Quella primavera, papà migliorò così tanto da riuscire quasi a dimenticare quanto fosse stato male. Io però non me lo dimenticavo. Ricordo quel pomeriggio soffocante, durante il quale mi stavo esercitando sulla velocità alla macchina da scrivere, divertendomi a vedere con quanta rapidità riuscivo a produrre una scampanellata della macchina dopo l’altra. Sentii una specie di martellamento in fondo alle scale. Era papà che batteva con il suo bastone.
«Katherine!» mi chiamava. «KATHERINE!».
Mi fece paura, perché non mi chiamava mai in quel modo. Per un istante temetti una ricaduta, e corsi sul pianerottolo. Mi guardava da sotto in su, coi peli della barba più irti che mai.
«Santo Dio, sei sorda?».
«Scusa, papà, stavo lavorando. Stai bene?».
«Benone. Voglio sapere come fai lo spelling di Katherine».
«Come si usa normalmente. Questa è bella, ma perché?».
«C’è qualcuno qui che vuole saperlo».
Naturalmente ora mi sembra ridicolo, ma a Manitou ero stata attratta dall’idea di scrivere il mio nome “Kathryn”. Credevo che mi avrebbe dato un’aria da stella del cinema. Papà e Mac mi avevano preso in giro e poi avevo incontrato, alla scuola per stenodattilografe, così tante Kathryn e Cathryn che mi era passata la voglia. Mi stupii che papà ne parlasse di nuovo.
«Chi vuole saperlo?» chiesi, ma lui era già tornato in salone. Guardai fuori dalla finestra e vidi un vecchio furgone tutto stinto e scolorito, con su scritto in piccoli caratteri verdi “Darby Mill, Old St. Davids”. Dentro c’erano dei mucchi di tegole legate col fil di ferro. Papà andava dicendo da non so quanto tempo che ci volevano delle tegole nuove per il gabinetto esterno: quando si sedeva là dentro gli pioveva sulla testa. Pensai che le avesse ordinate senza dirmi niente, e corsi da lui per assicurarmi che non lo imbrogliassero.
«È venuto l’uomo del gabinetto?» chiesi entrando nella stanza. Papà scoppiò a ridere e il visitatore si alzò educatamente. Mi accorsi che il mio sangue puro ed eloquente mi affluiva al volto con straordinaria efficienza. L’uomo del gabinetto era Wyn.
«È ancora Wyn Strafford» disse papà. «Non voleva disturbarti, ma sentendo il ritmo con cui battevi si è chiesto se saresti disposta a dattilografare il suo libro sul cricket».
«Avevo intenzione di scriverle una lettera» disse Wyn. Era un po’ arrossito anche lui, ma era sempre così deliziosamente abbronzato che era difficile notarlo. «Era così presa che non volevo interromperla, ma avevo bisogno di sapere esattamente il suo nome».
«Di solito il mio nome è Kitty» risposi, ma mi resi conto che sembrava troppo confidenziale da parte mia, e la mia confusione aumentò. Mi rifugiai in cucina a preparare un po’ di tè ghiacciato, mentre nell’altra stanza riprendevano con le scemenze sul cricket. Per fortuna in casa c’erano dei cinnamon rolls che avevo comprato qualche giorno prima.
«A dir la verità ero venuto a scusarmi per aver contribuito all’incendio del cestino» disse Wyn. «Ma quando ho sentito quella macchina, di sopra, non ho potuto fare a meno di chiedere a suo padre. Davvero, Miss Foyle, non abbiamo nessuno in banca capace di muovere i tasti con una tale rapidità».
Probabilmente ero già stata chiamata “Miss Foyle” prima di allora: dal segretario del Prairie College, forse, o dalla preside femminile; ma era la prima volta che mi colpiva tanto.
Quando se ne andò, lo accompagnai lungo i tre gradini di cortesia, visto che papà si allontanava raramente dalla veranda. Oh, Wyn, tesoro mio, com’eri adorabile con quei tuoi vecchi pantaloni grigi, la molle camicia leggera e la giacchetta sportiva. Ma non me ne accorsi, allora; pensai soltanto: “Buon Dio, lavora in banca vestito così?”. Le parole “Darby Mill, Old St. Davids” non mi dicevano nulla. Come avrei potuto immaginare quante arie si nascondono dietro una certa, voluta, trascuratezza? Wyn parlava con estrema serietà del materiale sul cricket che aveva raccolto e dei capitoli che aveva già scritto.
«Temo di non essere un grande scrittore» disse «ma spero che gli appassionati di cricket non se ne accorgeranno».
Più avanti, constatai che anche in ortografia non era un genio, ma naturalmente non glielo dissi. Non c’è nulla che dia un sentimento tanto materno e amoroso nei confronti di un uomo quanto il correggergli gli errori di ortografia. Stava cercando di introdurre l’argomento del mio compenso, ma non ne ebbe il coraggio. Anch’io ero molto imbarazzata, perché quello era il mio primo lavoro a pagamento. In più, papà continuava a parlarci da sotto la veranda.
