La prima volta che tornai a Philly, dopo nove mesi di lontananza, non fu esattamente favolosa. Nove mesi sono un tempo molto lungo e possono succedere tante cose; non dev’essere un caso che sia la durata di un anno scolastico.
La zia Hattie voleva accompagnarmi fino a Chicago per acquistare delle poltroncine per il portico da Marshall Field. Eravamo nel bel mezzo di una di quelle folli primavere dell’Illinois, con un caldo terribile fin dalla fine di marzo. Lo zio aveva detto a Bernie di tirare fuori tutte le poltrone di bambù e le sedie a sdraio, ma all’inizio di aprile c’era stata una tempesta di neve che le aveva distrutte. Doveva essere il 1925, e gli affari dello zio nell’industria del granturco andavano a gonfie vele. Allo stabilimento si erano appena accaparrati l’esclusiva per brevettare un certo macchinario per la semina in Ucraina, e quella fu la prima volta che ebbi l’impressione che la Russia esistesse davvero; lo zio acconsentì e disse: «Al diavolo, andiamo da Field e spendiamoci tutto». Era sempre stimolato quando la zia era impaziente per qualcosa, perché tranne quando era al telefono era molto misurata a proposito dei suoi pensieri. Credo che il telefono sia stato inventato per quelle donne che altrimenti non comunicherebbero mai le proprie idee.
Poco prima della partenza, la zia si prese un’infezione alla gola e il dottor Witt venne a casa per visitarla. È buffo quanto sia facile incontrare dei dottori timidi, e il dottor Witt era il più timido di tutti. La maniglia della porta del bagno si era allentata, e quando andò a lavarsi le mani e afferrò la maniglia per uscire, questa si sfilò e gli restò in mano. Era impossibile far girare la serratura e il dottore era troppo timido per urlare, la radio era accesa e nessuno lo sentì picchiare alla porta fino a quando il vecchio e astuto Pastafrolla non cominciò ad abbaiare.
Lo zio mi mise sul solito rapido del mattino che mi faceva da sveglia e partii per Chicago da sola. Lena mi preparò un cestino con la colazione perché, diceva, i cestini da viaggio di Princeton non erano abbastanza buoni. Sul treno c’erano alcune compagne della mia scuola che partivano per le vacanze; erano dirette a Galva, a Kewanee, perfino ad Aurora. Mi sedetti vicino a loro e presi parte alla conversazione generale, ma mi sentivo enormemente superiore visto che facevo tutto il viaggio fino a Philadelphia. E poi non facevano che ridacchiare, cosa molto seccante quando non si è nello stesso stato d’animo. Come fanno le ragazze a trovare tanto conforto nella ridarella? Wyn diceva che camminano su una fune sospesa sulla pazzia; respirano più rapidamente dei ragazzi, la loro tempra è più molle, la loro natura è portata alla farsa, come il sidro in una brocca, e qualcosa deve esplodere. A Wyn piaceva dettare le sue leggi sulle donne, e metteva alla prova le sue idee con me. Io pensavo che le ragazze fossero semplicemente delle persone, ma è bello farsi convincere diversamente. Le ragazze non prendono mai sul serio le altre ragazze.
Mi sentivo troppo importante per partecipare a tutti gli effetti alle loro fragorose risate. Avevo un abito di pongee, ma il colletto e i polsini di piqué bianco furono un errore per un viaggio in treno. Ero molto orgogliosa del mio nuovo cappello di paglia adorno di margherite, ma quando arrivò il controllore una cavalletta che si era nascosta tra i fiori saltò direttamente sul suo viso, cosa che fece piegare in due dalle risate – e dalle urla – le mie compagne. Ma io non volevo togliermi il cappello, perché mi ero fatta i codini e mi vergognavo. La prateria si stendeva come uno dei piattoni sfrigolanti dello zio Elmer, e mi sentivo la testa calda e morbida come un hot cross bun ogni volta che sfioravo lo schienale felpato.
Ebbi tutto il tempo per guardare le vetrine della stazione di Chicago. Mi dà sempre la sensazione di essere il vero ombelico d’America; ancora oggi mi stupisco quando vi vedo dei facchini bianchi: per noi dell’Est è un fatto assodato che i facchini debbano essere neri. In un primo momento pensai che dovessero essere dei mulatti molto chiari, ma quando li vidi grattarsi la testa mi resi conto che i loro capelli erano diversi. Comprai per papà un souvenir-portacenere poco costoso da Fred Harvey, e studiai i modelli delle carrozze-letto in modo da non comportarmi come una sprovveduta. Trascinai la mia valigia finché il mio braccio non iniziò a cedere, perché temevo che se l’avessi data a un facchino mi avrebbe chiesto se prendevo il rapido, e non era così. Per il rapido ci voleva un biglietto speciale. Io prendevo il solito vecchio treno, ora lo chiamano “Generale”, che ferma a Philly per l’ora di colazione.
