Wyn abbandonò Philadelphia appena in tempo, subito prima che iniziasse il caldo terribile. La mia piccola stanza sotto il tetto era diventata una fornace. Vi passavo i miei pomeriggi a lavorare, perché la macchina da scrivere disturbava papà se la portavo al piano inferiore. Una volta i tasti della macchina si surriscaldarono così tanto da diventare decisamente spiacevoli al tatto. Me ne stavo seduta su una vecchia sedia da cucina con addosso solo un paio di mutandine, e alzandomi lasciavo due chiazze umide sotto di me. In ogni caso, come scrissi in seguito a Molly, erano simmetriche.
Mi sarei spogliata completamente, ma ero così ingenua che, in un certo senso, non mi sembrava educato lavorare nuda al manoscritto di Wyn. Lui aveva detto qualcosa a proposito delle bozze e della preparazione dell’indice. Io avevo imparato qualcosa sulle bozze di stampa lavorando all’Harvest, e così, come una tuttofare, mi offrii di occuparmene. In merito all’indice avevo le idee piuttosto confuse, fino a quando non pensai di chiedere aiuto in biblioteca.
La biblioteca era sempre stata una buona amica per me. Sapevano che ero scrupolosa nei miei studi di stenodattilografia e mi raccomandarono alla Società Storica di Frankford, che stava organizzando una campagna pubblica per la sua nuova sede. Battei a macchina per loro un’enorme quantità di lettere.
Wyn mi mandò una cartolina che ritraeva alcuni magnifici yacht. Quando arrivò, io e Myrtle eravamo occupate ad annaffiare col tubo, ogni ora, il giardinetto sul retro; papà, povero vecchio, se ne stava seduto sotto il pergolato e si faceva vento, imprecando, con una grande foglia di palma. Di tanto in tanto andavo a prendere una boccata d’aria sulla metropolitana sopraelevata, e cercavo di figurarmi la sensazione di essere su una barca, a Newport. Le pubblicità delle stazioni climatiche di montagna sul Ledger bastavano a far digrignare i denti. Ma il dottor Bartrum non riteneva opportuno che papà si sottoponesse a un viaggio in treno, e non avremmo comunque avuto i mezzi per farlo. Mac aveva comprato un’automobile di seconda mano, una vecchia Ford, per portare Martha e la piccola Kitty a prendere un po’ d’aria. Talvolta, nelle sere più calde, arrivava sobbalzando da Tioga e ci portava a fare un giro lungo lo Schuylkill o attraverso Fairmount, così che papà aveva modo di parlarci ancora del Centenario. Martha, che ne aveva fin sopra i capelli di badare alla casa e di fare la mamma, lasciava che la sostituissi per un po’. Mi piazzavano sul sedile posteriore tra la bambina e il vecchio, ed ero sottoposta alla dittatura di entrambi. I momenti in cui la bambina doveva essere cambiata sembravano influire, in qualche modo, anche sull’organismo di papà, che subito diceva di dover andare in bagno. «Ma santo cielo, papà» protestò Mac una volta «possibile che tu non possa aspettare di essere a casa? E poi, è da stare in piedi o seduti?».
«Questo mi ricorda tua madre» disse papà. «Era così abituata ai maschietti che quando Kitty veniva ad avvertirla che doveva correre in bagno, le faceva sempre questa domanda. Non si ricordava mai che le femmine fanno tutto da sedute».
«Senti, papà» lo avvisai «quando Molly Scharf verrà a trovarci, evita i discorsi di questo tipo. Non è stata allevata all’irlandese, e non è abituata a questo genere di conversazioni familiari».
In realtà non avrebbe mai scioccato Molly, ma quel genere di discorsi sono irritanti quando sono pronunciati dai propri genitori, e mi fece pensare che stesse diventando distratto in modo preoccupante. A dirla tutta pensavo a Wyn, che aveva modificato le mie percezioni; non avrei mai voluto che si trovasse coinvolto in simili discorsi.
Per essere onesti devo ammettere che, quando arrivò Molly, papà fece di tutto per controllarsi. Più di una volta lo sentii esclamare “Conshohoken!”.
