Ma che la musica sia un linguaggio atto a elaborare messaggi, i quali sono compresi, almeno in parte, dall’immensa maggioranza, mentre solo un’infima minoranza è in grado di emetterli, e che fra tutti i linguaggi questo solo riunisca i caratteri contraddittori d’essere a un tempo intelligibile e intraducibile, fa del creatore di musica un essere simile agli dèi, e della musica stessa il supremo mistero delle scienze dell’uomo, quello nel quale esse inciampano, e che custodisce la chiave del loro progresso.
CLAUDE LÉVI-STRAUSS1.
Bach, l’emblema del musicista che lottò per tutta la vita e infine acquisí l’«abitudine alla perfezione», era un essere umano profondamente imperfetto – cosa che normalmente non tolleriamo nei nostri eroi. L’idolatria che l’ha seguito negli ultimi duecento anni rivela una diffusissima riluttanza a venire a patti con la complessità e le contraddizioni del suo temperamento artistico, rendendoci ciechi rispetto al vero carattere di Bach, alla sua dimensione quotidiana, quella che viveva accanto, al di sotto e all’interno del racconto della sua decisamente straordinaria creatività musicale. In tutto questo libro abbiamo costantemente indicato i modi in cui la sua personalità e la sua mente creativa interagivano e come perfezione e imperfezione coesistessero nella vita di Bach, a prescindere da quanto lottasse per essere un uomo devoto e virtuoso in accordo con la perfezione armonica della sua musicaa. Continuiamo a trovare segnali del disordine nella sua vita professionale e del suo atteggiamento conflittuale nei confronti dell’autorità, ma anche della sua relazione conviviale e generosa con gli allievi e i colleghi musicisti. Tuttavia, ed è ciò che piú importa, abbiamo opere musicali che traboccano di idee «inusitate e cosí ricche d’inventiva» (come ci dice il Nekrolog), ma sempre radicate nell’ordine dato e nella proporzione piú giusta. Dopo l’ascolto e l’esecuzione si è stupefatti per come tutte le numerose restrizioni che imponeva a se stesso abbiano potuto combinarsi con stimolante vivacità, riuscendo a tenerci incollati alla sedia.
Ciò si applica tanto alla musica del suo ultimo decennio, che vide il completamento della Messa in Si minore, dell’Offerta musicale, e il quasi completamento dell’Arte della Fuga, quanto ai suoi anni di Weimar (1708-17), in cui avvenne il seminale incontro con la musica di Vivaldi e l’inizio del progetto dell’Orgel-Büchlein. Eppure, alla fine della propria vita, guardandosi indietro Bach poteva pensare che il decennio tra il 1723 e il 1733, tra la sua ascesa a Thomaskantor e la realizzazione della Missa per l’elettore di Sassonia, fosse stato quello piú produttivo e pieno di sfide. Questo periodo lo vide impegnato nello sforzo supremo per realizzare il proprio Endzweck, lanciandosi nell’impresa di comporre cicli completi di cantate sacre per i primi tre (o al massimo quattro) anni per poi, nel 1729, ferito e stanco, ritirarsi nel conforto e nell’indipendenza dei caffè cittadini. Abbiamo visto che questo rappresentò per lui molto piú di un semplice cambio di ambiente per fare, apprezzare e ascoltare della musica; coincise infatti con un cambiamento significativo nella società: dall’atmosfera quasi feudale della chiesa luterana, con la sua disposizione gerarchica dei posti a sedere, a un luogo in cui le distinzioni sociali giocavano un ruolo secondario, e dove l’intellighenzia borghese cittadina poteva incontrarsi e conversare con meno formalità. Si trattò di un punto di svolta importante nella vita culturale e intellettuale in una città della Germania centrale come Lipsia.
Quando pensiamo che, durante i primi tre anni del cantorato, Bach impegnò tutte le sue energie al servizio delle chiese di Lipsia, dobbiamo considerare che a rendere cosí impressionante questa impresa è l’estrema tenacia del suo progetto. Nonostante le costrizioni e le difficoltà incontrate sul suo cammino, l’ostilità, le critiche e l’apatia del pubblico che si trovò davanti, niente fu troppo difficile per lui, nessun prezzo fu troppo alto, poiché si trattava di raggiungere quell’obiettivo finale. Può esserci solo una conclusione: che la creazione di quel corpus di musica sacra, unico nella storia, potesse avvenire soltanto in quel momento, in quel luogo e in quelle circostanze. Non dovrebbe sorprenderci piú di tanto il fatto che un individuo cosí eccezionale, raggiunta la maturità, si accorgesse delle possibilità rappresentate non solo dalle nuove combinazioni del contrappunto, ma anche dell’esatto momento storico in cui andavano espresse, e ne intraprese immediatamente la realizzazione.
In una fase precedente della sua carriera, evidentemente non possedeva il campo d’azione, l’esperienza, l’ossatura strutturale e stilistica, o l’occasione di portare a compimento un tale progetto. Se fosse rimasto a Cöthen (una corte calvinista) quel progetto non sarebbe mai partito. Se nel 1713 avesse accettato l’offerta a Halle, avrebbe senz’altro sofferto lo stesso destino del figlio maggiore, Wilhelm Friedemann, rimanendo cosí incagliato nelle controversie settarie di quel luogo. Nella mondana Amburgo le sue energie, come piú tardi quelle del secondogenito Emanuel, sarebbero state progressivamente assorbite dai doveri amministrativi e dalla necessità di diffondere la musica in tutte le chiese cittadine, ancora piú che a Lipsia. Qui, per di piú, sarebbe diventato facile preda della sardonica derisione di Johann Mattheson e degli altri avvocati del moderno stile galante, tanto attenti alla moda. Nella seducente e cattolica Dresda, con la sua dotatissima orchestra, non avrebbe avuto la possibilità (e la libertà) di creare ed eseguire la serie di cantate sacre luterane che portò a termine a Lipsia. No, poteva essere solo quella città provinciale e un po’ meschina, esageratamente orgogliosa della sua autentica ortodossia luterana, della sua successione di famosi Cantor e dei suoi sporadici momenti di gloria cosmopolita. Tutto questo nonostante la distribuzione quasi controproducente dei poteri (imperiali, civici ed ecclesiastici), nonostante la sclerotizzata stratificazione sociale cittadina (forse non peggiore di qualsiasi altro posto in Germania, ma di certo meglio documentata) e, come sappiamo oggi, nonostante una situazione praticamente ingestibile nella struttura di potere della Thomasschule2.
Questo fu anche l’ultimo momento in cui oltralpe era possibile che la musica sacra riflettesse nella sua interezza il ciclo delle stagioni, insieme al ricordo ancora percepibile del ciclo agricolo e delle sue festività, delle attività legate al tempo, al clima e ai rituali precristiani. Era l’ultima volta in cui Lutero poteva parlare al suo gregge, non personalmente ma pur sempre autorevolmente, senza suscitare aperto dissenso. Non poteva essere che quel momento, in quel decennio. Poco piú tardi l’infiltrazione nella Germania centrale del pensiero dei Lumi avrebbe smussato lo zelo creativo di Bach, e le porte della moda lo avrebbero chiuso fuori.
Ciò che ci commuove nella realizzazione dell’Endzweck di Bach tra la metà e la fine degli anni Venti del Settecento è la sua capacità di produrre opere di luminosa intelligenza, piú profonde e molto piú complesse di quanto fose obbligato per contratto, e a volte con grande sacrificio personale. In questo modo offriva ai cittadini di Lipsia della musica di una qualità e un’intensità che a malapena meritavano. Naturalmente sarebbe riuscito a vivere molto comodamente se avesse scelto, come Telemann, di dedicarsi all’opera e a scrivere musique de table e fugues légères piacevoli ma poco impegnative. Invece, in quella che Alex Ross descrive come una sorta di furore creativo3, Bach sperimentò ogni aspetto della forma della cantata, facendo del suo secondo ciclo un riferimento futuro per come la musica possa essere una eloquente riflessione sulla lettura quotidiana del Vangelo, e rifiutandosi di avvalersi del facile espediente di rielaborare brani piú vecchi, suoi o altrui. Con la musica di questo decennio fu costantemente impegnato a esprimere la sua percezione del mondo e del prossimo: era una straordinaria fusione di esegesi biblica e osservazione sociale. L’immenso dramma musicale religioso della Passione secondo Matteo, la cui bellezza fu ritenuta «oscurata da un eccesso d’arte»4, può fungere da prisma e permetterci di vedere l’intero arcobaleno della vita che Bach ci mette a disposizione. Visto in questo modo, sembra dirci: «È cosí che andrebbe vissuto il mondo: adesso andate e fatene esperienza da soli».
