Che tipo! Gli capitava di bere un bicchierino di whisky prima di mezzogiorno, contro il parere del medico. «Quello che amo dell’ora legale è che non bisogna aspettare tanto per un drink». Certe volte, quando mi guardo ammiccando allo specchio, riesco a vedere un’ombra di quell’espressione dispettosa che aveva mentre prendeva la bottiglia nell’armadietto. «Rum, Reumatismi e Ribellione» diceva mentre sentiva quella roba scendere a scaldargli le viscere, e non era una cattiva sintesi dei suoi problemi.
“I reumatismi di papino” era uno dei modi di dire della mia infanzia. Rendevano la mia vita diversa in molti modi. Credo che oggigiorno si chiamino artrite o sciatica, o forse allergia. In ogni caso, ho idea che se li fosse guadagnati. Quand’ero piccola questi dolori, insieme al fatto che lavorava di notte, mi davano la sensazione che la nostra casa non fosse esattamente come le altre. La cosa mi faceva vergognare ma ovviamente non lo avrei mai ammesso, e anzi me ne servivo per vantarmi. Mia madre mi diceva che quelli che lavoravano di notte erano i veri vincitori della guerra, e io lo ripetevo a scuola. Papà era caporeparto notturno in un’officina, e a quei tempi si lavorava giorno e notte su non so quale timer per le bombe. «Per sostenere Ed» diceva papà. Ed era da qualche parte in Francia. Dopo un’intera notte di lavoro, il vecchio dormiva fino al pomeriggio. Per farmi stare buona mi permettevano di andare in salotto, dove contavo le pieghe del ventaglio nel caminetto o prendevo la tempesta di neve giocattolo nella palla di vetro. Nei giorni di bel tempo mi mandavano fuori, a sedermi sulle scalette dell’ingresso. Fu così che un giorno imparai che le femmine devono stare attente a sedersi sui gradini più alti. Probabilmente avevo fatto troppo chiasso in casa e mi avevano spedito fuori di corsa. Il vecchio postino si stava avvicinando. Quando arrivava una di quelle buste con la scritta Y.M.C.A., spedite da Ed, era un evento. «C’è una lettera del generale Perishing1» diceva sempre il postino. «Ehi, piccola, sembri un po’ triste».
«Mi ero dimenticata che papino dormiva».
«C’è qualcos’altro che ti sei dimenticata» aggiunse lui. «Le mutandine!».
Verificai, ed era vero; corsi dentro ululando per l’imbarazzo. Non sono mai più riuscita a guardare in faccia quel caro vecchio postino senza sentirmi pervasa dalla vergogna.
L’episodio dei gradini è legato a un altro fatto importante che accadde più o meno in quel periodo: il rimpatrio della divisione Keystone, credo nel 1919. Avevo otto anni, e papà portò me e la mamma in centro a vedere la parata. C’era mio fratello Ed, e probabilmente avevamo un permesso speciale per passare i cordoni della polizia, perché stavamo in prima fila sul marciapiede di Broad Street e li vedemmo sfilare. Ricordo lo scalpiccio di tutti quegli scarponi pesanti sulla strada liscia, e la statua di William Penn che torreggiava. Nella mia testa, la statua di Penn si confondeva con Dio, ma guardava dall’altra parte e non ci prestò la minima attenzione. Guardava verso Frankford. Io non feci caso ai volti, alle bandiere, alle uniformi; ero elettrizzata dal ritmo di tutti quei piedi. Poi iniziò a spaventarmi, mi sentivo come ipnotizzata, con l’intera strada che oscillava e vibrava, e mi venne la nausea. Mia madre si arrabbiò perché piangevo e papà mi sollevò sulle spalle. Poi ci portò da Dooner per pranzo. Ed ci raggiunse lì quando la sua compagnia si sciolse, e la cosa più eccitante che riuscii a pensare di raccontargli fu che ero caduta in disgrazia per essermi dimenticata le mutande.
«Oh, non prendertela, piccola» mi disse. «In Francia le ragazze non le indossano proprio».
La mamma era sconvolta, e disse che sapeva che gli uomini diventavano volgari appena entravano da Dooner.