La visita di Molly ci fece bene, e per me fu una grande gioia rivederla. Disse che non faceva poi tanto caldo in confronto a Manitou e ci raccontò che il direttore dell’Argus era talmente stufo dell’eterna storiella del friggere un uovo sul marciapiede che alla fine lo fece davvero. Molly raccontò che tutta la città venne ad assistere; pulirono un tratto di marciapiede, ci spalmarono su un po’ di burro e vi ruppero l’uovo; l’uovo si cosse sul serio e il direttore se lo mangiò. La cosa venne fotografata, e la Camera di Commercio lo fece pubblicare sul Trib di Chicago.
Naturalmente ci volle parecchio tempo perché l’uovo si cuocesse a dovere. Dovettero tutti farsi indietro di parecchi passi, e aspettare che si mettesse a sobbollire; inoltre, un po’ della fuliggine della ferrovia vi si posò sopra. Ma di tutto questo il giornale non fece parola.
Molly disse che le sembravo molto cambiata, e credo che entrambe fossimo in uno stato d’animo molto tranquillo. Non le parlai di Wyn; non c’era nulla da dire, se non che avevo avuto un lavoro di battitura a macchina. Era difficile tenere i miei sentimenti per me, perché naturalmente parlammo dei vecchi tempi delle bambole di carta e Molly volle vedere dove abitasse la signora Rittenhouse. Cercai l’indirizzo e, di nascosto, diedi un’occhiata anche a quello degli Strafford. In uno dei nostri giri di ricognizione le mostrai casa Rittenhouse in Walnut Street. Aveva tutte le tapparelle abbassate per l’estate, e la cosa mi fece ripensare alla mia avventura a Cape May. In quell’occasione, riuscii a guidare la mia amica nei pressi di casa Strafford e la guardai di sbieco. Proprio mentre vi passavamo accanto, un maggiordomo nero in maniche di camicia e gilet a strisce verdi uscì dalla porta d’ingresso principale con la pipa in bocca. Non immaginai che si prendesse quella libertà solo perché Wyn non c’era. Ero sicura che fosse la casa giusta, perché il nome sulla vecchia targa argentata, anche se molto sbiadito, era ancora leggibile.
Molly restò molto impressionata nel vedere le case in cui abitavano le bambole di carta. «Ho sempre creduto» disse «che quei nomi te li fossi inventati». Quando lesse sul Ledger qualcosa su Cadwalader Shippen disse: «Il mio calice trabocca28». La Liberty Bell e la Betsy Ross House non le fecero una grande impressione.
Passavamo gran parte del tempo nel cortile sul retro, a cucire e a chiacchierare. Era bello ripensare a Manitou. Dopo la mia partenza dall’università, Molly era rimasta sola nella nostra stanza fino a metà semestre, e poi le avevano assegnato una rossa di Chicago, Pat Kenzie. «Ha degli enormi occhi castani, sembrano di caramello» disse Molly «ed è rossa come quei diavoli scatenati dei Debaugh. È una ragazza simpatica, ma pensa che l’università sia una perdita di tempo. La madre è comproprietaria di un grande magazzino, e Pat conta di trovare un lavoro per lei e per me, in autunno. Io mi sono iscritta anche all’anno prossimo, ma ho una mezza idea di lasciare gli studi. La maggior parte degli studenti, all’università, perde tempo. Ti assicuro, Kitty, che tutto quello che ho appreso in questo primo anno avrei potuto impararlo in un mese e mezzo di duro lavoro sui libri. Tutto, tranne le chiacchierate nei dormitori. Credo che sia solo un modo per far sì che i ragazzi non stiano tra i piedi a casa prima di iniziare a guadagnarsi da vivere».
Era un punto di vista nuovo per me, che mi ero morsa non so quante volte le mani all’idea di tutta la cultura e l’educazione che avevo perso abbandonando l’università.
«È diverso» riprese Molly «per quelle come Trudy Weissenkorn o Ida Meagher. Sono solo delle galline, e non hanno l’ambizione di farcela da sole. E va bene per uno come Fedor… ah, non t’ho detto che ha avuto il premio delle matricole per l’Oratoria? È nato per studiare. Ma quanto a me… sai, ho quasi diciannove anni e voglio andare in tanti posti».