«Non dimentichi il not out del secolo di suo zio contro Marrowbone nel ’96» gridava mio padre. Oggi so che si trattava di Marylebone e non di Marrowbone, ma non è quello che disse lui.
«Sa» concluse Wyn «sarà meglio che non le lasci subito questi capitoli. Bisogna che li rilegga e che aggiunga delle cose che suo padre mi ha detto. Glieli manderò fra qualche giorno, e intanto lei ci pensi su. Ora bisogna che vada, devo portare queste tegole alla tenuta; stiamo riparando i canili».
Dopo che se ne fu andato, mi misi a tranquillizzare papà. Parlare troppo di cricket non giovava alla sua salute.
«Credevo che il signor Strafford lavorasse in un’impresa di legnami» dissi.
«Santo Dio» esclamò il vecchio. «Ma non leggi mai il Ledger? Strafford, Wynnewood and Company, la più vecchia banca privata di Philadelphia. Darby Mill è il nome della loro tenuta di campagna; c’è una vecchia segheria da quelle parti, quella che fornì il legname a Washington per costruire Valley Forge. Bimba mia, quella gente è così snob che si vergogna a stirarsi i pantaloni. Sono capaci di pagare qualcuno che guidi per un anno la loro Rolls-Royce appena comprata per non farla sembrare troppo nuova».
«Mi sembra una cosa stupida come l’esatto opposto» dissi. E lo penso ancora.
Ero contenta di aver trovato quel lavoro. Non credo, altrimenti, che mi sarei soffermata a pensare a quel fatto. Myrtle stava per tornare a casa e io mi ero messa a cucinare uno stufato per la cena di papà. Mac doveva venire quella sera a raccontarci del suo bambino e a fare un po’ di compagnia al vecchio, così io potei uscire con Marty Bockmeyer, un bravo ragazzo della scuola di stenodattilografia, un po’ stupido ma un ballerino eccellente. Di tanto in tanto riuscivo a trovare un po’ di tempo libero, e Marty mi portava a ballare da qualche parte.
Naturalmente, all’inizio pensai che Wyn fosse molto determinato sul suo libro. Era un’ottima motivazione, mi sembrava, per giustificare le sue visite. Sarebbe stato idiota da parte mia supporne un’altra. La mia stesura a macchina fu un buon lavoro. Credo che la stenografia, insieme all’abitudine di condensare frasi ed espressioni, possa essere un ottimo esercizio letterario. Notai subito come le frasi di Wyn si insinuassero e si sparpagliassero dappertutto. Quando avevo dei dubbi sulla sua ortografia e consultavo il Webster, avevo quasi sempre ragione io. Povero caro, aveva preso l’abitudine di dire, del suo libro: «È straordinario come scorra meglio quando lo si legge battuto a macchina». Non aveva la più pallida idea di quanto lavoro di revisione avessi fatto sul suo manoscritto. Per me fu molto educativo osservare l’atteggiamento semplicistico di Wyn nei confronti di tutto ciò che richiedeva riflessione e pensiero. Ma in qualunque altra cosa del mondo esterno – macchine, animali, rapporti col prossimo – era perfetto. Come tutti quelli del gran mondo di Philadelphia, soffriva di un terribile complesso d’inferiorità su qualsiasi cosa fosse estranea alla sua routine familiare. Ma osservarlo nel suo habitat naturale era sbalorditivo. Un giorno, papà mi portò al circolo di cricket a vedere Wyn giocare. Fu meraviglioso. Era diverso; ogni suo movimento, ogni suo sguardo avevano un valore preciso. Quando fece segno col braccio agli altri giocatori di andare a occupare certe posizioni, lo avrei baciato davanti a tutti. Sapeva esattamente quello che voleva, e perché.
Sto mischiando i miei ricordi di Wyn perché non ha importanza, ormai, ciò che venne prima e ciò che venne dopo. Caro, lasciami pensare a te e sentire che effetto fa. Mio adorato. Bimbo mio.
