Fui orgogliosa di papà e del modo in cui morì. Se ne andò nel sonno, proprio come se avesse bevuto troppo. Credo che del resto la vita sia così, un sorso di liquore forte. Le ultime settimane era stato gentile, sereno. Come Pastafrolla che, mi aveva scritto la zia, era diventato troppo stanco persino per abbaiare al suonatore ambulante di organetto. Anche questo è buffo, pochi giorni prima un suonatore ambulante di organetto aveva fatto la sua comparsa in Griscom Street, e papà mi aveva detto: «Fagli suonare The Low Back’d Car». Quella canzone è per gli irlandesi quello che Swing Low, Sweet Chariot è per i neri.
Era bello vedere la sua cara vecchia faccia così riposata. Nonostante la barba e la malattia, c’era ancora un residuo d’abbronzatura sul suo volto, un colorito dovuto a gloriosi cricket all’aria aperta, a un’aria che odorava di erba tagliata, nella stagione in cui amava uscire con i suoi pantaloni di flanella. Denny disse che gli sarebbe piaciuto che venisse sepolto con i suoi pantaloni da cricket e la fascia del club intorno alla cintura. Anche Ed arrivò, povero Ed: credo che facesse il venditore ambulante di attrezzi a quei tempi, perché ricordo che ci fece ridere raccontandoci di quando, nel mostrare una padella di alluminio a un cliente, alzatala per metterne in rilievo la robustezza, il fondo si era staccato ed era caduto a terra. Ed era sempre stato il più sfortunato della famiglia. Era rude, quando parlava, ma ora so che lo faceva per nascondere i suoi sentimenti. Nel vedere papà immobile sul letto disse: «La gente con la barba non sembra morta come gli altri. L’ho osservato in quei francesi, durante la guerra».
Credo che papà sarebbe stato contento di avere i funerali organizzati dal Friends’ Meeting, ma Denny disse che avremmo fatto bene a non cambiare e devo riconoscere che i presbiteriani accompagnarono papà lungo i tre gradini di cortesia proprio come si deve. Tutti i circoli di cricket mandarono corone e il Bulletin, il giornale che non dimentica mai, pubblicò un pezzo sull’epoca d’oro del cricket di Philadelphia, e su come papà aveva saputo battere quel principe indiano Ranji. Wyn e Rosey Rittenhouse vennero al funerale, e l’Ordine di Orange si presentò con le fasce alla cintura e gli abiti a coda. Ed disse che portavano le code per nascondere quello che avevano sulle natiche. Il ministro infarcì il suo discorso funebre con una gran quantità di termini di cricket. Disse qualcosa a proposito dell’appellarsi al ricevitore. Danny era molto seccato, diceva che il reverendo aveva le idee un po’ confuse sul cricket, che il vecchio non avrebbe fatto appello se fosse stata una chiara eliminazione, e che in ogni caso non si chiedeva al ricevitore ma all’arbitro. Quelle cose per me erano arabo, e io nel frattempo pensavo a tutto ciò che avrei voluto chiedere a papà se me ne fossi ricordata quand’ero ancora in tempo. Mentre il discorso proseguiva, potevo vederlo mentre mi consigliava di non rubare in casa del ladro. Mi sono sempre chiesta perché qualcuno volesse fare una cosa del genere.
La zia Hattie restò qualche giorno, per aiutarmi a chiudere casa. Fu più un impaccio che un aiuto a dire la verità, perché naturalmente aveva fatto comunella con gli Upsal di Germantown e tutti avevano dei progetti per il mio futuro. Avrei dovuto vivere a Manitou con gli zii, oppure prendere una stanza dell’Y.W.C.A., o andare a fare la tata delle mie cuginette Upsal. La famiglia Upsal era sempre molto lenta nel prendere decisioni. La zia Hattie fece innervosire Mac chiedendo in continuazione come mai papà fosse vissuto tanto più a lungo della mamma. Mac iniziò a non farsi vedere quasi mai in casa. E ogni volta che parlavo con Wyn al telefono, cosa che accadeva piuttosto spesso visto che anche lui aveva dei progetti per il mio futuro, avevo la zia Hattie sempre intorno.
