I ricci rimangono incastrati nell’apertura dei barattoli di McFlurry che i più sconsiderati gettano per strada. Gli animali attirati dai resti di gelato alla vaniglia non riescono più a tirare fuori la testa dal contenitore di plastica e muoiono di fame. Per cinque anni la Società inglese per la protezione del riccio ha combattuto contro queste trappole mortali e finalmente McDonald’s l’ha ascoltata. L’impresa cambierà la forma dei barattoli del gelato. In futuro l’apertura sarà più piccola. Ci passerà soltanto un cucchiaio, mai più la testa di un riccio.
Micol, una deliziosa ed eccentrica creatura piena di talento, non era riuscita a concludere nient’altro nella vita che un buon matrimonio con un uomo all’apparenza mite. Era davvero carina – se piace il tipo sempre spettinato – e consola sapere che lo sarebbe rimasta a lungo. Il fatto che non fosse riuscita a realizzare niente sembrava provare che era stata troppo vigliacca per mettere davvero in gioco la propria intelligenza e la propria musicalità. Eppure non veniva da una famiglia benestante come forse si potrebbe pensare, non da uno di quegli ambienti di ricconi che elogiano divertiti gli sforzi professionali del tutto superflui dei loro figli considerandoli forza di carattere. Ciò che tuttavia Micol possedeva in abbondanza era l’ignoranza della maggior parte delle costrizioni, soprattutto di quelle economiche. Per tanto tempo, molti erano stati pronti a scommettere che sarebbe andata ad abitare con un genio povero in canna, non importa di quale settore, in un buco umido di Parigi o di New York e che lì avrebbe avuto un paio di insopportabili bambini saccenti che avrebbe lasciato diventare con amore e disattenzione dei piccoli selvaggi. Incerto era solo quanto tempo avrebbe resistito.
Ma Micol evitò di impegnarsi. Si tenne aperte tutte le possibilità fino a quando cominciarono a svanire da sole. Quando giunse alla soglia dei quaranta – e un sospiro civettuolo e contrariato la circondò come un’aura per mesi – con sorpresa degli amici artisti scelse quel Thomas von Oheimb che quasi sempre sorrideva beffardo e le garantiva di poter continuare a vivere senza un preciso obiettivo: con lui Micol non aveva bisogno di avere un domicilio fisso, poteva continuare a lasciarsi trasportare dalle lune, dare e fare dei corsi, viaggiare, scrivere articoli brillanti, imparare a suonare insoliti strumenti e a parlare lingue lontane. In questo modo irrequieto, Micol sembrava aver evitato le solite ferite, quelle cicatrici che ti fanno diventare più saggio e più duro. E quindi, quando senza preavviso qualcosa la toccava nei punti più intimi e dolenti, si sentiva inerme e s’infuriava.
Al tempo in cui si svolge questa storia, in realtà avrebbe potuto essere soddisfatta come una gatta con la pancia piena. Aveva aiutato una sua amica a fondare un festival musicale e a questo scopo aveva attivato tutte le conoscenze disponibili, soprattutto quelle del marito. Aveva affascinato gli sponsor e messo in moto giornalisti, era addirittura andata in una tipografia e, divertita dall’aria professionale che era riuscita ad assumere lì dentro, aveva sorvegliato di persona la stampa del programma. Sembrava avere un lavoro retribuito come non le succedeva da tanto tempo. Naturalmente la faccenda non le aveva reso quasi un quattrino – al contrario, Micol si era portata all’incontro con la stampa il proprio champagne, anzi quello pagato con i soldi di Thomas – ma una confortante porzione di autostima. Quando lo voleva sul serio, quando c’era in ballo qualcosa di sensato, allora Micol era senza dubbio in grado di realizzarlo. Anche se allo stesso tempo rabbrividiva al pensiero di fare una vita del genere tutti i giorni, per esempio di bussare di porta in porta, meglio se di design, in qualità di manager culturale in tailleur color salmone. Vedrai, disse Micol alla sua amica Alida Horácková – che per quanto riguardava le questioni di denaro e di organizzazione era un’incapace, ma che come violoncellista aveva un gran talento – tra quattro anni al più tardi sarete tra i migliori cinque festival di nuovi talenti a livello mondiale. Che una frase così ambiziosa potesse suonare alle orecchie della pavida protetta quasi come una minaccia, trascendeva la sensibilità di Micol.
Dopo la conclusione di questo estenuante megaprogetto, era ovvio che Micol tormentasse Thomas pretendendo di fare una vacanza. Da un lato lui non aveva mai tempo, cosa che per lo più le sfuggiva, perché Micol detestava stare appiccicata al marito tutti i giorni. Soprattutto non voleva essere osservata durante le giornate più nere quando non riusciva ad alzarsi dal letto perché la notte aveva bevuto parecchio in diversi bar, fumato e si era appartata con degli sconosciuti che per fortuna non ricordava quasi mai.
Ma d’altra parte, infantile e cocciuta, aveva bisogno della garanzia che il marito non fosse così irriguardoso da rifiutare di esaudire un desiderio che lei sentiva come un’emergenza. E per questo Thomas spostò una riunione del consiglio di amministrazione e si fece consigliare un hotel sulla costa ligure che si avvicinasse alle contraddittorie aspettative di Micol. L’hotel perfetto non doveva essere né pacchiano né caro in un modo assurdo, doveva essere familiare, autentico e tuttavia lussuoso. Un posticino conosciuto da pochi, appunto. I fronzoli alla moda del design internazionale potevano guastarle l’umore. Ma c’erano anche delle notti in cui era di fondamentale importanza poter ottenere alle due del mattino, senza tante storie, una bottiglia ghiacciata di Crémant, che la vasca da bagno avesse la forma di una botte di vino oppure no.
Adesso sedevano sulla terrazza circondata da oleandri nella salutare aria del mattino e conversavano con una certa intensità su un brutto divorzio nella cerchia dei loro conoscenti. L’uomo conduceva un’azione legale contro quella che era ancora la moglie perché sosteneva che avesse distrutto dei documenti riguardanti i suoi affari per danneggiarlo. Micol era convinta che se lo fosse inventato di sana pianta per pagare il meno possibile di alimenti. Thomas a sua volta non voleva credere che si potesse mentire così davanti a un giudice.
Ingenuo come sei, disse Micol, qualche volta mi domando come fai a dirigere delle aziende senza farti imbrogliare a ogni passo.
Perché mi rifiuto di soddisfare le quote rosa, disse Thomas affrontando un croissant con il coltello. Micol aggrottò la fronte.
Io credo che sia andata così, disse infine: lui ha rimuginato su cosa poteva rinfacciare alla moglie. Se potesse, distruggerebbe pure le mie pratiche, ha pensato prima di addormentarsi e la mattina dopo l’ha ritenuto un fatto. Nel frattempo se ne è convinto ed è per questo che glielo rinfaccia con tanta ostinazione.
Suona troppo facile, rispose Thomas, forse davvero non riesce più a trovare determinati documenti e…
Tu non ne capisci niente di psicologia, disse Micol.
– E tu di nient’altro.