È molto probabile che il progressivo disinteresse di Bach nei confronti della cantata negli anni Trenta del Settecento nacque dalla sensazione che la comunione di fede che una volta condivideva con la sua congregazione si stava disfacendo, e che, per qualche ragione, non stava piú riuscendo a imporsi. Abbiamo visto in precedenza che per le cantate dei primi tre cicli preparò un contesto che era insieme imponente e intimo, risultato di una singolare connessione tra forma, testo e ideali. Noi potremmo meravigliarci della differenza tra la provincialità del contesto liturgico e una musica dal potere seduttivo quasi illimitato, ma i suoi primi ascoltatori non percepivano cosí la questione. Ci sarebbe stato motivo perché Bach voltasse le spalle all’ambizione della sua vita che, avrà pensato tra sé e sé, ormai aveva fatto il suo corso: l’edificazione del prossimo era compromessa, se il prossimo non era piú preparato o intenzionato ad ascoltarla, o a cogliere ciò che aveva da dire. Le accuse ufficiali rivoltegli in questo decennio, e cioè il fatto che stesse in sostanza facendo «il minimo sindacale», si possono interpretare non tanto come segno di indifferenza nei confronti delle sue responsabilità, e meno ancora come segno di una perdita di fede individuale, ma come protesta verso il modo ignobile in cui veniva trattato dal consiglio, dal concistoro e dal rettore della scuola, e di rassegnazione alla possibilità che le cose non sarebbero mai cambiate finché fosse rimasto a Lipsia. Ormai è di fatto un musicista municipale che continua a soddisfare (e perfino a superare) le richieste del suo ufficio, ma che a un certo punto decide di seguire l’evoluzione del proprio percorso artistico. Accettare la guida del collegium musicum nel 1729 fu un passo in questa direzione, e anche prevedibile, poiché aveva già stretto legami con molti dei suoi membri. Da quel momento in poi, per tutti gli anni Trenta, Bach supervisionò una lunga serie di concerti pubblici, e per la prima volta a Lipsia si ritrovò alla ribalta come autentico Director Musices cittadino.
Ecco che il Bach compositore ed esecutore di cantate sacre inizia a farsi da parte, accogliendo per la prima volta le opere di altri compositori. I fedeli non sanno piú, e forse nemmeno ci fanno caso, se adesso vengono eseguite opere di Telemann, Stölzel o di suo cugino Johann Ludwig Bach, e i libretti in vendita contenenti i testi non specificano che cosa stanno ascoltando. Paragoniamo tutto questo ai concerti nei caffè, in cui il pubblico può osservare da vicino chi dirige, benché la folla di ascoltatori entusiasti sia sparsa in diverse stanze comunicanti. Sono liberi di alzarsi, muoversi, rimanere sulla soglia, e fare commenti sulla musica e i musicisti proprio come farebbe una raffinata accademia di connoisseurs. Il ruolo di Bach alla metà e alla fine degli anni Trenta va incontro a un mondo sempre piú profano: la Lipsia urbanizzata alle soglie dell’Illuminismo.
Nelle occasioni in cui torna effettivamente a comporre cantate sacre, Bach dimostra non solo il suo antico talento, ma anche una nuova grande padronanza e una sovrana fluidità stilistica. L’evidente facilità con cui, per esempio, nel 1738 trasforma una serenata in due parti (BWV 30 a) su testo di Picander in una cantata per la festività di san Giovanni Battista è davvero emblematica. Ogni aspetto della BWV 30, Freue dich, erlöste Schar, è fresco e gioioso, dalla sua insolita struttura in due strofe strumentali di otto battute, entrambe ripetute, al tema sincopato e alle terzine danzanti; sprigiona una grandissima energia ed effervescenza e Bach mostra qui il suo volto piú brillante e festivo. Tra le quattro arie si trova un’incantevole gavotta per contralto, flauto e violini con sordina, con un accompagnamento pizzicato al basso. Perfino per dei fedeli abituati da quindici anni alla sua abitudine di mischiare gigues e bourrées nella musica sacra, questa vera e propria impudenza e la fresca eleganza dell’aria dovettero far aggrottare qualche fronte e, si spera, provocare i primi sorrisi tra gli ascoltatori. È la risposta perfetta a chiunque affermi che, anche per un solo momento, Bach possa essere pesante o noioso.
Dalla metà degli anni Trenta in poi lavorò ininterrottamente a rifinire il secondo ciclo di cantate, aggiungendo nuove dettagliate indicazioni per l’esecuzione: proseguí anche le proprie riflessioni sulla vita di Cristo componendo la Passione secondo Marco (BWV 247, oggi perduta) e tre oratori, per Pasqua, Natale e per l’Ascensione. Piú o meno nello stesso periodo scrisse quattro Messe brevi (BWV 233-236) limitate al Kyrie e Gloria e dunque adatte all’utilizzo nella liturgia luterana. Nell’attingere da una selezione di movimenti delle sue cantate sacre, Bach riconobbe che questo era il posto giusto per loro, sebbene i sentimenti che esprimevano potessero rappresentare una barriera per alcuni ascoltatori. Cosí le riciclò, forse nella speranza che la musica avesse un richiamo piú ampio in questa forma adattata all’Eucaristia. Dirigere la quarta di queste Messe (la BWV 235 in Sol minore) ha rafforzato la mia convinzione che la demarcazione o separazione convenzionale di generi nell’œuvre di Bach è fuorviante. Benché fosse parsimonioso nel riciclare lavori che altrimenti sarebbero stati dimenticati, nella Messa in Sol minore Bach mostra alcuni dei tanti modi in cui le sue idee e le sue cellule musicali potevano moltiplicarsi, germogliando da idee precedenti.
Non ci si stanca mai di ascoltare questa versione di Bach: ogni cosa è incisiva, concentrata e instancabile. Nello studiare questa Messa, trovai utile avere sotto gli occhi per ogni movimento la cantata che era servita da modello, in modo di assicurarmi di non farmi sfuggire nemmeno un gesto o un’inflessione. Presto però mi resi conto che forzare uno schema espressivo scartato dentro un organismo appena formato era un errore: si vede subito che la nuova forma di vita prende il proprio aspetto e, come sempre, l’obiettivo è quello di percepirlo, «leggerlo». A ogni modo, raramente Bach «trapianta» in maniera ovvia, o con un proposito ovvio. Poiché verso la fine della sua vita fu sempre piú concentrato a trovare formulazioni totalizzanti, che implicavano un’autocorrezione continua, è futile cercare un significato unico nelle singole opere: dovremmo piuttosto tentare di seguire l’intero ventaglio di significati che inglobanob.
Poiché sono encomi ufficiali, i testi delle cantate profane solitamente risultano fiacchi, perfino piú deboli di quelli delle cantate sacre. Tra la ventina di movimenti profani che finirono nell’Oratorio di Natale, nessuno mostra il genio della tecnica parodistica di Bach meglio della primissima aria, «Bereitet dich, Zion» («Preparati, Zion, con tenero affetto»). Nell’originale (un dramma per musica, BWV 213 ix) l’atmosfera è di indignazione: Ercole sgrida Lussuria («Non ti ascolterò né ti riconoscerò, viziosa Lussuria»), mentre nell’oratorio le note, sebbene identiche (a eccezione di qualche diversa legatura e l’aggiunta di un oboe d’amore), servono a raffigurare un quadro tenero, quasi erotico, che esorta Sion a prepararsi all’arrivo del Messia. Questi due movimenti richiedono a gran voce un’esecuzione completamente diversa.
Il teorico Gottfried Ephraim Scheibel vorrebbe farci credere che la musica abbia lo stesso effetto sugli ascoltatori a prescindere dal contesto, teatro o chiesa che sia: «la musica religiosa e quella profana non hanno distinzioni, per ciò che concerne la commozione degli affetti»5. Come se fosse facile. I commenti di Scheibel si riferiscono all’emozione piuttosto che al significato (i due si fondono, naturalmente), e molti aspetti di «Bereitet dich, Zion» sono distintivi abbastanza (i cambi di parole, l’articolazione e uno stile implicito dell’esecuzione) da avere un effetto diverso sull’ascoltatore. Naturalmente è il testo a dettare l’interpretazione musicale; ma poiché ci è piú familiare, non riusciamo mai a liberarci del tutto dai collegamenti con la versione natalizia ed essere totalmente oggettivi nell’ascoltare l’originale. Come nel caso della musica a programma, una volta inteso che tratterà di x tenderemo ad ascoltarla in quel modo, mentre se dovessimo ascoltarla in modo innocente e per la prima volta non ci sarebbe niente di estraneo a condizionare la nostra reazione.
In questi ultimi lavori anche il modo di Bach di mettere i testi in musica subí un’evoluzione, in parte grazie alla sua esperienza nella composizione delle Passioni. Egli dimostra una nuova riluttanza alla costrizione a essere legato a un significato univoco per le parole di formule annotate in modo identico; il proposito e lo stato d’animo cambiavano, pur rimanendo tecnicamente gli stessi. Abbiamo visto come Bach attingesse al fertile accoppiamento di Lutero di parole e melodia, e adattava abitualmente il flusso e il riflusso armonico dei suoi arrangiamenti corali, non solo per sottolineare gli accenti verbali, ma a volte per trasgredirli volutamente e permettere alle parole chiave di imprimersi nell’ascoltatore, anche a costo di ignorare platealmente il ritmo delle altre.
