Il cortile sul retro era divertente. A volte la gente sorride di Philadelphia, ma quasi ogni casa a Philly ha un cortiletto proprio, per piccolo che sia. Il cortile e la minuscola scalinata dell’ingresso sono le cose che ricordo meglio. Più che una semplice scala era un vero e proprio portico, con un denso velo di rampicanti bianchi. Alle colonnine erano attaccati due cardini arrugginiti che un tempo avevano sostenuto un cancelletto, messo là per impedirmi di cadere. «Povera piccola Kitty» diceva papà. «Appena vede un punto da cui si può cadere, corre subito lì».
In cortile, sotto le finestre della cucina, c’erano delle piante di glicine su una graticciata. La domenica mattina, quando mia madre andava in chiesa e Mac dormiva fino a tardi, il vecchio si sedeva su una sedia di vimini sotto il pergolato e leggeva il Public Ledger. Io avevo uno scialle grigio che stendevo sull’erba accanto a lui per guardare la pagina dei fumetti. Quando la mamma usciva, papà mi faceva l’occhiolino e diceva: «Vedi un po’ se riesci a trovare il numero di telefono del Papa». Io sapevo dove trovarlo: era la sua bottiglia di Vat 69.
Papà era tutto bloccato dall’artrite. A ogni scricchiolio prodotto dalla vecchia sedia di vimini, borbottava: «Santo Dio!». Mac aveva imparato dal medico a calmarlo, usando un metodo da infermiere esperto. Si metteva dritto davanti al babbo, con i piedi contro i suoi, e gli porgeva le mani. Papà le afferrava, e Mac lo tirava su; poi barcollavano in una specie di lotta, mentre il povero papà ringhiava per il dolore. Non c’era mai stato il rischio che imparassi le parolacce a scuola; le avevo già sentite tutte dal vecchio durante le sue formule reumatiche. Poi Mac lo riadagiava sulla poltrona, papà beveva un altro goccio di liquore – probabilmente la cosa che gli faceva peggio – e riprendeva a cercare le notizie sul cricket tra le pagine del Ledger. È un bene che sia morto quando è morto, perché la sua vecchia città lo indispettirebbe parecchio di questi tempi. Non ci sono più locomotive a vapore alla stazione di Broad Street, né l’edizione mattutina del Ledger, e credo che la gente abbia dimenticato come si gioca a cricket.
Me ne sto lì, stesa sullo scialle grigio che il vecchio amava vedersi intorno; il nonno lo aveva usato come soprabito quand’era emigrato su un veliero da Derry, perché gli irlandesi non avevano abbastanza patate. Papà si sente meglio seduto al sole, ed è più facile per lui con un po’ di whisky e la mamma a messa. «È incredibile» diceva «come la gente si ami quando se ne sta un po’ separata». Uno dei loro anniversari di matrimonio capitò di domenica. Mentre la mamma era in chiesa papà se ne ricordò, e incaricò Mac di mettere una bandiera sul portico. Quando la mamma la vide, mentre percorreva Griscom Street fino a casa, si rattristò, perché le bandiere si alzano solo per guerre e battaglie.
Quando stava sotto il pergolato e sentiva l’odore della cena quasi pronta, cantava qualche vecchia canzone scoto-irlandese. Non ho mai saputo di che parlassero, ma quando c’era la minestra d’avena papà canticchiava:
What’s the rhyme to porringer?
Do ye ken the rhyme to porringer?
King Jamie had a daughter dear
And gave her to an Oranger3.
Io non avevo ben chiaro che cosa fosse un Oranger, se non che si trattava di qualcosa che dava fastidio alla Chiesa di Roma e che permetteva una festa aggiuntiva a luglio. Dodici, diceva, era tre volte meglio di Quattro. Lui celebrava il Quattro Luglio per i suoi figli e il Dodici per suo padre. Quando indossava la fascia arancione sapevamo che sarebbe tornato a casa un po’ stonato. La litigata peggiore di cui ho memoria avvenne quando la mamma si arrabbiò e buttò quella fascia nella spazzatura. Papà emerse da una lunga dormita verso mezzogiorno e ne vide un’estremità che sbucava dal bidone. Andò su tutte le furie, le vene sulle tempie gli si gonfiarono e snocciolò alcune finezze in stile Londonderry. «Nella pattumiera, tra tutti i posti che ci sono!» urlava. «E allora?» rispose mia madre. «È il posto dove si buttano le vecchie arance».
