In centro, vicino alla scuola, c’era una grande piazza con dei bellissimi olmi e ancora qualche vecchio palo di ferro con l’anello a cui un tempo si agganciavano i cavalli. Imparai molto presto che un lato della piazza era senza alcun dubbio buono, mentre l’altro lato era cattivo. Il lato est incarnava la religione, l’educazione, la cultura: c’erano due grandi chiese, la scuola superiore, l’università e la biblioteca pubblica. Dal lato ovest, invece, soffiava un vento diabolico. L’albergo della città, la Manitou House, un hotel antico ormai decaduto, era famoso perché vendeva alcol illegalmente in non so quale stanzetta sul retro. Credo che questo spiegasse anche le fragorose risate dei visitatori dell’hotel che se ne stavano sulle loro sedie a sdraio sotto la veranda. Poi c’era il Teatro dell’Opera e tutta una serie di bar chiusi. Dietro questi palazzi la strada si inclinava e iniziava a scendere verso il mercato dei muli e la stazione di Santa Fe, intorno a cui aleggiava sempre un non so che di perfido e di esotico. Santa Fe faceva pensare ai pellerossa e alle loro coperte, e alle stelle del cinema nella loro biancheria di seta. Il tronco ferroviario di Chicago, nel lato virtuoso della città, mi sembrava molto più rispettabile.
Era emozionante camminare accanto alla Manitou House con due o tre compagne. La sua cattiva reputazione dava alla sua squallida veranda e ai suoi fattorini neri un’aria di mistero. Quando una compagnia teatrale arrivava in città, vedevamo una gran quantità di bauli e di colli che venivano scaricati da un furgone in tutta fretta, talvolta seguiti da qualche fanatico ammiratore dall’aspetto esausto con il cappotto dal collo di pelliccia. Si diceva in giro che dietro le sudice tendine ricamate delle alte finestre dell’albergo si svolgessero feste private in cui lo champagne scorreva a fiumi. Jess Cornish naturalmente aveva partecipato a una di quelle feste. Molly Scharf aveva il divieto di entrarci, e la cosa aveva reso l’albergo più che mai desiderabile; un giorno, uscite da scuola, dopo aver fatto il giro della piazza per sincerarci che nessuno ci vedesse, entrammo sfacciatamente con la scusa di recapitare un biglietto per un ospite immaginario. Ma quando ci trovammo davanti al bancone, il nostro coraggio ci abbandonò, e chiedemmo solo dove si trovasse il bagno delle signore. E fu meglio così, perché il bagno era in cima a una rampa di scale coperte da uno spesso tappeto e con un corrimano di mogano. Poi ci ritrovammo in un corridoio buio e polveroso, con le pareti ricoperte di carta da parati a fiori. La nostra smania di immoralità fu più che appagata quando scoprimmo che il bagno delle signore includeva un locale più esterno, con uno specchio e un tavolo per pettinarsi su cui c’era una scatola di cipria rovesciata in un sudicio sbuffo. Aveva un aspetto inquietante, impressione aggravata dalla volgare stampa francese appesa al muro. Non conoscevamo il francese ma il disegno era chiarissimo, un cane che temeva di essere sgridato per l’ombrello che gocciolava. Ci sembrò una cosa scandalosa e ce la filammo in punta di piedi, alquanto allibite. A quei tempi Molly aveva imparato una nuova parola per esprimere ripugnanza, anche se né io né lei sapevamo di preciso il suo significato. «Scommetto che questo posto è pieno di bastardi» disse rispettosamente.