Ci fu un po’ di confusione su questo argomento. Il vecchio disse: «Ed, puoi fregare i crucchi, ma non puoi fregare Germantown». La mamma veniva da Germantown, che è un posto di prima categoria se paragonato a Frankford. Al ritorno fu complicato arrivare a casa, perché la città era piena di cortei (o forse mi confondo con l’armistizio del 1918?). In ogni caso, a causa della folla, l’unico modo per arrivare al tram fu di unirci a un corteo che marciava da Chestnut Street al Palazzo del Governo. La povera mamma disse, in seguito, che non avrebbe mai immaginato che un giorno avrebbe pianto nel bel mezzo di Chestnut Street.
Una volta mi è successa la stessa cosa in sogno: camminavo in un corteo perché dovevo andare da qualche parte e in fretta. Una cosa del genere ha un grande valore per me: quante volte capita di doversi unire a una sfilata, per cui non si ha un reale interesse, solo per giungere a destinazione?
Il famoso albergo di Dooner per soli uomini (le donne erano ammesse esclusivamente nella sala da pranzo), era per me un altro nome importante. Papà lo frequentava fin da quando era ragazzo. Quando dovette lasciare l’officina e trovò un posto come sorvegliante notturno al Federal Building, prese l’abitudine di fare colazione lì prima di tornare a casa. La mamma non sopportava il Dooner, in parte anche a causa del Circolo degli Uomini d’Affari di Kelly Street. Era una specie di club per i clienti fissi, anche se talvolta non erano poi tanto fissi. Kelly Street era una viuzza che costeggiava un lato dell’albergo. Vi si svolgevano delle cene durante le quali papà, protestante di Londonderry, di solito si azzuffava bonariamente con i papisti. Bastava definire “Ulster” il suo pesante cappotto per accendere la discussione, quando erano in vena. Una volta tornò a casa con un occhio nero; dev’essere accaduto prima che nascessi, ma mia madre ne parlava ancora. In famiglia circolavano delle battute sul fatto che l’occhio fosse diventato sia verde sia arancione per restare imparziale. Quando la mamma morì, papà disse che non c’era più gusto ad andare da Dooner, ora che nessuno lo rimproverava. Poi il locale chiuse i battenti. Me lo ricordo bene perché quello fu un anno molto significativo per me: era il 1924. Durante i discorsi che io e papà facevamo nel cortile sul retro, lui ripeteva spesso un’espressione buffa, il Gran Climaterio. Era convinto che i sessantatré anni, sette volte nove, sono un momento di grande svolta nella vita. «Proprio così» diceva. «Ho sessantatré anni e mi hanno chiuso davanti il buon vecchio Dooner». Quell’anno ebbi anche io il mio Piccolo Climaterio personale, che si impresse nella mia mente.
Poco tempo dopo, per papà si chiuse qualcos’altro: la prostata. Quando un uomo ha dei problemi, potete star certi che non ne rimarrete all’oscuro. Se poi è stato un atleta come papà, penserà al corpo come a qualcosa con cui si può giocare fino a quando gli ingranaggi non inizieranno a rompersi; gli uomini non capiscono, come invece le donne sono costrette a fare, che è tutto un complicato insieme di pezzi. Non conosco la fisiologia in questione, ma c’era una parola che spaventava il povero vecchio papà fino alle convulsioni. La sentivo nominare così spesso che mi diventò familiare, anche se non conoscevo minimamente il suo significato. Qualcuno mi regalò una gattina per il mio compleanno; al momento di darle un nome scelsi quella strana parola, che mi sembrava appropriata. Quando papà mi sentì chiamare la gatta “Kitty Catetere” sembrò soffrire moltissimo.
Stranamente, non appena iniziavamo a credere che finalmente avremmo avuto un po’ di fortuna, succedeva sempre qualcosa. Papà lavorava come un cane ed era follemente ambizioso per Mac e me (Denny e Ed erano grandi e non c’era bisogno di preoccuparsi per loro. Denny era già adulto e autosufficiente quando nacqui io. Papà diceva sempre che Denny si era trasferito a Cincinnati e che aveva sposato un barcone). Papà stava per mandare Mac a Haverford e proprio quell’anno, il 1917, arrivò la guerra. Dieci anni dopo pensò di fare qualcosa anche per me. In quel periodo ero a Manitou, vivevo dallo zio Elmer e dalla zia Hattie. Era già tutto stabilito perché restassi nell’Illinois e andassi al Prairie College, ma avevo appena iniziato quando cominciarono i problemi di papà e dovetti tornare a Philly per occuparmi di lui.