Lungo tutto l’Oratorio di Natale troviamo alcuni nuovi trattamenti dei corali. Mentre le prime armonizzazioni bachiane di corale si distinguono per il forte profilo melodico, lo stabile incedere metrico e una determinata progressione di accordi, e piú avanti per un movimento armonico piú ricco e per sorprendenti passaggi dissonanti, ora sembrano emergere in modo piú naturale dall’intersezione delle voci – in altre parole dalla condotta vocale – e restituiscono un senso ancora piú forte della proporzione e dell’equilibrio. Anche in questo caso, si è colpiti da un calore maggiore, come se Bach avesse scoperto nuovi metodi per scolpire quattro linee singole, ognuna intrisa di bellezza melodica, e per intesserle creando un’armonia carica di grande espressività. Poiché aveva raggiunto un accordo di grande naturalezza tra parole, melodia e armonia, Bach avrebbe potuto condividere con entusiasmo la descrizione fatta da William Byrd della propria relazione con i testi sacri: «In queste parole, come ho appreso dall’esperienza, si trova un tale potere nascosto e segreto che a chi riflette sulle cose divine e le pondera con zelo e serietà, tutte le idee musicali piú appropriate appaiono da sole e si offrono solo alle menti non afflitte da indolenza o inerzia»6.
L’Oratorio di Natale di Bach è un compendio del suo stile e dell’evoluzione dei suoi metodi durante gli anni Trenta e Quarantac. In un certo senso, inoltre, possiamo considerarlo come una tempestiva confutazione delle fuorvianti dicotomie di Johann Adolph Scheibe tra natura e arte (o artificialità), o tra verità e confusione. Intervenendo in favore di Bach nella disputa con Scheibe (vedi supra, cap. VII), il suo ex allievo Lorenz Mizler sostenne che la musica di Bach era spesso elaborata piú attentamente di quella degli altri compositori, ma quando voleva era perfettamente in grado di comporre «secondo i gusti piú nuovi» (nach dem neuesten Geschmack), e che Bach sapeva perfettamente come «adattarsi ai propri ascoltatori»7. Eppure non era proprio questo il punto, avrebbe potuto controbattere Scheibe. Mentre si poteva dire che Bach ultimamente mostrava piú amenità (Annehmlichkeit, la stessa qualità che Scheibe lo accusava di non avere) rispetto al passato, l’accusa rimase: stava ancora oscurando la bellezza della sua musica con troppi artifici. Era autenticamente in grado di liberarsi «del peso della res severa a favore del gaudio» in modo coerente?8. Lo era di certo (e bisogna essere davvero imprudenti per sottovalutare la capacità di adattamento di Bach), ma non era tipo da metterlo in mostra. Dev’esserci stato qualcosa di simile dietro l’affermazione di Forkel per cui «[Bach] credeva che l’artista potesse formare il pubblico, ma che il pubblico non potesse formare l’artista».
Nel suo ultimo decennio, Bach si ritirò progressivamente dalle lotte intestine della Thomasschule, che gli avevano guastato i precedenti quindici anni, senza nemmeno un accenno di conciliazione con il rettore J. A. Ernesti. Sia Bach che Anna Magdalena ebbero episodi piuttosto seri di malattia, ma a consolarlo doveva esserci la consapevolezza che i due figli maggiori erano ben avviati verso il successo e la fama: erano già noti come il Bach «di Dresda» (Wilhelm Friedemann) e il Bach «di Berlino» (Carl Philipp Emanuel), mentre lui era diventato semplicemente il «vecchio Bach»9. Aveva seguito l’istruzione musicale dei suoi figli con enorme scrupolo. L’orgoglio e la gioia di fronte ai risultati dei due figli maggiori, tuttavia, erano compensati dalle preoccupazioni che gli dava il terzo, Johann Gottfried Bernhard, a cui Bach si riferiva come il «mio (ahimè! snaturato) figlio». Nel periodo da organista a Sangerhausen, Bernhard si era indebitato pesantemente (ripetendo le stesse scorrettezze che gli erano costate il lavoro a Mühlhausen dopo poco piú di anno) ed era fuggito. Angosciato, Bach scrisse alle autorità: «Devo portare con pazienza la mia croce, e affido il mio figlio ribelle alla sola Misericordia di Dio, dubitando che ascolterà la mia accorata preghiera». Un po’ sulla difensiva aggiunge: «Sono completamente certo che non ascriverete a me il comportamento scorretto di mio figlio, ma che accetterete la mia assicurazione che ho fatto tutto ciò che un vero padre, che porta sempre nel cuore i propri figli, può fare per il loro benessere». Ciononostante, si rifiutò di pagare i debiti di suo figlio finché non gli fossero stati provati10. All’insaputa sia di suo padre sia del consiglio cittadino, Bernhard si era iscritto alla facoltà di legge dell’università di Jena, cinquanta miglia piú a sud. Qui morí di febbre il 27 maggio 1739, all’età di ventiquattro anni.
I pochissimi scorci sulla situazione domestica di Bach negli ultimi anni ci arrivano da due fonti interne alla famiglia. Carl Philipp Emanuel rivelò a Forkel che, sebbene suo padre non avesse tempo per intrattenere lunghe corrispondenze, aveva invece «molte occasioni di parlare personalmente alle brave persone, poiché la sua casa era come un’uccelliera [Taubenhaus], e similmente ricca di vita. Trascorrere del tempo con lui era piacevole per tutti, e spesso molto edificante. Poiché non scrisse mai nulla a proposito della sua vita, le lacune sono inevitabili»11. Insieme ad Anna Magdalena, Bach teneva la propria casa aperta: «nessun maestro di musica passava da queste parti senza fare conoscenza con mio padre e farsi ascoltare da lui»12. Tra gli ospiti si annoverano diversi luminari della musica tedesca del tempo, tra cui Jan Dismas Zelenka, Johann Quantz, Franz Benda, Johann Adolph Hasse e sua moglie, la primadonna Faustina Bordoni, e i due Graun (Johann Gottlieb e Carl Heinrich). L’attività musicale domestica includeva anche i due figli maggiori: sappiamo, per esempio, che nell’agosto del 1739 Wilhelm Friedemann «stette qui per oltre quattro settimane, facendosi sentire diverse volte nella nostra casa, insieme ai due famosi liutisti di Dresda, il Signor Weiss e il Signor Kropffgans»13.
La fonte di questa informazione è Johann Elias Bach (1704-1755), nipote di Georg Christoph, fratello maggiore del padre di Sebastian, autore della cantata Concordia (vedi supra, cap. III e fig. 6), un personaggio rispettabile che dal 1738 al 1742 fece da segretario a Bach e il tutore in casa dei tre figli minori. Non doveva essere sempre facile per Johann Elias portare a termine le istruzioni del suo datore di lavoro, poiché poteva trattarsi di dare la caccia a debitori recalcitranti o a chi non aveva restituito la musica presa in prestito. Il 28 gennaio 1741 fu perfino costretto a rifiutare a Johann Wilhelm Koch il prestito di una cantata per basso solista: «mio cugino si rammarica di non poterla inviare; ha prestato le parti al basso Büchner, che non le ha ancora restituite. Non permette che la partitura sia prestata, poiché ne ha perdute diverse inviandole ad altre persone»d. Se faceva un’eccezione, Bach era attento a esigere il costo della spedizione, e le richieste di copie stampate, anche quelle di un parente e amico intimo come lo stesso Johann Elias, erano accolte con un promemoria del prezzo di pubblicazione14. Altrove, Johann Elias scrisse: «Sarei contento di ricevere per il mio onorato cugino una bottiglia di acquavite e qualche garofano, nota bene, giallo per l’onorata zia [Anna Magdalena], grande amante del giardinaggio. So per certo che ciò le darebbe grande piacere e mi permetterebbe di ingraziarmi ulteriormente con entrambi, perciò la supplico ancora»15. Piú tardi emise una ricevuta per «sei bellissime piante di garofano […] Ella apprezza questo regalo inatteso piú di quanto i bambini considerino i regali di Natale, e le cura con l’attenzione che normalmente è riservata ai bambini, ché nemmeno una appassisca»16. Secondo Johann Elias, Bach era continuamente alla ricerca di regali per Anna Magdalena. Durante una visita a Halle nel 1740, ci racconta, Bach rimase colpito dal «gradevole canto» di un fanello di proprietà del Cantor Hille, e poiché Anna Magdalena aveva «un amore speciale per quegli uccelli», Johann Elias fu incaricato di chiedere se il Cantor avrebbe «ceduto a lei l’uccello canterino per una somma ragionevole»17.