Sulla strada verso casa, il punto d’incontro dei liceali era il drugstore all’angolo tra la Main Street e la piazza. Lo chiamavamo “Drug”, e non voglio nemmeno provare a fare il conto di quanti panini al burro d’arachidi e gelatina abbiamo mangiato lì dentro. La bevanda più comune era il Chocolate Glass-A, una specie di selz alla cioccolata che veniva versato su del ghiaccio tritato: il suo vero nome era glacé, ma lo scoprii molto più avanti. Tra le tre e le quattro del pomeriggio quel posto veniva invaso da ragazzini rumorosi. Gli universitari si consideravano troppo cresciuti per il Drug e andavano da Sparta, la pasticceria e tavola calda greca, a un isolato dalla Main Street. Credo che lo studio faccia venire molta fame; in ogni caso, i punti di ritrovo in cui i ragazzi si riuniscono dopo la scuola a bere selz e a parlare fino alla nausea sono per loro tanto importanti quanto il Rotary e il Kiwanis per quelli come lo zio Elmer.
Molly e io formammo in poco tempo uno stretto sodalizio. Ci stringevamo nei sedili in un angolino del locale in cui, con la schiena contro il muro, potevamo scherzare a non finire. Venivamo raggiunte da Lyddie Mason o Peg Ramsauer, e insieme ridevamo della farsa scolastica quotidiana. Da quanto riesco a ricordare, c’era un sottinteso generale che ci faceva scoppiare a ridere ogni volta che ci pensavamo. Avevamo la sensazione che i segreti della vita stessero iniziando a disvelarsi. Ma questo non succedeva a tutte; c’erano delle anime semplici, come Trudy Weissenkorn o Bernie Janssen, che per un motivo o per l’altro non avrebbero mai capito il nostro grande sottinteso. Bernie, in seguito, sarebbe diventato un problema. Anche se frequentava già l’università, infranse ogni regola entrando nel Drug per cercarci, e se non riusciva a trovare un posto al nostro tavolo ci guardava torvo da una certa distanza, conservando tuttavia qualcosa di universitario visto che ordinava una Coca anziché un Glass-A. Non potevo snobbarlo del tutto perché in qualche modo faceva parte della famiglia di zio Elmer, e poi ero ancora presa dalla sua divisa militare. Ma era terribilmente stupido. Dopo un paio d’anni in cui mi afflisse col suo amabile modo svedese, mi chiese l’autorizzazione di farmi qualche visita serale. Naturalmente dovetti rispondere di sì, ma avevo i miei compiti da fare. Allora mi chiese quanto spesso sarebbe potuto venire. Oh, risposi con tono rammaricato, ogni due settimane. Così il sabato successivo venne a trovarmi, tutto ripulito. Era una situazione penosa. La camera di Bernie, dove andava a cambiarsi, era sopra la stalla. Quando aveva finito di lavorare vi si ritirava per farsi bello, allora io cincischiavo nervosamente finché non emergeva dalla stalla e, trasformato da uomo di fatica in ammiratore, veniva a suonare solennemente il campanello. La prima volta fui molto gentile con lui, e poi con noi c’erano anche Molly e il suo amico Fedor Vassilly; giocammo a carte e, grazie anche alla root beer e alla torta a strati di Lena, la serata andò abbastanza bene. L’unico inconveniente era che Lena, che era una specie di zia o di cugina di Bernie, era così orgogliosa della sua ascesa da tuttofare a visitatore mondano che compariva continuamente in salotto per assicurarsi che si stesse comportando bene. Bernie tornò il mercoledì seguente e fui colta di sorpresa, e poi di nuovo quel sabato. La prima volta gli feci fare i miei compiti di geometria, ma alla fine dovetti protestare. La sua giustificazione fu deliziosa: aveva capito “ogni quattro giorni”9.
In quella situazione scoprii che fortnight è un’espressione tipica di Philadelphia, mentre è praticamente sconosciuta nella prateria.