È buffo, quando ci siamo conosciuti lui aveva venticinque anni, sette più di me, ma io penso sempre a lui come se fosse un bambino. Mi disse di essere stato a Princeton, e non intendeva Princeton, Illinois. Che cosa vi abbia fatto, più che occuparsi di sport e bere birra, non saprei proprio dirlo. C’era stato un professore, però, che gli aveva messo in testa la vaga idea di avere tendenze letterarie; allora lui aveva iniziato a comprare libri costosi in una libreria di Princeton, e di tanto in tanto parlava di prime edizioni, e lo faceva come di un qualcosa che sapeva essere piuttosto importante. Non certo nel modo in cui parlava di cricket, di beagle o della sua piccola Buick da corsa verde oliva. Era la sua passione, quella Buick. La prima volta che venne a trovarci con quella macchina, anziché sul furgoncino della segheria, sentii che qualcosa stava per succedere. Avevamo appena finito di pranzare, e credo che sapesse che c’era Myrtle a occuparsi del vecchio. Mi chiese se avessi voglia di fare un giro sulla sua macchina. Attraversammo Oxford Pike, Fox Chase, Huntingdon Valley fino a Sorrel Horse. Non conoscevo le zone magnifiche intorno a Philly. Non c’è da stupirsi che la gente importante si sia stabilita in quella zona e non l’abbia più lasciata. Wyn mi portò a prendere il tè con alcuni artisti di Bethayres, e mi presentò come se fossi una persona importante. Mi divertii talmente che dimenticai la mia timidezza. Era impossibile essere timide con Wyn, perché lui era ancora più timido. O per meglio dire, non proprio timido; aveva una specie di vergogna segreta. In fondo, si vergognava di contare così poco nel mondo bancario. Diceva che quella gente aveva cominciato a far soldi con i prestiti, nel 1776, e che aveva continuato a farne durante ogni guerra che era scoppiata da allora. Tutto ciò che faceva in banca era quello che qualche pezzo grosso gli diceva di fare; non agiva mai autonomamente, qualsiasi cosa accadesse.
«Un giorno o l’altro inizierò a fare qualcosa che nessuno mi ha detto di fare» annunciò. «Anzi, comincio da ora». Fermò la macchina e mi baciò.
Io non fui minimamente sorpresa. Mi sembrò perfettamente naturale, e questo valeva per tutto ciò che ci accadeva. Non sapevamo mai che cosa potesse succederci, ma quando avveniva qualcosa era come se l’avessimo sempre aspettata.
«È così interessante parlarti» mi disse un giorno «che quasi mi dimentico di baciarti. Quasi, ho detto, non del tutto».
È un fatto. Ci divertivamo un mondo a parlare a vanvera. Forse Wyn non aveva mai parlato con nessuno di ciò che aveva dentro. «Ho dovuto cercare i dati di un tale nel Who’s Who27» disse una volta. «Se ne parla come di un protettore delle arti. Diavolo, Kitty, ecco una cosa che mi piacerebbe diventare. Forse potrei arrivare lontano, aiutando gente che vale più di me. Forse potresti aiutarmi a farlo, e forse io potrei aiutare te a mia volta, se ti dicessi quanto sei bella».
Queste uscite mi facevano arrossire, e sentivo una specie di dolore alla bocca dello stomaco.
Il vero miracolo accadde quando, all’improvviso, varcammo una specie di linea di confine, e ogni cosa apparve sotto una luce diversa. I primi due mesi furono strettamente lavorativi: Wyn veniva a casa nostra due volte la settimana con un mucchio di fogli da ricopiare, e ogni volta papà si ricordava di qualcosa di nuovo da inserire nel libro. Mi dettavano un po’ l’uno, un po’ l’altro, e io naturalmente battevo nella forma più conveniente. Wyn diceva che avrebbe potuto lavorare moltissimo, perché aveva preso le ferie dalla banca e tutta la sua famiglia era partita per il loro cottage estivo a Rhode Island. Aveva una buffa fobia di dire “Newport”. Finii col capire quelli della Main Line: si vergognavano di far sapere quanto bella e lussuosa fosse la loro vita. Non che in segreto ne soffrissero; lo sapevano soltanto. La maggior parte di loro non si accorge nemmeno che esisteva un mucchio di gente che viveva su un altro livello. Era questo che rendeva Wyn così simpatico: lui se ne accorgeva. Tentò perfino di pensarci su, ma la cosa non gli giovò. Si rendeva conto di molte più cose di quanto non credessi.
«Kitty, sai quando ho cominciato a adorarti? Quando ho visto che non portavi le calze arrotolate sotto il ginocchio».
A essere sincera, le mie ginocchia erano troppo graziose per lasciarle esposte come fanno molte ragazze. Io e Molly facevamo sempre quella che chiamavamo “sfilata di ginocchia”. Ce le studiavamo l’una con l’altra, cercando di capire come sfruttarle al meglio.
«Ho visto la parte posteriore delle tue ginocchia prima di vederne quella anteriore. Cosa piuttosto insolita, visto com’erano i vestiti a quel tempo».
«Com’è stato possibile?» chiedevo. Naturalmente lo sapevo benissimo, ma ci sono cose che non ci si stanca mai di sentirsi ripetere.
«Quando cercavamo quella fotografia di tuo padre da mettere nel libro. Thomas Foyle, ultimo dei grandi allenatori, 1861-1930. Non ti ricordi? Eravamo chini su quel tavolo di bambù, in salone, a sfogliare fotografie. Scivolarono a terra e tu ti sporgesti per raccoglierle».