Alla fine dell’estate del 1741, la devozione di Johann Elias fu messa a dura prova quando Anna Magdalena si ammalò mentre Bach era in viaggio, in visita a Carl Philipp Emmanuel (recentemente nominato clavicembalista alla corte di Federico il Grande di Prussia): «Siamo spiacenti di disturbare la vostra vacanza con questa sgradevole notizia, – scrisse, – ma non sarebbe giusto tenervela nascosta, e siamo certi che il nostro Herr Papa e cugino non si arrabbierà con noi». Bach, in realtà, era già in procinto di lasciare Potsdam quando ricevette una seconda lettera urgente. «Ci troviamo nella piú profonda ansietà per la crescente debolezza della nostra cara Frau Mama. Nelle ultime due settimane è riuscita a dormire poco piú di un’ora ogni notte, essendo incapace di sdraiarsi o stare seduta. La notte scorsa era talmente malata che sono stato chiamato nella sua camera, e con profondo dolore abbiamo davvero creduto di poterla perdere. Ci sentiamo dunque obbligati a inviarvi questa notizia con la massima urgenza, sí che possiate accelerare il vostro viaggio e sollevare noi tutti con il vostro ritorno»18. Fortunatamente Anna Magdalena si riebbe e nel febbraio seguente (1742) dette alla luce la loro ultimogenita Regina Susanna, che sopravvisse fino alla vecchiaia.
Passando in rassegna i membri della generazione dell’85, ora tutti sui sessant’anni, li troviamo in diverse condizioni di salute e creatività. Händel è passato con successo dall’opera seria italiana a oratori drammatici in inglese, Rameau da teorico musicale è diventato il principale compositore d’opera di Francia. Domenico Scarlatti, elegante e gioviale come sempre, si trova in un mondo tutto suo, e delizia ancora i suoi ascoltatori con l’eccentrica genialità della sua immaginazione musicale. Mattheson è sordo, ma infaticabile e ancora polemico, mentre Telemann semplicemente non accenna a smettere. Chi di loro sta ancora scrivendo opere alla metà del secolo? Non sorprende che il primo a essersi arreso, già nel 1718, sia stato Domenico Scarlatti, che vuole disperatamente distanziarsi dal genere che aveva contraddistinto il mondo di suo padre Alessandro. L’ultima opera di Mattheson risale al 1724, anno in cui Bach inizia la sua attività di Thomaskantor. Telemann (un tempo screditato da Kuhnau come semplice «musicista d’opera», ma verso cui sciamano tutti gli studenti di Lipsia) ha ancora un’opera nel taschino (la diciassettesima: Don Quichotte der Löwenritter, del 1761) sebbene, dopo la chiusura dell’Opera di Amburgo, la sua produzione musicale sia un po’ calata tra il 1740 e il 1755. All’età di settantaquattro anni, abbandonato l’hobby di coltivare gerani (secondo quanto afferma Ulrich Siegele)19, torna a composizioni musicali a pagamento, forse per far sí che la sua seconda moglie si vestisse in modo adeguato, e, in un nuovo sprazzo di creatività, ricomincia a scrivere oratori e cantatee. Si ritiene che Telemann abbia composto trentuno cicli di cantate (1043 cantate singole). Al tempo furono ammirate da Scheibe e da Mattheson per l’espressività e l’armonia. Deidamia sarà l’ultima opera di Händel (la quarantaduesima, composta nel 1741). Benché la sua salute e gli occhi continuassero a dargli problemi, sopravviverà nove anni a Bach. Nel 1750 deve ancora scrivere i suoi migliori oratori drammatici: Theodora (1750) e Jephtha (1752). Nel febbraio del 1750 il duca di Shaftesbury scrive che non l’ha mai visto «cosí fresco e in buona salute [e] piuttosto disinvolto nei comportamenti […] nel dilettarsi ad acquistare due quadri preziosi, in particolare un grande Rembrandt, che è davvero eccellente»20. Pochi mesi dopo Händel parte per il continente per l’ultima volta e rimane ferito in un incidente in carrozza tra l’Aia e Haarlem, posticipando cosí l’arrivo nella sua città natale di Halle di poche settimane dopo la morte di Bach, e fu cosí che i due non si incontrarono maif.
Rameau, invece, nel 1750 aveva superato da poco il momento centrale della sua carriera operistica: quattordici anni di composizione, due opere importanti (Les Paladins e Les Boréades) e tredici actes de ballet singoli, sono ancora nel futuro. Della generazione dell’85, solo Rameau mostra una volontà paragonabile a quella di Bach nell’affermare la propria indipendenza all’interno delle convenzioni accettate. Rameau a volte fa pensare al vino nuovo in bottiglie vecchie: lo spirito della modernità calato nelle rigide strutture della tragédie lyrique francese, ma temperato da una nuova tangibilità delle linee e un’estrema elasticità e fluidità del ritmo. La musica è chiara e agile, traboccante di vitalità e trasparenza, di contrappeso alla pura densità dell’étoffe musicale. È solo la punta dell’iceberg della straordinaria originalità del suo linguaggio musicale, e dell’abisso tra la notazione in cui è scritta e il suono che rappresenta, in cui troviamo elementi come notes inégales e un’abbondanza di abbellimenti in grado di confondere anche i musicisti piú esperti alla prima esecuzione. Un’altra caratteristica è il modo psicologicamente penetrante e acuto dell’osservazione con cui Rameau esplora le emozioni umane all’interno di una rigida serie di convenzioni operistiche. Confrontiamolo con Lully o Gluck (uno a rappresentare il passato, l’altro il futuro), e troveremo che li supera ampiamente in termini di sostanza musicale e di scintillante attrattiva. Se togliamo la sua musica dal palco per cui è stata concepita (una benedizione, direbbe qualcuno) rimane comunque viva, e anche in una sala da concerto trasmette nella mente dell’ascoltatore la gestualità e i movimenti del teatro. Ciò non è diverso da come le Passioni di Bach riescano a evocare una quantità di immagini teatrali quando vengono presentate in chiese o sale da concerto, con creatività. Riescono a incantarci per il modo in cui personalizzano un dramma umano. Ironicamente, è sempre Bach, ancora piú di Rameau o Händel, ad aver anticipato il modo in cui il dramma musicale riuscí a liberarsi delle abbrutenti convenzioni operistiche, abitando quindi in quella stessa aria che avrebbe presto respirato Mozartg.
I segnali della forza di volontà e della tenacia di Bach sono presenti in tutta la sua musica degli ultimi due decenni: nell’energia impiegata per far giungere a pubblicazione i suoi migliori lavori per tastiera, come il terzo e quarto volume della Clavier-Übung, e nella laboriosa gestazione dell’opera che potrebbe aver inteso come quinto volume, l’Arte della Fuga. Non dovremmo essere tranquillizzati dalle tracce di meticolosa revisione tardiva, e liquidarle come l’equivalente di un lavoro di manutenzione musicale, o addirittura come la prova dello sbiadire della sua creatività. Tutt’altro. Le ore di lavoro trascorse in isolamento a correggere minuscoli dettagli del contrappunto (assicurandosi al tempo stesso che tutto si potesse suonare con due sole mani su una tastiera) continuarono anche quando il lavoro di stampa era già iniziato. Secondo il suo allievo Johann Philipp Kirnberger, Bach aveva l’abitudine di dire: «Bisognerebbe poter fare tutto» (es muss alles möglich zu machen seyn)21.
Arrivò, tuttavia, un momento in cui gli divenne quasi impossibile fare alcunché. Nella primavera del 1749, circa un anno dopo aver posato per il secondo ritratto di Haussmann, la sua grafia inizia a mostrare segni di deterioramento. L’unica prova che abbiamo del fatto che soffrisse di una malattia non diagnosticata, forse un diabete in stato avanzato collegato al dolore agli occhi, si trova nel degrado della sua grafia. La voce si sparse in fretta. Forse per precauzione, o per disonestà, il borgomastro di Lipsia Jacob Born riferí della malattia di Bach al conte von Brühl, primo ministro di Sassonia, che vi vide l’opportunità di promuovere, o piú precisamente di sbarazzarsi, il direttore musicale di Dresda, Gottlob Harrer. Seguendo la «raccomandazione» fatta da von Brühl al consiglio municipale di Lipsia, praticamente un ordine proveniente dalla corte di Dresda, Harrer arrivò a Lipsia, tenne un’audizione a porte chiuse nella sala da concerti dei Tre Cigni, fu applaudito e rispedito a Dresda con la documentazione richiesta da von Brühl, assicurandogli che «nella detta eventualità [della morte di Bach] nessuno l’avrebbe soppiantato»22. Anche se era d’usanza, e considerato accettabile, cercare dei successori quando l’incaricato era ancora in vita, Bach dovette sentirsi punto sul vivo. Poi, dopo qualche tempo, si riebbe. Era abbastanza vigoroso per reagire all’affronto eseguendo, il 25 agosto, la BWV 29, Wir danken dir, Gott, una delle piú grandiose cantate commemorative per l’elezione annuale del consiglio municipale, e forse eseguí egli stesso la virtuosistica parte d’organo della sinfonia d’apertura. Non stava solo rendendo grazie per aver recuperato la salute, ma proclamando l’autorità di Dio su qualsiasi presunzione terrena. Fu una risposta degna dell’affronto, e una superba e provocatoria dimostrazione, per gli ufficiali del consiglio lí riuniti e per i rappresentanti della corte di Dresda, del pieno controllo delle proprie facoltà artistiche.