Anche Molly aveva delle preoccupazioni con il suo primo corteggiatore, Fedor. In effetti era un caro ragazzo, uno dei ragazzi più dolci della città, e la sua famiglia aveva origini russe. Purtroppo era stato anche l’eroe, o la vittima, di un tragico incidente, una di quelle storie assurde che mi fa ancora inorridire quando ci penso. Un gruppo di ragazzi stava bighellonando alla stazione di Santa Fe mentre un treno di passaggio era fermo al binario. Probabilmente Jackie Coogan o qualche altra celebrità era di passaggio. Uno dei giovani fannulloni della città se ne stava seduto con la schiena appoggiata a un carretto portabagagli, semiaddormentato. Accavallò le gambe proprio nel momento esatto in cui i ragazzi passavano correndo accanto ai vagoni; Fedor inciampò e andò a finire sotto il treno mentre ripartiva. Perse una gamba. Eravamo tutti affezionati a Fedor, che era molto bello e affascinante, e ci abituammo a vederlo sulle stampelle prima e con la gamba artificiale poi. Ma quando cominciò a interessarsi a Molly lei ne fu un po’ preoccupata, sentendo che forse non era saggio innamorarsi di qualcuno a cui mancava qualcosa. Ci sembrava ingiusto che il primo corteggiatore di Molly avesse solo la metà delle gambe e il mio solo la metà del cervello.
Fedor era pieno di spirito; ci accompagnava spesso nei nostri picnic, ma quando faceva abbastanza caldo per un bagno ci vergognavamo di invitarlo. Era troppo triste vederlo appendere la sua gamba di alluminio a un albero per non farla bagnare. Fu Fedor che fece smettere di scherzare quei bulli dei Debaugh. Avevamo fatto una delle nostre solite gite coi Weissenkorn e, tanto per cambiare, i Debaugh si erano comportati in modo insopportabile, deridendo Fedor per il modo scomposto in cui nuotava e non perdendo mai occasione di tormentare Trudy. Oltre lo stagno c’era una salita piuttosto ripida con alcune rocce, molto rare in quella zona. Fedor domandò ai Debaugh se sapessero che si trattava di rocce magnetiche. Naturalmente i due scoppiarono a ridere. Ma Fedor insistette. Il magnetismo di quelle rocce, disse, era così potente che non ci si poteva mettere in piedi su una gamba sola, perché la forza che si spandeva da esse costringeva ad abbassare di nuovo il piede. Soprattutto, aggiunse, con una gamba metallica come la sua. I Debaugh risposero che era pazzo, ma Fedor disse che poteva provare quello che stava dicendo. Ci arrampicammo sull’altura e Fedor si mise in piedi sulla pietra, alzò la gamba artificiale e mostrò quanti sforzi gli costasse tenerla sollevata. Il magnetismo era troppo forte, e pian piano fu costretto, apparentemente contro la sua volontà, ad abbassare il piede.
I Debaugh ne furono impressionati, ma dissero: «Fesserie! Forse vale per una gamba matta come la tua, ma non succede con la gente normale». Fedor rispose che perfino i chiodi delle scarpe erano una quantità di metallo sufficiente ad attirare il magnetismo. In quel momento capii lo scherzo e mi offrii come volontaria. Alzai un piede, e con molte smorfie e gesti di sforzo da parte mia fu attirato di nuovo al suolo. Ormai anche i Debaugh erano impazienti di provare. Si arrampicarono tutti e due sulla roccia, e alzarono ognuno una gamba, rimanendo così. «Fesserie!» gridarono beffardi. «Possiamo restarcene così per il resto della nostra vita».
«Non penso proprio» disse Fedor, facendoci l’occhiolino. «Col cavolo che potete!». E poi gli diede un grande spintone sulla schiena. Sam e Sorrel rotolarono giù fino alla fine del pendio sabbioso, in un groviglio di edere velenose e di rovi.
Da quel momento ci fu sempre un posto per Fedor nel nostro angolino al Drug. Mi sembra ancora di vederlo, col passo rigido e la sveglia faccia bruna, mentre si sedeva faticosamente al nostro tavolo. Ci spiegava che se la sua gamba dava fastidio a qualcuno bisognava dirglielo, dato che lui non poteva sentirlo. «Neppure con tutto il tuo magnetismo?» chiedeva Molly, e tutti ridevamo forte. Credo che nel Midwest ci sia una certa tendenza alla risata facile.
