PECORE

Un tempo la lana era una materia prima molto richiesta. Oggi la lana europea è meno prestigiosa delle più raffinate lane asiatiche e australiane. Per gli allevatori di pecore la lana è diventata un problema, perché la tosatura è costosa. Così è nata la pecora-nolana che perde la lana da sola. “Nolana” è un neologismo latino e significa “niente lana”. In primavera le pecore perdono la lana a bioccoli che penetrano poi nel pascolo dove fungono da concime naturale. Tre criteri sono alla base di questa varietà: alto profitto dalla carne, buona salute e perdita della lana al cento per cento.

Oggi hanno fatto un’altra grigliata di verdura. Quando ho aperto la finestra li ho sentiti che parlavano sottovoce. Non ho ancora capito bene se qui si cerchi la compagnia o se si preferisca starsene per conto proprio. Che cosa desiderino con esattezza gli altri ospiti, che cosa gli organizzatori. Forse scoprirlo è una di quelle cose che fanno parte del progetto. Queste almeno sono le mie prime supposizioni.

Non voglio infastidire nessuno, ma nemmeno apparire un lupo solitario. Che fossero laggiù e facessero una grigliata insieme, significava forse che non avevano finito di lavorare. Così sono uscito e per copertura ho preso un’insalatiera e un coltellino come se fossi diretto all’orto comune. La grigliata è sempre due giardini più avanti. Accanto a me abita una signora esile di cui è impossibile valutare l’età, che ha un volto che sembra di porcellana. A un primo sguardo si direbbe giovanissima, ma l’aspetto, i movimenti e i gesti cauti esprimono una consapevolezza della propria vulnerabilità che di solito non si addice ai giovani. Questa donna, di cui non mi sono ancora impresso nella mente il nome, si è ammalata poco dopo il nostro arrivo. Almeno questo è risaputo. Si dice sia molto malata ma che non è voluta ripartire per nessun motivo. A quanto pare, ha deciso di restare nel suo bungalow con le tapparelle abbassate a cercare di guarire. Che da giorni non dia segni di vita, che la posizione delle tapparelle non sia cambiata né che la sera trapeli la luce dalle fessure, mi inquieta abbastanza. Ma io sono qui anche per imparare a mantenere la calma. Forse non è un caso che questa donna bianca come la porcellana sia la mia vicina.

Il gruppetto che faceva il barbecue nel giardino è stato molto gentile quando gli sono passato davanti. Tutti indossavano abiti leggeri, beige o verde chiaro, e quasi subito mi hanno invitato a bere un bicchiere di vino. Il vino bianco stava su un tavolo e non era in fresco, ma mi sono detto di non trarne conclusioni negative. Forse la maggioranza qui preferisce il vino rosso.

L’inquilino del secondo bungalow è Julius P.; i nomi degli altri, dei numerosi parenti e degli assistenti che si somigliano tutti tra loro, li ho subito dimenticati. Julius porta i capelli verde pastello raccolti in una curata coda di cavallo – confesso che il colore dei capelli l’ho saputo da lui, a me all’inizio era sembrato un biondo platino sfumato – ed è di statura media. La cosa che si nota di più di lui sono i grandi occhi chiari che sembrano illuminati da dentro. Quando parla con qualcuno lo guarda sempre fisso negli occhi e, con quel colore dei capelli da extraterrestre, sembra una libellula ipnotizzante.

A questo punto la dottoressa Biasini mi ammonirebbe di sicuro. Le mie ricercate e originali descrizioni rappresentano in definitiva – così dice lei – un tentativo di prendere le distanze. Io metto sulle spalle degli altri delle definizioni come se fossero degli indumenti e da quel momento in poi mi rifiuto di guardare cosa ci sia dietro l’etichetta che ho messo. Credo che su questo punto sia troppo severa con me. Ho capito bene che di certo Julius riveste un ruolo più importante, qui, nella colonia e che l’espressione libellula non è sufficiente a descriverlo. Riferisco soltanto la mia prima impressione. E la dottoressa Biasini non la vedrò per molto tempo.

I pacchetti di verdure sul grill erano preparati con grande impegno. In ogni involucro di carta argentata erano avvolti quattro o cinque tipi diversi di ortaggi: pomodori, melanzane, zucchine, peperoni e finocchi alle erbe aromatiche, aglio e una fetta di limone, e le patate cuocevano piano nella brace. Ho preso un po’ di pane e olive, ma ho rifiutato tutto il resto con la scusa che avevo già mangiato. Mi sembrava che la compagnia aspettasse con tale appetito che il proprio pacchetto fosse pronto che non volevo togliere di bocca niente a nessuno. Oltre a Julius mi è rimasta impressa solo un’altra persona; una donna che si è presentata come sua assistente. Anche se aveva un portamento molto composto – eccesso di yoga presumo – fumava e beveva vino come me. Quando ho rifiutato il cibo caldo e ho ringraziato con educazione, ha farfugliato: da qualche parte abbiamo anche della carne.

La frase mi è rimasta in mente perché ho supposto che anche lei la volesse, dato che già fumava e beveva. Ma è stata solo un’altra delle tante deduzioni sbagliate che ho fatto da quando sono qui.

La maggioranza – erano in tutto cinque o sei più un paio di bambini – pareva essere arrivata da poco. Quando hanno aperto i pacchetti di verdure fumanti, Julius si è messo a raccontare con malizia e per divertire tutti dello smacco subito da una certa signora von Morgen. Questa Anuschka, per quel che ho capito, era abituata da decenni a ottenere tutto ciò che desiderava e aveva messo su una specie di sistema mafioso. Old boys network, ha detto Julius nella mia direzione, e tutti sono scoppiati a ridere in modo isterico. Era una battuta della quale non ero in grado di capire il significato nascosto. Julius ha tagliato una fetta di melanzana in pezzetti così piccoli come se li volesse dare da mangiare agli uccellini e ha detto: ovviamente è anche un’amica intima di Ringelmann.

Questo è molto spiacevole, ha detto qualcuno.

Avrebbe dovuto scendere dal piedistallo e fare domanda come gli altri, disse Julius, non avrebbero potuto farla passare avanti in via ufficiale. Ma una Anuschka von Morgen non fa domanda da nessuna parte, aspetta che la preghino di partecipare.

Tu hai fatto domanda? Ha chiesto una ragazza con l’accento slavo. Gli altri l’hanno guardata sbalorditi.

Certo che no, ha risposto Julius dopo una pausa a effetto: ma nei posti giusti sapevano che volevo farlo.

E per questo adesso la signora Anuschka è diventata von Gestern2 ho scherzato tanto per provare e ho sorriso in direzione della ragazza sud-est europea.

Julius aveva un’espressione compiaciuta come un serpente su una roccia scaldata dal sole, ma la ragazza ha nascosto il viso arrossito dietro una piccola scultura di alluminio.

Ieri pomeriggio ho conosciuto meglio la mia vicina di sinistra, una tipa alla mano della regione meridionale della Germania. Un corpo da favola se si avesse la testa per queste cose adesso. Un paio di jeans consumati e tacchi allarmanti da un punto di vista ortopedico, ma a parte questo è molto tranquilla. Mi ha subito offerto una birra, per reciproche occasioni devo fare alla svelta delle scorte. Cosa berrà la dama di porcellana nel caso guarisca? Sembra che non ci siano ancora cambiamenti, le tapparelle sono abbassate e dall’interno arriva solo silenzio. La ritengo una bevitrice di tè verde, nel caso non sia troppo forte anche quello. Forse allora la scelta ricadrebbe sulla verbena.

Dalla gentile vicina di sinistra – si chiama Franca – sono venuto a sapere che la malata è un’attrice, famosa per di più. Per un minuto angoscioso ho avuto la sensazione di non essere abbastanza preparato per il mio soggiorno qui.

Franca è una chimica. Ma niente paura, ha detto, ora mi muovo più nel teorico.

Al contrario di come avevo fatto con Julius un paio di giorni prima, ho ceduto alla debolezza di chiederle spiegazioni. La sua gentilezza non è venuta meno nemmeno un po’.

Intendo solo dire che qui, accanto a te, non faccio nessun esperimento, disse sorridendo, non devi temere cattivi odori o esplosioni.

I miei timori non si sono spinti così in là, ho ammesso.

Non dovrei far capire così spesso quanto sono lento.

Credi che dovremmo chiederle se ha bisogno di qualcosa, domandai, e feci un gesto in direzione del bungalow a destra.

Forse aspetta solo questo, ha risposto Franca un po’ dall’alto in basso, per avvolgermi poi nella sua tela appiccicosa.

L’ho guardata con aria interrogativa.

Si dice in giro che sia molto brava a procurarsi dei vantaggi, ha risposto Franca e si è sbuffata la frangetta castana via dagli occhi, ma se sei preoccupato telefonale.

Ha alzato la bottiglia di birra, mi ha fatto un cenno del capo e si è voltata per andarsene. Ma in quel momento ha spalancato gli occhi. Me ne sono accorto subito. Da quando ho avuto la crisi è per me molto spiacevole avere qualcosa alle spalle. Ma Franca mi ha guardato supplichevole, mi ha inchiodato anzi con lo sguardo e ha scosso appena il mento a significare un evidente: no.

Un attimo dopo si è ripresa e mi ha guardato raggiante come se avessi detto qualcosa di geniale. E solo allora mi ha voltato le spalle davvero. Ero libero di fare lo stesso. Dietro di me, che sorrideva trasognato, c’era il direttore Ringelmann con il gatto in braccio.

Buongiorno, buongiorno, ha canticchiato, facciamo conoscenza? Molto bene. Mi fa piacere. È così che deve essere. Siete a vostro agio, spero?

Abbiamo salutato, ringraziato, risposto di sì.

Godetevi questo periodo, ha detto Ringelmann, siate orgogliosi del vostro premio. Tutto il paese vi guarda. Tutti voi realizzerete qualcosa di grande. Se avete domande o desideri, passate pure da me in ogni momento. I miei collaboratori ed io siamo a vostra disposizione giorno e notte. Non dimenticatelo mai: siamo qui solo per voi.

Dopo queste parole se ne è andato a passi misurati senza smettere di grattare con dolcezza la testa del gatto. Che non sembrava trovare la cosa molto piacevole. Poi Ringelmann si è fermato di nuovo, si è girato e il suo viso all’improvviso si è contratto in una smorfia. Ci ha osservato con sguardo penetrante.

Ma che non vi venga mai in mente, e dico mai, se vi preme la vita… Brontolò: Che non vi venga mai in mente di dare da mangiare a questo gatto!

Franca ha capito più in fretta di me e ha lasciato che un sorriso da dama le imperlasse il viso. Il dottor Ringelmann mi ha fissato come un animale selvaggio che assetato di sangue ha già tra i denti l’orecchio serico del leprotto da divorare. Ha allungato il dito, lo ha puntato agitandolo contro me e si è piegato in due dal ridere. Il gatto ha approfittato del momento per divincolarsi dal suo braccio e sparire.

La pancia di Ringelmann tremava. Mi perdoni, ha ansimato, non se la prenda, mio caro, sono famoso per i miei stupidi scherzi, o per meglio dire, sono famoso anche per i miei stupidi scherzi.

