Il vecchio e io ce ne andammo in spiaggia. Con l’autobus arrivammo fino a Tidewood. Credo di essere un po’ snob in fondo, perché quando raccontavo a Wyn della spiaggia era sempre difficile dirgli che si trattava di Tidewood. Ovviamente, i tipi come Wyn non considerano altre spiagge a parte Cape May. In qualunque altro punto della costa, l’oceano è in un certo senso inquinato. È vero, Tidewood è un posto orribile e la gente di lì è altrettanto orribile, ma in qualche modo l’oceano sembra averli perdonati. Wyn dovette pensare qualcosa del genere in seguito, perché mi ricordo che una volta, fermandoci su una spiaggia isolata, disse che Dio doveva aver amato l’oceano: ne aveva fatto così tanto! Wyn, caro, come hai potuto citare Lincoln? Era un uomo di origini così umili, e come se non bastasse era dell’Illinois!14
Perché prendemmo l’autobus, quella volta? Fu un’idea di Mac per rendere più comodo il viaggio al vecchio. In realtà, sono convinta che Mac volesse soprattutto liberarsi di noi. La Madonna del Rossetto lo pressava parecchio ormai. Aveva badato al vecchio per tutto l’inverno, e ora sentiva una potente urgenza di passare le sue serate a Torresdale, dove abitava la ragazza. Io non l’ho mai vista, ma mio padre era convinto che fosse una sporcacciona. Mi ricordo quanto ci restò male Mac quando papà gli disse: «Fai in modo che non si perda tra i filtri di depurazione di Torresdale: ci rovinerebbe tutta l’acqua potabile».
Quando il vecchio doveva andare da qualche parte, bisognava partire da casa molto presto e prevedere moltissimo tempo. Gli autobus erano ancora abbastanza rozzi, e papà bestemmiò così tanto che alcune donne con bambini andarono a protestare dall’autista. L’inclinazione dei sedili non andava bene per la sua schiena.
Doveva essere pochi giorni prima del Quattro Luglio; avevamo pensato di partire di buon’ora e tutti avevano avuto la stessa idea. Nella mia memoria è tutto mischiato: il rientro a casa, la stagione estiva e le rose rampicanti sul piccolo portico di legno. D’estate, quando sono in treno, mi capita di canticchiare fra me e me Philadelphia in June. Phi-la-de-he-hel-phia in June. È unica. Non è come quel caldo del Midwest, che prosciuga e arde. A Philly il caldo è umido e molle e sonnolento, vi circuisce, e la cara vecchia città si abbandona e si distende: “Prendimi”. Una donna capisce cosa intendo.
Verde città di campagna, diceva sempre Wyn mentre percorrevamo il parco. Lo aveva detto William Penn, o Ben Franklin, John Wanamaker o qualcun altro. Probabilmente non era stato John Wanamaker.
Papà era in pessima forma. Scendeva sotto il portico al mattino e se ne restava lì seduto a guardare le rose rampicanti. Era spinoso come loro. Allora scoprivo che cosa stesse guardando con tanta attenzione. C’era un uccello-gatto che aveva fatto il nido là in mezzo. La femmina volava attraverso l’intrico di spine con abili evoluzioni, e piombava precisamente nel suo nido. Si vedeva la coda puntata verso l’alto come un aeroplano che stesse precipitando. Era impossibile infilarci la mano dentro senza graffiarsi. Papà era così. Bisognava destreggiarsi tra un mucchio di rovi prima di trovarlo, seduto sulle sue uova.
Gli uccelli vanno matti per Philly, cosa che vale per chiunque non voglia essere disturbato.
Ma torniamo alla spiaggia. Prendemmo due camere in una pensioncina vicino a Tidewood Crest. Papà rimase di malumore per tre giorni: un po’ per lo strapazzo del viaggio in autobus, un po’ perché non sapeva ancora dove poter sfogare in santa pace le sue flatulenze. Forse il motivo era anche che aveva deciso di farsi crescere la barba. Le mani gli tremavano, così non amava più radersi. Ma nello stesso tempo era dispiaciuto di avere la barba sale e pepe. La chiamava la sua bandiera bianca, la sua resa. Intendeva dire che si era reso conto di essere vecchio e che aveva smesso di fare progetti. Le donne sgambettavano fuori dalla pensione sporgendosi in avanti per aggiustarsi il corsetto e controllare che le calze fossero integre e ben tese, prima di farsi vedere. Se una di loro aveva un bel paio di gambe papà mi faceva l’occhiolino, ma in realtà non vi prestava più alcuna attenzione specifica.