Stavolta mi gustai il viaggio; la prima volta mi sentivo troppo male per guardarmi intorno. Probabilmente non me ne resi conto sul momento, ma tutte le sensazioni di quel viaggio si impressero nella mia mente. Ci ritrovo lo stato d’animo di Fort Wayne, che non è piacevole perché ci si sente ancora parte di ciò che si sta lasciando. È ancora troppo presto per la cena, e la fuliggine prova a penetrare attraverso i doppi vetri. È meglio non mangiare fin quando non si entra nell’Ohio, e la sensazione di Lima si confonde con gli odori della carrozza-ristorante e al divertimento di scrivere gli ordini per il pranzo, e di vedere se le lettere tremolanti hanno un aspetto migliore dopo essere passate per la carta carbone. La sensazione della Crestline è che si sta davvero andando da qualche parte, e che sarebbe molto più bello non andare a letto. Io mi sveglio sempre a Pittsburgh, e non credo che esista qualcuno che riesce a dormire a Pittsburgh; tutto è completamente diverso e ci si sente davvero in Pennsylvania. Se si è giovani come lo ero io, non si conosce nulla della Horseshoe Curve e di Harrisburg; se non ci si sveglia a Paoli, l’inserviente vi dà un colpetto sulla spalla. Dopo Paoli, le stazioni della Main Line passano in un lampo, ma si è troppo occupati a vestirsi per accorgersene. Per la gente elegante è ancora presto per alzarsi; le persone con quel conto in banca dormono fin dopo Frankford.
A North Philly c’erano il vecchio e Mac, proprio come il giorno della mia partenza. C’era anche la banchina bagnata, come se l’acquazzone avesse continuato per tutti quei mesi. Lo avevano annaffiato in previsione di un’altra giornata torrida. Papà doveva essere stato in piedi gran parte della notte per essere sicuro di farcela, con la sua artrite e tutto il resto. «Tanto ci sono abituato…» disse. «Guardiano notturno, sai che novità?».
Rivedendolo dopo tutto quel tempo mi resi conto di quanto fosse vecchio. C’erano delle rughe sulla sua fronte che non gli avevo mai visto. Il caldo non gli faceva bene, e la vena gli pulsava come mai prima in quel punto molle sopra la tempia. Forse notò dei punti molli anche in me, perché disse: «Cominci a sembrare una donna, Kitty». Facemmo colazione nel ristorante della stazione, e andai a bere alla fontana di marmo della sala d’aspetto come facevo sempre, ma stavolta non c’era acqua.
È davvero salutare rivedere ciò che si è conservato nella memoria per tanto tempo e di cui non si era nemmeno tanto coscienti. È come quando si posa da qualche parte una sigaretta accesa; si va in giro qua e là per casa, a fare questo e quello, ma qualcosa dentro di noi ci ricorda della sigaretta e si torna in tempo per prenderla. Perlomeno a me succedeva così, e Wyn se ne accorgeva sempre.
A papà mancava un bottone del gilet. Ormai la donna della famiglia ero io, e certe cose toccavano a me. Papà metteva sempre i bottoni che perdeva in una vecchia tazza rosa e oro, che si trovava in cucina nella parte sinistra della credenza. Mi aspettavo di trovarla piena, e non mi sbagliavo. «Ora è Mac che mi attacca i bottoni» mi disse «ma per lui uno vale l’altro». Gli dissi che Mac mi sembrava dimagrito e un po’ nervoso. «Lo credo bene» rispose papà «è lui che fa girare la terra». Era uno scherzo tra loro; Mac aveva trovato lavoro in una ditta di North Philly che costruiva strumenti per il controllo dei movimenti sismici. Passava la maggior parte del suo tempo libero a sorvegliare il vecchio, che aveva altri movimenti suoi propri.
Mac doveva tornare al lavoro. «Deve andare a far girare la terra» disse papà. «Ma non sa muovere il cielo. La sera torna a casa tutto sporco di rossetto».
«È un peccato che tu non abbia di meglio da fare che frugare nel cesto della lavanderia» rispose Mac, aiutandolo a salire su un taxi.
«È lì che ho nascosto il numero di telefono del Papa» disse il vecchio. «Myrtle alla fine si era accorta che lo tenevo nell’angolo della credenza».