Io sapevo perfettamente ciò che volevo e lo formulai con estrema chiarezza in un paio di lettere, mentre la zia Hattie cercava di stabilire che cosa ne sarebbe stato della vecchia cassettiera in mogano.
La zia non scordava mai, nemmeno per un istante, che la mamma era stata la sua sorellina minore, e questo mi fa pensare che sentisse di avere dei diritti su di me. Era una situazione antipatica, perché le volevo un gran bene, tranne quando bisognava prendere delle decisioni. Promisi a Myrtle il vecchio letto di ferro e i materassi della camera di papà perché, non so bene per quale ragione, Myrtle credeva che le avrebbero portato fortuna. La zia sembrava vederlo come una specie di sacrilegio. «Ma che cosa s’è messa in testa?» brontolò Mac. «Che li mettiamo in un museo?». «Il letto matrimoniale della mia sorellina» belava la zia; Mac rispondeva, tra i denti, con una parola brevissima che le avrebbe fatto venire un colpo se l’avesse sentita. Mac era fierissimo di uno zerbino che lui e Martha avevano a Tioga, fatto di strisce di vecchi pneumatici. Diceva che la zia avrebbe dovuto provare a strofinare i piedi lì sopra e forse si sarebbe data una mossa. «Dille di premere sull’acceleratore e di levarsi dai piedi».
Era un delitto non andare d’accordo subito dopo la morte di papà, ma il vecchio avrebbe senza dubbio capito, e poi amava quel genere di linguaggio. Le sue parole erano sempre piene di spigoli.
«Ma come fa la signora Taswell a essere così confusionaria?» chiese Myrtle. «E il caos è contagioso, mette tutto sottosopra. Se continua con le sue storie sulla sorella piccola credo che impazzirò. E poi, dolcezza, questo genere di cose svanisce in una generazione».
Credo che la colpa fu della tensione in cui avevo vissuto in quell’ultimo periodo. Subaffittai la casa, parte dei mobili li vendetti e parte li misi in un magazzino, accompagnai la zia al treno, dopodiché Myrtle e io piangemmo e ci abbracciammo nel dirci addio (che buon sapore aveva la sua vecchia guancia nera!). Sapevo di non essermi comportata bene con Wyn, non gli avevo detto nulla e non gli avevo dato alcuna possibilità di aiutarmi, benché avesse fatto di tutto per venirmi incontro. Ma era stato più forte di me. Ormai ero dentro una macchina e dovevo continuare ad andare, o sarei scoppiata. Wyn è quasi magnetico in quel suo modo ottuso, e in quel caldo mattino di primavera arrivò al volante della sua Buick mentre stavo facendo le valigie. Io, tristissima, ero uscita in cortile per buttare dei disinfettanti nel gabinetto sul retro, chiedendomi a che scopo stessi facendo tutte quelle cose. La porta di casa era spalancata, così Wyn entrò senza chiamare e mi trovò laggiù. Oh, mi fece bene vederlo, come trovare un’ultima sigaretta nel cuore della notte quando si crede di aver finito il pacchetto.
«Senti, caro» gli dissi «la prima volta che sei entrato in questa casa ho pensato che fossi l’uomo del gabinetto; ora potresti esserlo sul serio. Spargi un po’ di questa roba là dentro: mi spezzerebbe il cuore se dovessi farlo io».
Era sempre un gentleman, Dio lo benedica, e non c’era cosa che non avrebbe fatto, se lo si pregava.
«È un bene che tu sia venuto» gli dissi. «Devo darti una cosa».
Era la vecchia borsa da cricket di papà, tutta logora e con ancora le etichette degli alberghi canadesi, di quando aveva fatto quel giro in Canada con i Gentlemen di Philly. Non l’avevo ancora aperta. Ci guardammo dentro: c’erano le sue due mazze preferite, i cuscinetti per le ginocchia macchiati d’erba e quegli strani guanti gommati da mazza. C’erano anche una palla rossa e una mezza pinta di whisky che, scommetto, si era dimenticato di averci messo.