Micol gli lanciò un bacio con la mano: se non mi trattassi sempre così male, non ti avrei sposato.
– Può ancora rivelarsi uno sbaglio.
Ma prima che Micol potesse rispondere, proprio davanti a loro un’auto andò a schiantarsi contro una grossa palma.
Il subbuglio che seguì fu celebrato con voluttà da quasi tutti i testimoni oculari e auricolari – anche se, o meglio proprio perché, non era successo niente di grave. Una delle giovani cameriere lanciò un grido, lezioso come le scarpe a punta che indossava. Qualcuno saltò in piedi, ma si sedette di nuovo dopo essersi guardato intorno e aver raccolto nei visi degli altri un consenso troppo mite per quello slancio partecipe. La cosa più divertente per Micol fu che si aprirono alcune finestre da cui si affacciarono gli ospiti in camicia da notte. Un giovane cameriere disse qualcosa in italiano e chi lo sentì e lo capì, scoppiò a ridere. Diversi dipendenti dell’hotel si affrettarono verso l’auto ma prima che l’avessero raggiunta, ne scese una coppia. L’uomo aveva tirato giù il finestrino dalla parte del guidatore e, con una torsione del braccio, aveva aperto la portiera da fuori. Indossava una camicia bianchissima, come i capelli, un colore che contrastava con l’abbronzatura vacanziera del viso e delle braccia. Per prima cosa dette dei buffetti affettuosi sulle spalle di un dipendente dell’hotel come se volesse tranquillizzarlo e consolarlo. La moglie – un caschetto corto e scuro come una palla intorno al viso e movimenti misurati – inclinò la testa, ma neanche lei sembrava infelice o spaventata. Aprirono il portabagagli e scaricarono le valigie. L’uomo risalì in auto, fece retromarcia e parcheggiò ai margini del piazzale davanti all’hotel. Poi osservarono i danni, l’uomo accarezzò un paio di volte il cofano; a parte Micol tutti gli altri erano tornati alle loro uova, alle fette di roastbeef o al lavoro.
Quando infine il gruppetto salì le scale – l’uomo e la donna in testa, seguiti dai dipendenti con i bagagli – Micol si alzò e applaudì. Suo marito alzò gli occhi dal giornale e fece una smorfia ma batté anche lui due o tre volte le mani curate. Gli altri ospiti attaccarono anche loro e così sui nuovi arrivati scrosciò un breve applauso come una pioggia calda. Con l’aggiunta di un paio di risate. Lo sconosciuto si fermò e si inchinò davanti a Micol che osservò attenta la raggiera di rughe intorno agli occhi. E per l’amor del cielo, quello sarebbe potuto rimanere soltanto un momento ilare e ironico.
Ma ovviamente dopo quella scena e quella accoglienza erano stati colti da un certo interesse reciproco. Poco dopo s’incontrarono in giardino, forse per caso, anche se alcune minime osservazioni dal balcone e dalla terrazza, del tutto inconsapevoli, magari li avevano aiutati a riguardo.
L’uomo fece ridere Micol quando, saltando su una gamba sola, le mostrò come il sandalo di pelle ecologica si era messo di traverso in un modo così perfido che lui era sì riuscito a tirarlo fuori, ma non aveva fatto in tempo a trovare il freno.
Nello stesso momento in cui Micol smise di ridere, anche lui cessò di fare lo scemo. Riappoggiò il piede sul prato. Micol si asciugò una lacrima che le era spuntata dal gran ridere. Si guardarono, i visi aperti come succede altrimenti solo nei secondi che seguono il risveglio, con un libero sguardo sull’anima.
Si presentò come Max. Piacere, disse Micol e gli tese la mano, e lui fece un profondo respiro, si mise ben dritto, raddrizzò le spalle e le alzò un poco prima di porgerle la sua. Perché era un po’ più basso di lei.
Micol gli propose di condurlo alla fine del giardino e di mostrargli il muro di pietra dal quale si vedeva il mare. Aveva scoperto quel sentiero il primo giorno, un percorso a zig-zag disegnato dagli spazi vuoti tra i cespugli.
Gli architetti del paesaggio si preoccupano sempre tanto di guidare le persone attraverso i giardini, disse Micol tanto per dire, e di quali siano i punti panoramici da sfruttare – questo è il puro contrario.
In Grecia lasciano prima salire un asino sulla montagna, poi segnano il sentiero seguendo le sue tracce, rispose Max.
Micol ridacchiò. Vedo che mi capisce, disse, io mi sento spesso come un asino da perlustrazione.
– E cosa perlustra?
– Ah. Forse le possibilità di sopravvivenza. Oppure i motivi a favore della sopravvivenza. Ma non mi stia a sentire, dico delle sciocchezze.
Si sedettero sul muretto di confine, con il mare alle spalle e le gambe all’interno perché Max confessò di soffrire di vertigini. Non rimasero a lungo, dopo che le prime frasi erano venute così facili, la conversazione si esaurì all’improvviso come le risate di poco prima. Così tornarono indietro, lenti e pieni di una sorprendente simpatia che riscaldava il loro ventre, e si separarono agitando le mani.
Una persona gentile, disse Micol quando si chinò su Thomas e nascose la maggior parte delle quotazioni di borsa, e tu adesso ti occupi subito di me altrimenti ti rimando alla sede centrale dell’azienda.
Spero soltanto che tu non vada in auto con lui, disse Thomas, che ne dici di una gita a Ventimiglia?
Preferisco andare a Sanremo, disse Micol con un lamentevole tono infantile che voleva essere scherzoso, e Thomas rispose: anch’io, per questo ti ho proposto Ventimiglia.
Thomas e Micol erano una coppia che si notava. Gli uomini intelligenti, i professionisti di un certo rango, potevano vestirsi con abiti cari quanto volevano ma sembrano sempre un po’ troppo rigidi, e una testa d’uovo come quella di Thomas rafforzava questa impressione – sebbene lui almeno avesse capelli a sufficienza. Ma simili uomini si ravvivano se al loro fianco non hanno una bambolina vuota, bensì una donna come Micol, una donna di carattere. Una simile compagna li impreziosisce, perlomeno agli occhi delle donne di successo che nel frattempo questi uomini incontrano sempre più spesso sul lavoro. Agli occhi dei loro partner in affari, che portano sottobraccio la madre dei loro figli quasi adulti, imbianchita dalle preoccupazioni, oppure svariate mannequin, li rende imprevedibili e quasi minacciosi.
Perché l’estrosità di una donna simile (e le estrosità di Micol nei giorni brutti degeneravano in pura pazzia), testimonia a favore della determinazione e della capacità di imporsi del marito.
Thomas lo sapeva. Conosceva l’effetto che faceva Micol ma lo impiegava con parsimonia. Sua moglie soffriva troppo durante gli incontri mondani, s’interessava semmai agli argomenti degli uomini e aborriva quelli delle loro mogli. Il colmo era stato quando durante una festa in giardino le rapì l’interlocutore dal quale si stava facendo spiegare la medicina evoluzionistica. Dopodiché si era lamentata per settimane che la moglie dell’uomo con cui era rimasta, le aveva confessato, mezza ubriaca, di aver appena comprato a un’asta, con il cellulare, un cappotto di cincillà lungo fino ai piedi – là dentro, pensi un po’, al gabinetto, dove tra l’altro, molto a proposito, si sente la Musica sull’acqua di Händel.