Griscom Street era esattamente la stessa. Il sagrestano della grigia e imponente chiesa metodista all’angolo stava lavando il gesso dal marciapiede su cui i ragazzi avevano giocato a campana. La cosa lo faceva infuriare, ma era l’unico punto del marciapiede abbastanza liscio per il gioco. Si precipitava fuori dalla chiesa per acchiapparci; una volta le mutandine di Lena McTaggart si ruppero per il troppo saltare, e lei vi restò ingarbugliata dentro proprio mentre il sagrestano faceva la sua uscita furiosa. La prese a schiaffi e i presbiteriani montarono un gran caso su quella storia. Papà disse che i McTaggart avevano sempre avuto dei problemi con la biancheria perché non erano abituati a portarla. Avrebbero dovuto portare dei kilt come i selvaggi highlander scozzesi.
A Denny, che era un puritano, non piaceva che papà parlasse così. Si era trasferito a Cincinnati, aveva sposato una donna di classe, ed era difficile per lui tornare a Frankford e trovare papà sempre uguale. Denny diceva: «Kitty, quando sarai grande diventerai una donna raffinata solo per contrasto al tuo ambiente. Guarda Ed, per esempio: ha imparato a dire tante di quelle sconcezze “per rendere il mondo sicuro per la democrazia” che deve partecipare alle riunioni dell’American Legion per tenersi in esercizio». Papà rispondeva: «Dici così solo perché hai sposato una bibliotecaria. Denny, non puoi fare lo snob con la tua famiglia. I bibliotecari conoscono più parolacce di qualsiasi altra persona. Ci sono degli scaffali alla biblioteca Mercantile che puzzano così tanto che sono costretti a metterli sotto chiave». Mac ribatteva: «Questo vale per chi fa ricerche in biblioteca. La moglie di Denny ha la mente pulita; lei si limita a riscuoterne l’affitto». A quel punto Denny si offendeva, e diceva che non valeva la pena di fare il viaggio da Cincinnati solo per farsi insultare.
Essere l’unica donna, in una famiglia come la nostra, mi insegnava cosa non piace agli uomini; era molto utile da sapere. Quello che infiammava Ed era “rendere il mondo sicuro per la democrazia” e la “guerra che pone fine a tutte le guerre”. Mi ci volle parecchio tempo per capire che questi modi di dire erano molto comuni negli editoriali.
La casa era abbastanza polverosa, ma la vecchia Myrtle aveva pulito accuratamente la mia stanza. Potevo sentire, come sempre, l’odore delle tegole di legno calde, e c’era la stretta finestrella, sopra l’ingresso laterale, da cui riuscivo a scorgere un pezzetto di strada. E la vecchia fotografia sbiadita della mamma, da ragazza, a Germantown, prima di sposarsi e trasferirsi a Frankford. Differenza fondamentale, pare; anche se papà, quando si arrabbiava, diceva che basta spingersi fino in fondo a Wissahickon Avenue per uscire da Germantown e ritrovarsi a Tioga. Scemenze, rispondeva la mamma, a Germantown avevamo perfino una stazione che veniva chiamata con il suo nome, Upsal. Qualcuno aveva mai sentito parlare di una stazione chiamata Foyle? A quel punto papà la chiamava “la sua pollastrella di Wissahickon”, e la cosa la faceva sempre ridere. Anche loro, come chiunque altro, una volta dovevano aver avuto un linguaggio segreto. È una strana sensazione considerare i propri genitori da un punto di vista umano.
Da bambina, quando mi svegliavo, avevo l’abitudine di guardare quella finestrella. Il vecchio letto di legno, in fondo, aveva delle stecche attraverso le quali potevo vederla. Non aveva nessuna copertura, quella finestra; non era una finestra vera e propria, ma una semplice lastra di vetro incastrata nella parete. Aspettavo che la mamma venisse a chiamarmi e a dirmi di vestirmi. Era una sensazione piacevolissima, una sensazione di sicurezza che non avrei provato mai più. La mamma non c’era più, io ero divisa tra Frankford e Manitou, e papà stava diventando sempre più vecchio e strambo. Per un attimo, mentre disfacevo la valigia, ebbi la strana sensazione che il treno su cui avevo viaggiato fosse la sola cosa reale che esisteva. Quanto amo i treni, buon Dio, e quanto possono far male! Stavo cercando il portacenere di papà nella valigia, e mi sentii malissimo per non aver portato qualcosa anche a Mac e a Myrtle; avevo una gran voglia di piangere. Credo che quella sia stata una delle prime volte in cui non sono riuscita a capirmi. Forse non ci riuscirò mai, e forse è meglio così. Sentii papà che saliva le scale con immensa fatica, aggrappato alla ringhiera, imprecando; ci mise così tanto tempo per trascinarsi di sopra che ebbi il tempo di asciugarmi gli occhi e fargli trovare il regalo pronto. Ripensandoci, una ragazzina di quattordici anni può essere un’attrice consumata. Ora non ne sarei più capace; rotta la diga, è impossibile ritrovare la forza di controllarsi.