Non mi ricordo come passassi il tempo. Quando non si sa dove vada a finire, si tratta di un buon tempo. C’era una ragazza che aveva un set per il mahjong. Ci ho giocato molto, e poi io e lei facevamo delle lunghe camminate sul pontile e cercavamo di vincere “Elena la vamp della spiaggia”, una bambola stupenda, facendo cadere dei birilli; più che altro, ci riempimmo di gattini di porcellana. Credo che entrambe fossimo molto tristi perché nessuno dei ragazzi si interessava a noi, ma non lo avremmo mai ammesso e fingevamo di divertirci vedendo le altre coppie. La cosa che ricordo meglio è papà che zoppica sui prati sabbiosi diretto alla spiaggia, e io che lo seguo portandomi dietro il vecchio scialle grigio, un ombrellone e talvolta un libro.
La spiaggia era distante dalla città e dal pontile, e non era troppo affollata. Le lezioni di nuoto nello stagno fangoso di Plautus non servivano a molto con quelle onde, e io passavo la maggior parte del tempo seduta nella schiuma, dove l’acqua sembra una meringa su una torta al limone. Un giorno, un giovane abbronzato che diceva di essere un dentista si offrì di insegnarmi a nuotare, ma papà, che se ne stava tutto il tempo seduto sull’orlo della duna, si innervosiva se mi vedeva entrare nell’acqua fino alla vita. Affonda con la schiena e rilassati, come se fossi sulla poltrona del dentista, diceva il ragazzo. Davvero il posto ideale per affondare, diceva papà. Mi piaceva il modo con cui il dottor Scottatura, papà lo chiamava così, formava una poltrona con le braccia e mi offriva una bella dose di acqua, ma papà invece diventava irrequieto. «Che pensa di fare?» diceva. «Ucciderti? Bisogna stare alla larga dai dentisti». Avrei quasi potuto sentire un che di languido verso il dottor Scottatura, anche solo per qualche giorno; aveva un volto abbastanza gradevole e spensierato, se lo si guardava dal di sotto. Ma in pochissimo tempo trovò delle allieve più divertenti e lo vedevamo in lontananza, mentre le erudiva sulla risacca. I dentisti fanno un mestiere così duro, diceva papà, che appena hanno una settimana di vacanza diventano pazzi.
Il sole giovava al vecchio, che quando non era in ansia per me era un’eccellente compagnia. Mi ricordo un gran chiarore, il caldo, i fili taglienti dell’erba. È strano conservare qualcosa che resta sempre uguale nella propria mente. Papà con il volto al riparo dell’ombrellone e il corpo ad arrostire. La barba non gli cresceva così velocemente da proteggerlo, e tra i peli si vedeva la pelle arrossata. Quel posto gli faceva bene: non esagerava col bere e prendeva il bicarbonato per la sua artrite, o sciatica, o qualsiasi cosa fosse, che sembrava aiutare. Aveva sempre i suoi sbalzi di umore, calavano su di lui come una nebbia. Era la sua parte irlandese, credo. Poi improvvisamente sembrava riemergere, e sentivo il suo: «E allora, fila tutto liscio?».
Naturalmente, io avevo la risposta giusta: «Sicuro!».
Allora lui diceva: «Questo vale per tutti».
Questo era il segnale che andava tutto bene e che si poteva parlare. Forse mi faceva anche un po’ paura, perché aveva un aspetto molto strano con quella barba non del tutto cresciuta. Ma in parte la barba aiutava anche, visto che ero l’unica persona lì che sapesse che sotto quell’orribile selva c’era sempre lo stesso vecchio papà. Quando sentivamo le campane della chiesa, io dicevo che forse saremmo dovuti andare a messa.
«Hai mai visto una campana nella sede del Friends’ Meeting House?» mi chiedeva.
No, mi rendevo conto in quel momento, non l’avevo mai vista.
«Ci hanno visto giusto. Le uniche campane che contano sono quelle che suonano dentro di te».
