Mi viene da ridere quando ripenso a che solenne piccola canaglia era Kitty Foyle quando arrivò a N.Y. e prese una stanza al Pocahontas, albergo per signore. È uno strano nome, Pocahontas, ma è così che si chiamava quella pensione economica per sole donne nel West Side. Il motivo per cui si prendono tanto sul serio i propri pensieri, a quell’età, è perché si ignora sinceramente che miliardi di altre persone li abbiano già avuti prima.
Sono convinta di essermi sentita molto sola e infelice, e tuttavia non è questo che mi suggerisce la memoria. Faceva un gran caldo, l’unica persona che conoscevo in città era Delphine e vivere in una pensione di sole donne è terribile per il morale. Una nevrosi per stanza. Le vedo ancora, in sala da pranzo, povere diavole, nutrirsi due volte alla settimana di crocchette di pollo e di quei pisellini durissimi, così grinzosi da non voler scivolare giù per la gola. Non c’erano uomini neppure come camerieri, a ricordar loro com’era fatto un paio di pantaloni. Si definivano “scapole”, ma uno scapolo lo è di proposito. Una sera in cui faceva un caldo tremendo, una di loro dovette uscire di senno perché si mise a gridare dalla finestra: «C’è un uomo nella mia stanza!». So che cosa direbbe Mark Eisen dal punto di vista psicologico, ma sta di fatto che tutta la pensione fu messa sottosopra. Direttrici e portinaie scorrazzavano per i corridoi, e non c’era chi non dicesse d’averlo visto, il sinistro individuo. Naturalmente, non si trattava di altro se non di ciò che Wyn era solito leggere in certe poesie, il pallido fantasma del desiderio.
Certo, fu per me un gran cambiamento. Fuggii da quella pensione appena ebbi i mezzi per farlo, ma non potrei poi dirne così male. Mi fece rendere conto di tutte le cose che avevo avuto in passato: una casa calda e accogliente fino ai vent’anni, studi, amore, molta allegria e un lavoro. Studiai un po’ di francese da autodidatta perché mi era utile nel mio lavoro con Delphine, e ogni settimana scrivevo a Molly una lunga lettera-diario. Restai sempre nel West Side perché mi sembrava di essere più vicina a Philadelphia. Lavorare con Delphine non contribuì a guarirmi dal mio snobismo, perché tutti i suoi prodotti si rivolgevano ai ceti più raffinati. Allora non me ne resi conto, ma è comico constatare come dopo essermi sottratta all’idea della Main Line mi ritrovai a lavorare proprio per gente come loro.
Molly s’interessò molto al mio salto nel buio; naturalmente non ne conosceva i particolari. Delphine non era una sciocca; la sua attività aveva solo un paio d’anni ed era in rosso, ma c’erano anche dei segnali positivi. Aveva avuto la bravura di restringere lo smercio dei suoi prodotti a una cerchia scelta, così da dare veramente la sensazione di condividere il “segreto degli Champs-Élysées” e il “profumo di Parigi”. Era qualcosa di troppo raffinato per delle volgari pubblicità; quale gran dama commercializzerebbe i misteri del suo boudoir? Inoltre, quel tipo di pubblicità costava caro. Cominciai con 20 dollari alla settimana, ma avevo una piccola riserva su cui contare perché Mac, nell’attingere al libretto di papà per le spese della malattia e del funerale, aveva fatto saltar fuori 200 dollari per me.
Non avevo molto tempo a disposizione per lamentarmi nella mia camera al Falansterio Femminile, come lo chiamava Delphine, perché ogni giorno dopo il lavoro facevo una passeggiata fin nella zona Marguery-Maillard per vedere che cosa indossassero le signore eleganti. Avrei voluto avvicinarmi fino a sentire i loro profumi: sarebbe stato molto utile alla nostra casa. Delphine ne fu compiaciuta quando glielo dissi. «Ma il suo giovanotto» osservò «incaricate lui di questo». Naturalmente le avevo parlato di Wyn e di come stesse superando il colpo subito. Non c’era nulla che avrei nascosto a Delphine. Ci restavo sempre male quando interrompeva la sua dettatura a me per continuarla al dittafono, perché quando me ne stavo seduta accanto a lei era una gioia studiare i particolari del suo abbigliamento e respirare l’Olympia. Anche lei mi osservava, lo sentivo. Stavamo organizzando la nostra prima campagna di lancio dell’Olympia e preparavamo bozze delle nostre circolari, dei foglietti pubblicitari e così via. Credo che sia stato per via dell’odore dell’inchiostro ancora fresco che proposi che tutti i nostri volantini e le nostre circolari fossero profumati all’Olympia.