E con questo, per il momento, è sparito.

Ho telefonato all’attrice malata. Poiché nonostante le così promettenti pillole della Biasini, dormo ancora male e troppo poco, una mattina presto ho percepito un segno di vita. Ero già seduto con la tazza di caffè sugli scalini che dalla cucina conducono al giardino sul retro e osservavo gli sforzi energici di un picchio. Quando ho sentito qualcuno che faceva la doccia lì accanto. Dopo che l’acqua è cessata, le ho dato ancora dieci minuti, in cui si sarebbe vestita o, per lo meno, non si sarebbe riaddormentata.

Ha una voce chiara e simpatica con una pronuncia della Germania settentrionale molto più decisa di quella che mi ricordavo dal nostro unico incontro, il giorno in cui arrivammo. E non è stata per niente sorpresa della mia telefonata. Mi ha detto che non aveva bisogno di niente, che i ragazzi dell’amministrazione si prendevano cura di lei con tutte le premure del caso, ma era davvero adorabile che mi fossi preoccupato. Fino a quel momento a nessuno era venuta l’idea di darle un colpo di telefono, voglio dire, questo posto è pieno di gente straordinaria e tutti sanno che sono malata… non lo dimenticherò, davvero, può starne sicuro, le sono debitrice.

Se avesse avuto bisogno di aiuto, anche la mia telefonata sarebbe giunta troppo tardi, le ho detto mortificato, si sente meglio nel frattempo?

Meglio, ha detto, molto meglio, ma non ancora abbastanza bene da azzardarmi a uscire. Be’, posso anche restare dentro, questo non cambia il mio contributo per la comunità. Ma mi dica, le piace qui? Ha fatto già delle conoscenze?

Io non ho mai molto da raccontare, e le mie prime osservazioni preferisco tenerle per me. Così le ho parlato dei posti nei paraggi dove era possibile fare acquisti, ho nominato due ristoranti dove ho mangiato e ho lasciato che la conversazione si esaurisse come uno che arretra con educazione verso l’uscita. Se per caso avesse bisogno di qualcosa… le ho detto.

È seguita una pausa, come un crepitio nella linea, poi la voce è tornata, ma diversa da prima. Non conti molto su quel Julius, ha detto con questo tono sconosciuto. Vada pure a casa sua e mangi tutte le verdure, ma non conti su di lui. Questo è il mio consiglio.

Non capisco… ho cominciato, ma la vicina ha riattaccato.

Nel frattempo c’è solo un’asserzione che si può pronunciare con sicurezza: tra le persone più spensierate della colonia c’è un ragazzino di nome Samuel. L’osservai un pomeriggio mentre cercava di fare amicizia con la presuntuosa gatta di Ringelmann. La gatta era sdraiata su un fianco nell’erba, la testa sollevata a metà, le palpebre semichiuse, una lasciva bellezza hollywoodiana indecisa se farsi sedurre oppure gridare aiuto. Il ragazzino si sdraiò a circa un metro di distanza imitando la posizione della gatta, braccia e gambe allungate verso di lei. Miagolò tenero e piano piano scivolò più vicino. Voleva accarezzarla ma non si azzardava. Mostrava una sana intuizione.

Mi avvicinai, mi sedetti nell’erba e dissi, fai bene ad andarci cauto con lei.

La gatta saltò sulle quattro zampe, si scosse, tirò su la coda come un punto indicativo a righe, mi si avvicinò e si premette vogliosa contro il mio ginocchio. Così facendo dette ancora uno sguardo a mezz’asta al ragazzo deluso. Come la maggior parte dei gatti, è senza scrupoli.

Anche il ragazzo si tirò su e si sedette, ma non accennò per nulla ad avvicinarsi a me, magari per accarezzare la gatta. Anche per questo non potei fare a meno di ammirarlo.

Come ti chiami, mi chiese. Quando glielo dissi, dedusse: tu sei lo psicologo. Mia madre ha detto, di quello ne avremo bisogno tutti.

Risi e dissi, tu no di certo.

Venni a sapere da lui che la madre era una storica dell’arte, il padre uno storico contemporaneo. Lavoravano a un progetto comune ma, così aveva detto di recente la madre, non era una buona idea.

Samuel fece una pausa e aggiunse, un po’ imbarazzato: mia madre dice che non devo raccontare sempre tutto agli estranei.

Gli promisi che lo avrei tenuto per me. E allora il bambino rispose: non credo che sia questo il problema.

Un bambino sorprendente, di otto anni, quasi nove come precisò. Mi annunciò che mi avrebbe invitato alla sua festa di compleanno. Da allora mi viene a trovare abbastanza spesso. Per questo motivo ho conosciuto meglio anche la madre. Una volta è arrivata di corsa, abbastanza agitata, mi ha salutato di sfuggita e ha chiesto al piccolo con durezza se avesse colto dei limoni davanti all’edificio principale. Samuel, che mi aveva già portato spesso limoni e pompelmi, lo ha negato con veemenza. Lo so, ha insistito il piccolo, che non bisogna cogliere quelli davanti all’amministrazione, solo quelli sul retro, tra i cespugli.

Non sono cespugli, quello è il boschetto dietro i bungalow, lo ha corretto la madre.

Si possono cogliere solo lì, ha ripetuto Samuel, l’ho spiegato anche al signor Ringelmann.

Cosa hai fatto? Ha chiesto lei allibita. Devo ammettere che quella svolta ha sorpreso anche me.

Sì, ha detto Samuel, l’ho incontrato una volta davanti all’edificio principale, con un limone in mano. Gli ho detto che quelli lì non bisognava coglierli. Lui ha detto che quello era caduto, per questo lo aveva raccolto. Forse era stata la gatta. Gli ho detto che doveva spiegare meglio alla gatta che non si poteva. Ha detto che lo avrebbe fatto.

La madre di Samuel ed io ci siamo guardati e siamo scoppiati a ridere. Il bambino le assomiglia, anche se ha altri colori. Lui è biondo e ha la pelle chiara, lei ha gli occhi blu ma per il resto è scura: capelli, sopracciglia, carnagione. A guardarla viene in mente l’aggettivo “intenso”, anche se è difficile dire se questa intensità sia positiva o negativa. Ardente empatia e fredda superbia, gioia di vivere e disperazione, sembra fatta di opposti incollati tra loro. Le rughette intorno agli occhi le stanno bene, è una bella donna anche se in un modo molto più discreto di Franca. Ma forse dopo un po’ ci si stanca di guardare Franca. Se fosse un uomo, la si definirebbe un sunnyboy, ho pensato di recente. Ho bevuto un’altra birra con lei al crepuscolo. Prima si è lamentata un po’: in posti paragonabili a questo, in cui era stata di persona o di cui conosceva un po’ meglio i programmi, per i lavori c’erano delle linee guida molto più precise e, di conseguenza, una gran quantità di informazioni. Oppure, al contrario, gli abitanti avevano molta più libertà. La direzione qui era contraddittoria, da una parte volevano da noi qualcosa, ma dall’altra non interessava loro davvero.

Cosa vogliono di preciso secondo te, le ho domandato con il tono più neutrale possibile.

Tuttavia per una come lei, il mio tentativo era di sicuro troppo primitivo. Ha sorriso e sbuffato via la frangia dagli occhi. Cosa mai è concesso immaginare a noi, piccoli uomini, ha declamato con una buffa espressione, o addirittura conoscere del grande piano? Poi si è alzata e si è stiracchiata. Non lamentarti, lavora Frankie, si è incitata da sola, mi ha fatto un cenno con il capo ed è tornata nella casetta.

Non sono ancora in grado di valutare se gli abbozzi dei ritratti delle persone che incontro siano l’approccio giusto per quello che ci si aspetta qui da me. Oppure se, al contrario, sia troppo ovvio e controproducente.

Di recente ha cominciato a muoversi qualcosa nella colonia, in diversi modi. Beppo e Bosco dell’amministrazione ci hanno comunicato che i lavori di ristrutturazione del gazebo sono conclusi e che negli orari di ufficio possiamo andare lì a bere caffè e tè e a leggere i giornali. Ci sono andato subito: il gazebo ottagonale è arredato con poltrone di pelle, le finestre ad arco, che arrivano a terra e hanno montanti in argento brunito, affacciano sul parco. Per via del climatizzatore non si possono aprire. La stanza mi sembra un po’ piccola. A parte me non c’era nessuno e di sicuro l’amministrazione sa per esperienza quanti coloni usino in media uno spazio comune di questo tipo.

Baldassarre, il segretario del direttore Ringelmann, ci ricorda via mail le due mattinate della prossima settimana durante le quali dobbiamo presentarci ed esporre i nostri lavori. Finora sono riuscito a rimandare l’appuntamento. In fondo posso dire diverse cose di me. Di sicuro vanto molti successi, soprattutto nel lavoro con i profughi. Anche i gruppi di supervisione con i terapeuti giapponesi che hanno lavorato con i sopravvissuti allo tsunami, sono di solito un argomento che interessa anche a chi non è del ramo. Ma qui?

Che abbia avuto un tracollo e in quali circostanze, è di sicuro un tema troppo personale per una simile occasione. Sebbene mi abbia condizionato la vita negli ultimi mesi. E anche se presumo che proprio questo genere di sconfinamento farebbe progredire il gruppo, non ho voglia di essere io a cominciare. Forse più avanti. Quello che comincia con cose del genere, non si dimentica mai, non importa quanto gli altri ci mettano poi del loro. Anche se non riuscirò a nascondere per sempre il mio punto debole. Oppure lo conoscono già, Ringelmann e i suoi, intendo.

Per questo mi sono riproposto di fare qualcosa che è tipico di queste occasioni, per me invece molto inusuale: con un mucchio di esempi arrischiati ed esasperati illustrerò i pro e i contro delle ultime conquiste della mia disciplina. Le persone che si trovano qui sono tutt’altro che specialisti, forse possiedono solo informazioni sommarie di ciò che al momento anima la psicologia. Ma sanno pensare. Perciò fornirò loro un interessante argomento di discussione sperando di stimolare in questo modo una discussione o delle obiezioni. Non appena gli altri dicono la loro, mi sento sicuro. Allora l’apparato analitico funziona perfettamente. Quando sono io ad argomentare, mi sento come una pietra che emette dei suoni, un grumo che suda patos e che non riesce a spiegarsi. Tornerà mai tutto a posto? È per questo che sono qui?