Il vecchio e io eravamo molto legati. Credo che fosse perché ero nata tanto più tardi degli altri, perché la mamma era morta quando avevo solo dieci anni e perché papà di giorno era sempre in casa. La sua era una compagnia piacevole, forse a causa del suo sangue irlandese. A volte, all’improvviso, arrivava quella che lui chiamava la sua nube nera, e si vedeva chiaramente il buio che gli scendeva sul viso, come se avesse ingoiato qualcosa di orrendo. «Kitty, fuori dai piedi, devo star solo».
Myrtle in quei casi mi diceva: «Che è successo, tesoro? Ha un attacco di Irlanda? Su, vai in strada a giocare». Di solito trascinavo le mie cosette sui gradini all’ingresso finché non passava qualcuno con cui poi, giocando a campana, saltellavo fino alla chiesa metodista.
Quando papà era di buon umore, cantava. Aveva una bella voce, e ora divento matta cercando di ricordarmi tutta Low Back’d Car o pensando a quella folle canzone, The Irish Jubilee. Non l’ho mai vista scritta, ma posso ancora canticchiare qualcuna delle parole che papà ripeteva sempre.
Oh a short time ago, boys, an Irishman named Dorrity
Was elected to the Senate by a very large majority,
He felt so elated that he went to Dennis Cassidy
The owner of a barroom of a very large capacity.
Queste parole mi fanno sentire l’odore di whisky e di tabacco che mi investiva quando gli saltavo sulle gambe. Non amavo quell’odore, e glielo dicevo spesso, ma avrei fatto qualsiasi cosa pur di ascoltare quella canzone.
Two by three they marched in the dining hall,
Young men and old men, and girls that were not men at all,
Blind men and deaf men, and men who had their teeth in pawn
Soda crackers, fire crackers, limburg cheese with tresses on,
e poi qualcosa come:
In came Piper Heidseck and handed him a glass of wine2.
Non avevo idea di chi o cosa fosse Piper Heidseck. Anni dopo lessi “Piper Heidsieck” su una bottiglia, la prima volta che Wyn e io bevemmo champagne insieme: la cosa mi fece piangere.
Anche ora che il vecchio è morto da tanto tempo penso spesso a lui. C’erano delle cose che diceva di cui allora quasi non mi rendevo conto. Una volta, la mamma era morta da poco, Myrtle stava appendendo il bucato ad asciugare. Tra i grossi indumenti di papà e di Mac c’erano alcuni miei pagliaccetti e delle camicie da notte. Quando li vide disse: «Sarà bello quando i tuoi vestiti saranno cresciuti. È un bucato malinconico quello senza la biancheria di una donna». Un bucato malinconico. A volte ci penso, ma dall’altro punto di vista. Immagino tutte quelle donne nauseate di non avere altro che frivolezze femminili, mentre se ne tornano a casa in gruppo.
Penso a papà soprattutto per l’aiuto che avrebbe potuto darmi, quando ne avessi avuto bisogno. Quando fui pronta a chiedere i suoi consigli era troppo tardi. La cosa più vicina a un suggerimento fu quando mi citò un buffo detto che aveva imparato da suo padre, emigrato in America dall’Irlanda: “Perché in casa tutto vada bene, quando ci si vuole sposare, occorre qualcosa di più di quattro gambe in un letto”.
Mi chiedo che cosa sia successo al nonno per fargli pensare una cosa del genere. Aveva fatto la Guerra Civile, e morì molto prima che io nascessi e che potessi pensarci.
Wyn rise molto quando seppe che abitavamo proprio dietro l’angolo di Orthodox Street: a Frankford, intendo, e molto lontani dalla Main Line, se sapete che cosa significa a Philly. Significa treni merci e depositi di carbone e fabbriche, e l’odore delle concerie che risale il Frankford Creek. La cosa comica, per Wyn, era che ci stessero costruendo un ramo della metropolitana sopraelevata; era una cosa da New York, non stava bene nel paesaggio di Philadelphia.