Non mi ci volle molto per imparare il gergo di quelle parti; a dire Chicawgo e you betcha10; a sapere che il pesce-gatto è buono quanto lo scrapple11 (se non ne hai mai mangiato uno), e a non sentire più il diffuso odore di carbone e lo strano sapore dell’acqua, a sentir parlare lo zio Elmer di burro a 92 punti e di “timothy numero 1”. Imparai a provare riverenza di fronte al nome di Marshall Field, come succedeva a Philly con John Wanamaker, e a leggere il Tribune invece del Ledger. Sono sicura che lo zio Elmer prendesse davvero sul serio lo slogan del Tribune “Il più grande quotidiano del mondo”, senza mai sospettare che fosse solo una battuta regionale. Allo stesso modo, non sono mai riuscita a far capire a Wyn che ovunque la gente ha i suoi feticci. In Nebraska provano una specie di piacere mistico scrivendo il nome dello Stato al contrario, Ak-Sar-Ben. È importante per loro come la Shooters’ Parade o un palco all’Orchestra a Philadelphia. La Main Line, la strada principale, è chiamata così perché è diretta a Chicago, ma sono certa che Wyn pensasse che il motivo fosse perché si dirige da Bryn Mawr alla Mostra Equina di Devon. Che cosa ci fosse, poi, a ovest della Horseshoe Curve, Wyn se lo chiedeva di rado.
Io lo amavo per questo. Non me la prendo mai perché le persone sono fatte in un certo modo. A volte mi capita di pensare: “Oh, se potessi riunire tutte le persone che amo per dare loro una giornata perfetta! Le persone sono belle quando sono felici”.
Prendiamo lo zio Elmer… Non lo si poteva certo definire bello, era troppo grosso e bovino, col collo rosso, il dorso delle mani ricoperto da una specie di muschio scarlatto, e indossava delle scarpe color carota con delle gran punte sporgenti; però sembrava molto affidabile, tutto indaffarato per casa. Chissà a che cosa pensava. Allo stabilimento agricolo o al suo stomaco, probabilmente. Quando è contrariato, lo stomaco inizia a funzionargli nel verso sbagliato. Lui lo chiama “controbudella”. Comincia a eruttare da entrambe le parti e corre in cerca del bicarbonato. Appena la signora Stillwagon della porta accanto veniva da noi a potare i rampicanti o a fare qualcos’altro, lo zio Elmer si riempiva di gas. C’erano due cose che non riusciva a sopportare: la gente trasandata e i chiacchieroni. I due elementi erano perfettamente combinati nella signora Stillwagon. Nelle sere d’estate potevamo sentire quella sua voce da guardiana dei porci echeggiare per tutto il prato, mentre lei parlava per ore al telefono. Lo zio Elmer alzava lo sguardo dall’Argus, il giornale della sera, e diceva a zia Hattie: «È un gran peccato che la signora Stillwagon abbia questo morbo così doloroso».
«Ma, Elmer, che cosa intendi?».
«Non intendo doloroso per lei, ma per gli altri. Quando inizia a parlare non si ferma più».
Molly e io trovavamo tutto ciò molto divertente, tanto che componemmo una poesiola sull’argomento e poi una sera convincemmo alcuni ragazzi a urlarla per strada:
Povera signora Stillwagon,
di ciance è così piena,
che quando comincia
nessuno più la frena.
Il Midwest è un gran posto per le chiacchiere. Ogni telefonata è una chiamata mondana, anche se si tratta di qualcuno che vuole vendervi un frullino. La zia Hattie era un’ingenua, sempre alla mercé di chiunque suonasse alla porta. Faceva accomodare tutti e poi non era in grado di liberarsene. A volte succedeva che Bernie facesse capolino per sapere se c’era qualcosa da fare e lei lo pregava di sedersi e di prendere qualcosa, trattenendolo fin quando doveva tornare all’università o andare a fare qualche sua faccenda, senza aver finito il suo lavoro in casa. Sono convinta che ogni donna dovrebbe passare almeno un anno in un ufficio, per imparare a liberarsi di chi si presenta senza appuntamento e costituisce una gran seccatura.