Tuttavia, al momento, l’arrivo del poeta ci ha distratto dalla paura della ribalta. Non gli è stato possibile, infatti, arrivare in tempo per l’inizio ufficiale a causa di molti impegni che aveva preso già con anni di anticipo. Ma adesso è qui, non si può non notare. Non lo avevo mai incontrato di persona prima, ma è sorprendente come si pensi di conoscerlo già bene attraverso i media. La caratteristica silhouette, il capolavoro ispido-argentato di barba e capelli, la voce ammaliante, le inflessioni che adotta, dal sonoro, passando per l’acuto, fino all’autunno dorato, dal Whiskey Sour fino al volgare falsetto. I toni dolci scorrono nell’orecchio come miele caldo. Il poeta passeggia nel grande parco con le mani intrecciate dietro la schiena, per ore, e declama sottovoce. Samuel mi ha raccontato che tutte le volte che si incontrano, il poeta crea per lui un nuovo verso. Chiede al bambino di dirgli due o tre parole, poi riflette un momento e improvvisa una poesia. Purtroppo Samuel non ricorda le poesie, soltanto le parole che ha scelto. Per il ragazzo quest’arte è fonte d’inesauribile meraviglia, e ritiene che tutte le combinazioni di parole abbiano all’incirca la stessa difficoltà. Anche sotto quest’aspetto l’opinione del bambino è più saggia di quello che si pensa. Una volta gli ha proposto camicia e armadio e anche in quel caso ha composto la poesia in un attimo. E sono sempre in rima. Samuel ha detto: il vecchio poeta è mio amico. Anche lui è mio amico, ha aggiunto perché non voleva ferirmi.

Io lo incontrai solo una volta. Vagavo nel mondo oltre le mura stupito di come continui a seguire impassibile il proprio corso di fronte alla catastrofe che lo minaccia. Comprai della frutta al mercato coperto, esaminai il gigantesco assortimento di ogni genere di oggetti nei bui negozi cinesi, freschi e pieni zeppi fino al soffitto, chiacchierai con un parrucchiere politicizzato della crisi delle banche e dei profughi e fotografai molti di quegli antiquati citofoni di ottone che sembrano stare a significare che gli italiani traslocano molto meno dei tedeschi. Infine mi fermai nel bar a forma di galleria che era già diventato la mia ancora nei primissimi giorni di prudente adattamento. In fondo, con le spalle alla stretta parete, troneggiava il poeta, enigmatico come il Padreterno. Là dove era seduto vedeva tutti e tutti lo vedevano. L’atmosfera nel bar sembrava diversa dal solito, più densa. Un simile carisma, capace di riempiere una stanza, o lo si possiede oppure no. Mi fece cenno di avvicinarmi. In seguito mi stupii del modo fulmineo in cui scemò il mio riserbo, che in realtà era scetticismo. Il poeta non era sarcastico come mi aspettavo, bensì simpatico e affabile. Raffinato e brillante in quasi ogni sua esternazione, questo sì, ma senza ostentazione. Mi sentii protetto e compreso. Si potrebbe anche dire che mi abbia circuito senza che me ne accorgessi. Da quell’incontro mi domando se esista una magnanimità naturale che induce anche uno scettico come me a fidarsi. Un dono innato. Oppure se certi effetti sono sempre una messa in scena.

Comunque sia, in quei pochi minuti, bevendo un caffè lui venne a sapere più cose di me che viceversa. Proprio quando stavo per alzarmi e andarmene, mi chiese: e che ne pensa di tutto questo? Risposta sincera!

Io risposi senza mentire: non avrei mai pensato che un giorno mi sarei sentito così vicino ad Adamo ed Eva. Il peso che può diventare il paradiso, strangolando la libertà, imprigionando la bellezza. È un’esperienza davvero impressionante.

Ben detto, mi gridò dietro il poeta, magnifico. Mi congratulo.

Due ospiti si sono fatti notare già prima dell’inizio del giro di presentazioni, come se temessero che quell’appuntamento da solo non bastasse. La capacità di esprimersi di sicuro non è il punto di forza di tutti, ma doveva essere proprio Julius, con la sua lingua sciolta, a mettersi in mostra? In due punti diversi del parco una mattina c’erano due enormi sculture. Il principio dei suoi lavori è noto. Le opere consistono in gran parte di aghi da cucito, sebbene per lui gli interstizi siano altrettanto importanti. Gli aghi sono materia e allo stesso tempo delimitazione della materia, responsabili di tutto: disegni, vuoti e strutture. Il materiale trasparente privo di bolle e di graffi che Julius usa per tenerli insieme è quasi invisibile. Solo quando ci si avvicina, si nota che gli aghi non sono sospesi in aria. Ma è naturale che le sculture debbano fare questo effetto: campi magnetici, stormi di uccelli, costellazioni cosmiche.

Quando insieme al piccolo Samuel mi sono fermato davanti all’opera che porta il titolo di Giove avariato3, entrambi ci siamo accorti che aveva dei cactus al posto dei piedi. Julius e i suoi collaboratori avevano macellato un paio di cactus grossi come un braccio che crescono dappertutto e che presto fioriranno. Quelli lì non sarebbero più fioriti. Dal punto di vista statico erano stati trasformati in una mirabile costruzione, dall’aspetto fragile ma, a quanto pareva, stabile che faceva da piedistallo al resto dell’opera d’arte. Tuttavia mi ha sorpreso la relazione pleonastica di cactus e aghi, anzi, devo ammetterlo: mi ha fatto arrabbiare.

Invece a Samuel è piaciuto proprio questo. I veri cactus reggono quelli finti, ha detto con apprezzamento, e questa frase mi è risuonata a lungo nell’orecchio. Ho evitato di fargli notare che quella scultura non si sarebbe conservata. Diversamente da tutto quello che Julius aveva fatto fino ad allora, quel sostegno presto o tardi sarebbe marcito, crollato e la scultura sarebbe finita in mille pezzi pieni di aghi da cucito. Ho sperato dentro di me che non fosse questo che Julius voleva dirci.

L’altro che si è messo in mostra è quel ragazzo che abita nella fila di bungalow davanti a me e che la mattina fa sempre la verticale in giardino. Negli ultimi tempi sempre e solo in costume da bagno. Ha sommerso le nostre cassette della posta con una marea di cartoline: io ne ho otto diverse, i genitori di Samuel anche di più. Franca dice che ne ha dodici. Sono foto di attrazioni turistiche di ogni genere, con evidente esclusione di quelle italiane. C’è l’Acropoli, la ruota panoramica di Vienna e la torre Eiffel, Mont-Saint-Michel, la Sirenetta, il Manneken Pis e una miniera di salgemma in Austria. Ci sono paesaggi africani e australiani come anche esempi di architettura moderna. Si tratta sempre di una singola foto, insomma non di quelle cartoline che mischiano diverse immagini. Sono tutte scritte a mano e pongono domande confuse: la perfezione è importante? Perché sei qui? È antiquato credere in Dio? La fedeltà è sorpassata? Scrivere significa dissolversi? Diventi parte della condizione del mondo dopo la morte? Lo stato è più importante della famiglia? Marx era un genio? Gli analisti finanziari sono dei criminali? Il gatto di Ringelmann è un animagus? Il mondo scomparirà presto? Gli auguri mentono? E simili.

Oggi Samuel e sua madre mi hanno invitato a mangiare un gelato. E così siamo giunti a parlare di queste cartoline. Jenna vuole ordinarle seguendo diversi criteri e provare a trovare un significato nascosto. Per la stagione faceva già abbastanza caldo quando siamo ritornati dalla gelateria. Le ho offerto un aperitivo e lei ha mandato Samuel a prendere il padre e tutte le cartoline. Ho suonato da Franca per invitarla, sembrava assonnata, ma si è convinta presto a partecipare. Abbiamo unito i tavoli da giardino e ci abbiamo ammucchiato sopra le cartoline. Prima le abbiamo ordinate secondo il destinatario, poi in base alla lettera iniziale del paese, infine secondo quella del soggetto fotografico, cosa che però non è stata possibile per tutte. Il marito di Jenna si occupava della lista. Ma era lei che prendeva la faccenda sul serio, voleva trovare qualcosa, a tratti con un’ambizione disperata che ha risvegliato in me quasi un istinto di protezione. Il mio sospetto è: Jenna cerca di risolvere qualcos’altro, per questo è in cerca di una decodifica. Nel bel mezzo Samuel è corso via ed è tornato tirandosi dietro anche Julius e le sue cartoline. L’uomo con la coda di cavallo verde pastello questa volta non indossava niente di grigio o di beige, ma semplici jeans e una maglietta dell’Hard Rock Café. Si spruzza sempre un profumo costoso. Quando gli è stato chiesto delle due enormi sculture, ha solo risposto alzando le spalle che secondo lui nel parco era dovuto avvenire un cambiamento: ehi! Siamo qui da settimane e nessuno se ne è accorto?

E anche se qualcuno avesse profanato il Giove avariato – al quale, tra l’altro, avevano collaborato per settimane diversi professionisti – per lui era sempre meglio che continuare a sopportare questa situazione di stallo.

Il mio telefono ha suonato, era la malata accanto. Sembrava divertita e ha detto che aveva messo le cartoline davanti alla porta sul retro; non dovevamo però avercela a male se non veniva di persona. Inoltre dovevo farle il favore di riferire a Jenna che anche tutti gli impiegati dell’amministrazione avevano ricevuto le cartoline, forse addirittura lo stesso Ringelmann. E nel caso la mia offerta di comprarle qualcosa al supermercato fosse ancora valida, all’occasione le avrebbe fatto piacere avere una bottiglia di gin, la marca non importava, a patto che non fosse la più economica.

Così siamo rimasti insieme sotto il cielo di velluto blu del tardo pomeriggio, i pappagalli verdi schiamazzavano, e ogni tanto le palme raspavano l’aria con le loro dita di foglie. Sembrava quasi di essere in ferie. Il marito di Jenna è affabile e intelligente anche se ogni tanto è colto da una specie di spasmo d’ilarità e non riesce quasi più a smettere di dire freddure. Allora Jenna lo guarda come se lo vedesse per la prima volta, lo scruta sibillina, nascondendo appena la propria spietatezza. Julius invece, in confronto a come lo avevo conosciuto, mi è sembrato addirittura rilassato, come se in via eccezionale l’aspirazione e l’ambizione lo avessero liberato dalle loro grinfie. Ci ha invitato tutti da lui per una grigliata una delle prossime sere, spero soltanto che ci sia qualcosa di più delle verdure.

Noi adulti avevamo rinunciato da un pezzo a risolvere il rompicapo delle cartoline ed eravamo passati alla libera conversazione, quando a un tratto Sammy ha ordinato le cartoline a seconda del colore, dal chiaro (una foto delle dune) allo scuro (un famoso teatro dell’opera moderno di notte). E all’improvviso ci è sembrato che se ci allontanavamo abbastanza, ne veniva fuori davvero un’immagine. Come se le cartoline fossero dei pixel. Il padre di Sammy le ha guardate con apprezzamento e ha detto: come un puzzle. Fino a quando non conosciamo la lunghezza del bordo…

Jenna era entusiasta. Se sapessimo quante sono in tutto, allora rimarrebbero solo poche possibilità, ha esclamato: un quadrato o un rettangolo… forse dovremmo provare prima con la sezione aurea?

Sono andato a prendere una bottiglia di prosecco. Fino a quando non avremo materiale a sufficienza, non lo risolveremo, ho detto sulla porta della cucina, guardando la divertita compagnia.

I giri di presentazione sono finiti, due mattinate istruttive sotto ogni punto di vista. Desidero descrivere le singole relazioni più avanti, quando mi sarò fatto un quadro più preciso dei lavori. Quando sarò in grado di tracciare un arco dalla promessa all’adempimento, dall’annuncio al risultato. Sebbene il direttore Ringelmann ci abbia più volte assicurato che nessun risultato è pur sempre un risultato.