Ma ora non sto pensando a Wyn, sul serio. Sto cercando di prepararmi a pensare a lui chiarendo l’A.N. nella mia mente. L’A.N. era quello che lui chiamava l’avanti noi, ciò che era stato prima del nostro incontro. Era eccezionale nel creare un linguaggio solo nostro. Immagino che capiti a tutta la gente fortunata, ma che di norma non si sia molto propensi a parlarne.
Da molto tempo ho abbandonato l’idea di essere strana, diversa da tutti. Ma era una buffa vita la mia, una ragazzina in mezzo a uomini tanto più vecchi, in seguito catapultata in un mondo totalmente diverso, lontanissimo. Dopo la morte della mamma in molti, ad esempio la zia Hattie, martellarono il vecchio col fatto che avrei dovuto condurre “una vita normale”. Questo lo rese ostinato. Gli piaceva avermi intorno, mi dava carta bianca e poi, improvvisamente, diventava irritabile. Una volta Lena McTaggart e io facemmo una lunga camminata per andare a vedere il treno del Circo Barnum & Bailey fermo su un binario morto, a North Philly. Tornammo a casa, naturalmente, molto tardi; papà e il signor McTaggart si incolparono a vicenda, e quello fu l’inizio di una lunga faida. «Senti, Mac» gli disse papà «con tutte le cinture di cuoio che si fabbricano a Frankford, perché non senti il bisogno di usarne una con quella tua figliola?».
Dopo tre maschi, papà era estremamente incuriosito dall’aver generato una figlia: non so proprio perché. Si divertiva da morire a girare per negozi con me per comprare abiti femminili. Era davvero comico sentirlo confabulare con Myrtle, la vecchia nera, su quali vestiti avrei dovuto indossare. Un giorno origliai mentre lei diceva: «Quella bambina è tanto bella, dovreste agghindarla un po’. Compratele qualche fronzolo!». Questo mi fece un gran piacere, finché non sentii il vecchio che le rispondeva: «Ma se non sembra neanche una femmina. È uguale a me dalla cintola in su: non ha più curve di una mazza da cricket».
Immersa nei fumi della tinozza da bucato, Myrtle rispose: «Le forme verranno, un po’ qui e un po’ lì, e un bel giorno sarà uno schianto».
Queste parole non avevano un significato chiaro per me, ma mi facevano ben sperare. Un giorno trovai papà che mi aspettava fuori dalla scuola. I ragazzi di solito non amano che i propri genitori rompano le abitudini consolidate, e io mi vergognavo anche un po’ di papà, così vecchio e zoppicante, che camminava appoggiandosi a un bastone. Mi chiesi che diavolo avesse da guardarci tanto. Lui mi spiegò che era venuto per vedere che tipo di vestiti portassero le altre ragazze, così da poter scegliere qualcosa di speciale per me. Caro, vecchio cuore! Dev’essere stato in quel periodo che mi comprò quell’abitino a quadri di cui ero tanto orgogliosa. Credo che fosse un suggerimento di Myrtle, che aveva sentito Lena McTaggart e me mentre ritagliavamo delle bambole di carta e discutevamo dei loro abiti. Myrtle era fiera che venissimo dall’Irlanda del Nord; credeva che gli irlandesi, come i neri, fossero una specie a sé, segretamente in conflitto col resto del mondo.
Quando si è bambini, è di grande conforto avere qualcuno che è davvero orgoglioso di voi e non lo nasconde. Myrtle era così. Cose su cui non mi sarei soffermata nemmeno un istante, ora mi tornano alla mente solo perché quella vecchia nera ci si agitava tanto. Dopo la morte della mamma, Myrtle venne da noi più spesso, e fu lei che mantenne la nostra casa allo stesso livello. C’era il bastone da passeggio di papà col manico d’argento e un’iscrizione del Frankford Cricket Club, che lei lucidava sempre con cura.
«Lasciate stare quel bastone» gridava a me e a Lena quando volevamo usarlo per qualche nostro gioco «è il bastone raffinato di papà». Dopo aver superato lo shock per la morte della mamma, di tanto in tanto tentavo di entrare in salone, ma Myrtle era sempre pronta a farmi uscire da lì.
I neri non hanno bisogno di fermarsi a riflettere per comportarsi in modo saggio; sanno naturalmente quello che è meglio fare, trasuda dai loro pori.