Ma Thomas non l’aveva sposata per questo: perché era capace di andare ai festival musicali o all’opera con indosso una specie di tenda o con una vestaglia giapponese, oppure perché sorridendo come un folletto si faceva porgere dal presidente della repubblica una piuma di marabù che le era caduta dall’acconciatura. Thomas, l’unico figlio di una donna anseatica razionale, ambiziosa e diventata vedova prima del tempo, aveva sposato Micol perché l’amava. Persino sua madre ne era rimasta rapita. Ma era morta presto per una forma aggressiva di cancro e Micol l’aveva compianta con un dolore più grande del suo.
In ogni caso, Thomas preferiva considerarsi il paladino di Micol, più che il negoziatore, lo stratega economico o lo stimato consulente politico. Si piaceva quando la guidava attraverso le tempeste che la minacciavano. E che purtroppo, quasi sempre, provocava lei stessa.
A quel tempo sembrava sopraggiungere di nuovo una fase di dolore cosmico. Micol aveva nella borsa il saggio di uno scrittore che riteneva il sovrappopolamento un’invenzione delle ricche élite occidentali che lasciano morire di fame mezza Africa per avidità di guadagno. Micol gli chiese un’opinione al riguardo. Era incredibile con quale velocità si addentrasse in un tema, come tenesse a mente cifre e linee argomentative. Non voleva che lo schierasse dalla parte dei cattivi, non voleva sembrarle paternalista, per esempio con la sua professionalità di manager. Come quasi tutti i suoi colleghi, Thomas era convinto di agire secondo principi abbastanza etici. Si trattava di fare capire a Micol che la prendeva sul serio e di fornirle nel modo più discreto possibile un paio di argomenti sul perché il mondo non era così del tutto senza speranza e in rovina come sosteneva quello scrittore idealista.
Avrebbe preferito bere un aperitivo in un caffè con vista sulla città vecchia. Avrebbe preferito comprarle qualcosa, magari qualcosa di costoso. All’inizio della loro relazione, quando ancora non conosceva così bene l’Incomprensibile che era in lei, Thomas le aveva proposto di lavorare in una delle fondazioni in cui lui sedeva nel comitato direttivo. Avrebbe creato una fondazione tutta per lei, un ente assistenziale, fame, AIDS, donne picchiate, sa il diavolo cosa, a piacere. Ma Micol liquidava queste proposte definendole ergoterapia per mogli. Le persone che facevano una professione del genere, e che non erano in primo luogo delle mogli, avevano – così argomentava Micol – altri motivi, e intendeva: migliori. Questo vuol dire, aveva detto allora Thomas ironico, che tu non puoi lavorare perché finora non hai mai lavorato?
In un certo senso, sì, aveva detto Micol ed era scoppiata in lacrime: io sono una millantatrice.
Ma non era vero. Infatti, prima di sposarlo, aveva sempre fatto qualcosa, e un paio di volte anche dei lavori molto buoni. Tuttavia non sarebbe stato possibile scrivere un curriculum vitae interessante. Quello di Micol avrebbe mostrato in modo più che palese: questa donna è incostante, si annoia alla svelta, non è affidabile e non appena ha un po’ di soldi, si regala subito una lunga vacanza dal capitalismo per ritrovare se stessa.
E adesso, appunto, di nuovo: concitata erudizione privata. Dopo tre giorni assolati e luculliani in Riviera, un’allarmistica sofferenza per la catastrofe climatica e la fame nel mondo. Thomas radunò in testa un paio di esempi sparsi per unirli in un discorso convincente con la minima voce in capitolo che aveva in tali discussioni: non misurare tutto con lo stesso metro apocalittico. Nel caso specifico: dipende anche in gran parte dai singoli paesi, dalla loro storia, religione, popolazione e dal grado d’inclinazione a massacrarsi di continuo. Nel caso peggiore vi si aggiunge anche ciò che Micol chiama una tipica industria degli infami che traffica nell’illegalità con costose semenze genetiche, nega i medicinali o pretende il pagamento dei debiti, dando il colpo di grazia a paesi già in cattive condizioni: minuscoli bambini con il ventre gonfio, generazioni appestate dall’AIDS, ragazzini imbacuccati con i fucili caricati sui camion, tutto quello che si viene a sapere quando ci si infligge i telegiornali ancora nello spirito di Ingeborg Bachmann. Ma bisogna anche riconoscere che altri paesi che sono partiti da situazioni simili si sono affrancati dalla miseria in modo sorprendente…
Allora Micol gli afferrò la mano, lo trascinò in una stradina laterale e poi dentro un minuscolo bar vuoto, nella cui unica vetrina lampeggiava una polverosa lingua degli Stones. Dal modo in cui Micol scalò lo sgabello del bar, Thomas riconobbe il cambiamento di umore. Micol chiese dello champagne e senza brontolare si accontentò di una bottiglia di vino frizzante che lo sprovveduto barista le mise sul bancone. Thomas aveva registrato bene il lungo sguardo che aveva dato alle gambe di Micol, lungo le calze a quadri scozzesi fin su all’orlo sfrangiato della gonna. Micol bevve un lungo sorso, si asciugò il labbro superiore con il dorso della mano come se fosse sotto il tendone di una birreria, sorrise e disse, è stato davvero divertente quella specie di pilota che è andato a schiantarsi contro la palma.
Micol lo incontrò di nuovo due giorni più tardi in una farmacia di Bordighera. Thomas era dovuto andare a Milano, ma lei si era rifiutata di seguirlo. Forse era ancora l’eco del saggio sulla fame nel mondo a impedirle una visita in quella cattedrale del consumo, ma era più probabile che Micol, per non sentirsi assillata dal conformismo della prolungata compagnia matrimoniale, volesse restare da sola una, due notti, e attraversare le solite forre maniacali: bere, cantare, fumare hashish, vestirsi con combinazioni sempre più impossibili, truccarsi la bocca di uno sbavato rosso sangue, fotografarsi con il cellulare nello specchio del bagno e poi cercare in internet fino all’alba dei bambolotti iperrealisti.
Salve, disse Max, è possibile che oggi le ragioni di sopravvivenza siano meno radiose dell’ultima volta?
Micol si spinse piano gli occhiali da sole tra i capelli per mostrarsi stupita. Le piaceva quando le altre persone la sorprendevano, ma spesso aveva l’impressione che non succedesse quasi più. Anche questo pensiero a volte le toglieva le forze.
Dietro gli occhiali spuntò qualcosa di preoccupante, una specie di scimmietta cappuccino amareggiata. Max le chiese se era successo qualcosa. Se era malata. Micol rise e disse, di sicuro non più del solito.
Chiese dell’Alka-Seltzer, la confezione grande. Pregò la farmacista di darle un bicchiere d’acqua e ci buttò dentro subito tre pasticche effervescenti.