Mia madre aveva l’abitudine di buttare via ciò di cui si stufava, mandando in crisi mio padre. C’era un vecchio cuscino del divano tutto lacero e sbiadito ma lui lo usava da anni, se lo metteva sulle gambe quando leggeva. I reumatismi gli impedivano di tenere sospeso un libro o un giornale, così lui li appoggiava sul cuscino. Immagino che quel cuscino in particolare fosse perfetto allo scopo, o che lui ci fosse affezionato. Ora che ci penso, forse la differenza fra lui e la mamma consisteva proprio in questo, che lui apparteneva a quel genere di persone che si legano alle cose quando sono vecchie. Quello schifoso cuscino gli era di gran conforto, ma mia madre decise all’improvviso che non valeva più la pena di rattopparlo e lo buttò via. Non aveva mai capito che si poteva ottenere qualsiasi cosa dal vecchio preparandolo per tempo; lui detestava il fatto compiuto. Cercò ovunque il cuscino, disperatamente. Quando venne a sapere che ormai era andato, mi misi in attesa di un’altra esplosione. Era così in collera che dimenticò perfino i suoi reumatismi e si alzò in piedi senza imprecare. Mi aspettavo una lite ma lui aprì la bocca, si sedette di nuovo e disse soltanto: «Forse hai ragione!». Mia madre ne fu così sorpresa che scoppiò a piangere e gli diede un bacio. Cominciavamo a capire che stava diventando vecchio. Quando si invecchia si lascia che le cose vadano per il loro verso e si pensa “al diavolo!”. La mamma gli comprò un cuscino nuovo da Snellenburg e lui si sforzò moltissimo di affezionarcisi.
Era un gran risultato per chiunque fosse mezzo irlandese. Lui, intendo. Diceva che ero fortunata a essere irlandese solo per un quarto, era quella che lui chiamava la ricetta per un buon cocktail. Metà e metà era troppo forte, diceva.
Mi piace questo venticinque per cento. Mi dà un alibi privato per ogni sorta di pena o scenata. Una volta Molly mi disse che io ero il tipo di persona a cui le cose accadono; immagino che avesse ragione, e che ciò comportasse svariati tipi di problemi, che però capitavano soprattutto al venticinque per cento irlandese. C’è un’altra parte di me che resta impassibile e procede con il suo ticchettio, regolare e calcolatore come un tassametro.
Quando si diventa adulti si cerca di temprarsi di fronte alle liti e alle assurdità, ma quando si è ancora piccoli questo genere di cose vi scuote con forza. In ogni caso, nonostante la mediocrità diffusa della nostra vita domestica, mi piace pensare a quel nostro cortile sul retro per via della sensazione di sicurezza che mi dava. Nei giorni caldi c’era una deliziosa ombra verde sotto il glicine, e il caldo asciugava il pavimento in mattoni che la mamma inondava con la pompa. Metteva i piedi di papà su uno sgabello e il gatto gli saltava sulle gambe mentre lei passava il getto del tubo sotto la sedia di vimini. Lungo la recinzione di legno si sentiva profumo di rose. Papà non voleva verniciarlo perché secondo lui le rose erano ancora più belle contro il legno consumato. Era a casa così spesso, per via del lavoro notturno e dei suoi reumatismi, che il giardino era sempre ben curato. Diceva che l’odore dell’erba appena tagliata era il profumo migliore del mondo, fatta eccezione forse per il whisky di torba. Nessuno conosceva meglio di lui l’odore dell’erba e questo perché, quando era ancora in salute, era guardiano del campo e allenatore di uno dei migliori circoli di cricket; andava lì il pomeriggio e dava lezioni di battuta ai soci. Qualche volta mi portava con sé a Germantown, per guardare. C’era un gran tosaerba trainato da un cavallo con delle specie di pantofole sugli zoccoli e che emetteva un suono soporifero; il tosaerba, intendo. È da allora che ho in testa quel profumo di prato; è un profumo che si sente solo a Philadelphia. C’erano degli uomini in pantaloni bianchi nei vicoli tra le reti, e papà diceva loro cosa fare. Una volta stavo girando per il campo e guardando un cavallo, quando sentii un urlo. Una palla rossa attraversò il prato sibilando e mi prese proprio sullo stinco. Tutti smisero di giocare per venirmi a raccogliere, portarmi dentro il circolo e farmi ingozzare di gelato. Ricordo che mi massaggiai l’ematoma sulla gamba con un po’ di gelato.