«Immagino che anche l’oceano sia un’ottima chiesa» suggerivo, un po’ spaventata a parlare di certi argomenti.
«Tu squilli tutta, Kitty. Sei una marea che sale e che scende».
Capivo quello che stava dicendo. “Siamo solo tu e io, Kitty”. Ma lui sapeva che una frase del genere mi avrebbe turbata.
Vorrei tanto avergli potuto gettare le braccia al collo e baciarlo sulla faccia pungente e dirgli che gli volevo bene. Perché aveva dovuto farsi crescere la barba proprio allora, accidenti?
Era sempre stato interessato ai quaccheri. Immagino che fosse perché erano bravi a giocare a cricket. Dopo che la mamma morì, volle che frequentassi la Friends’ First Day School invece della Sunday School. C’era stato qualcosa, nel funerale della mamma, che gli aveva scatenato una certa antipatia nei confronti della chiesa regolare. Qualcuno della Frankford Meeting House ci inviava quei piccoli calendari quaccheri stampati in rosso e blu, con sopra dei motti religiosi. Qualche buon vecchio quacchero aveva donato dei soldi perché fossero stampati, e ogni volta che li trovavate da qualche parte potevate star certi che lì, in fondo, c’erano le idee della Friends’ Meeting House. Credo che quel buon vecchio quacchero resterebbe molto sorpreso nel vedere quante donne usano i suoi calendari per aggiornare il loro almanacco privato; ma è possibile che anche questo faccia parte della religione.
Potete immaginare la mia sorpresa quando qualche giorno fa, sfogliando l’elenco del telefono per cercare una pellicceria, mi sono imbattuta in una Friends’ Meeting House quacchera. Non avrei mai pensato che ci fossero dei quaccheri a New York, sembra qualcosa di assurdo.
Tenuto conto del grande uso che ne faccio, si può tranquillamente dire che l’elenco del telefono è stata la mia Bibbia.
Qualche volta andavamo a pesca di granchi nel canale. Io portavo una specie di tuta per non sporcarmi di fango, e finché quei terribili granchi roteanti se ne stavano dalla parte di papà io mi dimenticavo completamente di tutta la faccenda della pesca. Il vento caldo e salato, l’odore dei pesci messi a seccare e, ogni tanto, portato da una folata più forte, il suono dell’organo a vapore della giostra sul pontile. Mi sentivo in un sogno: non pensavo a nulla, non volevo nulla, non temevo nulla. Stavo semplicemente imparando che cosa significasse vivere. Stavo facendo l’annuncio che alla radio viene chiamato “intervallo di identificazione della stazione”: “Questa è la stazione K.F., in cima alla scala parlante, ed ecco la vostra annunciatrice preferita, Kitty Foyle. Kitty Foyle, che ha appena iniziato a conoscersi, ha quattordici anni. Oh, accadranno delle avventure bellissime a Kitty Foyle. Bei giovani biondi con le guance abbronzate, perfettamente rasati e con i pantaloni color crema dalla riga impeccabile, stanno per guardare in modo strano Kitty Foyle che passa serenamente sul pontile. Quando loro si voltano a guardarla, cosa fa Kitty Foyle? Oscilla graziosamente le anche, oppure ondeggia tremolante come le donne della pensione?”. Fu papà a mettermelo in testa con un giochetto che faceva, gonfiando prima una guancia e poi l’altra; lo chiamava “cicciona su per le scale”.
Ora so come viene chiamata: adolescenza. Che parola stupida per una cosa così dolce. Una ragazzina pelle e ossa, con una tuta da lavoro puzzolente di pesce, i capelli scuri impregnati di salsedine sotto un cappello di paglia, i piedi nudi e abbronzati in un paio di sandali, le unghie delle mani mangiucchiate, che si sporge da una chiatta pensando di essere la donna del lago. Il caldo sole giallo sprofonda nell’acqua scura e mobile come panna in un caffè freddo, ed è impossibile guardare nell’acqua, si vede solo la canna per i granchi che scende nell’oscurità. Non puoi guardare troppo in fondo, signorina, ed è meglio così: è dolce non sapere, ed è difficile capire quanto, delle cose che porterebbero solo spavento o vergogna. Nessuno può dirle finché non si è preparati a sentirle, e qualcuno te le dirà comunque: sciocche piccole cose di cui abbiamo bisogno.