Per favore mi salvi, disse Max, mia moglie ha mal di stomaco e io so solo l’inglese.
Con piacere, rispose Micol, bevve la sua Alka-Seltzer in un sorso e si mise al lavoro. Giocò a fare la giornalista investigativa che doveva sapere ogni dettaglio della malattia della moglie per poi spiegarlo alla farmacista. La scorsa notte all’una, nausea, vomito, scariche di diarrea ogni mezz’ora. La causa: enigmatica, entrambi avevano mangiato la stessa cosa – a questo punto Micol gli lanciò un lungo sguardo indagatore.
Bisogna riconoscere che Micol possedeva un talento per simili scene. Il pezzo che interpretava era divertente, drammatico nei momenti giusti, affascinante e appena stridulo. La faccenda non avrebbe potuto essere più banale, un’infezione intestinale, uno straniero, una tipa folle e altri tre che facevano capannello e che avevano la sensazione che a casa avrebbero avuto qualcosa da raccontare. In realtà era una prova. Micol tratteneva lo sguardo di Max, osservava se era sconcertato oppure se si sentiva messo in ridicolo. Si avvicinò al limite quando gli chiese se la povera moglie era riuscita tutte le volte ad arrivare in bagno o se aveva rimesso strada facendo. A me succede, confessò come se niente fosse, lo sa solo Dio dove ho vomitato, ma Max restò calmo e divertito. Sembrava in perfetto equilibrio con se stesso e ciò che Micol lasciava capire di sé, con civetteria ed esibizionismo, non lo sbilanciava di un millimetro. Mentre lei si aggrappava con tutto il suo ipnotico peso alla raggiera di rughe e ne voleva di più, di più, di più.
E adesso camminavano, i nostri due, divertiti in modo sconveniente per la situazione descritta a sufficienza dal sacchetto di carta marrone pieno di medicinali, che per il momento non li preoccupava. La natura umana ha molti lati sorprendenti, ma uno è davvero degno di nota: quanto all’improvviso si crede di aver trovato una cosa essenziale di cui prima non si era mai sentita la mancanza.
Per quel che lo riguardava, Max aveva già notato che con le donne aveva tanta più fortuna quanto più si allontanava dall’età in cui avrebbe potuto approfittarne. Per lo meno senza rendersi ridicolo. O mostrandosi irriconoscente davanti al destino vendicativo. Negli ultimi dieci anni aveva guadagnato talmente tanti soldi ristrutturando con gusto vecchie case, che a volte non riusciva a crederci nemmeno lui. Aveva passato la sessantina, aveva già la gioia di due nipoti e il terzo era in arrivo, con la seconda moglie, che non era la nonna dei suoi, bensì di altri meravigliosi nipoti, era davvero felice da più di quindici anni. Max attribuiva il fatto che negli ultimi tempi capitasse di continuo che delle sconosciute lo guardavano con occhi brillanti in un modo che lo confondeva, alla circostanza che, dopo tanti decenni, si sentiva a posto con se stesso e in generale con tutto il resto: il padre violento era finalmente morto e con il suo amore giovanile, la madre dei suoi splendidi figli, era in atto un armistizio, Dio solo sapeva perché soltanto adesso. Avrebbe potuto citare innumerevoli altri motivi per la sua pace interiore che, pensava, si rifletteva in modo così attraente all’esterno. Per esempio per aver ricavato una buona dose di sicurezza dal superamento di vecchie paure, per essersi messo in proprio, per aver comprato una casa, tutte cose per le quali era stato troppo vigliacco per ben tre quarti della vita. Al contrario dell’opinione generale, Max non trovava che fosse un peccato aver trovato se stesso molto tardi, perché sperava che la felicità sarebbe stata più persistente e si sarebbe risparmiato ulteriori ansie e desideri di fuga.
Ma non sapeva di essere invecchiato come un buon vino. Gli uomini interessanti non sanno mai di avere un bell’aspetto e quando hanno modo di supporlo, allora è sulla base di indizi già colti in gioventù. Ma accade di rado che un uomo, che per tutta la vita è stato un tipo carino ma nell’insieme poco appariscente, all’improvviso venga preso per un attore o un playboy di cui in quel momento non ci si ricorda il nome. La gente che continua a guardarti perché spera che le venga in mente il nome che cerca, è raro che te lo domandi. E forse non c’è fascino più grande che l’inconsapevolezza dell’effetto che si fa sugli altri – così grande perché irraggiungibile con la volontà. Max era bello come un candido narciso prima che scoprisse lo stagno. E Micol? Dopo pochi minuti si convinse di intravedere un cuore d’oro sotto la camicia bianca e il petto che credeva abbronzato e cosparso di peluria altrettanto bianca. Era chiaro che Max era un tipo di uomo diverso, più sincero, diretto, molto meno intellettuale. Il romantico salvatore di vecchie case contro un sarcastico giocoliere della finanza? Micol si era sempre sentita attratta dal talento di Thomas per le schermaglie verbali perché sembrava garantirle una giusta distanza da se stessa. Ma adesso le formulazioni poetiche di questo sconosciuto la incantavano. Quando Max le raccontò che aveva restaurato da solo la prima casa, quella con la quale aveva cominciato tutto e che per le vecchie cornici delle finestre e per le persiane aveva trovato una vernice trasparente quasi dimenticata, grigio tortora, che da allora nella zona dove viveva era diventata lo standard, quando le confessò che secondo lui ogni casa ha un’anima e che spesso si potrebbe addirittura dire se sia una femmina o un maschio – allora Micol trovò i movimenti del suo cuore così piacevoli e inquietanti. Chissà cosa avrebbe detto Max del saggio sulla fame nel mondo? Immaginava che da lui dovesse aspettarsi verità in scala molto più piccola. Ma al momento per lei anche una piccola, sostenibile verità aveva molto valore. Che insomma le case avessero un’anima. E Max era uno che creava qualcosa con le mani. Lei riusciva soltanto ad arrotolare le sigarette.
Quando furono di ritorno in hotel, Micol lo pregò di porgere alla moglie i migliori auguri di guarigione. Non appena si fosse rimessa, Micol sarebbe stata felice di invitarli a cena. Con grande autocontrollo tralasciò la battuta che le balenò in mente alla parola cena. La posizione critica in cui era finita durante la conversazione la costrinse a riconquistare il proprio ruolo di signora.
Mio marito, aggiunse, torna domani da Milano – forse allora sua moglie starà di nuovo bene? In ogni caso prenoterò un tavolo.
Poi si voltò e se ne andò in direzione della stanza. Max la guardò allontanarsi. Un uccello del paradiso sovreccitato, pensò. Forse basterebbe dirglielo per vedere una bambina che si mangia le unghie.
Nel tardo pomeriggio Micol portò una bottiglietta di Crémant sul balcone e si sedette con il fermo proposito di godersi la pace e il panorama per almeno mezz’ora. Da bambina, quando erano in villeggiatura, suo padre le diceva sempre: fai dei respiri profondi, ho pagato anche l’aria buona.