Papà ci diceva sempre che il gelato era stato inventato per il Centenario della Dichiarazione d’Indipendenza, e Philly ne produce ancora tra i migliori.
C’era un altro odore nel cortile sul retro, quello dei disinfettanti al cloro che la mamma usava sempre nel gabinetto esterno. Era stato concepito per i domestici ma noi non ne abbiamo mai avuti, fatta eccezione per la grassa Myrtle, la lavandaia nera, che ogni lunedì ricopriva le corde di panni bagnati. Se poi ci camminavi in mezzo, i panni si gonfiavano e si appiccicavano al viso. Il gabinetto si trovava a un’estremità della graticciata, e papà lo usava perché per lui era troppo faticoso entrare in casa e salire le scale. La mamma pensava che fosse terribile usare lo stesso bagno che usava Myrtle, ma papà diceva «La carne nera è pulita come quella bianca». Io giocavo in cortile e sentivo il vecchio, chiuso lì dentro, che grugniva e imprecava contro se stesso per i crampi alle giunture. Le ragazzine sono più realistiche di quanto la gente non creda, e chiunque sia stata cresciuta come me non si vergogna di certi fatti intimi. Quella nostra misera casetta, con il suo tetto rivestito di tavole, il piccolo cortile e la strada in cui i lampioni a gas avevano la punta a forma di cappello, era accogliente e buffa e faceva sentire al sicuro. Ero a casa mia, e nessuna casa in cui ho abitato in seguito è riuscita a darmi un uguale senso di certezza. Era una sensazione tipica di Philadelphia, così sicura di sé. Philly non sa bene cosa stia succedendo, tutto ciò che chiede è di non essere disturbata o danneggiata e di avere dei coupon da ritagliare. Ma quand’ero piccola dava un senso di solidità. Wyn una volta disse che la città aveva avuto il suo momento moderno e rivoluzionario nel XVIII secolo e che poi se n’era liberata per sempre.
A quei tempi dovevano esserci preoccupazioni a sufficienza per i miei, se solo se ne rendevano conto, ma ogni volta che voglio indugiare nella nostalgia di casa mi basta ripensare al cortile assolato di Frankford e allo scricchiolio della sedia del vecchio e ai suoi “Santo Dio” mentre me ne stavo sdraiata sul prato a guardare i fumetti. Quando si ricordava che lo stavo ascoltando, a volte lo sentivo dire “Conshohocken!”4 che la mamma gli aveva suggerito come imprecazione sostitutiva. «Perché Mac non viene a darmi una mano? Kitty, corri a dirgli che papà è tutto contorto».
«Il ragazzo ha bisogno di dormire» diceva la mamma. «Tu hai già dormito abbastanza».
Questo di solito dava il via a un litigio di cui allora non capivo il significato, ma che ora capisco benissimo. Alla mamma pesava, e non posso biasimarla per questo, che lui avesse sempre lavorato di notte, dormendo durante il giorno. Io mi chiedevo spesso quando mai un operaio notturno avesse la possibilità di procreare. Questa idea mi era stata messa in testa dalle crudeli osservazioni degli altri bambini. Nella mia classe c’era una bimbetta permalosa di nome Nellie Simmons. Immagino che avesse sentito qualche conversazione volgare a tavola, fatto sta che un giorno, mentre tornavamo a casa da scuola, mi disse sogghignando: «Tuo padre e tua madre lo fanno di giorno». Riesco ancora a vedere gli alberi lungo la strada e le radici degli aceri levarsi come piccoli appendiabiti. Tutto il mondo diventò nero di vergogna e disgusto; corsi a casa accecata dalle lacrime e inciampai su una radice. La botta al ginocchio mi diede qualcosa di reale per cui piangere. Credo che sia una buona cosa: quando si è tutti concentrati su qualche orrore immaginario, la vita vi sbatte addosso qualcosa che fa veramente male, e in questo modo si smette di lamentarsi dei dolori fasulli.