Perché, ha detto nel suo breve e spiritoso discorso di apertura, vi siete di certo ripromessi molte cose per questo periodo qui da noi. Forse le realizzerete, oppure agirete in un modo molto diverso da quello che avete programmato. Forse non combinerete niente! Ma non dimenticate: anche se alla fine ve ne andrete da qui con la sensazione di non aver fatto ciò che in realtà volevate fare, forse questa è la via traversa con cui avrete dato il vostro contributo. Forse è proprio quello che non siete riusciti a fare la cosa più preziosa che ci rimarrà di voi.

Questo è avvenuto la mattina, prima che il vecchio poeta, fuori concorso per così dire, inaugurasse l’incontro con una lettura. Ha letto i suoi classici e alla fine anche qualcosa di nuovo, malinconiche e illuminanti poesie appartenenti al ciclo intitolato Per Samuel. Samuel era a scuola e non ha potuto ascoltarlo, ma di sicuro ne sarebbe stato contento. Il poeta non ha menzionato com’erano nate, l’ho trovato un gesto di sincera modestia. Forse lo ha fatto anche per auto-proteggersi. Uno come Julius non ne avrebbe messo subito alla prova la capacità di poeta estemporaneo?

Quando ha finito di leggere, ha appoggiato il foglio sul tavolo, ha alzato lo sguardo e ha detto: Il mio nome è Carl Hovland, e scrivo. Domande?

Verena, la pallida videoartista che dava l’impressione di essere un po’ instabile, con la quale all’inizio, davanti ai cassonetti della spazzatura avevo cercato di capire come funzioni qui la raccolta differenziata, ha fatto una faccia sconcertata. Gli ha chiesto con una certa scortesia se almeno voleva rivelare perché preferiva la poesia alla prosa? O questa domanda era troppo personale?

Alcuni hanno sogghignato, il ghigno più ampio è stato quello di Ringelmann, del quale fino a quel momento avevo avuto l’impressione che combattesse la crescente inquietudine – la sua e quella degli altri– con sorrisi e accenti gioviali. Ma quella mattina avrebbe aggiunto qualcosa.

Il vecchio poeta ha guardato Verena per quattro, cinque secondi. In confronto alle donne che aveva conosciuto negli anni giovanili – sulle sue storie d’amore sono stati già scritti diversi brani nei libri di storia della letteratura – doveva sembrargli un folletto androgino. Infine ha risposto: In realtà solo perché mi riesce meglio.

Dopo questo momento culminante, abbiamo continuato come c’era da aspettarsi: presentazioni originali senza molta sostanza, altre mediocri con tanta più sostanza, ibridi.

Acconto di simpatia di tutti nei confronti di tutti, e alcune scaramucce intellettuali, in cui di rado si trattava un argomento specifico, quanto piuttosto di definire la propria posizione ideologica. Per quel che mi riguarda le chiamo: mostrare le corna.

Ma la seconda mattina, prima del pranzo tutti insieme, è terminata in modo memorabile.

Le presentazioni le tenevamo all’ombra, verso mezzogiorno c’erano già trenta gradi. Eravamo seduti sotto vecchi alberi intorno a due lunghi tavoli di legno, collocati in un punto molto bello del parco. Il conferenziere di turno si alzava in piedi o si sedeva davanti, come preferiva.

Era già capitato in precedenza che gli afidi ci infastidissero. Per questo motivo ogni mattina pulisco i miei mobili da giardino con l’acqua calda. Nel frattempo ho cambiato posto ai mobili per spostarli da sotto le robinie. Ma non c’erano stati problemi né il primo giorno di presentazioni né all’inizio del secondo. Se a qualcuno era caduto un afide nel bicchiere o nella tazza del caffè, io non l’ho notato. Che la gente si accarezzi le braccia o passi il palmo sul piano del tavolo è normale. Per lo più sono movimenti immotivati che indicano concentrazione e nervosismo. Ma poi, durante la penultima o l’ultima relazione, gli afidi hanno cominciato a cadere dagli alberi in massa, come pioggia. In pochi minuti le persone e i tavoli erano ricoperti. Gli afidi hanno la spiacevole caratteristica di scoppiare e di trasformarsi subito in una poltiglia appiccicosa appena li si sfiora. I bei ragazzi dell’amministrazione, Bosco, Beppo, Bruno, Baldassare e come si chiamano tutti quanti (Franca li ha soprannominati la serie B), che durante le riunioni comuni esibiscono sempre una strana faccia di pietra come se stessero svolgendo un compito da certosino che richiede tutte le loro forze, hanno cominciato a strofinarsi i nasi arricciati. Anche i miei colleghi si sono distratti e sorridendosi a vicenda, hanno messo le mani sopra le bibite, si sono puliti gli occhiali. Alcuni hanno alzato gli occhi al cielo come se lassù si trovasse una spiegazione. I parrocchetti dal collare hanno sbirciato a loro volta, mostrando il profilo grazioso, con gli occhi di lato.

Ma dopo un paio di minuti di confusione la scena si è tranquillizzata in un modo che mi ha impressionato. Perché il comportamento di Ringelmann è stato un modello di stile. È rimasto seduto come se non ci fosse nessuna invasione di afidi. Con il suo portamento sembrava voler esprimere che ciò non doveva accadere. Che lui, con il suo Essere autorevole, protestava e che tutto il resto in fin dei conti era una questione di volontà. Non era solo impassibile – no, era più incisivo, più artistico. Se già in precedenza aveva fornito un esempio di alta concentrazione, ascoltando i discorsi e la lettura delle poesie con gli occhi chiusi, adesso si addensava come se fosse capace di moltiplicare di proposito il proprio peso specifico. Non stava solo seduto, ma sembrava essersi abbattuto lì come una palla di cannone, severo ed esemplare, e al contempo sintonizzato sulle funzioni Trasmettere e Ricevere tanto che quasi lo si sentiva ronzare. Senza girare la testa, sarebbe stato in grado di dire chi continuava a fare il cretino. Non avevo mai visto prima una tale dimostrazione di autorità senza parole e gesti. I capi religiosi asiatici non ne sarebbero stati capaci, a prescindere dal fatto che il loro potere non si basa sulla sottomissione. Ringelmann era concentrato su se stesso come un pezzo di osmio. Gli afidi piovevano dagli alberi. Si appiccicavano ai suoi minuscoli occhiali sfavillanti e sulle spalle del vestito di finissimo mistoseta azzurro. Si impigliavano tra i peli delle mani abbronzate, a me è sembrato addirittura di vedere due, tre puntini neri sul carnoso labbro inferiore. Ma Ringelmann non si è mosso: ascoltava, registrava, assimilava, dimostrava rispetto a chi parlava. E così per la rimanente mezz’ora lo abbiamo imitato tutti, abbiamo smesso di pulire, di scuoterci e di scivolare da una natica all’altra. Ma non siamo riusciti ad assomigliargli neanche alla lontana. La maggior parte di quelli che ho potuto osservare, avevano un’espressione abbastanza tirata.

* * *

La crisi è scoppiata e ne sono quasi sollevato. Finora è stato come entrare a piccoli passi in un mare gelato, prima alle caviglie, poi al ginocchio. È noto che i metodi all’apparenza delicati prolungano la tortura. Ma adesso è finita, noi abitanti della colonia siamo tutti dentro e sgambettiamo ognuno alla sua maniera.

La telefonata è arrivata verso mezzanotte. La mia vicina invisibile mi ha pregato di andare da Julius, in cucina, come ha sottolineato più volte, dica a tutti che devono rimanere in cucina. E da lì mi richiami subito.

Nella cucina di Julius l’assemblea, fatta eccezione per i bambini, era già al completo. Sören, lo schivo uomo delle cartoline, indossava una specie di kimono di seta, Jenna fumava e sembrava tranquilla, la videoartista e il suo ragazzo parevano un po’ ubriachi. Franca ostentava calma mandandomi un bacetto. Hovland era seduto in un angolo con una tazza di tè e borbottava tra sé. Ho chiesto il telefono di Julius, ho richiamato la signora di porcellana e ho appoggiato l’apparecchio con il vivavoce acceso sul tavolo.

Poiché erano presenti anche i tanti assistenti di Julius, c’è stata una breve discussione su quanto dovesse essere ristretta la cerchia degli iniziati. Famiglia e compagni sì, assistenti no? Ma poiché tutti erano lì per sostenere noi, i coloni prescelti, nel nostro lavoro, sia dal punto di vista emotivo che ambientale, abbiamo risolto in fretta la questione in maniera liberale. Verena era aggrappata alla bottiglia di birra e chiedeva con voce strascicata se oltre a ciò non dovessimo domandare di avere ancora più sostegno, amici e colleghi dotati di particolari capacità? Com’era un tempo con il jolly telefonico? Almeno fino all’esaurimento dei posti letto che l’amministrazione poteva metterci a disposizione?

Mi ero riproposto di assumere una posizione il meno coinvolta possibile. Volevo essere soltanto un cronista. Un cronista con molti acciacchi, lo ammetto. Ma mi sono sforzato. Mi sto sforzando4. Saranno i miei successori a giudicare se ci sarò riuscito. Se mai ci saranno dei successori, perché persino su questo punto le opinioni divergono.

Almeno questo è sicuro: la chiara maggioranza dei coloni è disorientata se non indignata che Ringelmann non sveli il nostro vero compito o non ci indichi se siamo sulla strada giusta.

Su quale strada, maledizione, ha sbottato Jenna a un certo punto, finora non abbiamo fatto niente!

Tu e tuo figlio ci avete reso un grande servizio con questa storia delle cartoline, l’ha consolata Franca, oltre alla mole di lavoro che tu…

Potrebbe dirci che cosa intendeva, ha ribattuto Jenna con veemenza indicando il ragazzo in kimono che faceva la verticale in giardino ogni mattina.

Sören era spaventato. È molto timido, non parla quasi mai, qualche volta lo incontro quando va a prendere i pomodori e le pesche nell’orto della comunità. Gertrude, la compagna dell’architetta del numero 14 – finora non ho citato le due signore perché sono carine, curate e poco appariscenti, ma forse sono proprio loro le più importanti? – una volta mi ha esposto l’ipotesi che Sören si nutra solo di vegetali per raggiungere un livello di riflessione spirituale più alto, come tutti gli asceti della storia da che mondo è mondo.

Non lo farò, ha detto Sören piano ma sicuro: altrimenti tutto il mio lavoro sarebbe inutile.

Il tuo lavoro, il mio lavoro, ha sibilato Jenna.

Ma che ci sia un compito da svelare, di questo sono tutti convinti tranne Hovland.

Sebbene le opinioni sul tipo e il significato del compito differiscano parecchio.

Hovland invece è dell’opinione tradizionale che quest’anno in colonia abbia lo stesso significato che ha da decenni: una ricompensa per i più anziani che nel loro campo hanno raggiunto traguardi eccezionali, nonché un incentivo per i più giovani che vedono riconosciuto così il loro eccezionale talento. Gli sguardi che ha raccolto, li ha descritti Hovland stesso nel modo più azzeccato mentre si pettinava con le dita la lunga barba: adesso penserete che io sia un vecchio coglione che non capisce niente, e questo è vero. Ciononostante mi rifiuto di lasciarmi coinvolgere da questa isteria apocalittica.

