottes Namen fahren wir, scelte da Lutero, o da qualcuno vicino a lui, come richiesta di protezione a Dio, in particolare all’inizio di un viaggio per mare, in cui Cristo era il capitano o il pilota. Al di fuori della BWV 80, Ein feste Burg, nessun altro trattamento canonico di un cantus firmus in una cantata di Bach ha la stessa aria monumentale o la stessa autorità ieratica di questa.

j. Secondo lo studioso tedesco del XVII secolo Andreas Werckmeister, le cui opere erano note a Bach, esisteva un’importante distinzione teologica tra la scala diatonica pura dell’ottava del clarino (ossia del registro acuto della tromba naturale) composta da armonici e consonanze musicali, che interpretava come «specchio e prefigurazione della vita eterna» e le deviazioni cromatiche da questa, che riflettono allegoricamente lo stato decaduto dell’uomo. In altre parole, quella che generalmente chiamiamo musica «barocca», dal momento in cui intende toccare e suscitare le nostre emozioni (Gemütsbewegung), aveva, nella colorita visione teologica di Werckmeister, un’imperfezione intrinseca nei termini degli intervalli «temperati». Basti solo pensare all’aria di basso «The trumpet shall sound» dal Messiah per comprendere come anche Händel usasse le proprietà naturali e concepite da Dio della tromba e la prevalenza di ottave e quinte per esprimere la fase finale della redenzione umana attraverso Cristo (vedi RUTH TATLOW, Recapturing the Complexity of Historical Music Theories, Eastman Theory Colloquium, 28 settembre 2012).

k. Lungi dall’essere un’esclusiva di Bach, i musicisti di ogni tempo utilizzarono spesso questa frase per chiudere le proprie composizioni sacre; secondo Heinrich Bokemeyer (1679-1751), «in cuor loro pensano Soli Musico Gloria, che però significa soli carni, mundi & diabolo victoria» (riportato da J. MATTHESON, Critica musica cit., parte 4, sez. 26, p. 344).

l. Se lo scrittore e poeta Blake Morrison usa questa e altre simili parole per descrivere l’effetto della poesia sul lettore, altri potrebbero fare affermazioni equivalenti per il romanzo. Michail Bachtin, per esempio, nel suo saggio «La parola del romanzo» (1934-35), suggerisce che, a differenza degli altri generi che in qualche modo sono fissati o completi, il romanzo porta sempre con sé il senso di una nuova èra, e comprende un’espressione vivente che «non può mancare di stridere contro migliaia di percorsi dialogici viventi» in ogni determinato presente (The Dialogic Imagination. Four Essays, a cura di Michael Holquist, trad. ingl. di C. Emerson e M. Holquist, University of Texas Press, Austin-London 1981, p. 276). In modo piú eloquente, John Butt collega queste osservazioni alla musica sacra di Bach, proponendo che come ascoltatori viviamo una cantata o una Passione «piú come un romanzo sonoro che come una semplice rappresentazione teatrale». Bach «è riuscito a combinare la prassi operistica tradizionale con quel tipo di partecipazione attiva che avrebbe supposto in una congregazione luterana, concependo cosí l’esperienza come un metodo per coltivare la fede» (Bach’s Dialogue with Modernity cit., p. 189).

m. L’arcangelo Michele (il nome significa «colui che è come Dio») è una delle poche figure ad apparire nell’Antico e nel Nuovo Testamento, nei Vangeli Apocrifi e nel Corano. Appare come protettore dei figli di Israele (Daniele 2,1), ispira coraggio e forza, ed era venerato sia come angelo custode del regno terreno di Cristo che come santo patrono dei cavalieri nella tradizione medievale. Michele è riconosciuto dalla tradizione cristiana come responsabile dell’assunzione in paradiso delle anime destinate a essere presentate al cospetto di Dio. Da qui deriva la preghiera dell’offertorio nella Messa di Requiem cattolica sed signifer sanctus Michael repraesentet eas in lucem sanctam («Che Michele sacro portatore dello stendardo possa portarli alla luce divina»). Inizialmente istituita sotto l’impero romano durante il V secolo, la festa di san Michele arcangelo (Michaelisfest) era un’importante festività sacra, in quanto era uno dei quattro giorni cardine dell’anno, in cui nell’Europa settentrionale venivano riscossi e sistemati i debiti, che rappresentava l’inizio della nuova stagione agricola per molti e, a Lipsia, coincideva con una delle sue tre fiere commerciali annuali. Quando Lucifero, il piú alto dei serafini, guidò un tentativo di ammutinamento nei confronti di Dio, fu trasformato nel diavolo, che appare sotto forma di serpente o di drago a dieci teste; Michele, alla guida dell’esercito di Dio nella grande battaglia escatologica contro le forze delle tenebre, fu la figura centrale della sua disfatta.