Nellie era davvero una piccola canaglia, e avvelenò molte delle mie idee di bambina. A volte mi chiedo: se avessi una figlia mia, riuscirei a proteggerla da tutte quelle sudice volgarità? Penso che sia impossibile. Tante donne nascono con la mente sporca, e sporcano chi sta loro intorno. Riescono a ripulirsi solo se sono tanto fortunate da incontrare un uomo buono e comprensivo, che sappia prenderle così come sono. La cosa strana è che Wyn sosteneva esattamente l’opposto.
Ogni tanto ripenso a Nellie e rivedo il suo pallido visino magro, pieno di astuzia e di pettegola curiosità. Aveva gli occhi verdastri e i capelli sfilacciati e appiccicosi per via della marmellata rubata dalla dispensa. Non la vedo da anni ma scommetto che la vita è stata dura con lei, anche se non posso dire che mi importi.
Mamma e papà continuavano la loro discussione e la cosa sembrava far bene al vecchio: forse gli scaldava il sangue e gli scioglieva le giunture indolenzite. Si dimenticava di dire “Conshohocken” e se ne usciva con degli autentici “Santo Dio”, si alzava dalla sedia ancora prima di accorgersene.
«Non ti è andata poi così male, no?» sbraitava lui. «Tre bei ragazzi e questo zuccherino per concludere! Immagino che sia entrata subito prima che le mazze venissero abbassate».
Non penso che la mamma capisse tutti quei termini tecnici di cricket, ma non ne sono sicura: le mamme di solito capiscono molto più di quanto diano a intendere.
Papà se ne andava in fondo al cortile arrancando, poi si accoccolava per strappare le erbacce. Io dopo un momento lo raggiungevo, sperando di sentire qualcos’altro di interessante. Dopo i litigi gironzolavo sempre intorno a entrambi, alternativamente, perché di solito se ne uscivano con osservazioni sorprendenti. La cosa è un grande spasso per i bambini, i quali sono abbastanza svegli da capire che, per la gran parte del tempo, i genitori sono occupati a recitare una commedia, e che la roba vera viene fuori solo quando sono arrabbiati.
«Va tutto sotto la lista dei divertimenti» mi diceva lui. «Accumula le risate, Kitty, mettine da parte più che puoi: avrai bisogno di tutte quelle che sei riuscita a conservare».
Non si stancava mai di raccontarmi delle prime lezioni di cricket che aveva dato ai ragazzi sul fazzoletto di prato del cortile. Anche ora che era mezzo bloccato, falciava e sarchiava la vecchia linea della porta. «Qui ho insegnato a Denny le prime mosse» diceva. Dennis sembra molto più uno zio che mio fratello. Ha ventun anni più di me ed è cresciuto durante l’ultima grande era del cricket a Philadelphia. Papà non ha mai dimenticato che Denny, una volta, giocò con i Gentlemen di Philadelphia contro non so quale squadra inglese che era in visita. Credo che Denny in realtà fosse un sostituto. Papà raccontava che un compagno di squadra fu abbattuto da un colpo di mazza e che Denny gli subentrò. Ma, in quanto figlio di un professionista, devo pensare che fosse realmente svantaggiato? Tutte queste storie sul cricket si sono affievolite nei miei ricordi, ma a quel tempo erano molto importanti.
Credo che Philly sia l’ultimo luogo in America dove conti ancora qualcosa essere un gentleman. Naturalmente il mio vecchio non lo era, ma aveva rapporti stretti con alcuni di loro grazie al cricket. Nei circoli e nelle importanti scuole private in cui insegnava, aveva conosciuto tutta la squadra di Rittenhouse Square quando erano ancora bambini. Veniva invitato ai banchetti dei club del cricket, dove cantava le sue canzoni irlandesi. Nessuno è tanto snob nel voler mantenere le barriere sociali come chi non è, lui per primo, un McKay originale. Per papà, gli uomini che non si interessavano di cricket esistevano a malapena. La stessa caccia alla volpe, la corsa campestre o il gioco del polo erano al massimo prerogativa del ceto medio.
Fu a causa del cricket che Wyn entrò per la prima volta in casa nostra; stava raccogliendo vecchi quaderni dei punteggi per Cento anni di cricket a Philadelphia. Mi viene da sorridere, adesso, se penso che fui proprio io a levarmi in difesa delle tradizioni sociali della vecchia Main Line, mentre Wyn era fermamente deciso a buttare tutto a mare. E quel bambino, se fosse nato, sarebbe stato quasi un gentleman, perché Wyn veniva da una famiglia da club del cricket.