Il marito di Jenna gli ha domandato: li legge i giornali?

Certo che li leggo! Ma sono un po’ più vecchio di lei e ho già visto altre crisi globali!

Gertrude, al massimo quindici anni più giovane di Hovland, ha detto irriverente: forse lei si trova qui proprio perché è così vecchio.

Alice, la sua compagna, ha aggiunto: resta la questione se questo ci debba irritare o consolare.

La voce della mia vicina malata risuonava dalla cornetta del telefono: questo non ci fa andare avanti. Mizzica, dì che cosa hai sentito!

Verena ha mostrato alla cornetta il dito medio e ha bevuto un altro sorso di birra. L’aiutante croata di Julius ha raccontato a voce bassa di aver usato per errore il bagno sbagliato dell’amministrazione – le scritte si differenziano solo per un’unica lettera – e nelle cabine riservate agli uomini di avere sentito Beppo e Bruno che, davanti all’orinatoio, commentavano a bassa voce il crescente malumore di Ringelmann, di cui non c’era da meravigliarsi dato che almeno gli spagnoli e gli americani erano già molto più avanti. La frase decisiva che Mizzica diceva di aver sentito era: i nostri non sono abbastanza svelti.

A questo punto Franca si è chinata sul tavolo, mostrando bene a tutti l’invitante scollatura, ha afferrato la cornetta e ha chiesto parlandoci dentro: non crederà mica che la serie B lo sappia?

La voce dell’attrice ha risposto: dovremmo almeno discuterne.

Franca ha detto: tra l’altro la rivedrei volentieri, per queste cose sono all’antica. Se non è più malata, potremmo incontrarci da lei?

Julius ha alzato entrambi i pollici in segno di approvazione.

La voce ha risposto: mi dispiace. La situazione non è ideale, lo ammetto. Ma a casa mia, per certi motivi tattici, il gatto entra ed esce.

Hanno annuito quasi tutti come se questa fosse una giustificazione sufficiente. Solo Hovland ha fatto una smorfia, un misto di pena e riso represso.

Con la voce strana e acuta che segnalava quanto malvolentieri parlasse davanti a tante persone, Sören ha detto all’improvviso: la serie B non può essere al corrente! Alcuni di loro hanno passaporto italiano! L’azione è diretta da Berlino! Tutto il resto è impensabile!

Dopodiché si sono messi tutti a parlare alla rinfusa, dalla cornetta sul tavolo gracchiava la voce dell’attrice e mi è impossibile ricordare con precisione quanto è stato detto. Le proposte andavano dalla lotta aperta (appuntamento tutti insieme da Ringelmann per costringerlo, sotto la minaccia di una partenza collettiva, a rivelarci il nostro compito) fino all’esatto contrario, vale a dire un’impassibilità tattica di ispirazione orientale: non facciamo proprio niente, restiamo impietriti come la lucertola su cui cade l’ombra dell’uccello. Continuiamo a lavorare imperterriti ai nostri progetti come è stato concordato in via ufficiale. Utilizziamo il posto e il tempo che ci è stato regalato, siamo contenti, riconoscenti allo stato e cerchiamo di ignorare la catastrofe che ci minaccia prendendoci la nostra responsabilità, perché infatti, fino ad ora, tutte le crisi sono state risolte all’ultimo momento, da qualcun altro. Nel caso in cui tutte le supposizioni siano esatte, se siamo davvero troppo lenti o addirittura corriamo il pericolo di fallire, allora interverranno in fretta per darci un indizio di cosa si aspettano da noi. Questa posizione estrema e inattaccabile era di Hovland.

Alcuni di coloro che, al contrario del vecchio poeta, credono con fermezza all’esistenza di un compito e alla sua urgenza, sono altrettanto convinti che per uscirne al meglio tutti gli aiuti ci giungano codificati dall’esterno. Gli afidi potrebbero essere stati un intervento in questo senso. Chissà se dovevamo seguire il divieto di cogliere i limoni. Verena ha proposto di aprire i cancelli e ospitare sui prati i senzatetto e i profughi dalla stazione e di cucinare per loro. E così via. Perciò il piano di arrivare al confronto diretto con Ringelmann è stato liquidato quasi subito. La proposta di Hovland, invece, ha trovato qualche consenso. I suoi sostenitori, tuttavia, avrebbero dovuto farsi la spiacevole domanda se non fosse proprio lui il diavolo che ci conduceva in tentazione, pieno di pigrizia e vigliaccheria.

Poiché ho promesso di stilare per domani una lista delle domande più importanti, la finisco qui. Nel frattempo sono quasi le cinque del mattino e proprio come la maggior parte degli altri non ho potuto resistere alla grappa di prima qualità che da ultimo è arrivata sul tavolo.

Lista:

1. Il nostro compito consiste nel continuare a lavorare ognuno nel proprio campo specialistico? Oppure dovremmo piuttosto lasciar perdere i progetti individuali e cercare di unire nel modo più sensato i nostri talenti? È consigliabile addirittura una combinazione di entrambi i modi di procedere? (allo stato attuale una risposta non è possibile – tutte e tre le varianti devono essere perseguite e valutate con regolarità).

2. Si tratta “soltanto” di un concorso internazionale di talenti, nell’ambito del quale tutti noi gareggiamo per l’onore della Germania oppure, considerata la situazione mondiale, di un tentativo voluto dai piani alti di compiere una brusca virata con l’aiuto di scienza e arte? Vale a dire: gli spagnoli e gli americani, i francesi, gli inglesi, i rumeni, i polacchi e gli svizzeri, a qualsiasi cosa stiano lavorando nelle loro rispettive colonie, sono i nostri partner o i nostri avversari? (Status come 1)

3. Sussiste un’ampia unanimità sul fatto che le soluzioni autentiche debbano essere cercate lontano dai sentieri battuti. Non è un caso che tra noi ci sono artisti, studiosi di scienze naturali e di scienze umane, e nessun esperto monetario, di terrorismo o di migrazione. Ci concentriamo sulle nostre capacità e sui nostri interessi, tenendo presenti tuttavia le problematiche globali.

I media annunciano la più grande ondata di caldo degli ultimi anni. Circolano ogni genere di avvertimenti possibili e di fogli informativi. Nelle nostre caselle postali un giorno abbiamo trovato un sacchetto contenente sali minerali da aggiungere all’acqua potabile. Una volta al giorno, con i miei saluti più estivi, Ringelmann. Di tanto in tanto Ringelmann ha questi attacchi di affettuosa premura, addirittura intima, che da una parte mi commuovono, dall’altra mi ricordano che altrimenti è quasi del tutto assente. Un uomo con un gatto come una silhouette all’orizzonte, protetto dai collaboratori e forse addirittura rinnegato da noi. Anche se i miei colleghi di rado si sforzano di avere un appuntamento con lui, ad eccezione di Julius, che in ragione della grandezza delle sculture e del numero degli assistenti, necessita del sostegno regolare dell’amministrazione.

Si temono lunghi periodi di blackout dovuti all’uso eccessivo dei climatizzatori in tutta la città. Baldassarre, con una mail, raccomanda di non esporsi al sole per più di un paio di minuti tra le dieci e le diciannove, di tenere chiuse le persiane e di arieggiare tra mezzanotte e le cinque del mattino.

Nonostante sia consigliabile, finora nessuno è andato in vacanza. Tutti quelli cui l’ho domandato, fanno un gesto come a significare di lasciar perdere e dicono, vedremo. Anch’io sono curioso, è come aspettare il primo uragano della propria vita, un pericoloso spettacolo della natura che non si conosce ancora.

Samuel è già in vacanza. Dorme volentieri a lungo, poi si siede all’ombra e legge con un’espressione attenta, quasi meravigliata che mi ricorda le mie ferie estive, le superfici infinite fatte di tempo, del frinire delle cicale, di mondi immaginari. Dal gatto si tiene lontano. A parte lui fuori non c’è quasi nessuno.

Verso mezzanotte si tengono spesso delle riunioni spontanee nei giardini. Se ne viene informati sempre dalle risate che vengono trasportate da un raro venticello attraverso la spessa, scura afa, oppure dalle figure che sfilano con bottiglie o sedie. Ci sediamo insieme in un giardino o in un altro, prima o poi una volta in ognuno, le bottiglie sul tavolo sono sempre molte. Per un periodo abbiamo bevuto una Malvasia del Lazio, poi di nuovo un vino rosso che si chiamava Civitella. Infine siamo passati a un sauvignon del Friuli. Anche da questo punto di vista ci intendiamo ormai alla perfezione.

Franca ha grandi flaconi colorati di spray antizanzara con cui spruzza in abbondanza chiunque si gratti. Jenna fuma di nuovo e appare spesso chiusa in se stessa. Sta seduta lì, le gambe accavallate, le sopracciglia corrugate sopra la radice del naso e riflette. Le auguro davvero che possa trovare la soluzione del rompicapo delle cartoline. Cioè, spero che questo tizio che fa la verticale e saccheggia l’orto ve ne abbia nascosta una. Tuttavia la ritengo capace di trovare un disegno che non era previsto. La ritengo anche capace di inventarsi una soluzione.

Le signore Gertrude e Alice, invece, hanno uno splendido umorismo asciutto, quasi britannico. Più fa caldo, più sono allegre. Diventano alticce in fretta e poi si danno del lei.

Se questo drink non si addice al suo umore attuale, gliene faccio un altro con grande piacere, dice per esempio Gertrude ad Alice.

E Alice alza il suo bicchiere, lo agita pensierosa e risponde: Mia cara, il drink può rimanere solo per scorrere in fretta nella gola.

Entrambe non si tolgono i grandi cappelli da sole neppure la sera, per via delle pettinature. Come si è venuto a sapere da poco: pare che là sotto sia tutto schiacciato in modo irrecuperabile. Accanto a frasi e gesti come questi, Verena, la magra videoartista con il brillante al naso e la postura curva, la bottiglia di birra sempre incollata alla mano bianca come carne di vitello, non c’è che dire, è una compagnia singolare.

Nel frattempo mi sento sempre più legato agli altri, sebbene ne sappia abbastanza sulla dipendenza nei gruppi. Tuttavia è come una famiglia, solo che ci si può ritirare in ogni momento senza giustificazione. Finora non mi hanno mai deluso. Alcuni mi piacciono in modo particolare, con altri ho meno contatti, ma insieme formano una specie di rete che mi sostiene meglio delle pasticche della dottoressa Biasini. Una simile colonia è forse la forma perfetta di vita? Di sicuro migliore del matrimonio e del nucleo familiare. E a differenza di un villaggio, qui siamo selezionati con cura. Siamo molto diversi per talento e professione, ma abbiamo un livello culturale simile. Anche questo aiuta a sopportare i contrasti.