Lei mi guardò con quei suoi grandi occhi color prugna. Mi prendeva sempre in giro per i miei occhi azzurri e i miei capelli neri, diceva che erano il tocco della belle sauvage. «Keety, lei mi stupisce sempre. Lei è la prima occhi-azzurri che abbia conosciuto che abbia anche un cervello. Vediamo un po’. È un’idea superba. Non va bene per l’Olympia, che si dissolve troppo rapidamente. È proprio il punto della nostra campagna, la sua evanescenza. L’Olympia è il profumo di quando hai già in tasca il tuo uomo, di quando sei sicura di lui e non devi nausearlo. Ma invece il Cinq-à-Sept, ecco il profumo che ci vuole per la sua idea! Un profumo aspro e forte, che evoca la necessità di restare in sella. Keety» lei lo pronunciava così «lei è nata per questo lavoro. Sul treno per Chicago mi ero accorta di come aveva notato il mio trucco e le sfumature di colore. Faccia però molta attenzione a non usare troppo rossetto. Non distragga l’attenzione dai suoi occhi. È un bene che abiti nel West Side, può sempre vedere ciò che si deve evitare. È così che comincia la religione della bellezza, con i comandamenti su quello che non si deve fare».
«Perché non facciamo una lista dei Dieci Comandamenti per la religione della bellezza?». Santo Dio, credevo di aver avuto chissà che idea.
«No, Keety, questo scandalizzerebbe il pubblico. Ma la farò per lei, se vuole, una lista per uso privato».
Delphine mi riempiva di lavoro, ma io non smettevo di amarlo. Se dovevo trattenermi dopo le sei mi dava un dollaro per cenare, e per me era già un capitale. Ovviamente stava cercando di capire se avessi la stoffa; mi è capitato di fare lo stesso con altre persone, in seguito, e di norma non ne avevano. La prima cosa che cercavo di capire era quanto fossero intelligenti. Delphine sapeva parlare un perfetto inglese, quando voleva, ma si serviva di una specie di gergo semifrancese per il linguaggio commerciale, perché sapeva che era di grande effetto. Dovetti imparare anch’io a scrivere come se stessi traducendo dal francese. Mi fece avere una macchina da scrivere e libri pieni di frasi idiomatiche francesi perché potessi fare pratica. «Keety» mi diceva «lei ha l’orecchio istruito. Per orecchio istruito intendo sapere come suonerà una data frase alla persona che la leggerà e il sapersi regolare di conseguenza. Legga questa lettera per il signor Fargo, di Palmer. È troppo altisonante?».
«Ho un’amica che lavora da Palmer» dissi «nel reparto arredi. Perché non le spediamo un po’ di bustine e di acqua di Colonia e di Olympia, potrebbe lasciarli cadere nel reparto cosmetici e far sì che il signor Fargo ci si imbatta per caso».
«No, Keety. Sono certa che la sua amica sia una ragazza adorabile, ma voglio che il signor Fargo lo incontri in un salotto elegante, o all’Opera».
Non si poteva mai vincere contro di lei; aveva sempre la reazione più giusta. Quando capii quanto fossero stupide tutte quelle cose, le amavo già troppo per preoccuparmene.
Ma avevo anche i miei momenti terribili. Quel nudo, l’Olympia, era appeso dietro la scrivania di Delphine come una specie di portafortuna e suggeriva anche una specie di nota fastidiosa nel profumo. Per una donna talmente sicura di sé da far venire voglia, all’uomo, di combattere. Ma non potevo evitare di prenderla sul personale, quella donna distesa, che non indossava niente a parte delle scarpette e un nastrino intorno al collo, come è normale nella calda stanzetta di un bordello. La vecchia domestica con i fiori in mano era così simile a Myrtle! La donna sembrava così soddisfatta, col suo mento appuntito e la bocca serrata, da non aver bisogno di prestare la minima attenzione al mazzo di fiori, come a dire “Che senso ha occuparsi dei fiori, io ho un profumo migliore”. Quando Wyn fu cotto a puntino, volle fare dei disegni. Una volta voleva fare uno schizzo di me nella posa dell’Olympia, ma non sapeva come convincere Myrtle senza farla imbarazzare.