Eppure, intorno allo stesso periodo, quando era ancora molto vulnerabile, Bach rischiò di sabotare il suo stesso quieto vivere reagendo in modo impulsivo a un’altra situazione. Un lato meno edificante del suo carattere riaffiora nuovamente in questo conflitto interiore e che abbiamo rintracciato fin dai tempi della sua infanzia: l’energica difesa delle proprie scelte professionali e la tendenza a reagire in modo eccessivo, e a ricorrere a comportamenti scorretti. Dodici anni dopo il suo battibecco pubblico con Ernesti (vedi supra, cap. VI), Bach aveva ancora qualcosa di cui lamentarsi (la tensione tra i due non si placò mai del tutto) e fece in modo di trovarsi ancora una volta in una situazione infelice. Verso la fine del 1749 si lasciò coinvolgere in una analoga disputa che si svolgeva a ottanta chilometri di distanza, a Freiberg, tra un ex allievo (J. H. Doles, che piú tardi fu uno dei suoi successori nel ruolo di Thomaskantor) e J. G. Biedermann (rettore del ginnasio). In un suo scritto, Biedermann, interpretando lo stesso ruolo di Ernesti, aveva irriso la musica, definendola una distrazione che corrompeva i giovani e una sgradita intrusa nel programma scolastico. Senza alcun tatto, diresse il fuoco verso i musicisti in generale, attaccandone la morale e citando Orazio, che li assimilava a «baiadere, impostori e miserabili preti»23. Ciò causò una sollevazione nel mondo musicale tedesco. Mattheson si infiammò al punto di scrivere addirittura cinque saggi, stigmatizzando Biedermann come «un maestro che si ostina nell’errore, un triste oppositore e un empio profanatore dell’arte musicale».
A questo punto, sentendo riaprirsi le antiche ferite, Bach intervenne sconsideratamente dalle retrovie. Poiché la sua vista non permetteva piú lunghe lettere polemiche, convinse un ex allievo, C. G. Schröter, a parlare per lui, proprio come aveva fatto il Magister Birnbaum durante la disputa con Scheibe nel 1738-39. Schröter accettò e inviò la sua confutazione a Bach, lasciandogli il compito di farla stampare. Sembra però che Bach tramò con l’editore per modificare e aggiungere un po’ di pepe nell’articolo di Schröter (con grande fastidio di quest’ultimo) nella speranza, come scrisse, che le «orecchie sporche [Dreck-ohr, un gioco di parole con la parola Rec-dor, il modo in cui “rettore” veniva pronunciato in dialetto sassone] del rettore si puliscano e diventino piú adatte all’ascolto della musica»24. Per Mattheson la situazione era degenerata: Bach aveva usato «un’espressione bassa e disgustosa, indegna di un Capellmeister; un’infelice allusione alla parola Rector»25. Sebbene il riferimento fosse diretto al rettore Biedermann, poche persone all’interno del piccolo mondo della musica tedesca si fecero sfuggire il collegamento implicito con Ernesti. L’attacco di Bach gli si ritorse contro. Dev’essersi preso a schiaffi da solo ricordando un passaggio di Calov da lui sottolineato: «Perché vuoi dunque irritarti? […] Queste persone non ti ascolteranno e se cercherai di farti strada con l’invettiva peggiorerai solo la situazione»26.
Perfino ora, quando il suo disincanto per la routine settimanale alla Thomasschule lo stava spingendo al limite, Bach non si arrese, continuando al meglio delle sue possibilità (e nonostante la vista sempre piú debole) a esplorare nuovi mondi sonori e le ultime frontiere del contrappunto. Abbiamo pochissimi fatti su cui basarci, ma l’immagine provvisoria, impressa nella nostra mente, degli ultimi anni e delle ultime attività di Bach potrebbe essere scalfita solo dalla scoperta fortuita di nuovi documenti. Un esempio è una lettera ritrovata di recente, datata 27 febbraio 1751, inviata da un ex Thomaner, Gottfried Benjamin Fleckeisen. Nella speranza di essere nominato Cantor a Döbeln, una cittadina a metà strada tra Lipsia e Dresda, Fleckeisen menziona i suoi nove anni trascorsi da Alumnus della Thomasschule e i quattro anni da prefetto del chorus musicus. Dichiara che «per due anni interi» si è ritrovato «a dover suonare alle funzioni delle due chiese principali di St. Thomas e St. Nicholas, costretto a dirigere al posto del Capellmeister, sebbene senza la sua gloria, ma sempre con risultati onorevoli»27. Prima di dedurre conclusioni certe da questa straordinaria affermazione, dobbiamo stabilire a quali anni Fleckeisen si sta riferendo (un periodo tra il 1742 e il 1746, ma forse ancora piú tardi?) e, per esempio, se aveva avuto dei dissapori con Bach (è strano che non faccia il suo nome). Se Bach gli passò davvero le redini ed era assente in tale periodo, fu perché era in viaggio, o disincantato o troppo malato per continuare, o tutte e tre le cose insieme? In alternativa, fu Ernesti, nel ruolo di rettore o ispettore scolastico, esasperato dal comportamento capriccioso di Bach, ad assegnare l’incarico a Fleckeisen? Se questa dichiarazione ha fondamento, getterebbe una luce molto diversa sulla decisione prematura del consiglio di convocare Harrer per un’audizione in vista della sostituzione di Bach.
Il paragone del capitolo precedente tra Bach e Rembrandt ha evidenziato una differenza importante nel considerare il modo in cui ognuno dei due riteneva la propria arte lo specchio della propria personalità. Raffigurandosi al centro della tela, come se fosse stato lui a iniziare il linciaggio di santo Stefano, Rembrandt ci obbliga a notarlo, come partecipante contrito, forse, eppure chiaramente complice del crimine. In questi primi autoritratti, in cui dà una sfumatura ingannevolmente positiva alla sua rispettabilità sociale e al suo benessere economico, Rembrandt sta dipingendo se stesso per farsi ammirare da tutti in fogge diverse. Nemmeno in questo caso si colloca però cosí ostentatamente al centro della scena come fece invece Dürer nel suo terzo e piú audace autoritratto (1500). Qui lo sguardo frontale e la simmetria idealizzata del viso sono al tempo stesso immensamente sorprendenti e sottilmente inquietanti. Ciò che lo salva dalla hubris e dalla blasfemia di identificarsi direttamente con le fattezze di Cristo è l’idea (basata sul verso di Genesi 1,26) che, essendo l’uomo creato a immagine di Dio (Ebenbildlichkeit), è naturale che tra i due debba esserci un’immediata somiglianza. Il teologo di origini tedesche Nicola Cusano (1401-1464) aveva ribaltato l’antico insegnamento scolastico dell’imago Dei suggerendo che l’artista, che deve il proprio dono a Dio, può legittimamente provare a replicarne l’opera e condividere la creatività divina, e che le creazioni di un artista sono presenti nell’immagine del primo Creatore. Dio, a sua volta, è un pittore giacché genera autoritratti viventi in forma di esseri umani. Quest’idea dette legittimità alla concezione da parte di Dürer del proprio atto creativo come di quello di un Deus artifex, nella tradizione dell’imitazione retorica classica. Usando la materia prima, il colore su una tavola di legno, il pittore poteva elevarsi a secundus Deus, un secondo Dio28. L’iscrizione che Dürer dipinse accanto ai propri occhi affermava che egli, Albrecht Dürer di Norimberga, aveva raffigurato se stesso all’età di ventotto anni, «con colori appropriati o imperituri [l’espressione latina propriis coloribus si presta a entrambe le letture]»h. Affermava, dunque, che quei colori sarebbero durati nel tempo, e poiché è successo cosí per cinquecento anni, Dürer non era un vano millantatore.
Il goffo ma innovativo concetto artistico di Dürer trovò espressione due secoli dopo nella vita e nelle opere di Bach. Anch’egli, potremmo dire, pone continuamente la domanda Quis ut Deus? («Chi è come Dio?») Eppure, in questo caso, i risultati (la longevità, la fama postuma e il grado di universalità) sono forse ancora piú straordinari. Ma cercare un autoritratto esplicito in Bach si dimostra piú difficile, almeno all’inizio.