Qual è la prima cosa che fanno le persone quando si innamorano? Iniziano a inventare un proprio linguaggio che non ha alcun significato per gli altri. Immagino che questo fosse l’effetto che mi faceva la spiaggia a quei tempi. Mi diceva delle cose il cui significato non avevo ancora bisogno di sapere. Quando dico spiaggia (diavolo, non devo essere timida con me stessa) intendo Dio, il Tempo, il mio bacino. Stavo maturando, e non ne ero cosciente più di quanto non lo sia una mela.
Non appena ci si comincia ad agitare e a preoccuparsi dei significati delle cose, si perde ciò che rende possibile conoscerli.
Su, mia cara, vieni da me e spiegami che cosa intendo.
Sono la donna del lago.
«Papà, che cos’è una galera?».
«Il posto in cui vanno a finire i ladri».
«Ma no, una galera, una specie di nave. C’era in una poesia a scuola».
«Sarà una canoa, allora. Alza la canna, Kitty, i granchi ti avranno mangiato tutta l’esca».
«Spero di sì. Non voglio più sentire quell’odore».
Alle volte il barcaiolo ci metteva un bel po’ ad arrivare col suo motoscafo per riportarci indietro.
«Santo Dio, ma che fa quell’idiota, non viene? Ci farà saltare la cena. E poi devo andare al bagno. Non sa quante ne ha passate la mia vescica in sessanta e passa anni!».
«Forse vuoi dire il contrario, papà».
«Smettila di prendere in giro i vecchi. Senti, Kitty, togliti la camicia e agitala in aria: forse la vedrà. Sono troppo bloccato per farlo io».
Lo facevo, ma anche la “fuggevole visione di un niveo seno” (sempre La donna del lago) non svegliava granché il marinaio. Non credo di aver avuto un vero seno, allora, ma faceva lo stesso impressione quando papà diceva: «Non abbronzarti tutta come quelle maledette vamp. Hai una bella pelle da irlandese, bianchissima. Potrai portare delle calze sottili, trasparenti».
Penso spesso a questo ricordo nella metropolitana del West Side.
Non distinguo più di quale estate si tratti, ma non importa. Andammo a Tidewood per parecchi anni di fila. So con certezza che nell’estate del ’25 facemmo quella visita tanto penosa a Cape May, perché per la prima volta mi trovai di fronte a uno dei grandi problemi femminili: non-ho-niente-da-mettermi.
La domenica mattina, come tutti gli altri, ci sedevamo in veranda a leggere il Public Ledger. Io ero affascinata dalla cronaca rosa, e mi domandavo come facessero i giornali a sapere tante cose sui coniugi Swarthmore Comly o che cosa stessero facendo i F.X. Haddonfield Berwyns a Narragansett e a Bar Harbor. A quei tempi io e Molly Scharf avevamo una corrispondenza in cui lei impersonava la signora Rittenhouse e io ero la signora Cynwyd Lloyd. Era assurdo ma era un gioco molto divertente. Molly, nei panni della signora Rittenhouse, mi raccontava i suoi guai, dato che aveva ospite da lei il Principe di Galles e tutti i cavalli da caccia erano ammalati, e quindi avrebbe dovuto usare i suoi pony da polo per la caccia alla volpe; e la cosa peggiore era che la vendita per corrispondenza Sears Roebuck aveva esaurito le volpi e forse avrebbero dovuto cacciare i figli dei Debaugh. Che cosa avrebbe pensato il Principe? Io allora rispondevo con altri dilemmi mondani, che supponevo agitassero l’animo della signora Lloyd.
Un giorno mi scordai di nascondere una busta che avevo appena finito di indirizzare alla signora Rittenhouse presso Molly Scharf, Thanksgiving Avenue, Manitou, Illinois. Quando papà la vide mi chiese che cosa diavolo stessi combinando. Gli spiegai il gioco e papà ne fu molto divertito, ma mi invitò a non scrivere dei nomi così conosciuti sulle buste da lettera. Qualche impiegato postale, sapendo che la signora Rittenhouse non si trovava nell’Illinois – non era un gran segreto dove i Rittenhouse trascorressero i mesi caldi – avrebbe potuto correggere l’indirizzo e la signora, ricevendo la lettera, si sarebbe anche potuta offendere.