Quel quadro mi agitava parecchio, prima che mi ci abituassi. Era dura, ad esempio, dopo una giornata di lavoro dalle nove alle sei di sera, uscire nella gran luce estiva e vedere Giono dall’altra parte della strada. Wyn mi scrisse alcune lettere strappacuore, e più di una volta il ricordo di ciò che gli avevo detto mi rese profondamente infelice. Non era stata colpa sua, povero ragazzo. Ero così depressa che presi l’abitudine di leggere la posta del cuore sui giornali della sera. Mi consolavo pensando che non ero disperata come alcune di quelle povere donne. I giornali del pomeriggio scrivono quello che scrivono e la fanno franca perché la mente delle persone è comunque cotta, la sera. Con tutto quello che gli è piombato addosso dalla colazione in poi, accetterebbero qualsiasi cosa. Oppure si accende la radio, e si ascolta il mondo che pensa ad alta voce, cosa che equivale a non pensare affatto, ma solo a un balbettio.
La cosa più bella che accadde e che mi salvò dal baratro fu l’arrivo di Wyn. Quell’anno il Quattro Luglio cadeva di venerdì e così c’era un lungo weekend libero, ed era l’unica vacanza che avevo visto che avevo appena iniziato a lavorare. Mac e Martha avrebbero voluto che la passassi con loro, volevano portare il bambino in macchina fino al Delaware Water Gap, ma io non me la sentivo. Nel pomeriggio del giovedì stavo ricopiando dal dittafono alcune lettere di Delphine, e mi dicevo che se avessimo avuto un dittafono nella redazione del Philly avrei potuto conservare uno dei cilindri delle dettature di Wyn per sentire la sua voce ogni tanto. Quella povera svampita di Sanka, l’impiegata della reception, avvertì che c’era un signore che voleva parlare a madam. Alla fine dovemmo licenziarla, per non aver mai saputo distinguere la differenza fra il comunissimo madam inglese e il raffinato ed esotico madame francese. Uscii nell’anticamera per mandarlo via, dato che Delphine stava per partire, e davanti a me c’era Wyn.
Delphine, appena lo vide, si trasformò nella gran dama che sapeva essere quando voleva. Se c’è una cosa che sa cogliere al primo sguardo è la classe, e dopo i primi cinque minuti gli aveva fatto portare le sue valigie fino al taxi e mi aveva salutato con una gran strizzata d’occhi tutta francese, che era un miscuglio di “divertiti” e “giudizio”. Mi mormorò all’orecchio, inoltre, che un po’ di Olympia sarebbe stato molto opportuno, cosa che non aveva mai fatto prima, perché non voleva che quel profumo si associasse alle ragazze lavoratrici. Ce n’era un flacone nella cassaforte del laboratorio, e lei dovette dirmi la combinazione. Fu il più bel gesto di Delphine, e mi fece sentire una regina.
Delphine era orgogliosa della sua saletta d’ingresso, che era stata realizzata come una toilette di gran lusso, con tavolino, faretti, e tutti i prodotti disposti in modo da dare lo stesso senso d’intimità di un boudoir francese; naturalmente era pieno di specchi. Inoltre, c’era una vetrinetta di cristallo attraverso la quale Delphine poteva intravedere, direttamente dalla sua scrivania nell’altra stanza, la persona che si trovava nella saletta mentre si avvicinava alla finestra per presentarsi a quella svampita di Sanka. In seguito mi disse di aver notato subito che Wyn era un uomo di classe, perché non si accorse neppure di tutti gli specchi che lo circondavano. Povero caro! Come se gli uomini della Main Line avessero bisogno di specchi per sapere di essere impeccabili. Sarei curiosa di vedere Mark Eisen da solo con uno specchio.
Wyn disse che mi avrebbe aspettato da Giono mentre finivo il mio lavoro. Appena riuscimmo a scambiarci uno sguardo come si deve, ci accorgemmo che le cose non erano poi così brutte come credevamo. Era diretto a Rhode Island, ma non intendeva più arrivarci tanto presto.
Fu meraviglioso; invece di assumere il tono piagnucoloso e lo sguardo da cane bastonato si mostrò allegro, e iniziammo subito a divertirci. Non avevo più bevuto un goccio di liquore dal giorno della Locanda delle Dita Incrociate, e credo che ne avessi proprio bisogno. Gli dissi tutto quello che sapevo della Delphine Detaille Inc., che non era molto allora, e lui ammise che doveva essere più piacevole di un lavoro in banca. «Se il profumo che hai ora è l’Olympia, mi piacerebbe conoscerlo meglio». «Allora devi sbrigarti, giovanotto, tutta la nostra campagna di lancio è basata sul fatto che un profumo deve svanire nello stesso istante in cui lo si apprezza, che deve essere evanescente».