Alcuni compositori classici, come Gustav Mahler, riuscirono a inserire nella propria musica una sorta di autoritratto che racchiude la loro personalità con tutte le vicissitudini: e ciò, a sua volta, si imprime nell’immaginazione dell’ascoltatore. Sebbene nell’ultima parte della sua vita Bach abbia inserito ripetutamente il proprio nome nelle note musicali, ciò è qualcosa di autoreferenziale piuttosto che una rivelazione di sé. Tuttavia, in diversi passaggi di questo libro ho indicato momenti in cui Bach permette alla maschera di abbassarsi e alla sua personalità di mostrarsi nella musica, momenti in cui è possibile percepire i suoi tanti stati d’animo: l’intenso dolore, le appassionate convinzioni, ma anche i suoi conflitti con la fede, gli scoppi d’ira, la vena ribelle e sovversiva, il deliziarsi della natura e la gioia irrefrenabile per la creazione di Dio. Naturalmente dobbiamo ammettere che era insuperabile nel creare un ampio spettro di Affekte, ed è quindi perfettamente legittimo chiedersi se uno stato d’animo non sia soltanto simulato: è dunque un riflesso reale di ciò che sentiva in quel momento (qualcosa di immagazzinato oppure affrontato in un periodo precedente) evocato in musica, ed è un mezzo per individuare e definire autenticamente la sua personalità? Ciò è piú difficile da determinare, a causa del livello straordinariamente alto di artificio musicale e del notevole modo in cui la musica di Bach mostra la propria genialità e complessità, senza essere asservita a un codice esterno come la «dottrina delle passioni» (Affektenlehre), che riconosceva, per ogni movimento o composizione, l’espressione di un solo Affekt unificato e «razionalizzato»i. Poiché l’universo emozionale della sua musica è cosí ricco, in confronto, per esempio, all’affettazione all’acqua di rose e all’assenza di una significativa spinta armonica in Telemann, abbiamo una percezione molto piú forte della personalità di Bach cosí come è impressa nella sua musica, con un carattere tridimensionale che interpretiamo come suo.
Sono aree di indagine molto interessanti, che nascono da un mondo di sensazioni soggettive e in definitiva impossibili da provare. Eppure, se trattate con cautela, possono congiungere come un ponte le tracce del carattere di Bach che riteniamo impresse nella sua musica e le verità storiche che riusciamo a stabilire sulla natura del suo carattere. Purtuttavia, proprio come imporre qualsiasi immagine divina su Bach potrebbe impedirci di considerare le sue difficoltà artistiche, cosí dovremmo anche evitare di gettar via troppo in fretta gli aneddoti in cui perde le staffe con i musicisti, strappandosi via la parrucca e saltandoci sopra, poiché potrebbero trattarsi sicuramente di avvenimenti che ebbero come testimoni gli stessi figli, in quella pentola a pressione che erano le prove delle cantate settimanali del Thomaner.
Non ci aspettiamo che questi episodi figurino nel racconto della sua giovinezza trasmesso da Bach ai suoi figli, e da loro a Forkel, il suo primo biografo, riadattato in modo da presentare nel modo piú favorevole possibile il suo caratterej. Inoltre, alcuni dei suoi ricordi erano forse troppo dolorosi, eppure sono tutt’uno con l’irascibilità che la sua musica, insieme al testo, a volte esprime. Bach aveva dei ricordi indelebili della sua prima infanzia e di certo rimuginava sul significato di tali eventi; ma è improbabile che abbia comunicato ai suoi figli qualcosa di tutto ciò, altrimenti lo avremmo senz’altro saputo. Come Mark Twain, che attraversò simili sofferenze giovanili – un padre, una sorella e due fratelli morti, e i sermoni domenicali «fatti quasi esclusivamente di fuoco e lava» –, Bach forse intendeva evitare di addentrarsi nelle acque profonde dell’introspezione, nel modo che gli era tipicok.
Nonostante il dominio della famiglia e del clan, la forte impressione che ricaviamo da Bach è quella di una persona sostanzialmente riservata, introversa, intenta a riversare la propria energia, dopo la morte dei suoi genitori, prima nella scuola e poi nella musica. La presenza persistente della morte nella sua vita, la morte di genitori, fratelli e sorelle, della prima moglie e poi di tanti figli, può averlo condotto a una ricerca della solitudine e a una circospezione affettiva basate sull’aver sperimentato che nell’amore è implicito il rischio della perdita.
Si potrebbe d’altra parte sostenere che a giudicare dagli effetti sui posteri e perfino su di lui, la morte di suo padre Ambrosius, per quanto al tempo devastante, fu forse la cosa migliore che gli potesse capitare. Fu questa a portarlo sotto la protezione del talentuoso fratello maggiore (che pare fosse un musicista molto piú sofisticato del padre Stadtpfeifer), e spianò la strada verso un’educazione molto meno provinciale nella Germania settentrionale, un’opportunità che gli sarebbe stata negata se avesse svolto l’apprendistato con suo padre a Eisenach.
Nel riconoscere l’umanità di Bach, iniziamo a vedere quanto fosse simile a noi. Se rinunciamo ai tentativi di spiegarne il genio (in termini di dono divino, o come risultato del patrimonio genetico) guadagniamo qualcosa di piú prezioso: una sensazione di prossimità e al tempo stesso un’idea piú sfumata e «granulosa» di come la sua musica fosse messa insieme, e un indizio della ragione per la quale riesce a coinvolgerci emotivamente in modo cosí profondo. Forse la musica dette a Bach ciò che la vita reale sotto certi aspetti non poteva: ordine e avventura, piacere e soddisfazione, un’affidabilità maggiore rispetto alla propria vita quotidiana. Esisteva anche per compiere delle esperienze che altrimenti sarebbero esistite solo nella sua immaginazione: una compensazione parziale delle stimolanti avventure negate a lui ma non a Händel, per il quale i viaggi in Italia costituirono una fertile fonte d’ispirazione. Bach trovò sicurezza nell’attenersi a una struttura regolare, alle proporzioni e ai numeri, e al calendario. Era una caratteristica che quando raggiunse i cinquant’anni prese una forma specifica e acquistò impeto nella dedizione quasi ossessiva agli alberi genealogici.
Quanto di tutto ciò riuscí a comunicare Haussmann nel dipingere nel 1748 il secondo ritratto, quello ufficiale, di Bach (fig. 19)? Cerchiamo i segni della vivacità che si trova nella musica; vogliamo che Bach balzi fuori nella nostra direzione: un uomo fiero, impetuoso, i cui sforzi creativi spinsero la musica verso nuovi territori, mentre egli si scrollava di dosso o aggirava i banali ostacoli delle proprie funzioni. Non ricordo di aver avuto nessuna impressione di questo genere durante la mia infanzia: nel mio ricordo il Cantor osserva dal quadro con uno sguardo severo, impassibile e leggermente minaccioso.
Eppure, osservando di nuovo il ritratto a Princeton dopo quasi sessant’anni, sono rimasto colpito dall’astuzia con cui Haussmann catturò sfaccettature diverse della personalità del suo modello: quella seria e quella sensuale. Si fa sempre ricorso agli occhi per cercare le informazioni piú affidabili e pertinenti. Non appena si divide orizzontalmente il viso di Bach, diciamo alla radice del naso, si nota una fronte alta, leggermente stempiata (ma dolcemente) e lo sguardo di un uomo segnato dalle traversie della vita: sopracciglia folte, orbite profonde, occhi asimmetrici e palpebre leggermente cascantil.
Il suo sguardo è intenso ma molto piú vivace di come lo ricordassi. (Un’altra caratteristica che non avevo mai notato prima è che le sue sopracciglia sembra crescano, o siano pettinate, nella direzione sbagliata, e cioè verso la dorsale del naso). Nella metà inferiore del suo viso l’attenzione è attirata dalla narice destra, dilatata, dalla caratteristica forma della bocca dagli angoli increspati, dalle labbra e le guance carnose che suggeriscono la predilezione per il cibo e il vino, cosí come ci è stato tramandato. L’impressione generale è di qualcuno molto piú complesso, sfumato e soprattutto umano di quanto la postura formale di un personaggio pubblico sembrerebbe permettere, e di qualcuno infinitamente piú accessibile dell’uomo del ritratto precedente di Haussmann, in cui lo sguardo sembra maggiormente quello di un corpulento e noioso politicom.
Nella mano destra Bach tiene una pagina di partitura musicale (un Canon triplex à 6 voc.), uno dei quattordici canoni trascritti sul retro della sua copia delle Variazioni Goldberg.
Oltre al titolo intellettualmente impegnativo, il rompicapo riguarda il modo in cui andrebbero letto i tre righi. Cosí come Bach lo presenta allo spettatore, lo vediamo come un semplice frammento in tre parti scritto in chiavi di contralto, tenore e basso, certo piacevole ma un po’ banale. Di certo non può essere stato questo il motivo per cui Bach si fece ritrarre da Haussmann con questo manoscritto tra le mani. Poi però ci accorgiamo che se Bach abbassasse gli occhi lo leggerebbe in modo completamente diverso, e per leggerlo anche noi in quel modo occorre capovolgere il manoscritto e leggere la musica dalla fine verso l’inizio, iniziando dallo stesso punto della versione «diritta», ma cambiando le chiavi con quelle di tenore, contralto e violino, i righi nel riflesso diventano alla quinta (in altre parole, capovolte). Se ruotiamo le note lungo la linea mediana di ogni pentagramma troviamo anche un doppio effetto a specchio. Prendiamo per esempio la voce centrale: vediamo che la seconda nota scritta nella chiave di tenore sulla linea centrale è un La. Mettiamo questa nota nella chiave di contralto, come nella versione vista da «Bach» e la stessa nota ora diventa Do.