L’unico che porta sempre il discorso sul nostro compito e la possibile soluzione è Julius. Dice di continuo di avere sentito dire qualcosa oppure ha una nuova tesi, ha parlato di banalità con i ragazzi della serie B e crede che abbiano fatto delle allusioni. Ti fissa con quegli occhi da libellula illuminati da dentro e gesticola in un modo affascinante, non a scatti come gli italiani, ma con movimenti armonici e rotondi, molto ampi, di filigrana ma al tempo stesso autoritari, un aggraziato dittatore. Di tanto in tanto alza la voce come un predicatore, quando si accorge che cominciamo a evitare lui e quel che dice. Allo stesso tempo mi sembra che gli altri quasi si affrettino a simulare un minimo interesse per impedire che Julius si dilunghi sulla nostra mancanza d’impegno. In modo che non ci domandi che fine abbiano fatto l’ambizione, le velleità artistiche. La voglia di vincere?! Questo non vogliamo proprio sentircelo dire, non adesso, con quest’afa, ne sono abbastanza sicuro.

Di recente Julius mi ha assalito informandomi che il direttore Ringelmann aveva controllato di persona il funzionamento delle linee elettriche di tutto l’impianto. Quando non ho reagito subito, si è mostrato sorpreso. Da quand’è che Ringelmann s’interessa di queste cose, ha domandato, è strano! Tra l’altro anche la tua vicina la vede così!

Quale vicina, ho domandato confuso. Non io, disse Franca dirimpetto. Indossava una specie di abito coloniale semitrasparente, lungo fino ai piedi e con le maniche lunghe per via delle zanzare, sotto il quale le forme si delineavano con eleganza. Franca ha riso un po’ sprezzante: la vede così quella che non si vede mai.

Tu telefoni all’attrice? Ho domandato a Julius stupefatto. Finora ero partito dal presupposto che fossi io il suo unico legame con il mondo, fatta eccezione per i ragazzi della serie B, comunque di rango inferiore, che le sbrigavano le commissioni e andavano in farmacia per lei. Mi sono rimproverato per questa presunzione. Ma poiché nel frattempo aveva bisogno di una bottiglia di gin ogni tre giorni, ne ho dedotto che aveva un solo confidente.

Ogni tanto, disse Julius evasivo. Comunque sia, ha ripreso, se con quaranta gradi Ringelmann corre dietro a due elettricisti per tutto il complesso, significherà pur qualcosa!

Forse soltanto che il nostro approvvigionamento elettrico è molto debole e vuole farci vedere che se ne interessa, ha suggerito Franca. Lei ha una mente molto svelta, ha sinapsi più veloci delle altre persone. Per questo qualche volta è impaziente.

Cosa significa allora secondo te? Ha domandato Jenna voltandosi verso Julius, il viso nell’ombra sembrava una pallida conchiglia. Mi sono chiesto all’improvviso se Jenna lo avesse mai guardato in quel modo prima, così senza protezione ed esigente. Se mi fosse sfuggita una sottile riservatezza, forse addirittura l’inizio di un’inimicizia.

La domanda di Jenna era proprio quella giusta. Perché nessuno sembrava sapere dove voleva arrivare Julius.

Ma Julius si è rifiutato di rispondere.

Io osservo e tiro le mie conclusioni, ha detto irritato, se lo faceste anche voi progrediremmo più in fretta.

Franca, quella sfinge sempre divertita, ha proposto di fare un brainstorming segreto su cosa potesse significare l’interesse di Ringelmann per l’elettricità. Ha strappato dei tovaglioli di carta in tanti pezzi e ha pregato le padrone di casa Gertrude e Alice di portare un paio di penne. Per sicurezza ho appoggiato la bottiglia di grappa che avevo con me in mezzo al tavolo.

Ancora una volta, per tutti, ha detto Franca scandendo le parole con cura come un’insegnante mentre distribuiva i pezzi di carta gialli, la domanda è: perché Ringelmann si occupa di verificare di persona il funzionamento delle linee elettriche? Potete scrivere singole parole o frasi intere.

Verena, che sedeva intontita sulle ginocchia del suo ragazzo, ha chiesto: Posso scrivere anche, non lo so?

I primi si sono messi al lavoro, le penne sono passate di mano in mano, alcuni hanno fatto delle smorfie, altri scosso la testa, ma la maggior parte ha risposto per iscritto su un pezzo di tovagliolo a una domanda assurda, mezzo ubriachi, a mezzanotte, con trenta gradi, in una tenuta italiana, come se fosse la cosa più normale di questo mondo. Franca ha raccolto le risposte e le ha lette ad alta voce. Le più creative andavano da Un tempo è stato un ingegnere elettronico ed è noto per la sua mania di controllare tutto personalmente e Ha delle grane al ministero e non può più permettersi di sbagliare, passando per Si temono minacce di attentati/atti di sabotaggio, forse dalle colonie concorrenti! fino a Vuole farsi un quadro generale delle infrastrutture per poterle mettere fuori gioco in caso di necessità.

E chi ha scritto cosa? Ho chiesto, rompendo il silenzio dopo quest’ultima risposta.

Lo vorrebbe tanto sapere il nostro cronista, disse Franca, è scoppiata a ridere, ha appallottolato i bigliettini e ha lanciato la palla nella brace del piccolo grill di Alice e Gertrude dove ha preso fuoco e si è ridotta in cenere.

L’afa si è depositata, è calata dentro di noi come una forza annientante. Prima si avvicina di soppiatto, in modo impercettibile, così che un principiante non la prende sul serio. Non crede che abbia davvero intenzione di ucciderlo, o almeno di farlo impazzire. Ma lei allunga le dita pian piano, comincia a strangolarti lentamente e non appena te ne accorgi è già diventata insopportabile.

Gli italiani spariscono presto dalle strade, fanno la spesa la mattina presto o la sera tardi e per il resto della giornata restano nascosti dietro le persiane all’ombra dei loro uffici climatizzati. Solo gli stranieri che vengono dal Nord si attardano inconsapevoli in giro e si rallegrano come bambini di quell’estate infinita. Si può andare al mare oggi oppure domani, ci si può sdraiare al sole subito o più tardi perché i monitor nella metropolitana mostrano da settimane la stessa carta del tempo e non è necessario sapere l’italiano per leggerla: l’intero paese pieno di soli gialli e pungenti che a furia di guardarli sembrano fori di proiettile.

Si potrebbe provare a dormire solo tra la mezzanotte e le cinque del mattino. Dato però che le ore notturne sono le uniche in cui ci si sente più vitali, la cupa morsa intorno alla testa si allenta e ci si rinuncia.

Con le mie pasticche potrei rendermi la vita più facile. Ma ho smesso senza sapere perché. Forse perché spero che l’estrema stanchezza costringa testa e corpo a tornare al vecchio ritmo. Mi sottopongo a questo esperimento su me stesso perché anche gli altri si trovano in una situazione eccezionale e non riescono a combinare molto. La colonia è piena di figure che si muovono lente, stanchissime oppure, al contrario, vigili e nervose, forse voglio solo essere solidale. Due donne che lavorano per Julius la notte portano i bambini lamentosi nel parco. Perché persino i più piccoli dormono male, anche a causa degli attacchi delle zanzare tigre che li infastidiscono parecchio.

Da un po’ di tempo mi alzo alle cinque e mezza e mezz’ora più tardi mi metto al lavoro con le porte e le finestre aperte. I ventiquattro gradi del primo mattino mi sembrano freschi, quasi freddi. Verso le nove (ventotto gradi e mezzo) chiudo le finestre e abbasso le tapparelle lasciando solo una fessura per areare la stanza. Proseguo il lavoro come se fosse inverno, sotto la luce della lampada sulla scrivania, e con irritazione ne avverto il calore sulle dita. Accanto al computer c’è un ventilatore, tutti i fogli sciolti sono tenuti fermi da bicchieri o sassi. Lavoro ancora tre ore, fino alle dodici, le dodici e mezzo. Questa sensazione che a un tratto non sia più possibile continuare, è nuova per me. Di solito faccio una pausa perché sono stanco o perché ho fame, oppure mi viene voglia di sgranchirmi le gambe per dieci minuti. Qui invece sono nel bel mezzo di una frase oppure di un pensiero, concentrato e creativo, ma nell’attimo successivo il cervello si chiude di scatto. Me lo spiego così: il corpo lotta a lungo contro l’afa e l’umidità, impiega tutte le risorse in quella battaglia in modo che la testa possa continuare a lavorare. Quando però deve arrendersi, allora succede da un momento all’altro. Le lettere si confondono davanti agli occhi, non penso a nessun’altra parola a parte caldo, mi alzo, barcollo fino alla cucina, prendo una bottiglia d’acqua dal frigorifero e mi sdraio sul letto nella stanza buia. Quasi sempre riesco anche a portare con me il ventilatore e a posizionarlo in modo che mi rinfreschi la pancia. Di recente Verena ha detto che qui siamo incatenati al ventilatore come un malato all’asta della flebo. E così trascorro inerte le ore, sonnecchio, leggo, le dita stanche e annoiate sul cazzo. Qualche volta mi sono ritrovato ansimante dopo un accesso di rabbia cieca, inseguito da una o più zanzare tigre fin dentro questo stanzino di cupa sofferenza, dopo aver ballato il ballo di San Vito per la stanza, saltando sul letto e poi di nuovo giù, con la mano dolorante per il colpo alla parete, sulla quale infine c’era la macchia nero-sangue.

La corrente manca più volte al giorno. Me ne accorgo anche quando non sono sdraiato a letto e non sento il ventilatore che si ferma con un fastidioso clac, perché nel circondario cominciano a ululare gli allarmi. Sono programmati per scattare in caso di blackout e continuano a essere alimentati con un’energia propria, indipendente dalla rete. All’inizio non capivo, ma invece è logico. Lo scassinatore stacca l’elettricità e proprio per questo viene scoperto.

Forse è tipico di me che dopo i primi due, tre allarmi ho cominciato a stilare una statistica. Giorno, ora e durata, annoto tutto. Questo mi dà il sostegno di cui ho bisogno in questi giorni. Accanto al letto tengo fogli per gli appunti e matite per non dovermi alzare durante il delirium sudans. Tuttavia penso spesso con rammarico a quei pochi che mi sono sfuggiti all’inizio e mi chiedo se da qualche parte là fuori, nei nuovi palazzi gialli come il sole al tramonto che sovrastano la colonia oltre le mura esterne, abiti un vecchio che fa la stessa cosa tutte le estati, per interesse e per noia, e che potrebbe aiutarmi a completare la statistica con i blackout mancanti. Forse esiste, ma non so come trovarlo. È diventata un’idea fissa. Distribuire nel vicinato un accattivante e mal tradotto volantino per chiedere se qualcuno abbia registrato i blackout, con tutta probabilità passerebbe per un’iniziativa artistica. Immagino di tracciare un cerchio sulla pianta della città, intorno alla zona dove voglio affiggere il mio appello. Ma di certo andrebbe a finire che il mio signore,5 quello con gli occhiali cromatici da pilota anni ottanta, con i capelli radi, pettinati sulla pelata abbronzata e la camicia beige, abiti nella prima casa oltre il confine che immagino. Nonostante tutti i miei sforzi, non ci incontreremmo.