«Wyn, sei tremendo. Ti adoro».
In agosto parlavamo in un modo simile. A luglio non avremmo mai immaginato una cosa del genere. Infatti, fu solo al termine del libro che Wyn si presentò in Griscom Street con la Buick. Era piuttosto nobile da parte sua. Quando c’era da lavorare, si lavorava.
Il primo giorno della Buick gli avevo fatto trovare il dattiloscritto pronto. Mi dicevo: il libro va dal tipografo, Wyn a Rhode Island a qualche gara di yacht, e Kitty Foyle dove se ne va?
Eravamo piuttosto silenziosi mentre andavamo verso Sorrel Horse.
Dopo una lunga pausa, Wyn disse: «È stata molto gentile a volermi aiutare con il libro. Penso che lei e io, insieme, facciamo uno scrittore di talento».
Non sapevo cosa dire. Ero in uno dei miei momenti di stupidità, e la calda spalliera dell’automobile mi bruciava le spalle.
«Temo che lei e suo padre non possiate venire a trovarci a Rhode Island. Come mi piacerebbe farvi fare un bel giro in barca!».
Pensai che dicesse quelle cose per educazione, per mostrarsi gentile. Certo, il vecchio non poteva affrontare un viaggio così lungo, né io avrei potuto andarci da sola.
A volte mi dico che è davvero comico pensare a quante cose hanno inventato gli esseri umani che in molti non possono fare.
Fissai il cruscotto. C’erano due bottoni, uno diceva “Starter”, l’altro “Acceleratore”. Mi sembrò di essere l’uno e l’altro. «Sarebbe meraviglioso» dissi. «Ma aspetto un’amica che viene a trovarmi dall’Illinois: Molly Scharf, eravamo compagne di scuola». Stavo per parlargli di Molly, di qualunque cosa pur di nascondere la mia confusione. Lo avrebbe divertito sapere come Molly e io avessimo finto di essere la signora Rittenhouse e la signora Cynwyd Lloyd. Mi fermai appena in tempo. Buon Dio, la signora Lloyd era sua zia.
«Che cosa fanno in banca» chiesi «quando lei se ne va?».
«Affilano le forbici e tagliano coupon».
Questo tagliò anche me, in qualche modo; dopodiché seppi starmene tranquilla, mentre lui mi parlava della banca e di quanto la odiasse. Poi fermò la macchina, e l’avanti noi si trasformò in noi.
Potevamo parlare di tutto senza ferirci o imbarazzarci, ma anche allora continuavo a pensare che lo facesse per educazione, tanto per mostrarsi gentile. Come potevo immaginare quanto avesse bisogno di me? Dovevamo imparare tante cose insieme.
«Quando tornerò da Rhode Island» disse «ho un progetto a cui voglio lavorare. Non voglio parlarne troppo ora, prima voglio informare mio padre. Credo che ne sarà entusiasta: sa che come bancario non valgo molto, ma questa mia idea del libro sul cricket gli è piaciuta enormemente. Non è un cattivo uomo, poveretto, e gli piace l’idea che la nostra famiglia abbia a che fare con la letteratura, anche perché Weir Mitchell era il nostro medico».
Fortunatamente avevo sentito nominare Weir Mitchell, c’erano un mucchio di cartellini col suo nome nello schedario della Carnegie Esq.
«E Bayard Taylor ci dedicò un libro, una volta che venne a prendere il tè da noi in villa. Non è meraviglioso che Philadelphia viva ancora su delle idee avute da qualcuno tra il ’70 e l’80?».
Sembrava un po’ dispiaciuto. Non sapevo chi fosse questo Bayard Taylor. Avevo preso l’abitudine di correre in biblioteca a documentarmi ogni volta che Wyn mi nominava qualcuno.
Povero caro, aveva un’idea tutta sua, un’idea che non avrebbe mai potuto mettere in pratica; ora mi rendo conto di come volesse giustificare in qualche modo la sua esistenza.
Mi riaccompagnò in Griscom Street e scese a salutare il vecchio. «Abbiamo festeggiato la conclusione del libro» disse.
«Sono molto contento che abbia portato la mia figliola a prendere una boccata d’aria fresca» rispose papà. «Non ne respira molta. Sentiremo la sua mancanza, ora che il lavoro è finito».
Per tutta risposta, Wyn mi guardò e mi fece un impercettibile occhiolino. La cosa mi confortò un poco, perché mi sentivo molto disorientata. Se ne andò con la sua piccola macchina rombante e io cercai d’immaginarmelo a Newport sulla sua barca, pantaloni bianchi, pelle abbronzata, occhi grigi. Allora non sapevo come il colore dei suoi occhi cambi sull’acqua, diventando di un verde argento.