«Di cose del genere ne abbiamo avute anche troppe» disse.
«Vedrò di fartene avere un flaconcino di straforo, così potrai spruzzarlo su quegli adorabili seni a Bailey’s Beach».
«Ma bimba, quelli non sono seni, quelli sono le White Mountains. Ma parlami del tuo rossetto. Non ho mai visto quella tinta».
«Si chiama Ta Bouche. Lo lanceremo sul mercato quest’inverno per le crociere nel Mediterraneo».
«È a prova di baci?».
«Nessun rossetto lo è, se ci si lascia andare. Credevo che lo sapessi».
Ci aiutammo a vicenda a superare quello scoglio scherzando un po’, e le cose presero una piega così piacevole che quasi dimenticammo quanto scabroso e tagliente fosse stato lo scoglio. L’ultima cosa che mi concedo di ricordare fu la nostra capatina ai telegrafi della Western Union, perché Wyn potesse comunicare a Rhode Island che non sarebbe arrivato in tempo per la gara del Quattro Luglio. «Parry Berwyn è già lì» disse «e sarà straordinariamente solleticato all’idea di prendere il mio posto. D’altra parte, le mie mani sono troppo delicate per la corsa, con tutto il lavoro d’amanuense che faccio in banca».
«Ma come, Wyn caro, tu corri con le mani?».
«Kitty, sei deliziosa».
Ci furono altre volte, dopo che Wyn tornò da Rhode Island, in cui mi telegrafava da Philly, e io uscivo dall’ufficio alle cinque e mezzo e andavo ad aspettarlo nel locale italiano dall’altro lato della strada. Mi sedevo su un angolo del grande divano di pelle rossa e mi gingillavo con un tè ghiacciato, quello che Giono chiamava un drink proibizionista. Il piccolo corridoio in penombra portava direttamente sulla strada. Nei giorni estivi la porta principale restava spalancata, benché, naturalmente, la griglia di ferro restasse chiusa per tenere lontani i ladri. Bisognava suonare un campanello speciale che sembrava collegato con un appartamento al primo piano, e c’era persino una targhetta con un nome, “M.A. Kenealy”, un signore immaginario. Giono aveva inventato quel nome e ne era fiero; quanto all’M.A., stava per Marcantonio. A ogni modo, si suonava tre volte al signor Kenealy, un campanello rispondeva discretamente da dietro il bar e Giono sapeva che eri a posto.
In quei tardi tramonti, la gente correva a casa in gran fretta sui marciapiedi, nel gran bagliore di luce obliqua che inonda la città all’ora dell’uscita dal lavoro. E non c’è luce al mondo che possa fare più male di quando si esce dall’ufficio e non si sa proprio dove andare. Dall’angolo di quel divano si poteva vedere la gente passare, come bambole di carta ritagliate in nero. Wyn era un po’ in ritardo, e ogni figura che passava mi faceva sussultare. Se qualcuno si avviava verso l’ingresso, allora il mio cuore si fermava come in quella canzone, My Heart Stood Still.
Le sbarre di quella griglia di ferro erano nere contro la luce dorata, e la gente fuori sembrava camminare nella pura luce. Come degli dei, pensavo. Forse ognuno di loro era una divinità per qualcuno; lo speravo. E K. Foyle se ne stava seduta in quell’angolo buio guardando un lampeggiare di cose di cui non poteva sapere nulla e che non poteva neppure capire. Tutto ciò mi provocava quella che nel nostro linguaggio chiamavamo la S.M., e cioè la Stretta Mortale.
Wyn arrivò qualche minuto dopo le sei.
«Hai provato la S.M., tesoro mio?».
«Ne ho una superproduzione, di S.M. Ne ho il magazzino pieno e il mercato è già saturo».
«Ce ne occuperemo tra poco. Stavolta ho avuto la S.M. all’incirca da Metuchen».
«Avrebbe dovuto venirti prima».
«Hai ragione» disse. «Ma ho dato un’occhiata a Princeton e mi sono entrate un sacco di idee banali in testa, e sono potuto tornare a noi solo dopo un paio di fermate».