Con una mail Verena ci ha invitato da lei alle quattordici, l’ora più calda. In un tono per lei insolito, quasi supplichevole, ci ha pregato di essere tutti puntuali e di portare ognuno il proprio ventilatore. Franca, che a causa del lavoro che fa ha uno spirito molto pratico, ha scritto nella risposta indirizzata a tutti gli altri che, forse, sarebbero stati necessari anche dei cavi di derivazione.

Quando ci siamo ritrovati tutti lì, madidi di sudore e pallidi per la spossatezza sotto l’abbronzatura, in pantaloni corti o svolazzanti vestiti estivi, ognuno con un ventilatore sotto un braccio e una bottiglia d’acqua sotto l’altro, siamo scoppiati in una risata fragorosa. Ridete, ha esclamato Gertrude che già sapeva di che si trattava, ridete quanto più potete perché dopo dovremo tacere. La telecamera di Verena era istallata in un angolo in alto della stanza, come per sorvegliarci. Sören, Julius e il ragazzo di Verena avevano costruito con i cavi e le prese un cerchio di ventilatori. Era carino: una ronfante famiglia di teste reticolate bianche e nere, grandi e piccole, esteticamente molto più gradevoli di un parco eolico tedesco. All’esterno del cerchio di vento c’erano cuscini e coperte. Ma noi ci siamo seduti all’interno del cerchio, sul pavimento nudo. Verena ha aperto le grandi porte a battenti del suo atelier e ha guardato l’orologio.

Non si parla e non si ride, ha detto Jenna ammonendo Samuel che sedeva attento tra me e lei: ma puoi bere tutte le volte che vuoi.

Alice e Gertrude hanno tirato fuori dalle borsette dei ventilatori portatili che facevano pensare a dei vibratori con le alette e se li sono messi sotto il naso. Alcuni hanno riso di nuovo, solo il bambino le ha guardate meravigliato. Franca ha distribuito dei ventagli alle donne, anche Hovland ne ha preso uno. Nessuno gli ha mai domandato se con questo caldo non valga la pena di scorciare la barba che gli riscalda il collo e il petto. Ci sono uomini, tuttavia, che hanno buoni motivi per portare barbe simili, per esempio se hanno la parte inferiore del viso troppo piccola, da topo.

E poi dall’amministrazione sono arrivati i ragazzi della serie B, Beppo, Bruno, Bosco e come si chiamano tutti quanti, in quel modo svagato ed esitante con cui si avvicinano sempre a noi, ben vestiti e pettinati, perché ci amministrano con piacere, sotto climatizzatori silenziosi, né devono essere creativi come noi con trentadue gradi e il novantacinque per cento di umidità. Uno di quei bei giovanotti portava addirittura una sciarpa di seta, presumo che si sia raffreddato per le correnti d’aria fresca. Verena li ha fatti entrare, li ha invitati a prendere posto sui cuscini e le coperte e ha chiesto di Ringelmann.

Il signor direttore è spiacente ma ha un appuntamento fuori sede, ha detto Baldassare con una voce metallica, in perfetto equilibrio tra gentilezza e impertinenza, ma in compenso noi siamo venuti al completo.

Verena ha indugiato e per un momento è sembrata riflettere se non dovesse protestare. Poi ha chiuso le porte ed è tornata al posto. E così siamo rimasti seduti lì, in silenzio a sventolarci, i ventilatori soffiavano misericordiosi su di noi diminuendo la temperatura di quelli che ci sembravano cinque gradi. La serie B invece era seduta all’esterno del cerchio su chintz, velluto e lana, che in confronto al pavimento di pietra sembravano una tortura. Ma si sono rassegnati al loro destino. Dopo un momento di attesa piena di tensione che mi aspettavo scaturire in un’aggressione improvvisa, i miei pensieri sono scivolati verso l’uomo nel grattacielo giallo che di sicuro aveva annotato i blackout degli ultimi dieci anni. Se aveva un computer – nella fantasia non ce l’ha – poteva elaborare i dati e disegnare curve e diagrammi, forme geometriche dell’anarchia, dell’imperfezione e del fallimento delle infrastrutture. Ho sognato di mettere in relazione, nella cantina fresca di un ministero, le statistiche dei crimini in città con le stagioni e le temperature, omicidi in estate, omicidi in inverno, omicidi durante un lungo blackout. Altri crimini, rapine, violenze carnali. Magari anche i suicidi. Sarei potuto passare ai fatti solo dopo che l’aria si fosse rinfrescata, ma non sono cresciuto qui.

Non so quanto tempo è passato. Ero seduto lì, sentivo il relativo fresco del pavimento e pensavo che la terra ha un nucleo incandescente, liquido. All’improvviso si è grati che esistano le calotte polari. Poi la telecamera ha fatto bip, Verena ha battuto le mani, si è alzata e ha esclamato: grazie, è tutto. Quelli della serie B, con i capelli e i volti fradici e le camicie e i vestiti stropicciati a furia di stare seduti sui cuscini, si sono alzati, si sono sistemati un po’, ci hanno augurato con tono inespressivo una buona giornata e si sono ritirati in buon ordine così come erano venuti. Un paio di noi erano sulla porta e li hanno guardati allontanarsi. Anche se in quel momento ho preferito non dirlo, sono tuttavia convinto che Bruno, Bosco, Baldassarre, Beppo, Benedetto, Belcore, Bianco e Basileo d’ora in poi ci odieranno. Alla fine Franca ha rotto il silenzio indicando fuori il verde lussureggiante: trovo inoltre che dovrebbero spegnere le cicale.

Mi sono fermato a lungo; sono successe molte cose. Adesso devo affidarmi ai ricordi lacunosi e a quelli, c’è da sperare più affidabili, dei coloni che sono ancora disposti a collaborare a queste annotazioni.

Non so neppure più qual è stata la ragione scatenante che ci ha indotto a occupare il gazebo, a parte l’afa certo, il logoramento, la tensione nervosa che nessuno, a cui non sia colato il cervello dalle orecchie per settimane, può davvero immaginarsi.

Nel mio ricordo, tutte quelle notti di afa si fondono in una sola, lunghissima. I due bambini più piccoli piangevano per ore; le madri, come fantasmi rassegnati, li portavano nel parco, li cullavano e canticchiavano una ninnananna. Si sforzavano di stare il più lontano possibile da noi, in modo da non disturbarci, ma il pianto inarrestabile dei bambini era trasportato da ogni parte. Erano i nostri demoni e i nostri sacerdoti, quei bebè; ci torturavano dando alla tortura un’espressione adeguata. Qualche volta mi sembrava che bambini cominciassero a piangere non appena tacevano le cicale. Non appena era troppo buio per le zanzare. Piangevano perché volevano farci notare che avrebbe dovuto essere sempre così, più fresco di quel poco che separa l’afa dall’inferno. Che loro riuscivano a vivere e quindi a piangere solo quando la temperatura scendeva sotto i trenta gradi e il sole, quell’assassino, scompariva per un paio d’ore.

Qualche volta divampavano idee d’importanza capitale e allora discutevamo con trasporto per un po’ fino a quando la discussione moriva e le idee si dimenticavano per sempre. Dell’attualità politica parlavamo di rado, non ne valeva la pena. Grosso modo eravamo d’accordo con il resto dell’umanità che riceveva le notizie che la catastrofe era ormai inevitabile.

Per quel che riguardava l’arte e le sue manifestazioni, eravamo generosi. Avevamo superato da tempo l’esigenza di mostrare le corna. Qualche volta provavamo a cantare, ma quasi sempre il tentativo falliva per i registri di voce inconciliabili e per il repertorio. Io pensavo che gli animali pecilotermi, i serpenti, le rane, più fa freddo, più rallentano. E che per gli uomini è il contrario.

Perché non ci fanno dormire negli uffici dell’amministrazione? Sussurrò una delle madri che era riuscita a tranquillizzare il suo neonato. Sedeva a gambe incrociate nell’erba e cullava il bambino che dormiva.

Perché non ci lasciano gli uffici quando finiscono il lavoro? Faremmo i turni per l’aria condizionata6 come ai vecchi tempi, quando si affittavano i letti. Non sposteremmo niente, non se ne accorgerebbero neanche, nel cestino della carta non ci sarebbe un fazzoletto di più, non un solo mouse sarebbe fuori posto. Tutto inalterato, addirittura spolverato. Se dovessimo stare al caldo soltanto otto o dieci ore invece di ventiquattro, allora sarebbe tutto più facile, no? Dormire un paio d’ore al fresco sotto le loro scrivanie…

La ragazza dell’Europa sudorientale si sedette accanto a lei e le cinse le spalle.

Credo che fu allora che l’umore cambiò all’improvviso. Raggiungemmo il punto in cui nacque la volontà incondizionata di capovolgere la situazione. Cacciare via quelli che ci amministravano soltanto, che stampavano i biglietti da visita e ogni giorno ci inoltravano molti inviti e ci guardavano in modo sgarbato perché non riuscivamo ancora a chiamare un tassì per telefono. Il compito, così credettero all’improvviso molti di noi, poteva essere svolto solo con l’aiuto dei loro privilegi, nelle condizioni che ci avrebbero permesso di ricominciare a pensare. Ogni nuova era comincia con una rivoluzione. Dovevamo liberarci, rinfrescarci, metterci nella condizione di poter lavorare in modo produttivo. La cosa pazzesca era che non sapevamo se gli spagnoli e gli americani, i britannici e i francesi, avessero dei climatizzatori. Ma ritenevamo impensabile che li lasciassero soffrire come noi. Il nostro errore era – lo riconoscemmo d’un tratto – di essere stati troppo buoni, ci eravamo assoggettati troppo di buon grado. Questo ci aveva reso lenti e aveva invischiato la nostra creatività. Su questo punto eravamo unanimi, anche se alcuni tirarono fuori delle banalità, per esempio che i tedeschi amano soffrire e per questo traggono false conclusioni.

Volevamo prenderci quello che ci spettava. Ci saremmo aiutati da soli se loro non mostravano nessuna pietà. Con il senno di poi, mi è chiaro che ognuno di noi aveva motivi diversi, ma questo, nel momento in cui la situazione si rovescia, non è importante. Quelli che avevano più paura di Ringelmann e della serie B, erano quelli che soffrivano di più il caldo. Quelli ai quali Ringelmann faceva meno impressione o che, come Hovland, lo chiamavano addirittura un grazioso re senza terra, provavano solo gusto a ribellarsi. Era molto semplice.

E così una cosa tirò l’altra: qualcuno sapeva che a volte la chiave del gazebo veniva infilata nella cassetta della posta del portiere dall’ultimo B che andava a casa. Jenna aveva braccia così sottili che spesso la si vedeva pescare la posta senza aprire lo sportellino, con un buffo movimento del busto per spingere la mano fino in fondo, nonostante il gomito ribelle. Un gruppetto si mise in marcia. Quando tornò con la chiave, scoppiammo in grida di giubilo.

Ci trasferimmo nel gazebo, per prima cosa accendemmo le lampade da tavolo e poi il condizionatore. Quando cominciò il suo mite lavorio e soffiò su di noi i primi getti d’aria fredda, di sicuro avremmo applaudito quella signora spigolosa, color guscio d’uovo, con le labbra che si aprivano e chiudevano, se non fosse stato per riguardo nei confronti dei bambini. Erano sdraiati su una coperta in un angolo come angeli e dormivano, le bianche coscette grasse picchiettate dai pizzichi di zanzara.