n. Quando alla fine degli anni Sessanta ho ascoltato per la prima volta questa cantata in un’esecuzione di Karl Richter, sono rimasto colpito dall’originalissima combinazione di Bach di corno e oboi, coinvolti in un’accesa zuffa. «Trombe jazz», pensai all’epoca, e c’è qualcosa che assomiglia a una jam session in questo passaggio. Non abbiamo idea di cosa intendesse precisamente Bach con la sua designazione corno. Alcuni studiosi tendono a interpretare cornetto, ma quando è eseguito sull’arcaico strumento richiede all’esecutore un elaborato e insidioso intreccio di diteggiature, che inibisce la proiezione del suono. Dopo averlo provato in questo modo a Londra, per la nostra esibizione a Santiago de Compostela nel 2000 Michael Harrison portò con sé la sua tromba tedesca a valvole in Do, risalente alla metà del XIX secolo: era una soluzione alternativa, benché anacronistica, ma riuscí a far uscire un timbro di cornetto verosimile. Alla fine non è la forma, la marca o la data di uno strumento a convincere, ma il talento e l’immaginazione dell’esecutore.

o. Peter Wollny mi ha fatto notare l’esistenza di una pendola a Weimar, installata dall’intrattabile e solitario datore di lavoro di Bach, il duca Wilhelm Ernst, per misurare la precisa durata di ogni istante della sua vita.

p. Appena tre anni prima della sua morte Bach riprese questa cantata. Poiché non poteva piú giustificare i servizi di un copista professionista, scrisse tutte le parti da solo, con mano piuttosto incerta. Il lavoro necessario per la trasposizione di questa ripresa (da Mi a Re maggiore) fu tale che dovette avere delle ragioni artistiche convincenti. È strano, quindi, vederlo tornare alla versione in Mi maggiore per un’ultima volta, incorporando tutti i cambiamenti che aveva appena introdotto nella versione in Re maggiore. Quella per flauto piccolo diventa adesso una parte per traverso, con delle indicazioni di articolazione dettagliate inserite da Bach quasi per ogni singola nota. Un tale livello di precisione nella notazione nel materiale di esecuzione di una cantata si incontra raramente negli anni Venti del Settecento.

q. Ci sono delle eccezioni. Il movimento piú ragguardevole della cantata funebre di Telemann Du, aber, Daniel (ca. 1710) è un’aria per soprano che potrebbe aver ispirato a Bach l’impiego di un motivo simile nella BWV 63 iii (1714) e in maniera ancora piú evidente nella BWV 99 v (1724), un duetto soprano-contralto che descrive il difficile cammino verso il Calvario e le dolorose amarezze della Croce.

r. Brahms attendeva con trepidazione l’arrivo dei tomi dell’edizione completa della Bach-Gesellschaft del 1851-57, come oggi alcuni fanno con gli episodi di un thriller. Questa reverenza e questo entusiasmo nei confronti di Bach sono riflessi in diversi dei suoi lavori corali, e in particolare nei suoi mottetti opera 74, o in O Heiland, reiß die Himmel auf, la cui struttura deve molto alla BWV 4 nel raggiungere un’unità musicale in una struttura piú grande e, ancora di piú, in Warum ist das Licht?, che, come la BWV 125, termina con un adattamento corale del Nunc dimittis, il Mit Fried und Freud di Lutero.

s. Nella chiesa luterana normalmente le funzioni funebri non comprendevano strumenti, ma veniva fatta un’eccezione per i mottetti. Malgrado la probabilità di un accompagnamento col basso continuo o l’aggiunta (facoltativa) di strumenti colla parte nei mottetti a doppio coro, abbiamo il materiale per l’esecuzione originale di Bach di uno solo di questi, il BWV 226, Der Geist hilft unser Schwachheit auf.

t. Nonostante i tentativi di Daniel R. Melamed (J. S. Bach and the German Motet, Cambridge University Press, Cambridge 1995, pp. 85-89) e altri di proporre una genesi frammentaria del mottetto, il fatto è che in esecuzione risulta ammirevolmente coeso, cosa che anche accade, naturalmente, al Credo della Messa in Si minore, un movimento che, come vedremo nel prossimo capitolo, fu definitivamente cucito insieme da materiale che ha origine in diversi periodi della vita di Bach. Bach è talmente bravo a cancellare tracce rivelatrici di ogni innesto e a dare totale autorevolezza all’entità finita che non sapremo mai con sicurezza quale fu il particolare momento in cui decise l’utilizzo definito di un determinato lavoro. Ci sono passaggi che suggeriscono una provenienza precedente (Weimar), in particolare il nono movimento, il sublime duetto per soprani «Gute Nacht» a cui i tenori offrono un basso continuo vocale in bassetchen, con gli altri a camminare sul confine intermedio con la melodia dell’inno. Ma ciò non nuoce in nessun modo alla sua perfetta collocazione nel cuore del mottetto. Se qui e là un movimento ci sembra piú simile alla sua musica per tastiera, serve soltanto a dimostrare che Bach creava molte meno barriere stilistiche tra i vari generi in cui modellava la sua musica di quanto in seguito i commentatori ci abbiano fatto credere.

u. Anche Händel fu chiaramente ispirato dai versetti di 1 Cronache 25 e 28 quando li adattò in musica al culmine del suo oratorio a doppio coro Israele in Egitto (1739).

v. L’esempio classico, preso da un’altra fede, è naturalmente quello della danza circolare dei dervisci. Steven Runciman descrive che «le loro pratiche mistiche, le loro danze ritmiche li portavano in uno stato di estasi, in comunione con Dio» (A Traveller’s Alphabet, Thames & Hudson, London 1991, p. 63). Proprio come la Chiesa cristiana cercò di eliminare la danza sacra, cosí il regime di Atatürk tentò di sopprimere i dervisci.