Ma presto bussarono alla porta e le recapitarono una lettera scritta a mano. Quando ebbe finito di leggerla, Micol rimase a fissare il mare strizzando gli occhi. In realtà guardava dentro di sé e respingeva con tutte le forze il colpo della notizia, per mantenersi capace di agire. Represse l’impulso di andare a prendere subito una bottiglia più grande e le sigarette. Si mise le dita davanti al viso e si convinse che non stavano tremando. Choc, tristezza, indignazione. Alto tradimento. Infine chiamò la reception e ordinò un’auto a noleggio. Nella mezz’ora seguente si osservò mentre rimaneva forte e pensò all’ultimo taglio che si era fatta su un dito: all’inizio era rimasto bianco prima che sgorgasse il sangue, un paio di secondi dopo.
Quando attraversò la terrazza a passi veloci, vide Max seduto a un tavolo con la moglie dal colorito verdastro, davanti a un gioco da tavolo. Qualunque cosa fosse, e anche se fosse stato Go, considerato più complesso degli scacchi, Micol rabbrividì. Non si sarebbe dovuto passare così tanto tempo insieme da non saper più cosa fare se non giocare a un gioco da tavolo. Non sapeva da dove le venisse quella convinzione, ma era sicura che era meglio prestarle ascolto.
E con tanto più entusiasmo li salutò con la mano mentre passava. Esclamò addirittura ancora buona guarigione da sopra la spalla di seta bianca. Un costruttore di case invecchiato in modo esemplare, maldestro alla guida, che fuori dal letto coniugale gioca a… Ma cosa le era preso? Doveva andare subito da Thomas, non importa in quale vestito e sala conferenze fosse. Lui sapeva di certo un trucco con cui dissolvere la sua disperazione, o aveva un cappello magico in cui nasconderla. Oppure le avrebbe dato ragione di essere così delusa e le avrebbe consigliato di sostituire subito Alida. Thomas avrebbe saputo come punirla così che ad Alida non sarebbe rimasto che arrovellarsi per capire se si trattava o meno di una punizione. Fredda, amara, sovrana. Oppure si sarebbe inventato una terza soluzione, per farla guarire, un compito da svolgere, un viaggio intorno al mondo, una casa in un posto idilliaco che avrebbero potuto comprare e trasformare in un hotel o in un centro culturale – forse un lavoro per Max? Ma che in ogni caso l’avrebbe distratta da quel colpo nelle viscere che la migliore amica le aveva appena inferto.
Con il traffico ebbe fortuna come con l’angelo custode che durante quel viaggio Micol provocò ancora una volta quasi fino all’indelicatezza. In realtà aveva promesso a Thomas che non avrebbe guidato più perché lui era dell’opinione che al volante Micol perdesse il senso della realtà. Anche al volante, come aggiungeva quando glielo diceva. Ma Thomas aveva ragione, Micol guidava come i motociclisti nelle sale giochi, come se le strade e le auto che aveva davanti fossero in un filmato con pochissimi pixel, mentre si piegavano aerodinamici in curva, sul veicolo molleggiato ma fermo. Poteva ripetersi cento volte che davanti a lei c’erano delle auto vere con dentro delle persone vere e vulnerabili, proprio come lei – testa e corpo non ci credevano e lei guidava di conseguenza.
Riuscì ad arrivare in meno di quattro ore. Non aveva ancora avvertito Thomas. Solo adesso si risvegliò un pizzico di cattiva coscienza. Gli impegni di Thomas erano così indifferibili e seri. Gli fruttavano tutto il denaro che poteva spendere per lei. D’altra parte, e di questo bisognava darle atto, senza di lei si sarebbe annoiato a morte. Avrebbero trovato il suo cadavere mummificato in un ufficio con le finestre a specchio tra Londra e Tokyo, con un completo impeccabile e una cravatta non scelta da Micol e quindi noiosa, e si sarebbe sbriciolato tra le mani a chi avrebbe cercato di sollevarlo, in una sabbia color caramello, del colore dei capelli, e quella polvere o sabbia sul pavimento color ardesia avrebbe formato le esplicative e accusatorie parole noia gigantesca1, forse anche in un’altra lingua.
Mentre Micol, presa dal proprio cruccio, sfrecciava verso la salvezza, anche stavolta Thomas non era riuscito a sottrarsi all’obbligatoria visita al bordello dopo la felice conclusione dell’affare. Non che avesse obiezioni di principio, era una prassi normale come i pranzi di lavoro. In quel caso, in effetti, lo disturbava la vicinanza temporale con la vacanza con Micol: sì, nonostante tutto era così borghese. Non aveva mai avuto altre storie, amanti, relazioni, in quel settore non era ambizioso. Sopportava le feste esclusive dopo la conclusione di un grande affare, non poteva rifiutarsi e di tanto in tanto ne venivano fuori delle serate divertenti, cosa che non dipendeva per forza dalle signore, bensì dall’improvvisa rilassatezza di alcuni partner in affari. Una volta qualcuno aveva portato un bersaglio e la serata era finita con un’allegra gara di freccette semisvestita. Un’altra volta a tarda ora un piccolo ebreo americano aveva cantato le arie di Rossini accompagnato al pianoforte da un procuratore di origine coreana. E le signore con la pelle di ogni colore avevano ascoltato fingendo di asciugarsi la coda dell’occhio.
Ma questa volta a Milano l’affare non si era concluso come si aspettava Thomas. Gli investitori sudamericani avevano trattato con meno rigidità del solito e i partner italiani non sembravano esserne molto sorpresi, né rallegrarsi in modo particolare per quella inaspettata conclusione conveniente. A Thomas era rimasta la fastidiosa sensazione di essere l’unica parte in causa a non sapere cos’era successo. Supponeva che nascondessero a lui e alla banca che rappresentava degli accordi paralleli. Anche i suoi due impiegati, arrivati in aereo due giorni prima da Francoforte, si scambiarono e gli lanciarono diversi sguardi interrogativi durante l’incontro. E adesso doveva andare con un mucchio di CEO e consulenti finanziari all’Oro blu, per lo champagne, le specialità di pesce e gli antipasti che facevano da contorno alla carne umana elegantemente svestita. Mentre i due ragazzi potevano cercarsi una trattoria e fare il pieno di Barolo.
Cercò di trovare il lato positivo di quel divertimento di gruppo dicendosi che così almeno avrebbe trascorso un paio di ore piacevoli e nel migliore dei casi ottenuto addirittura delle indicazioni su cosa era successo davvero durante la giornata, quali tasse si sperava di risparmiare e quali favori ci si aspettava e da chi, pagando qualcosa in più del necessario.