Avevo una gran voglia di piangere e così, senza dire una parola, spinsi la valigia verso Wyn e guardai accigliata verso l’angolo della stanza dove avevamo sempre tenuto la palla di vetro, la ragazza nella tempesta di neve. L’avevo chiusa nella mia valigia ma mi sembrava di vederla ancora lì, con la sua sciarpa rossa svolazzante, ridente mentre correva giù per la collina. C’era qualcosa in quella vecchia borsa di cuoio che mi fece pensare a papà sul campo da cricket, così come lo avevo visto tante volte mentre, osservando gli altri giocare, succhiava la pipa e diceva: «Ben giocato, signore. Bel colpo, senza alcun dubbio!». Parlava sempre un po’ all’inglese quando guardava il cricket; credo che sia doveroso, è quel modo di parlare che chiamano cockney. Quella borsa era parte integrante della cara vecchia Philly, e io la stavo lasciando. Pensavo alla stazione di Broad Street, al Bellevue, a Chestnut Street e a tutte quelle persone perfettamente compiaciute. Dev’essere terribilmente rassicurante essere così soddisfatti di sé.
Wyn non disse molto, si limitò a battermi affettuosamente sulla spalla, ma capii che quella borsa aveva un gran valore per lui. Guardò la casa piena di polvere, il vecchio tavolo di bambù spinto in un angolo, l’erba che non era più stata tagliata nel cortile, e disse: «Santo Dio, andiamocene da qui».
Sapevo che aveva ragione. Oh, come lo sapevo! Ma avevo bisogno di contraddire qualcuno. Inoltre era arrivato il nostro brutto momento, ma non volevo dirglielo o avrebbe pensato che era ciò che desiderava di più al mondo.
«Non posso» risposi. «È tutto per aria, e sto cercando di sistemare ogni cosa. Sto per partire».
«Aspetta un secondo. Ho qualcosa per te. Lascia che te la mostri». Mi portò alla Buick, dove c’era una valigetta con le mie iniziali; l’aveva comprata e riempita di tutto ciò di cui riteneva potessi aver bisogno. «C’è tutto» disse. «E quando dico tutto, intendo tutto».
«Che strana tutta questa nebbia in maggio» dissi. «Dammi un fazzoletto». Non c’è niente di meglio di un gran fazzoletto maschile quando si è giù. Ne conservo ancora uno dei suoi in un cassetto del comò.
Gli uomini sono talmente sentimentali che hanno quasi insegnato alle donne a essere sentimentali quanto loro.
Andammo in macchina fino alla spiaggia. Spero che sia catartico essere spietati con se stessi pensando al passato. Credo che allora ci ritenessimo non so quanto brillanti e intraprendenti, ad agire di nostra iniziativa. Mi sembrava che tutto fosse stato inventato per noi come la trama di una favola. O come in quel maledetto sogno in cui si cammina in un corteo col quale non si ha nulla a che vedere e si cerca di arrivare dove si vuole arrivare.
Un po’ fu anche a causa della stagione; era una di quelle prime giornate di primavera così belle e calde da dare l’impressione che tutto possa davvero mettersi a posto. Ricordi, Wyn? Sulla strada di Haddonfield dicesti che gli alberi sembravano colti di sorpresa, l’estate era arrivata senza lasciare loro il tempo di mettere le foglie. Come quella bambina, seduta sui gradini di casa, che si era dimenticata le mutandine. Wyn conosceva bene le strade attraverso la Jersey Pines e lungo il Mullica River; attraversammo luoghi che lui amava per i loro strani nomi. Avevamo creato anche delle filastrocche in proposito, ma ormai le ho dimenticate. Credo che fosse a Ship Bottom Beach che andò a nuotare mentre io rimasi seduta a guardarlo. Ricordo la sua tecnica superba di attraversare l’enorme onda verdastra un attimo prima che lo avvolgesse completamente. Dopodiché l’onda si sollevava e si apriva dietro di lui come una gonna a ruota nel vento, e mandava bagliori bianchi verso la sabbia come una sottoveste increspata. Tutti quelli che proclamano quelle sciocchezze sulla naturale bellezza femminile dovrebbero vedere Wyn che gioca con le onde. Uscì dall’acqua tutto lucente e mi portò una conchiglia, o qualcosa del genere. Era così semplice e dolce che credette davvero che non entravo in mare perché l’acqua era troppo fredda.