Ma se si tratta di un canone a sei voci, dove sono le altre tre? L’espressione di Bach sembra dirci: «Guardate piú attentamente: la mia musica non rivela tutti i suoi segreti al primo sguardo»n. La chiave per risolvere il rompicapo si trova nei piccoli segni che appaiono sopra la seconda misura, e ci mostrano dove deve iniziare il canone. Una volta che le voci sono state riallineate, capovolte, lette dalla fine all’inizio e suonate a distanza di una battuta l’una dall’altra nella versione «dall’alto in basso», improvvisamente vediamo apparire un canon à 6. I segni di ripetizione sulla seconda e terza battuta e l’assenza di una battuta di chiusura ci dicono che questo è un loop infinito, un canon perpetuus, cosí che la musica non si risolve mai (come l’ultima fuga dell’Arte della Fuga). Un ulteriore indizio della necessità di trasporre si trova nel profilo della chiave aggiuntiva, appena visibile sulla curiosa parte triangolare di manoscritto che sembra essere stata aggiunta sul margine destro del foglio rettangolare: attraverso di esso traspare il blu notte della giacca di velluto di Bach, a indicare che Haussmann (dietro istruzioni di Bach) vi aveva dipinto sopra, come per un pentimento (vedi supra, cap. XIV, e fig. 19)o.
Il ritratto di Haussmann ci dimostra l’importanza di andare al di là delle prime impressioni. Le disparità caratteriali che secondo me evidenzia sono sostenute dalle prove biografiche che abbiamo raccolto, e dalle molteplicità e contraddizioni che abbiamo affrontato. L’obiettivo è sempre quello di tenere salda la presa sulla connessione critica delle cose: inquadrare Bach a tutto tondo e non attraverso una prospettiva settaria che deriva dall’osservazione del minimo dettaglio o dalla visione minuziosa dei singoli episodi che gli studiosi difendono con la tenacia di un cane da guardia. È necessario bilanciare l’analisi musicale con una contestualizzazione storica piú ampia e stabilire come il suo trovarsi in uno specifico momento e in uno specifico luogo collochi il suo lavoro nello sviluppo complessivo della cultura e delle correnti di pensiero europee. È necessario rimettere insieme i frammenti biografici, analizzare la musica e cercare i casi in cui la sua personalità sembra passare attraverso il tessuto della notazione. La nostra esplorazione della Messa in Si minore nel capitolo precedente ci ha fornito il paradigma di una ricerca della perfezione intrapresa nonostante un processo di assimilazione molto poco promettente e molto frammentario. In molti ricordano che quando nel 1977 fu lanciata la navicella spaziale Voyager, venne condotto un sondaggio relativo a quali artefatti sarebbero stati piú indicati per lasciare nello spazio una testimonianza delle conquiste culturali della Terra. L’astronomo americano Carl Sagan propose che «se volevamo comunicare qualcosa degli umani, allora la musica doveva farne parte». Alla richiesta di suggerimenti formulata da Sagan, rispose l’eminente biologo e scrittore Lewis Thomas: «Io invierei l’opera completa di Johann Sebastian Bach». Dopo una pausa, aggiunse: «Ma questo significherebbe vantarsi troppo»29.
Un’altra risposta potrebbe essere: ecco cos’è secondo molti di noi la manifestazione piú bella e profonda di cui è capace l’uomo, sotto forma di suoni armoniosi complessi che catturano in modo inesplicabile le gioie e le sofferenze che affrontiamo nella nostra vita terrena, che ci aiutano ad accedere al cuore emozionale dell’esperienza umana. Eppure, forse perché è facile essere intimiditi dalle realizzazioni di Bach, è ancora un problema, per alcuni, ammettere i suoi difetti. Per questo, non possiamo concordare con l’affermazione di Edward Said per cui esiste «qualcosa di demoniaco, nel suo fervore religioso, qualcosa di inconfondibilmente minaccioso» poiché, come abbiamo visto, l’espressione di questo qualcosa nelle cantate è quasi sempre controbilanciato da qualcos’altro in cui sono prevalenti l’intelligenza, l’umanità e la compassione. Said mi convince di piú nel momento in cui suggerisce che Bach stava cercando di controllare qualcosa «di piú oscuro e travolgente, un elemento di hubris che si spingeva ai limiti della blasfemia, e che la sua musica e la sua stregonesca maestria contrappuntistica lasciano di fatto balenare in tanti passaggi»30. Ciò traspare dal suo ossessivo concentrarsi sull’ordine e sulla struttura, cosí come da quel bagliore degli occhi che sembriamo cogliere nel ritratto di Haussmann, che potrebbe accennare alle sue difficoltà nel tenere a distanza il caos dell’ambiente intorno a sé e quello della sua vita interiore.
Benché nell’estate del 1749 Bach si fosse ripreso dallo shock della malattia improvvisa, i problemi alla vista persistettero e lo disturbarono a tal punto che cercò un rimedio per via chirurgica. Carl Philipp Emanuel riferisce che a questo punto: «Non solo egli non riacquistò piú la vista: ma la sua costituzione, peraltro perfettamente sana, fu da essa e dai dannosi medicamenti ed effetti collaterali completamente distrutta». Ci dice che suo padre «per un intero semestre fu quasi sempre ammalato»31. Dovette farsi grande coraggio per sottomettersi alle due operazioni fallite di Taylor – un chiaro segno che era determinato a portare a buon fine un lavoro incompiuto. Nel Nekrolog sono descritte quelle che dovevano essere le sue intenzioni per completare L’Arte della fuga: si menziona uno schizzo di fuga che «doveva contenere 4 temi e che poi, in tutte e quattro le voci, avrebbe dovuto essere rivoltata nota per nota»32. Non può trattarsi della Fuga a 3 soggetti incompiuta di cui possediamo un autografo che, secondo la filigrana, è databile all’ultimo mese di vita di Bach. Una nota del suo allievo Agricola nel verso del foglio ci dice che essa appartiene a un altro «schizzo», suggerendo in tal modo l’esistenza di un progetto completamente differente, destinato a restare incompiutop33. Dopo 239 battute, questa fuga serena e raffinata si interrompe, poco dopo un episodio nel quale Bach ha inscritto il proprio nome. Quando la si suona, nel momento in cui la musica tace bruscamente, gli ascoltatori restano sbigottiti. Potrebbe persino essere stato un gesto deliberato di Bach, come se avesse voluto invitare le generazioni future a trovare a loro volta la soluzione, dicendo «Quaerendo invenietis» (l’espressione che aggiunse alla sua Offerta musicale) – letteralmente, «Chi cerca trova», o, piú poeticamente (come nel «Discorso della Montagna»), «Cercate e troverete».
Uno dei libri della sua collezione privata era Liebes-Kuss («Bacio d’amore», 1732) di Heinrich Müller, che consigliava una costante preparazione alla morte, e ammetteva che l’espressione del dolore era un elemento necessario per giungere ad accettarla34. Oltre a un’accurata scelta di Trost-Sprüchlein («brevi parole di conforto»), Müller sottolinea che «la musica ci offre non solo uno sguardo sulla vita eterna, ma uno strumento tramite cui concentrare i propri pensieri sulla morte»35, e include delle incisioni per illustrare i due regni della terra e del cielo «uniti in sincronico concerto». Abbiamo visto che nella sua copia del commentario della Bibbia di Calov Bach sottolineò e segnò diversi passaggi che parlavano del compiere gli obblighi dell’«ufficio» senza preoccuparsi delle reazioni degli altri o di cosa riservasse il futuro, della necessità di dar prova di pazienza e resistenza nei confronti di tutte le avversità, della distinzione tra saggezza terrena e spirituale. Un passaggio in particolare si distingue, un proverbio tedesco: «I pensieri di un uomo sono come un tessuto troppo teso: tante cose si perdono». Fu cosí che si comportò Bach negli ultimi anni? Calov commenta: «Allo stesso modo i progetti ostinati o individuali raramente finiscono bene. In piú, nella mia vita niente è mai andato secondo i piani: ho deciso di agire in un certo modo, ma se non fosse stata la parola e l’opera di Dio ad attirarmi al progetto, la gran parte sarebbe rimasta incompiuta»36.