Papà lanciò prima un rapido sguardo alla fotografia della mamma, e poi guardò me. Il mio baule, che lo zio Elmer aveva spedito in anticipo, era già arrivato, e papà si sedette a vedermi disfarlo. Di solito, si può capire cosa pensa un uomo da ciò su cui scherza. Ero fiera di alcuni vestiti nuovi che io e la zia Hattie avevamo comprato alla Moda Parigina, il posto preferito di tutte le ragazze di Manitou. Papà lesse le etichette. «Immagino che si tratti della Parigi nell’Illinois» disse. Era molto contento di vedere degli abiti femminili: povero papà, a forza di stare da solo aveva imparato a notare ogni accessorio. Ma disse: «Quando vedo le bambine e penso a tutte le assurdità che dovranno mettersi addosso quando saranno grandi, mi chiedo sempre dove trovino il coraggio di crescere».
Io probabilmente dissi: «E come no?» che era una risposta alla moda a quei tempi.
Papà andò a riposarsi un po’ e io, riordinate le mie cose, andai a parlare con Myrtle sul retro, mentre lei tagliava i fagiolini. Myrtle stava da noi tutto il giorno, ora, e io ne ero felicissima, perché ero un po’ preoccupata all’idea di dover cucinare io. Raccontai a Myrtle grandi cose sul Midwest perché, fin quando non mi fui abituata di nuovo, Griscom Street mi sembrava un po’ troppo angusta in confronto a Thanksgiving Avenue. Le parlai della scuola, di Bernie e della sua uniforme, e perfino di Jess Cornish. «Scommetto che in tutta Frankford non esiste una ragazza scalmanata come Jess» dissi. Myrtle non sembrò impressionata.
«Anche qui abbiamo delle civette di prima categoria» rispose. «Aspetta di vedere quella di tuo fratello Mac. La corteggia nello stesso modo in cui il generale Grant stava addosso a Richmond. Vanno in centro con la metropolitana a mangiare pesce e a ballare. Quel ragazzo spende un patrimonio per lei. Non dirlo a tuo padre, ma Mac si è venduto i Liberty Bond che il vecchio gli aveva comprato quand’era piccolo. Ci dev’essere moltissimo denaro in giro, visto che stanno costruendo una nuova banca all’angolo di Oxford Street per mettercelo dentro, e immagino che i soldi arrivino più rapidamente in centro ora che c’è la metropolitana a portarceli. Mi hanno detto che Hanscom sta aprendo una panetteria proprio qui, sulla Frankford Avenue».
Cinnamon rolls! Quell’odore di cannella mi faceva sentire di nuovo a Philly.
Uscii per fare una passeggiata. C’era la vecchia Friends’ Meeting House12 in Orthodox Street, la pietra miliare con su scritto “Philadelphia, 7 miglia” che papà ogni tanto citava, e la biblioteca in Frankford Avenue, dove avevo preso in prestito Il piccolo colonnello e Anna dai capelli rossi. Com’ero infantile, pensavo; credevo che il costruttore della Biblioteca fosse il signor Esq.13, visto che la targa diceva: “Donata da Andrew Carnegie, Esq.”. Papà aveva provato a spiegarmi quella faccenda dell’Esq. ma mi aveva confuso ancora di più le idee. Diceva che non si poteva far parte degli Esq. di Philly se non si donava una biblioteca o non si rincorreva qualcosa all’aria aperta. Mac osservava: «Che cosa intendi per rincorrere? Ad esempio una pallina da baseball?».
«Oh Dio, no!» rispondeva papà. «Una palla da cricket forse sì, ma in ogni caso è sempre meglio che si tratti di qualche animale. Se riesci a sederti su un animale per dare la caccia a un altro animale, allora puoi diventare Esq.».
Quella sera, dopo cena, ci sedemmo sotto il portico, papà sulla sua vecchia sedia verde a dondolo e io su un tappetino. Lena McTaggart e Nellie Simmons vennero a trovarmi, ma Nellie non mi piacque più di quanto non mi fosse mai piaciuta in passato. Cercarono di stupirmi con i loro racconti dei grandi divertimenti di Frankford, ma io fui pronta a rispondere con non so quali pettegolezzi su Manitou. A quel punto cominciarono a vantarsi dell’inno della loro scuola e, come una scema, io canticchiai Old Manitou. Fu un’umiliazione, perché loro si misero a ridere e mi dissero che era il motivo di Maryland, My Maryland. «Non prendertela, Kitty» mi disse papà quando furono andate via. «Loro non sbocciano come voi ragazze nell’Illinois, tirate su a granturco. Parlami di Pastafrolla e di Molly Scharf, e dimmi anche qualcosa sugli zii».
Il vecchio ci sapeva fare. Sapeva, cosa per niente facile, quando una ragazzina di quattordici anni andava trattata come una donna e quando, invece, come una bambina.