Ma quella serata non uscì dai binari su cui aveva viaggiato la giornata. Anche il tempo era appiccicoso e nebbioso. Thomas trovò lo champagne insipido, il cibo noioso, le donne, se le si guardava bene, più volgari di quanto ci si poteva aspettare in posti come quello. Dipendeva dagli occhi. Lo sguardo non doveva mai sembrare vuoto o stupido; distaccato, vezzoso ma mai tale da far pensare anche solo per un attimo che fosse stordito, impaurito oppure sbronzo. E poi successe qualcosa di cui aveva sentito solo parlare, ma che fino a quel momento non aveva mai vissuto di persona: uno dei ricchissimi americani quel giorno adottò un comportamento che gli psicologi degli animali avrebbero definito come un’aggressiva pretesa alla leadership del branco. Poiché il genere umano ha superato i propri modelli genetici di comportamento già un paio di migliaia di anni fa, una cosa così degenera volentieri; e il verbo è molto appropriato, tra l’altro. Il presidente Sánchez quindi bramava di sfogare davanti agli occhi di tutti il proprio istinto naturale, inclusi piccoli atti di violenza e mortificazioni, tra vassoi d’argento pieni di gamberetti dalle code rosa. Chi non viene contraddetto in casi come questi, non sarà contraddetto mai più. E proprio questo voleva dimostrare Sánchez. Peggio per tutti quelli che si trovavano nelle vicinanze, peggio per i dipendenti e partner di affari che sottoponeva alla stessa prova di ubbidienza e lealtà. Dovevano ridere ancora più forte di lui, dovevano comportarsi come lui con le donne che Sánchez passava loro, o in modo ancora più bizzarro se non volevano precipitare nel vuoto attraverso molti piani di carriera. Che durante simili orge scorrano grandi quantità di alcol, non dipende dal fatto che i partecipanti, nei rarissimi casi in cui vengono accusati, pensano di cavarsela appellandosi a una parziale incapacità di intendere e di volere. L’alcol di per sé non è neanche il fattore scatenante del deragliamento, bensì l’anestetico che i sottoposti, i subalterni e gli sconfitti si procacciano per sopportare ciò che sono troppo vigliacchi di impedire e di rifiutare.
Thomas si alzò, prese una bottiglia aperta, afferrò una giovane mulatta per il polso e passando spruzzò un po’ di champagne sulla testa di Sánchez che, con i pantaloni abbassati, guizzava in un groviglio di braccia e di gambe. I loro sguardi s’incontrarono. Thomas gli offrì una fragorosa risata. Sánchez gli rispose brontolando, per il momento non gli rimaneva altro da fare. Al che Thomas alzò la bottiglia come per brindare a lui, se la portò alla bocca, bevve un lungo sorso che li univa simbolicamente negli affari, nel gioco e nel divertimento, dette una pacca sul sedere alla ragazza e la trascinò fuori. In una delle camere si fece fare un pompino, dette alla ragazza due banconote e le propose di rimanere lì con lui ancora una mezz’ora. You bet, disse la ragazza. Thomas annuì, poi guardò sullo Smartphone l’andamento delle borse. Quando ritenne che fosse venuto il momento, se ne andò dal club e il chiasso che arrivava dal salone gli confermò che nessuno avrebbe sentito la sua mancanza.
All’hotel, l’impiegato alla reception gli disse con un’espressione impenetrabile che sua moglie era arrivata e che era già in camera.
Non aspetto nessuno, replicò Thomas sulla difensiva pensando a una freccia scagliatagli da Sánchez, al che il portiere si decise a dichiarare che la signora aveva mostrato un documento in cui compariva lo stesso nome dello stimato ospite.
Thomas sospirò. Potrebbe procurarmi una camicia pulita, domandò, e l’impiegato, sentendosi di nuovo su un terreno sicuro, rispose sollevato: ma certo.
Camicia orribile, disse Micol come ci si poteva aspettare e in pochi minuti la rovinò con i colori sgargianti dei trucchi sciolti dalle lacrime. All’inizio Thomas sperò di riuscire ancora a salvare un minimo della serata o della notte che si parava davanti a loro, per esempio quando, alla domanda che tra un pianto e l’altro gli rivolse Micol su come aveva passato la serata, rispose: nel nobile bordello milanese, celebre in tutto il mondo, Oro Blu. Per un momento Micol scoppiò a ridere entusiasta come faceva sempre quando Thomas diceva qualcosa che non si aspettava. Il compito che gli aveva assegnato era infatti: Sorprendimi sempre, non essere mai kitsch, meglio rude, fammi ridere e stupire e soprattutto, con tutta la cavalleria del mondo, non darmela mai vinta.
Tanto meno quindi Thomas capì perché, a parte la stanca battuta sul bordello, la cosa non funzionasse. Per lui era incomprensibile cosa ci fosse di così terribile nel fatto che Alida fosse incinta del compositore con cui stava quasi da più tempo di quanto stessero insieme loro due. Le altre donne sono felici per le amiche, sono felici dei neonati che possono prendere in prestito e restituire non appena cominciano a puzzare o a strillare, io direi che adesso compri una montagna di costosa biancheria per neonati e…
Ma Micol lo fissava come Lady Macbeth. Quando la pregò di spiegargli qual era il vero problema, Micol prima cominciò a balbettare che proprio lui doveva capirla e dopo qualche singhiozzo arrivò al Festival musicale, pianificato per anni, l’energia, gli accordi, l’assenza, solo con il nome di Alida, tutti i soldi mossi da lei, la perdita della faccia eccetera. Micol chiamò il servizio in camera e chiese delle sigarette. Le comunicarono che si trovava in una stanza per non fumatori. Scaraventò la cornetta sulla forcella e chiese a Thomas di fare qualcosa, aveva bisogno di una sigaretta e di una bottiglia di gin, subito.
Thomas le promise che avrebbe fatto qualcosa se al posto del gin accettava del Crémant o dello champagne.
Non cercare di rieducarmi, piagnucolò Micol, ti ho detto fin dall’inizio che se ci provi, va tutto in malora.
Così Thomas scese di nuovo alla reception e con la carta di credito d’oro trasformò la camera in una stanza per fumatori. La bottiglia e le sigarette le portò lui stesso di sopra, per privare il cameriere di quella attrazione che gli avrebbe rallegrato il turno di notte. Il portiere, intuendo in modo commovente la situazione, prese una rosa da una composizione floreale nell’atrio e la posò con aria complice sul vassoio. Mentre risaliva in camera, Thomas si chiese se tutto questo non fosse troppo anche per lui, anche se in quell’entità le accadeva una volta all’anno. Conosceva la risposta che lui avrebbe dato a un amico: non appena ti fai la domanda, è già troppo.
Prima Micol gli fu riconoscente e dopo aver fumato tre sigarette una dietro l’altra, gli si acciambellò per un po’ tra le braccia. Ma non appena riattaccò a parlare dello scandaloso tradimento di Alida e Thomas continuò a non capirne la ragione, riprese tutto da capo, fino a quando si addormentò come una bambina sul divano della suite nel bel mezzo di un accesso di rabbia. E l’unica cosa che disse la mattina dopo durante lo spettacolare viaggio di ritorno sulla costa, nascosta dietro enormi occhiali da sole neri, fu che aveva invitato a cena una certa coppia dell’hotel, sì, stasera, e sì, è necessario, adesso devi sopportare anche tu.