«Rosey Rittenhouse è uno degli uomini più importanti del mondo» disse papà. «Fece tre punti con un solo over contro i Gentlemen quando vennero in tour in America».
Quando leggevo qualche grosso nome sulle pagine mondane, papà lo sistemava subito secondo la sua scala di valutazione.
Reggie Montgomery forse portava una camelia bianca all’Assembly, e una vaporosa massa di tulle bianco, ma papà si ricordava di averlo battuto con cinquantasei punti in Frankford contro Merion C.C. nel 1904.
«A proposito» disse papà, alzando la testa dai fogli del Ledger, «leggo che Rosey attualmente si trova a Cape May».
Papà non lo venne mai a sapere, ma fui io a mandare al giornale la notizia che il signor Thomas Foyle e sua figlia, la signorina Katherine Foyle, avrebbero passato l’estate all’Ocean View di Tidewood Crest, mentre il signor J. McGregor Foyle sarebbe rimasto nella “residenza” di Frankford. Lo stamparono in corpo 6, omettendo l’allusione al povero Mac. Papà lodò l’intraprendenza della pensione per aver inviato i nostri nomi. Naturalmente avevo fatto tutto ciò per poter spedire il ritaglio a Molly, che si lanciò in un’attività frenetica per poter leggere il suo nome sull’Argus di Manitou.
Qualche giorno dopo, papà zoppicava lungo Ocean Avenue verso lo spaccio di liquori di contrabbando quando incontrò il signor Rittenhouse, che era diretto a Barnegat per una qualche gita in yacht. Papà era tutto compiaciuto perché Rittenhouse lo aveva portato in macchina fino allo spaccio, aveva ordinato una cassa del liquore raccomandato da papà, lo aveva riportato alla pensione e ci aveva invitato a cena a Cape May la domenica successiva.
Fu allora che provai per la prima volta l’angoscia del niente-da-mettersi. Ed era vero, come lo è sempre. D’altra parte, in una pensioncina in riva al mare, una ragazzina di quattordici anni non può sperare di avere dei vestiti adatti a quell’occasione. Tutto ciò che avevo con me stava in una vecchia valigia di paglia.
«Se fosse un invito a pranzo» dissi «avrei potuto indossare la camicetta blu e la gonna di lino bianco, ma per una cena non possiamo farci ridere dietro».
«Santo Dio, Kitty, non avevo idea che saresti diventata una ragazza di questo tipo».
«Ogni ragazza è una ragazza di questo tipo».
«È il tuo sangue di Germantown… Bene, bene: andremo in centro e compreremo qualcosa di seta».
Fu esattamente quello che facemmo. Fu orribile. Non me ne intendevo, e lasciai che papà scegliesse per me una roba trasparente di seta gialla a fiorellini azzurri, che lui chiamava “fioritura isterica”. Era troppo da donna e troppo velato. Ovviamente la festa si rivelò essere un rinfresco a buffet, da domenica sera, e tutti indossavano vestiti sportivi mentre un maggiordomo nero circolava tra gli invitati con un vassoio carico di mint julep15. Mi sentii sprofondare dalla vergogna, e il fatto che fossero tutti tanto carini con me contribuì a peggiorare il mio stato d’animo. Inoltre, mi pentii di aver usato per gioco il nome della signora Rittenhouse la quale, accortasi delle mie difficoltà, si comportò in modo meraviglioso con me. Sorse una gran luna gialla tipica del South Jersey e scendemmo tutti sulla spiaggia, alla fine del loro magnifico prato.
Papà bevve ben più del dovuto ma si divertì moltissimo; Rosey lo intrattenne con i ricordi di cricket e tutti cantammo delle canzoni, fingendo di credere che il falò avrebbe tenuto lontano le zanzare. La signora Rittenhouse mi prestò una giacca da polo per coprire il mio vestito, e finché restammo al buio non andò poi così male. A un certo punto temetti che non sarei mai riuscita a convincere papà ad andar via. L’autista ci riportò fino a Tidewood, e so che ero in collera e umiliata.
«Che gran paese il South Jersey» disse papà. «Rosey non deve parlare di Bah Habbah e di Newport. Abbiamo un’aria spettacolare sulla Costa atlantica. Mi fremono persino le dita».