Una volta eravamo in gita alle Dune, vicino Chicago, e Molly mi chiese come mai sentissi tanto la nostalgia di casa. Mi misi quasi a urlare; dovetti spiegarle che mi ricordavano le spiagge del Jersey ma senza quell’odore di sale. È molto meglio quando i propri nervi non sono troppo scoperti.
Dopo l’odore del sale arrivava l’odore dei pini. Io ero quasi addormentata, perché avevo dovuto tenere gli occhi chiusi di fronte alle luci del tramonto. Se non ci si riesce a addormentare nel Jersey, non so proprio dove possa accadere. Wyn doveva aver guardato la carta geografica, perché mi parlò delle forme che avevamo osservato a Pocono e mi disse che il Jersey è una specie di braciere per la Pennsylvania. Fu l’ultima cosa che sentii prima di risvegliarmi; quando accadde, vidi che Wyn stava osservando un alberghetto, anch’esso addormentato in mezzo ai pini. Aveva preso una strada sconosciuta per non avere sempre il sole negli occhi ed era arrivato là. «Come abbiamo fatto a trovarlo?» dissi. «Che cosa intendi col tuo abbiamo?» ribatté lui.
Dopo di allora ho sempre dubitato dell’esistenza di quell’albergo. Non era ancora aperto ufficialmente, ma il proprietario e la moglie lo stavano preparando per la stagione estiva e naturalmente Wyn li convinse a ospitarci. Poteva convincere chiunque a fare qualsiasi cosa, dato che era intollerabile vederlo contrariato o deluso. «Tu» gli dissi una volta «riusciresti a vendere Fanny Hill33 alla Lega per la soppressione del vizio». «Oh, ma loro ne hanno già moltissime copie» mi rispose lui. Wyn aveva avuto la sua all’università, insieme a quel poema virile, Se, scritto da qualcuno di Princeton.
«Quello di cui abbiamo bisogno» mi annunciò «è un doppio whisky, una doppia porzione di uova al prosciutto e un letto doppio. Ma non dirlo a nessuno di Moorestown». Non so che cosa ci fosse di strano a Moorestown, forse Wyn aveva dei parenti particolarmente sensibili verso la Main Line.
Fu tutto così perfetto da sembrare irreale. Il tramonto era tagliato a fette dai pini, e c’era un cane come Pastafrolla che, accucciato sulla sabbia, vi disegnava sopra un ventaglio agitando la coda. Eravamo soli soli, io e Wyn, e quando cominciò a far freddo accesero un gran fuoco per noi. Wyn disse che la Burlington County doveva avere dei liquori eccellenti, perché gli agenti del fisco si perdevano spesso nella pineta e non trovavano più la via del ritorno. Il proprietario finse per un po’ di non capire che cosa volessimo quando parlammo di whisky, ma dopo che Wyn ebbe fatto i nomi giusti tutto andò a posto.
Il sole, la stanchezza, i guai di Griscom Street, l’essere innamorata, il sentirmi poco bene e il tocco finale del whisky mi avevano quasi drogata. Mi sentivo come qualcuno che stia camminando nel sogno di un altro.
«Questo non conta» dissi.
«Sta cominciando a darmi alla testa» rispose Wyn.
«Non parlo del liquore. Parlo di questo posto. Mi sembra di vivere fuori dalla realtà, con le dita perennemente incrociate. È un posto, questo, dove ti sembra di poter fare qualunque cosa senza correre il minimo rischio».
«Benissimo, lo chiameremo la Locanda delle Dita Incrociate».
Eravamo così felici che ci addormentammo tutti e due davanti al fuoco. Avrei dato non so cosa per rimanere così fino al mattino, ma il proprietario, che ci riservava le più tenere attenzioni, ci svegliò e ci mandò a letto al primo piano.
«Wyn, povero caro, c’è una cosa che non ti ho detto».