Tutta la musica di una vita, e specialmente quella corale, dette a Bach sia uno sguardo sulla vita ultraterrena sia un’arma con cui combattere il terrore della morte. Come il suo mentore Dietrich Buxtehude, Bach potrebbe aver coltivato il sogno di unirsi dopo la morte al coro (o «concerto») angelico, che al tempo molti vedevano come un passaggio privilegiato per i musicisti verso il paradiso. Buxtehude vi fa riferimento nel toccante Klag-Lied, composto per la morte di suo padre che, come lui, era stato organista: Er spielt nun die Freuden-Lieder | Auf des Himmels-Lust-Clavier («Ora lui suona canzoni gioiose | sui tasti del cielo»). Lungi dal cercare di evocare la musica celeste ora ascoltata da suo padre, l’adattamento di Buxtehude intride il suo adattamento di dissonanze e di un’insistente pulsazione in tremolo agli archi: è come se onde successive di amore filiale lo ispirassero, mentre un dolore inconsolabile lo assale nel momento in cui fissa la sua musica sulla pagina. L’effetto è molto piú intenso di quello del testo associato, l’adattamento dell’inno funebre di Lutero, che consiste di quattro movimenti in contrappunto rigorosamente invertibile. Una musica cosí sapiente e «imperscrutabile» (die Unergründlichkeit der Musik)37 fu considerata da una ristretta élite di compositori come un mezzo per purificare i propri pensieri migliori all’approssimarsi della morte, e un veicolo per un sicuro passaggio verso il paradiso. Poiché la musica cantata dai cori angelici era situata, nelle parole di Werckmeister, «quasi oltre la comprensione dell’uomo»38. Ciò non poteva dissuadere un compositore della capacità creativa di Bach dal volerla replicare, come abbiamo visto, in diversi momenti della sua vitaq. Nel frattempo la musica terrena composta per commemorare la scomparsa di un amato membro della famiglia, o su commissione, come i mottetti che abbiamo esplorato nel capitolo XII, ha ancora il potere di dare straordinario sollievo alle persone in lutto e a chiunque sia sensibile al potere emotivo e trasformativo della musica. Alla fine, nessuno, assolutamente nessuno, ha mai prodotto un tale patrimonio di musica consolatoria come Bach, e la cosa straordinaria è quanto presto acquisí questo talento: già all’età di ventidue anni, quando compose l’Actus tragicusr. Per Bach, implicita in questa arte della consolazione vi è una certezza: la convinzione che da qualche parte esiste un sentiero che porta a un’esistenza armoniosa, se non in questo mondo nel prossimo, quando l’endemica stupidità degli uomini e delle donne e i comportamenti ipocriti ed egoisti che rovinano le relazioni quotidiane non ci saranno piú. Due degli autori preferiti di Bach, August Pfeiffer e Heinrich Müller, riconobbero il ruolo della musica, in quanto parte dell’ars moriendi, di condurre i credenti verso quell’ideale39. Ve ne sono segnali in quella che potrebbe essere effettivamente l’ultima composizione di Bachs.
Sebbene C. P. E. Bach non si trovasse a Lipsia in quel periodo, riferí che il cosiddetto corale «del letto di morte» di suo padre, il BWV 668 a, Wenn wir in höchsten Nöten sein, fu dettato poco prima della morte «sull’impulso del momento» (aus dem Stegreif), a un amico il cui nome non viene specificato. Riprendendo una versione ricca di abbellimenti di questo corale, già inclusa nell’Orgelbüchlein, Bach la ridusse a uno scheletro. Avendola epurata di tutta la sensualità, la ampliò nuovamente con un’inversione melodica, diminuzione e stretto. Il rapporto tra le due versioni non è cosí marcato come nei due esempi già citati di Buxtehude. Se possiamo dire che racchiude i «pensieri elevati» di un uomo in punto di morte40, ciò, tuttavia, non è la qualità piú evidente che emerge durante l’esecuzione. Nel momento in cui il testo funebre «Vor deinem Thron» viene associato alle intricate linee contrappuntistiche di Bach, il brano acquisisce un tipo diverso di lucidità e di qualità trascendentale:
Con questo incedo verso il Tuo trono,
O Dio, e umilmente Ti imploro:
Non distogliere il Tuo viso pieno di grazia
Da me, povero peccatore.
Bach morí il 28 luglio, poco dopo le 8.15 di sera. Tre giorni dopo, alla sepoltura nel cimitero della Johanneskirche, questo corale fu cantato dal Thomaner, probabilmente eseguito insieme all’arrangiamento che aveva realizzato di recente, e con grandissimo sforzo fisico (come dimostra la grafia), di un mottetto di suo cugino maggiore Johann Christoph, Lieber Herr Gott, wecke uns auf («Signore Dio caro, risvegliaci»), una preghiera con un testo, ritenuto opera di Lutero, che prefigura la vita dopo la morte. Era stato eseguito al funerale di Johann Christoph nel 1703, e pare che venne cantato anche in occasione della morte dello stesso Bacht. Le persone a lui piú vicine lo avranno visto come un simbolo perfetto del suo senso delle radici famigliari e del suo toccante desiderio di riaffermare la propria fedeltà verso colui che aveva venerato come il piú importante compositore della famiglia, nonché suo mentore spirituale.
Durante tutto l’ultimo periodo della sua vita, Bach scoprí e penetrò in una terra incognita musicale. Ci sono volute generazioni di compositori e di esecutori per esplorare l’equivalente di quelle zone non tracciate nella mappa, simili alle regioni che un tempo i cartografi chiamavano, in modo affascinante, «hic sunt dracones» («qui si trovano i draghi»), e per ripercorrere il suo cammino e comprenderne le scoperte. Due secoli e mezzo dopo la sua morte, non possiamo dire che questo processo sia finito. Ignorata per un periodo, poi discontinuamente risuscitata, rappresentata in maniera snaturata, gonfiata, riorchestrata, poi ridimensionata sull’onda di un’eccessiva reazione purista, ridotta e minimizzata: sembra non esserci fine ai modi in cui la musica di Bach possa essere manipolata per essere adattata allo Zeitgest dominante, e sfruttata commercialmente o utilizzata per scopi politiciu.
In tutto questo, la musica ci invita a vedere la vita con i suoi occhi, gli occhi di un artista navigato, come a voler suggerire: questo è un modo per comprendere appieno e dall’interno le dimensioni e la portata di quel che significa essere umani. Perciò studiate e ascoltate con attenzione, non basterà un’esecuzione qualsiasi, per quanto mossa dalle migliori intenzioni. Nelle parole di un recente biografo: «Non esiste musica piú impegnativa da trasformare in suono, o piú svelta nel rivelare la mancanza di comprensione o di integrità nell’affrontarla»41. Affinché l’ascoltatore percepisca la sensazione che Bach sta esplorando tutti i percorsi della sua musica, come compositore e allo stesso tempo esecutore, i suoi interpreti devono impegnarsi a fare lo stesso. Ancora una volta possiamo attingere ai sentimenti cosí eloquentemente espressi dal suo grande precursore britannico, William Byrd, il quale nella prefazione della sua ultima pubblicazione, Psalmes, Songs, and Sonnets (1611), scrisse:
Solo questo desidero: che voi siate attenti ad ascoltare [le mie canzoni] ben espresse, tanto quanto io lo sono stato nel comporle e nel correggerle. Altrimenti, la migliore canzone mai scritta sembrerà stridula e spiacevole […] Inoltre, una canzone cantata bene e con arte non può essere ben percepita né compresa al primo ascolto, ma quanto piú spesso verrà ascoltata, tanto piú verranno scoperte ragioni per amarla.
Ogni volta che esploriamo la musica di Bach ci sentiamo come se avessimo compiuto un lungo viaggio verso, e attraverso, uno spazio sonoro remoto ma affascinante. Ogni momento che promette di essere un arrivo è in realtà solo una tappa intermedia, e un trampolino verso un altro viaggio, verso un nuovo coinvolgimento e un nuovo incontro con Bach.
È molto interessante il fatto che, una generazione piú tardi, Johann Gottfried von Herder (1744-1803) sembri a volte esprimere alcuni dei processi in cui Bach era impegnato sia come compositore che come esecutore, ma senza mai rifarvisi direttamente. Herder afferrò l’idea fondamentale per cui l’attività creativa e spirituale dell’uomo conduce all’espressione di una visione personale della vita, che può essere compresa solo attraverso una visione corrispondente, la capacità di «sentire con empatia» (sich hineinfühlen) le aspirazioni e le preoccupazioni degli altri. Possiamo immaginare che sarebbe stato in grado di comprendere il valore supremo delle opere vocali di Bach, non tanto come oggetti o artefatti, ma come visioni personali della vita e forme di valore inestimabile di comunicazione con il prossimo. È proprio questo l’aspetto che distingue l’eredità di Bach da quella dei suoi predecessori e successori. Monteverdi ci restituisce in musica l’intera gamma delle passioni, e fu il primo compositore a riuscirci; Beethoven ci parla di quale terribile lotta sia il trascendere la fragilità umana e aspirare alla divinità, e Mozart ci mostra quella musica che possiamo sperare di ascoltare in paradiso. Ma è Bach, facendo musica nel castello del cielo, a farci sentire la voce di Dio – però in forma umana. È lui l’unico a tracciare la via, e a mostrarci come superare le nostre imperfezioni attraverso la perfezione della musica: a rendere divino ciò che è umano, e umano ciò che è divino.