«Quel tipo di fremito si trova in bottiglia» dissi io.
Ora credo che fosse dovuto alla sua pressione alta o qualcosa del genere.
Era ancora piena estate quando io e papà tornammo a casa; Griscom Street sembrava ancora più angusta e buia dopo tutto quel sole di Tidewood.
Le estati di Frankford si assomigliavano più o meno tutte. Ogni tanto veniva qualcuno che portava papà a Manheim per vedere una partita di cricket al Country Club di Germantown. Io mi assicuravo che avesse sempre pronto un paio dei suoi vecchi pantaloni di flanella, in modo che si sentisse a suo agio. Di solito gli chiedevano di registrare i punti e la cosa lo lusingava, ma diceva che non poteva farlo se non indossava i calzoni di flanella. E non era un problema che si fossero ristretti, perché si stava restringendo anche lui.
Aiutavo Myrtle nei lavori domestici, ed ero incredibilmente fiera di andare al mercato. Uscivo per Frankford Avenue appena dopo colazione, prima che iniziasse a fare troppo caldo. A volte andavo alla Biblioteca Andrew Carnegie Esq., nel pomeriggio, e cercavo di farmi incuriosire da qualche libro. Un ottimo metodo per capire se un libro fosse buono o meno era se sopraggiungeva la disattenzione al rombo della metropolitana sopraelevata che passava proprio sopra la biblioteca. Oppure mi mettevo a stirare le camicie di Mac, ma c’era un caldo infernale in quel cucinino ed era difficile provare entusiasmo nel far brillare dei colletti che la Madonna del Rossetto di Torresdale avrebbe presto incasinato. In ogni caso, fu proprio in quel periodo che si eclissò dalla scena. Myrtle, che analizzava come un detective la cesta dei panni, si disse certa che Mac fosse caduto in uno stagno pieno di fango. Non riuscivamo a immaginare la scena, ma ci prendemmo talmente gioco di lui che alla fine dovette spiegare come erano andate le cose. Era andato a fare un picnic con lei alle Neshaminy Falls, e aveva affittato una canoa per risalire il fiume. Probabilmente ci aveva provato con lei, o viceversa, fatto sta che, non avendo nessuno dei due esperienza di vita sull’acqua, avevano perso l’equilibrio e la barca si erano rovesciata. Mac riuscì a trarla in salvo percorrendo una palude, tanto che in seguito la ragazza era stata costretta a stendersi in un campo di fieno per asciugarsi. Lei era così in collera che pretendeva che Mac le pagasse un nuovo vestito. Lui le aveva chiesto più o meno una cifra e la ragazza aveva detto 50 dollari. Allora si era arrabbiato anche Mac. Papà gli aveva consigliato di restare attaccato ai movimenti terrestri invece di andare in canoa. Myrtle, che doveva dire la sua su tutto ciò che succedeva in casa, osservò che la ragazza doveva aver perso ben altro che i vestiti, vista la cifra. «Un’operaia come lei non sa neanche che significa avere addosso 50 dollari di vestiti» aggiunse.
«Ti sei approfittato di lei?» chiese papà.
«Scommetto che erano alla pari» dissi io. Mac era sconvolto e papà incuriosito. «Sei sveglia, Kitty» disse.
Nonostante il gran calore, l’odore di Myrtle nella stanza e quello del disinfettante nel cortile, si stava bene nella nostra vecchia cucina. Papà se ne rimaneva sulla sedia a dondolo, sotto il glicine, chiedendosi quando Mac sarebbe tornato a casa per mandarlo allo spaccio clandestino. Myrtle e io non avremmo fatto una simile commissione per lui. Quando Myrtle aveva qualcosa per la testa che voleva comunicare a papà, non gliela diceva direttamente: la diceva a me facendo in modo che sentisse anche lui. Oppure aspettava di trovarsi nel gabinetto, e allora la si sentiva mugugnare a tutto spiano. Credo che fosse convinta che tutto ciò che viene detto in un gabinetto sia una sorta di conversazione confidenziale.