Sapevamo che non bisognava scherzare con la S.M. Non si poteva far finta di niente, o riconoscerlo in anticipo, o fare qualcosa una volta che se ne veniva colpiti. A volte rendeva felici e altre volte era insopportabile.
Ma appena Wyn arrivava, tutto tornava a posto. Giona era così lusingato che Wyn venisse apposta da Philadelphia per bere nel suo locale che si affrettava a tirar fuori la sua riserva speciale. Wyn fingeva che non ci fosse un posto a Philly dove si potesse bere veramente bene, e diceva d’essere costretto a venire fino alla West 40th per un bicchierino di autentico McKay.
Voglio indugiare ancora su questi ricordi: mi aiuta a non pensare a ciò a cui invece dovrei pensare.
Wyn prese il treno delle quattro da Broad Street finché non si rese conto che molti dei suoi amici prendevano lo stesso treno quando volevano trascorrere una serata in città, e che diventava molto difficile liberarsene. Allora passò al treno da Washington che passa per West Philly, una vecchia ferraglia che s’insinua dentro New York tramite un tunnel. A Wyn quel treno non era mai piaciuto perché ci si incontrava troppa gente vestita male, uomini politici con le ghette nere, quelle che loro chiamavano ghette del Congresso, e alcuni tremendi capi socialisti bisognosi di un parrucchiere. Come tutti quelli della Main Line, Wyn pensava che un treno come si deve dovesse partire dalla stazione di Broad Street, oppure tanto valeva che se ne restasse fermo su un binario morto. Inoltre, quel treno da Washington faceva sempre un po’ di ritardo, e Wyn non riusciva a essere da Giono prima delle sei e mezza.
Come scintillava quel taxi giallo, nella luce del tramonto, fermandosi sull’orlo del marciapiede! Da dove ero seduta, riuscivo a vedere la parte anteriore del cofano. Una volta Wyn trasformò non so quale celebre poesia in questo modo:
Dalla polvere di una lunga giornata sbuca il treno della Pennsylvania
e alla Quarantesima Sbronza Ovest vola sulla splendente auto dorata.
La S.M. era diventata così acuta che smisi di andare da Giono in anticipo. A Wyn piaceva trovarmi già lì, ma una ragazza ha bisogno di fare la sua entrata in scena. Talvolta riuscivo a fissare un appuntamento con Nicolai alle cinque, cosa che permetteva a Wyn di bere il suo primo tè ghiacciato prima del mio arrivo. Nicolai dice sempre che i miei capelli appartengono al tipo di chioma che non tollera alcuna fretta, ma credo che lo dica a tutte le clienti. Il parrucchiere, però, è sempre il posto più adatto per dimenticare la S.M. Riempie la testa di pensieri vagamente mondani e, cosa ancora più importante, quando imparano a conoscervi i parrucchieri mostrano di avere un grande intuito per i sentimenti femminili. Nicolai ha una specie di sesto senso, e capisce quando ci si sta preparando per un appuntamento speciale. Forse percepisce attraverso il cuoio capelluto se si tratta di un appuntamento d’affari o se si è in agitazione per qualcosa di più.
«Cerchi di non sbattere la testa contro un muro» mi disse una volta.
Una donna è sempre lucida quando è dal parrucchiere, ma la cosa a volte non dura se ci si ritrova in un angolo ad aspettare.
È la dipendenza a renderci così indifese.
Accidenti, è dura riconoscere il modo storto in cui le cose vanno realmente. Stavo pensando a quella stupida, Sanka, che lavorava al centralino. Ho dimenticato il suo vero nome, ma Pearl Velour la chiamava così perché non era in grado di tenere sveglio nessuno, nemmeno se stessa34. Quello che mi accadde probabilmente fu colpa sua, ma chiuderò un occhio su questa cosa. La sotterrerò sotto un paio di clave da giocoleria o sotto il cattivo odore delle trincee francesi.
Monsieur Detaille era l’uomo del mistero, in ufficio. Era il chimico, non parlava quasi mai, se ne stava sempre chiuso nel suo piccolo laboratorio. È strano come ci siano delle cose che di per sé hanno così poco profumo e che poi diventino dolci come l’Olympia quando vengono mischiate. Sarebbe più economico avere il laboratorio da qualche altra parte, con un affitto minore, ma lui e Delphine amano confabulare, di tanto in tanto, alla maniera tipica dei francesi. Monsieur Detaille era quasi completamente sordo a causa della guerra, quella che a casa chiamavamo “la guerra di Ed”. Ed diceva: «Era la mia guerra, e ci tengo». Un altro particolare: sembra che ci fosse un tale fetore nelle trincee che Monsieur si era ripromesso: “Perdio, se mai riuscirò a scappare di qua, lavorerò solo nei profumi”. Credo che abbia cercato e cercato qualcuno che sapesse veramente di buono e finalmente abbia trovato Delphine. Era nata così la Delphine Detaille.