Il giorno dopo, le dita dovevano essersi incrociate nel verso opposto. Non era colpa di nessuno, no? Ebbi la stranissima sensazione, mentre correvamo sulla via del ritorno, che Wyn parlasse come sotto dettatura. Disse che aveva bisogno di farsi una cultura, e che intendeva dedicarsi a una serie di buone letture. Riteneva che la gente fosse più sconvolta del necessario per l’attuale collasso economico perché non conosceva abbastanza la storia. Non sapevano che quasi ogni periodo storico è trascorso sull’orlo del collasso. Disse inoltre che il vecchio signor Kennett gli aveva rimproverato la sua ignoranza.
«A proposito» aggiunse, e proprio dal tono di quell’“a proposito” capii che c’era qualcosa nell’aria «ci ha invitato a colazione, tutti e due».
«Ma Wyn, io sto per partire per New York. Ho già preso accordi con Delphine per lavorare con lei. Ho già fatto le valigie e tutto il resto».
Povero Wyn. Dio lo protegga, doveva essere nervoso almeno quanto me. Sembrava pensare che l’idea di Delphine fosse sciocca, e che avrei potuto scartarla in un soffio. Disse che avrei potuto stare con la sua famiglia per un po’ e pensarci su.
Dopo tutti i miei sforzi, dopo la morte del mio caro papino, dopo lo smantellamento di casa mia e dopo che mi ero preparata a partire e a lottare per la vita. Ovviamente mi arrabbiai.
«Senti, ora ti spiego tutto» riprese Wyn. «Lo zio Kennett ha avuto un’idea magnifica, e voleva esportela lui stesso. Dice che sei proprio la ragazza che ci vuole per me, Kitty, la ragazza di cui la mia famiglia ha bisogno; ecco perché vuole rimandarti all’università per un anno, e poi forse all’estero per un altro anno. Nel frattempo cercherei di farmi anch’io un po’ di cultura e di prepararmi per te».
Ah, santo Dio, non so esattamente come tu l’abbia detto, Wyn, ma è stato pressappoco così. Mio povero bimbo, come potevi sapere l’effetto che mi avrebbe fatto? Forse quel bravo e gentile signore, col suo forbito modo di parlare alla quacchera, avrebbe potuto convincermi; non lo so. Ebbi la visione di una specie di consiglio di famiglia, con gli Strafford e i loro consiglieri che studiavano disperatamente come togliere la maledizione da Kitty Foyle. Proprio così, era loro intenzione comprare alla ragazza un’educazione, mondarla dalle impurità di Frankford, metterla in condizione di vivere in mezzo alle teste di animali e agli articoli mondani sul Ledger. Mi sembra ancora di vedere la tua espressione, povero caro, quando ti aggredii con la mia risposta. La gola mi bruciava, sai, e anche gli orli delle orecchie.
«Puoi dire al caro zio Ken che non mi presto alla sua tratta delle bianche. Ascoltami bene, signor Wyn Strafford, io sarò la tua amante tutte le volte che vorrò, perché sono innamorata di te fino alla punta dei capelli. Ma non vorrei imparentarmi con la tua famigliola neppure se tutti i vecchi quaccheri del mondo con tutte le loro calcolatrici mi pregassero in ginocchio. Neppure se ritornassero tutti a scuola a farsi una cultura. Così hanno cercato di convincerti della necessità di rimaneggiare Kitty, in modo che possa andare all’Assembly senza far sfigurare l’“antica famiglia di Philadelphia”, eh? Ritagliarla da un numero di Vogue, fornirle un conto in banca e fare di lei una bambolina della Main Line. No, niente da fare con Kitty Foyle! Santo Dio, ecco che cosa sono, loro, sono solo un mucchio di bambole di carta!».
Ricordi? Fermasti la macchina proprio un istante prima che ci scontrassimo contro un albero. Forse sarebbe stato meglio se fosse andata così. Mi guardasti senza dire nulla e cercasti di accendere una sigaretta, ma la mano ti tremava. Eri così sconvolto che buttasti via l’accendisigari come fosse un fiammifero. Mi piacevi tanto, specialmente perché non ti eri fatto la barba. In seguito ho pensato che il vecchio sarebbe saltato nella tomba se avesse sentito una frase simile. Sentendo le lacrime avanzare, come quelle onde in cui amavi tanto tuffarti, dovetti parlare molto velocemente per riuscire a dire: «Perdio, io ti migliorerò quanto vorrò, ma tu non potrai mai migliorare me!».