Ho una tavola da stiro sopra al lavatoio, in modo da guardare fuori dalla finestra e respirare una boccata d’aria ogni tanto. Riesco a sentire Myrtle, giù dal cortile sul retro: «Quel vecchio ha un po’ troppa confidenza con gli alcolici. Dovrebbe vergognarsi di incoraggiare il contrabbando in Orthodox Street; a un capo della strada c’è lo spaccio e all’altro un manicomio. Il vecchio farebbe bene a fermarsi a metà, dove ci sono ancora i quaccheri».
Avevo aperto una fessura nell’intrico dei rampicanti e, guardando in basso, potevo vedere la mano del povero vecchio papà che reggeva il giornale. Quando la mano tremava troppo, scendevo da lui a parlargli. Myrtle ritirava i panni dalla corda e li spargeva sul tavolo della cucina. Era un tavolo enorme molto usurato, bianco come il pane a forza di sfregarlo; il piano superiore si alzava, trasformando il tavolo in una sorta di panca. Quando ero una bambina, scivolavo sotto il ripiano abbassato e mi nascondevo dalla parte della panca per guardare i piedi delle persone che andavano e venivano. Ricordo il passo veloce della mamma e il profumo di marmellata calda. Bisogna muoversi rapidamente quando si fanno bollire le conserve. I piedi di Myrtle erano molto diversi, comicamente piatti e con i talloni sporgenti. A volte si scordavano che ero là sotto. Una volta dissi forte: «Perché i piedi dei neri hanno una forma tanto buffa?». Myrtle si spaventò così tanto che il secchio del carbone le cadde dalle mani.
«Fortuna che non mi è caduto sui piedi, altrimenti sarebbero ancora più buffi. Carina, sono piedi resistenti. I piedi diventano piatti a forza di sgobbare nel vigneto».
Usavamo quel tavolo per mangiare. Era comodo, in fondo alla cucina, vicino alla finestrella che dominava il passaggio laterale. Potevamo vedere chiunque stesse arrivando alla porta prima che suonasse, cosicché potevamo “organizzare un piano di difesa”, come diceva papà. Sotto la finestra c’era una ghiacciaia antiquata, di quelle col coperchio che si alzava. Mac, rimanendo seduto a tavola, riusciva ad allungare il braccio e a prendere una bottiglia di birra messa in fresco. Vicino alla stufa c’era un acquaio, di quella forma ormai introvabile, con i rubinetti di rame molto alti e curvi. Era un lavabo per ricchi, diceva papà, e quel tipo di rubinetti serviva a evitare che i delicati servizi di porcellana potessero rompersi.
Si sentiva imprecare, un furioso scricchiolio della sedia di vimini sotto il pergolato, il clangore di una pipa caduta sul vialetto. Allora correvo fuori per aiutare papà a liberarsi dalla sedia. Affrontava dolori incredibili per fare faticosamente il giro del cortile e strappare la malvarosa appassita dal recinto. Durante le sue ispezioni, io gli preparavo tè bollente e sottili fette di pane scuro imburrato. Myrtle le chiamava fette di burro spalmate di pane.
«Di’ a quella donna nera» mugugnava papà «che c’è un vantaggio nell’essere irlandese. Se non puoi bere whisky, puoi sempre cavartela con una tazza di tè».
Si divertivano a prendersi in giro a vicenda, ed essendo due persone sensibili sapevano sempre quando fermarsi. Myrtle una volta mi disse: «Se tuo padre mi desse della negraccia, uscirei da questa casa e non tornerei più. Ma quando mi dice “donna nera” so che vuole farmi un complimento».
Così io e papà bevevamo la nostra tazza di tè sotto il pergolato, e Myrtle beveva il suo, china sulla vasca del bucato sopra le nostre teste, parlandoci attraverso i rampicanti. Talvolta, intorno a quell’ora nel pomeriggio, veniva a trovarci Lena McTaggart. Non era poi tanto antipatica quando era separata da Nellie Simmons e portava il suo mahjong. Parlare con lei naturalmente mi faceva pensare al liceo, e allora mi sentivo un po’ confusa. Non riuscivo più a capire se ero una ragazza dell’Illinois o una ragazza di Philadelphia. Dopodiché Mac tornava a casa, e Myrtle andava a occuparsi della propria famiglia. Io preparavo la cena per gli uomini, e papà e Mac e Griscom Street erano il mio intero mondo; un buon mondo, tutto sommato.