Monsieur non era solo un chimico; Delphine mi raccontò che da giovane era stato un esperto ginnasta. I francesi erano appassionatissimi di clave da giocoleria a quei tempi, perché permetteva loro di fare della ginnastica senza dover uscire all’aria aperta. Monsieur Detaille aveva delle medaglie per essere stato campione di non so quale dipartimento francese. In ogni caso, quando si stufava del laboratorio, entrava nel nostro piccolo magazzino, dove si svagava per una decina di minuti con delle clave d’ebano intarsiate di madreperla. Era da matti e nello stesso tempo straordinario il modo in cui faceva roteare quelle cose: un solo attimo di distrazione e avrebbe distrutto tutta la nostra riserva di Élixir Plastique e di Cinq-à-Sept.
Ed è qui che entra in scena Sanka. Monsieur veniva, una volta ogni tanto, chiamato al telefono. Non accadeva spesso, perché era Delphine che gestiva tutta l’azienda, ma ogni tanto c’era da controllare il loro uomo di fiducia allo stabilimento, l’unica persona, oltre loro, che sapesse qualcosa di chimica, e in queste occasioni parlavano sempre un francese rapido e ritmato come il tiro di una mitragliatrice. Il signor Detaille si stava svagando tra le sue clave rotanti quando fu chiamato al telefono. Quella povera svampita di Sanka cercò di attrarre la sua attenzione, ma lui le voltava le spalle e non la sentì. Lei allora s’insinuò sotto le mazze per picchiettarlo, proprio mentre Detaille stava eseguendo una doppia bézique, e Sanka prese un colpo terribile in testa e cadde a terra, svenuta. Dovette restare all’ospedale per parecchi giorni, e dopo quell’episodio divenne ancora più svampita. Delphine però non poté licenziarla subito, per paura che le facesse causa.
A ogni modo, fu proprio l’idiozia della povera Sanka che le fece dimenticare di comunicarmi il messaggio di Wyn. Non sapevo che stesse per arrivare e non feci alcun preparativo. Avevo avuto il mio primo aumento, e dal 1° ottobre avevo abbandonato il Falansterio Femminile per sistemarmi in una camera tutta mia.
Ricordi, Wyn, era Halloween. Un’altra di quelle strane coincidenze: eravamo da Giono, e dopo aver avvicinato il naso al lobo del mio orecchio ti venne in mente un liquore italiano che non bevevi da moltissimo tempo. Mi pare che ci fosse una specie di albero di zucchero all’interno della bottiglia, anche se non ne sono sicura; era un liquore giallastro, e Giono disse: «Sì, ho capito, è lo Strega che vuole». «Perché lo chiama Strega?» chiesi. «Vede» mi spiegò Giono «c’è l’immagine di una strega sull’etichetta della bottiglia». Era vero: si vedeva una vecchia su un manico di scopa, con un gran contorno di civette e di gatti neri e tutto il resto.
Santo Dio, ci sembrò una bevuta di buon augurio per Halloween. Nessuno chiedeva più uno Strega da così tanto tempo che il tappo si era incrostato di zucchero nella bottiglia. Giono fu così contento che gli fosse stato chiesto quel liquore che volle berne un bicchierino anche lui. E a nostra volta ne fummo così contenti che ne bevemmo ancora e ancora, sopra gli altri drink.
Forse è un buon alibi; le clave e quella svampita di Sanka, quella svampita della strega e quella svampita di K. Foyle. Tutto va al proprio posto così bene che forse non sarebbe potuto andare diversamente. Come ridevamo, ricordi, quando sbucammo in Times Square e ti venne l’idea, nella metropolitana, di fare quella che chiamavamo “sociologia”. L’Upper West Side era sempre una sorpresa per te, perché dicevi che non ci sarebbe mai stato niente di simile a Philly. Nella metropolitana, vedendo la scritta della fermata “Times Sq.” dicemmo ch’era times skew, che è proprio come sono i tempi al giorno d’oggi, distorti.
Non si possono sempre prendere delle precauzioni, non sarebbe umano. Forse sono addirittura fiera che non le abbiamo prese.