Thomas sarebbe andato volentieri con lei in un ristorante stellato per seppellire la fatica d’infiniti giorni di contrattazioni sotto uova di quaglia, pesce alla griglia e il dileggio della sua insopportabile vita. Ma santo cielo, avrebbero potuto caricare in macchina questa coppia che si era agganciata in sua assenza e portarla a mangiare in ristoranti con stelle e cappelli da cuoco. Invece no, Micol voleva giocare alla donna di casa o alla direttrice d’hotel, voleva qualcosa di ospitale e rustico, con le candele in terrazza. La competenza inscalfibile che mostrò subito dopo il loro ritorno, era tanto inquietante quanto la crisi scatenata dal bebè di Alida. Micol andò impettita in cucina, concordò con il cuoco una sequenza di pietanze e solo più tardi temette che avrebbero sconcertato gli ospiti. Ciò che le era sembrato un atto di ospitalità, lo sforzo di personalizzare addirittura una cena in albergo, ai loro occhi sarebbe forse apparso un’iniziativa invadente e da arricchiti.
La moglie di Max, che proveniva da una rigida famiglia borghese, nascondeva un’ombra di gelosia dietro un’ironia perspicace. Già da qualche tempo aveva notato gli sguardi che le altre donne rivolgevano a Max, sapeva che il marito non poteva farci niente e, tuttavia, non si fidava del tutto di lui. Quando lo aveva conosciuto diciassette anni prima, all’incirca all’età che aveva adesso Micol, Max era molto meno radioso. Il divorzio con l’amore della gioventù risaliva già ad alcuni anni prima, ma un’insana serie di brevi relazioni, sommate alle discussioni con il figlio più piccolo con cui allora viveva in un appartamento tutto al maschile, avevano offuscato il suo dorato splendore. Senza contare la logorante insoddisfazione professionale che ne corrodeva il sexappeal come la ruggine. Erika era riuscita a coglierlo non solo perché disponeva della determinazione necessaria, ma anche del capitale di partenza necessario al nuovo inizio. Sapeva che questo non lo obbligava a niente. Tuttavia Max la amava davvero nel suo modo lineare, le costruiva scatoline e mobili in miniatura che commuovevano più lui che lei, e senza dubbio ogni giorno era riconoscente per la naturalezza con cui vivevano insieme, senza giochetti o rimproveri nascosti e senza i capricci con cui le donne lunatiche si rendevano interessanti e che a quanto pareva erano la specialità del suo amore di gioventù dagli occhi neri.
In aggiunta all’ordine interiore ed esteriore, cui aveva lavorato con impegno, Erika avrebbe tanto voluto avere un afflato dell’affascinante leggerezza di Max. In lui era nascosto un hippie, sebbene non lo fosse mai stato. Aveva uno sguardo sul mondo e sugli altri caldo e disincantato. Sembrava vedere molto e perdonare tutto, be’, diciamo la maggior parte. Si sarebbe pensato che fosse nato di domenica, mentre era venuto al mondo di martedì. Erika intuiva che da qualche parte, in un posto molto recondito, c’era un Max che scriveva poesie alla sua adorata e che le lavava i capelli con la camomilla. E anche che il giusto momento per far sbocciare questo eventuale Max elegiaco, forse era passato da decenni. Non sarebbe più tornato. Max teneva i piedi ben saldi per terra anche se agli altri, come per esempio questa donna con la minigonna sfrangiata, poteva sembrare che fluttuasse attraverso la vita come un artista.
L’inizio della cena fu piacevole, senza intoppi. In un ceto medio ampio come quello di oggi, al contrario che in passato, la maggior parte delle differenze sociali sono calibrate in modo quasi impercettibile. L’uno, per esempio Thomas von Oheimb, rivela il dettaglio biografico della frequentazione giovanile dei ceti più bassi (quando da studente ho lavorato d’estate alla posta), l’altra, l’Erika di Max, intesse una relazione altrettanto remota con una cerchia più altolocata (mia cugina sposandosi è entrata a far parte della famiglia di quel conte delle matite, ma purtroppo non quello con il castello).
Ma proprio perché i due mettevano in mostra, come in una danza delle api, tutto quello che avevano imparato, per contrasto si scoprì una certa parentela biografica tra gli altri due. Entrambi erano dei bastardi, venivano dai margini – ebrei italiani, spiaggiati in Germania dopo la guerra – nonché dal basso: Max aveva sette fratelli, il padre collerico aveva fatto l’operaio. Thomas sapeva che Micol, quando i discorsi, sulle tovaglie damascate, diventavano troppo ampollosi, innescava volentieri argomenti come la fame nel mondo oppure la questione delle famiglie omosessuali. Ma dato che quella festa era una sua idea, era mansueta. Con tono quasi sottomesso domandò a Erika dei figli, delle figlie e dei nipoti che si erano accumulati con il matrimonio di entrambi e che si erano capiti fin dall’inizio in modo così divino.
Ma dopo il consommé di astice Micol aggrottò furiosa le sopracciglia fino alla radice del naso e puntò un gruppo di bambini oltre la ringhiera della terrazza. Alla fine del giardino, nelle vicinanze del muro di pietra storto che dava sul mare, quei bambini, in parte armati di bastone, avevano di sicuro scoperto qualcosa di divertente, ma il loro piacere non sembrava innocente e nelle sfumature si coglieva la voglia di torturare e uccidere. Un paio di minuti più tardi, Micol saltò in piedi, il tovagliolo cadde a terra, Erika fece appena in tempo ad afferrare al volo una flûte di cassis, e i tre commensali rimasti al tavolo guardarono allontanarsi le lunghe, energiche gambe di Micol.
Thomas alzò le spalle scusandosi, Erika sorrise e per un momento svelò una lama, sottile come un rasoio: non avete figli?
La risposta per fortuna non era drammatica e Thomas parò con altrettanta eleganza: non ne abbiamo voluti.
Max non li stava ad ascoltare. Lo sguardo seguiva Micol che attraversò il giardino, raggiunse i bambini, strappò il bastone a uno di loro, lo scagliò lontano, cadde in ginocchio e sparì alla vista, fatta eccezione per la parte superiore della testa. I bambini si sparpagliarono. Poi Micol si rialzò e tornò indietro di corsa, sembrava che facesse loro segno da lontano. Max si alzò e le andò incontro. Gli altri due fecero come se non avesse importanza. Con la fortuna di chi è capace, nel giro di pochi minuti trovarono un argomento sul quale non solo potevano discutere allo stesso livello ma di cui inoltre i loro partner non avrebbero capito nulla. Qualcosa che apparteneva solo a loro due. Che esistesse qualcosa del genere! Entrambi ebbero la sensazione di aver fatto centro. Si trattava del carbone polacco, carbon fossile, lignite, coke. Thomas durante gli studi di economia si era occupato della storia delle limitazioni commerciali, degli embarghi durante la guerra fredda, e il padre di Erika, nonostante fosse collegato ad altri gruppi politici, aveva avuto come socio un comunista austriaco che con l’aiuto di cordate prebelliche realizzò i migliori guadagni proprio in questo campo. La ditta era passata in seguito alla figlia; Erika era una donna d’affari che sapeva benissimo cos’è un bilancio.