Era proprio una sfortuna che il pratino di fianco, la grande passione dello zio Elmer, confinasse con casa Stillwagon. Bernie faceva tutto il resto, ma sarchiare e rastrellare era la gioia dello zio. La signora Stillwagon era così disordinata che chiunque lavorasse al suo servizio diventava come lei. Le sue galline scappavano dal cortile e venivano ritrovate un po’ ovunque. Una mattina lo zio scese in giardino molto presto, probabilmente per controllare se i semi per il nuovo prato avessero germogliato. Scese dagli scalini della cucina in vestaglia e si trovò davanti un branco di galline della signora Stillwagon che lo fissavano con il becco aperto e la loro aria puritana e scandalizzata. Si arrabbiò così tanto che tirò la bottiglia di latte contro le galline. La bottiglia formò una pozza fitta e confusa sull’erba, e io guadagnai parecchia approvazione quando andai ad asciugarla con un gran foglio di carta assorbente.
Quando il giardiniere della signora Stillwagon tosò la sua nuova siepe di ligustro, buttò tutta la potatura dal nostro lato. Forse pensava di venire in un secondo momento a ripulire, ma nel frattempo lo zio li vide. Ruttando forte, raccolse tutti i rimasugli del ligustro e li piantò dietro la stalla, per costruire un riparo al suo orticello. Era primavera, e in quella terra nera della prateria misero radici, formando alla fine una siepe ancora più fitta di quella della signora Stillwagon. Questo episodio lo stimolò tanto da diventare quasi una leggenda nella sua mente, e lo zio la usò quando fece un discorso al Rotary.
Lo zio era enormemente discreto con me. Doveva essere stato un bel colpo per lui, con tutta la sua ordinata routine, avere dei ragazzini che scorrazzavano per casa e nel giardino. Aveva persino avvolto ciascuna delle sue mazze da golf con una guaina in camoscio perché non si arrugginissero. Impiegava così tanta energia in dettagli come questo che poi non gli restava tempo per godersi il gioco. Organizzò per noi un campo da croquet sul suo sacrosanto pratino, e solo ora riesco a capire quanta pazienza avesse nel ripulirlo dalle nostre spillette e dai tappi di bottiglia. Aveva una particolare abilità nello scegliere il vestito più sbagliato, abiti di tweed color paglia che a Wyn avrebbero fatto venire un colpo. La domenica indossava sempre un cappotto dal collo di velluto, e mi venivano i brividi vedendo come gli si sfregava contro la pelle rosa. Si radeva troppo accuratamente e poi si imbellettava con il talco; nel taschino, per bellezza, portava un fazzoletto piegato in quattro, e starnutiva per tutta la stanza prima di decidersi a usarlo. Ma che gusto c’è a prendere in giro chi non se ne rende nemmeno conto? Era un bravo uomo di casa, e fra quei pochissimi che non fanno male a nessuno.
Avrei voluto che lo zio Elmer avesse un po’ più di quella che Wyn chiamerebbe “capacità di spassarsela”. Papà diceva sempre che i presbiteriani possono commettere qualsiasi peccato esistente, ma che non ne trarranno mai il minimo gusto. A meno che lo zio non lo facesse quand’era allo stabilimento, non l’ho mai visto lasciarsi andare. Forse, semplicemente, non aveva niente dentro di sé che volesse andare da qualche parte… A volte mi succedeva di pensare a quanto fosse rispettabile in confronto al vecchio, e mi sento ancora in colpa per la mia slealtà.
Mi sarebbe piaciuto sapere a cosa pensasse mentre se ne stava sul suo pratino. Forse vedeva in quel luogo qualcosa di più della semplice erba. Gli piaceva vedersi crescere intorno le cose. Forse vedeva il suo mondo rispettabile e ben curato, la sua vita tranquilla, un bel piatto sfrigolante nel pranzo della domenica, un bel sonnellino, e alla fine una gita in macchina in maniche di camicia sulle strade piane e diritte verso Muscatine o Peoria.