«You betcha!» esclamai, nel più puro accento di Manitou.
Aveva con sé un libro, una storia dell’arte dell’arredamento, che aveva letto in treno, e le cose che più le piacquero nella sua visita a Philadelphia furono i caminetti e le credenze dell’epoca coloniale. Perfino alcune delle anticaglie del nostro salone, che io trovavo atroci, la divertirono, come la piccola coppa di vetro blu, a forma di tuba, per i vecchi fiammiferi di zolfo. «Kitty» mi disse «molta di questa paccottiglia del ’70 e dell’80 diventerà roba ricercata quando la gente imparerà ad apprezzarla. E in merito a Philadelphia, perché deve essere così sovraccarica, e a sua insaputa per giunta, di tanta teatralità? Pensa a Godey e alla signora Hale29».
Non potevo pensarci perché non sapevo neppure chi fossero. Andai a controllare dopo. Quando sento nominare qualcuno, non posso fare a meno di andare a vedere di chi si tratti. Ero un po’ gelosa di quell’anno di università di Molly; anche se lei storceva il naso, ero sicura che avesse imparato moltissime cose.
Quello che mi fece venire una gran nostalgia di Thanksgiving Avenue furono i racconti di Molly su Pastafrolla. Quando suonavano alla porta non si alzava più. Se ne rimaneva sdraiato sotto il portico, agitando la coda con un ritmo più pesante e accentuato, come a chiedere scusa se non si alzava. Bernie si era laureato ed era stato assunto nell’azienda dello zio Elmer. La zia Hattie tentava di far venire Hugh Walpole per una conferenza al Circolo Femminile, ma in fondo sperava che non accettasse, perché ne era un po’ intimidita. Uno dei ragazzi Debaugh, non ricordo più quale, aveva combinato un grosso pasticcio con una cameriera della Manitou House. Trudy Weissenkorn non era stata ammessa in nessuna associazione studentesca femminile, cosa che aveva infastidito terribilmente suo padre, il quale aveva minacciato di alzare un polverone con i piani alti.
Molly era ancora da noi quando ricevetti la lettera di Wyn, in cui mi parlava del suo grande progetto. Suo padre aveva acconsentito e avrebbe anche fornito il capitale. Wyn sarebbe tornato a Philadelphia a settembre e voleva il mio aiuto. La cosa mi emozionò moltissimo, e naturalmente ne parlai a grandi linee a Molly.
«Wyn pensa che Philadelphia sia abbastanza grande per avere una sua rivista, qualcosa di sofisticato del genere New Yorker ma scritta per la gente di qui. Vuole chiamarla Philly, e intende iniziare le pubblicazioni ai primi di novembre. Una rivista piena di spiritosaggini sul calcio, la caccia, il cricket, sull’Orchestra, sulla buona tavola, con aneddoti storici sulla città. Pensa a tutte le scuole e le università di Philadelphia e dintorni, andrà a ruba. E vuole che io gli faccia da segretaria. Di’, Molly, che occasione!».
Molly fu evasiva.
«Sembra divertente» disse. «Ma se Philadelphia è come me l’hai mostrata, non credo che funzionerà. Il New Yorker ha il successo che ha perché è fatto da gente intelligente e ambiziosa. Qui non c’è gente di questo tipo. Quelli un po’ più svegli se la squagliano. E poi il New Yorker si rivolge a un pubblico smanioso di sapere, di essere informato di tutto. È una specie di complesso di inferiorità. Non mi pare che a quelli di Philadelphia importi qualcosa di essere informati. Preferiscono non sapere, o credono di sapere già tutto. La gente di potere è così sicura di quello che sa che non vuole nuovi punti di vista, e tutti gli altri sanno che non vale neanche la pena di provare. Non è poi così male stare in una città che semplicemente si disinteressa di ciò che non è rassicurante. Perché il tuo amico vuole mettersi a punzecchiarla? Se fossi in te, lascerei che Philly faccia come il vecchio Pastafrolla. Lasciala scodinzolare sotto il portico».
Ragazza intelligente, Molly. L’ultima cosa che mi disse, quando l’accompagnai al treno, fu: «Se trovo un lavoro a Chicago, ti converrà venirtene laggiù a vedere cosa si può fare».