Thomas si fece portare la carta dei vini e gliela porse. Scelga per favore un vino che le piace, disse, a mia moglie interessano per lo più i frizzanti. Erika sorrise, annuì e prese tempo fino a quando, infine, decise per un pinot bianco francese che in Italia era molto più caro dei vini locali analoghi. Non sono mai riuscita a familiarizzare con i vini italiani, osservò Erika come se niente fosse, mio marito invece ne comprerebbe dei fiaschi. E poi s’immersero di nuovo in contrattazioni e partecipazioni, svantaggi doganali e vantaggi logistici, svilupparono per divertimento idee commerciali comuni, sapendo che fino a quando continuavano a portare avanti quella conversazione erano invulnerabili. E fintanto che speravano che quell’assurdità che nel frattempo accadeva tra gli sterpi mediterranei finisse prima dell’arrivo della portata principale.
Max corse incontro a Micol, e mentre lei lo guardava arrivare, ebbe la sensazione di vivere una scena al rallentatore. La guardava radioso dalla sua raggiera di rughe, fino a quando si accorse che piangeva. Dato che tutto questo accadeva sotto gli occhi dei loro consorti che stavano mangiando, non si abbracciarono. Chissà se altrimenti lo avrebbero fatto. Micol lo afferrò per il polso, si voltò e lo tirò con sé. Ha un coltellino o qualcosa del genere? Gli chiese mentre tirava su col naso. Certo, assicurò Max, un coltellino svizzero, come ogni operaio.
Il riccio si era nascosto sotto un cespuglio ma per l’agitazione ansimava così forte che lo trovarono subito. Micol dovette aiutarsi con lo strumento di tortura, il bastone dei bambini, per spingerlo fuori con cautela. Aveva la testa infilata in un bicchiere di plastica e lei era isterica perché aveva paura che morisse soffocato. A causa di quel bel copricapo capitalista, l’animale non poteva più raggomitolarsi e nonostante gli aculei, sembrava che tremasse per il batticuore. Non soffocherà, asserì Max in malafede, lì dentro entra di sicuro aria a sufficienza.
Per favore lo salvi, singhiozzò Micol che era inginocchiata davanti al riccio con le calze strappate e lo teneva fermo con due dita per il bicchiere, lo tiri fuori per favore.
Micol lo estrasse dal cespuglio piano. Quattro piedini – così esili in confronto al corpo spinoso a forma di pera – raspavano agitati nel terreno sabbioso. Il povero animale non desiderava che fuggire via, in un misericordioso isolamento dove nessuno gli tirava la testa e il collo. Max esaminò il coltello e scelse le forbici. Voleva prima tagliare il fondo del bicchiere e poi continuare a spirale, come quando si sbuccia una mela. Ma gli venne in mente che poteva anche sfilare il bicchiere schiacciando con cautela il coperchio intorno alla testa del riccio.
Mio Dio, esclamò Micol, come sono stata stupida! Adesso il riccio aveva soltanto il collare di plastica bianca e sembrava quasi la regina Elisabetta I. Entrambi non erano preparati al tranquillo, vetusto sguardo degli occhietti tondi che strideva con i movimenti frenetici delle tenere zampette. Va detto, tuttavia, che i ricci dispongono di pochissima mimica facciale. Quando Max si decise a tagliare di lato il coperchio, Micol propose, di portare prima l’animale in hotel.
Prima ti rifocillerai nel paradiso degli avanzi, disse trasognata, lo teneva per il collare, impassibile come un’infermiera in sala operatoria.
Allora abbiamo bisogno di un secchio o di qualcosa del genere, disse Max, forse in cucina mi presteranno una pentola.
Micol gli era infinitamente riconoscente – il comportamento di Thomas von Oheimb in una situazione simile sarebbe stato davvero difficile da immaginare. Micol mise l’indice dell’altra mano sotto il riccio, tra le zampette anteriori e quelle posteriori.
È molto morbido qui sotto, sussurrò con le lacrime agli occhi, per niente spinoso.
Sembrava giovane e smarrita in modo sconvolgente.
Max, che era accucciato, appoggiò a terra le ginocchia, si chinò, le mise una mano sulla nuca e la baciò sulle guance bagnate.
Andrà tutto bene, disse.
Micol annuì e per un momento gli posò la fronte sul mento. Il riccio raspava tra loro. Non capiva che lo volevano aiutare ma, se ci si pensa, anche la maggior parte della gente, all’ultimo minuto, desidera saltar giù dal tavolo operatorio che salverà loro la vita e fuggire.
Max si ritirò su. Si scosse la sabbia dai pantaloni e tornò indietro. Con un po’ di fortuna, i loro partner che conversavano sulla terrazza non sarebbero ancora stati serviti. Forse Max sarebbe riuscito a ritardare ancora un po’ la prossima portata. Allora avrebbero potuto mangiare tutti insieme: loro quattro immersi di nuovo in una ricercata conversazione, e il riccio ruminando della frutta in una cassetta dietro la porta della cucina.
Quando entrambi tornarono al tavolo, Thomas ed Erika li guardarono in modo indecifrabile.
Sua moglie ha salvato un riccio che altrimenti sarebbe stato vittima di una catena di fast food americana, disse Max mentre offriva la sedia a Micol.
Scusate, mormorò Micol, spero che non vi siate annoiati.
Assolutamente no, assicurarono i due all’unisono, si guardarono e risero. Al contrario, mia cara, disse Erika, dopo aver richiuso in bocca una risata un po’ troppo squillante come farebbe un rospo con l’appiccicosa lingua a lazo. Per un momento posò addirittura la mano sul braccio di Micol.
In quel momento apparvero i camerieri con il pesce, la carne e i vassoi con le verdure grigliate. Portarono via i piattini per il pane, sistemarono le tovaglie, con un righello d’argento raschiarono via le briciole dal tavolo. Sparecchiarono i bicchieri vuoti dell’aperitivo e servirono vino e acqua.
Il sole cambiava piano colore nella sua malinconica discesa verso l’orizzonte.
Gli occhi di Micol erano chiarissimi come se fossero stati appena puliti, sorrise e annuì, guardava raggiante il marito ed Erika e di tanto in tanto ammiccava a Max in modo cospirativo. Descrisse nei dettagli i minuscoli piedini neri con le cinque dita del riccio: le dita più piccole si vedono appena, perché sono infilate per metà sotto la pianta. Parlò sognante delle proporzioni come qualcuno che pensa ad alta voce: all’inizio si crede che i piedini siano troppo piccoli rispetto al corpo. Ma se si facesse un riccio di plastilina della lunghezza di un uomo, lasciando invariata la grandezza dei piedi, allora probabilmente le misure tornerebbero.
Fa sempre dei paragoni assurdi, disse Thomas.
Ammirevole, disse Erika e sembrò che dicesse sul serio.
Tutto riprese il suo normale corso. Ma ciononostante negli anni seguenti, quando le terapie occupazionali le sembravano non avere uno scopo e i giorni vuoti in modo straziante, Micol si convinceva che fosse quel Max, con le mani pratiche, a mancarle così tanto. Quello che con una sola mossa aveva liberato il riccio dalla cecità. L’uomo dal cuore d’oro che si vedeva battere e risplendere nella camicia bianca immacolata.