Alcuni si raggomitolarono in una delle poltrone club, appoggiarono la testa sui gonfi braccioli di pelle e chiusero gli occhi. Altri si sedettero per terra con la faccia rivolta verso l’alto, nella corrente d’aria fresca, proprio come avevano fatto con il sole due mesi prima. Furono fatte girare delle bottiglie di vino e acqua, calò il silenzio. Con l’approvazione di tutti, Julius abbassò il ventilatore. Eravamo d’accordo sul fatto che avremmo passato lì la notte, dormendo o facendo la guardia. Avevamo conquistato il primo climatizzatore, i prossimi passi sarebbero venuti da sé, al mattino.

Ma quando ci svegliammo, costatammo che eravamo chiusi dentro.

Rovistare dappertutto fu una cosa veloce: borse, tasche, il pavimento sotto sedie e poltrone. Nessuno sapeva chi aveva avuto la chiave per ultimo, nessuno aveva chiuso a chiave da dentro, e perché poi. Non mancava nessuno, così non poteva neanche essere stato qualcuno da fuori. Era un vero enigma.

Verso le sette e mezza, sul prato comparve il portiere, guardò verso di noi, ma non si avvicinò. Gli facemmo cenno con la mano, l’uomo se ne andò, non eravamo d’accordo se ci avesse visti oppure no. Proposi di telefonare alla mia vicina che avrebbe potuto organizzare gli aiuti, anche se non sarebbe uscita dal bungalow nemmeno in questa situazione. Non rispondeva, ma continuavo a comporre il numero. Per la prima volta non era reperibile. Fu quello il momento in cui la situazione cominciò a sembrarmi inquietante.

Franca alla fine telefonò all’amministrazione. Con un tono altezzoso che non ammetteva repliche, spiegò che qualche burlone aveva rinchiuso nel gazebo tutti i coloni, le famiglie e gli assistenti. Non disse da quanto tempo e perché eravamo lì. Chiese comunque che mandassero subito qualcuno ad aprirci. Non sta dicendo sul serio, disse dopo essere stata ad ascoltare per un po’: allora dovete chiamare il fabbro!

A quanto pareva c’era una sola chiave, la seconda era appesa al portachiavi del direttore Ringelmann. E quest’ultimo si trovava all’estero per un periodo indefinito.

Il ragazzo di Verena e un paio degli assistenti di Julius discussero, ancora per scherzo, su quale finestra fosse meglio rompere e con cosa. Ma i montanti color argento brunito erano così vicini che nemmeno Samuel sarebbe riuscito a passarci attraverso. La maledizione dell’elegante vetro a tondi. La bella porta di vetro, invece, incastonata in una cornice di ferro, stile casa di campagna, era di un vetro di sicurezza stratificato, come appurò Franca.

Viene da chiedersi a che pro tutto questo spreco, mormorò dopo che ci ebbe spiegato che forse quel vetro poteva essere distrutto da un’auto che andava a sbatterci contro, ma da nient’altro, nemmeno da un’ascia o da un’arma da fuoco.

Lo trovammo ancora divertente perché eravamo convinti che presto ci avrebbero tirato fuori. In quella situazione d’impotenza, tuttavia, l’ambizioso piano di occupare le stanze climatizzate dell’amministrazione andò in fumo. Ma almeno eravamo ancora al fresco. E per questo desideravamo i piccoli beni di lusso: una doccia, la colazione, dei pannolini puliti per i bambini tranquilli, con i visini meravigliati.

Nelle ore seguenti, Franca telefonò più volte all’amministrazione. Ogni volta dovette lasciar squillare sempre più a lungo per avere all’apparecchio un riluttante rappresentante della serie B. Ogni volta le confermavano che avevano già avvisato un fabbro. Su mia sollecitazione Franca domandò anche se la collega del bungalow 11 stesse bene. Non abbiamo nessuna informazione al riguardo, la informò Beppo oppure Bosco o Belcore.

Che razza di risposta è? Chiesi allarmato, ma Franca indicò il telefono e mi disse, veditela pure da solo con quelli. Invece continuai a cercare di chiamare la mia vicina, la niente affatto fragile Cosima dalla pelle bianca come Biancaneve.

Jenna, Samuel e qualcun altro avevano liberato un angolo e iniziato a sistemare le cartoline che lei portava sempre nella borsa, raggruppate in due grossi pacchetti tenuti insieme con l’elastico. Nel frattempo aveva raccolto le cartoline da tutti, erano più di trecento. Adesso voleva provare un nuovo sistema. Le ordinò da quelle più scure a quelle più chiare, compose il bordo dall’angolo superiore sinistro, cominciò però la seconda fila in alto a destra. Credo che vi sia un salto, disse a quelli che la aiutavano: la terza fila comincia allora in basso a destra e così via.

E se ti sei sbagliata all’inizio? Domandò qualcuno. Allora bisogna soltanto guardarle da un’altra prospettiva, disse Jenna con un sorriso vincente.

Sören non degnò quegli sforzi di uno sguardo. Aveva contato le capsule di Nespresso e annunciato che, tolti i bambini, Alice e Gertrud che non bevevano caffè, ne rimanevano due per ciascuno, con il resto di due.

Una per il liberatore e una per il nostro psicologo, propose Hovland, che potrebbe avere un gran da fare qui.

Invece io mi innervosivo. Scivolavo lentamente in un’agitazione febbrile senza capire bene il perché. Perché non soffro di claustrofobia. La corrente era mancata per poco due volte, ma grazie alle prese di aerazione nei bagni non avevamo avuto problemi di ossigeno.

Il mio sorriso professionale funzionava ancora, ciononostante continuavo ad andare in bagno e a mettere la testa sotto l’acqua fredda.

Franca studiava i giornali del giorno prima. Alice aveva con sé un taccuino e disegnava, Gertrude faceva un cruciverba. A parte me, era Julius quello più irrequieto. Una delle assistenti, credo che sia stata la timida Mizzica, aveva trovato nella borsa un paio di scatole di aghi per cucire e un pezzo di plastilina grande come una mela. Julius aveva spianato la plastilina e formato una lastra rettangolare in cui adesso conficcava gli aghi come un agopuntore stressato. Una composizione dopo l’altra: rose, labirinti, un preciso e meraviglioso otto tridimensionale, poi buttava via tutto e ricominciava daccapo. Non sembrava che nel frattempo pensasse a qualcosa o meglio, mentre infilava gli aghi come una macchina, pensava a qualcos’altro. Sarei stato tentato di domandargli se giocava a freccette, ma il suo umore non lo rendeva possibile.

Contro l’orologio marcatempo, mormorò Hovland, oppure con l’orologio marcatempo?

Julius alzò lo sguardo arrabbiato e stava per dire qualcosa. Invece afferrò il telefono e picchiò tre cifre sui tasti. Calò il silenzio, m’immaginai di sentire lo squillo. Poi fuori le sirene si accesero di nuovo, lo squillo s’interruppe, Julius sbatté la cornetta sulla forcella.

Le due madri confabulavano. A quanto pareva, una era riluttante a cedere all’altra l’ultimo pannolino. Aspettavamo l’esplosione di Julius, soltanto Jenna e Samuel in un angolo continuavano a spostare le cartoline. Quando il climatizzatore si riaccese con un bip, Julius fece di nuovo il numero e insultò quello della serie B che ebbe la sfortuna di rispondere. Dichiarò che si sarebbe lamentato al ministero, si augurava solo che l’amministrazione avesse informato il direttore Ringelmann di questo scandalo. Perché non avevano chiamato i giardinieri per forzare la porta eccetera eccetera? Io mi frugavo senza sosta in tasca pur sapendo bene che non avevo nessuna pasticca di Diazepam.

Nel pomeriggio la corrente mancò per più di un’ora. Una madre domandò se non potevamo chiamare i vigili del fuoco o la polizia con un cellulare.

Durante il blackout le linee dei cellulari cadono quasi subito per il sovraccarico, spiegò Franca alla giovane donna.

Propose che mettessimo ai voti quando dovevamo cercare di chiamare aiuto da soli, ammesso che le linee funzionassero.

Al più tardi, quando escono da qui, dopo il lavoro, disse qualcuno con un cenno della testa in direzione dell’amministrazione.

Propongo di farlo prima, esclamò Julius che a un tratto sembrò in procinto di scoppiare in lacrime.

Al che quasi tutti, senza ulteriore invito, alzarono la mano, soltanto Sören faceva la verticale in un angolo con il viso rivolto alla parete.

Va bene, disse Franca che aveva perso ogni civetteria: non appena torna il segnale, ci provo.

Jenna girava ancora intorno al quadro di cartoline. Sembrava non accorgersi di nient’altro, era chiusa nel suo enigma, in una vita sbagliata oppure in un sogno troppo grande.

Io osservavo Julius e mi ripromisi di intervenire nel caso avesse cercato di distruggere il puzzle. Ma forse mi sarebbe mancato il coraggio. Una situazione simile a quella per cui la mia vita è finita così fuori controllo. Gli atti di violenza non s’impediscono attaccando gli aggressori, ma distraendoli e dirigendo le vittime fuori dalla zona di pericolo.

Lo tenevo d’occhio e sentivo crescere la sua collera. Proprio come allora, riuscivo addirittura a vedere la rabbia, una nuvola rosso chiaro, impalpabile, che si allargava. Ma era soltanto Julius. Lo conoscevo bene, anche se preferivo altri coloni. Avevo bevuto, chiacchierato e discusso con lui innumerevoli volte. Non era un estraneo sovraeccitato che passava il coltello sulla gola della piccola vietnamita proprio davanti a me.

Mamma, là c’è una lettera, esclamò Samuel. Dove? Esclamò Jenna, Sammy, cosa vedi? Altri due alzarono lo sguardo. Jenna era raggiante e strinse a sé il bambino. Inclinò la testa a sinistra, poi a destra e rifletté. Poi s’inginocchiò proprio al centro del puzzle e girò ogni singola cartolina di novanta gradi, da orizzontale a verticale. Lavorava febbrile, la punta della lingua le spuntava da un angolo della bocca.

Gertrude si rivolse a Sören, allora, che ne dici, ci è riuscita alla fine?

Con la brutta voce acuta, rispose: non ho mai detto che ci fosse una soluzione.

Hovland cominciò a ridere e indicò fuori: guardate, sta arrivando la Sobieska con l’esercito di liberazione!

In direzione dell’edificio dell’amministrazione, che era nascosto dietro la vegetazione tropicale, avanzava una solenne processione. Il cuore mi batteva forte, sentivo un fruscio nelle orecchie, avrei dovuto sedermi ma non riuscivo a muovermi. Mi riusciva difficile persino respirare. Potevo soltanto guardarli mentre si avvicinavano come il giudizio universale. Dato che pochi minuti dopo sono collassato, non so con esattezza se le mie impressioni seguenti sono precise oppure influenzate dal collasso cardiocircolatorio: in testa marciava la mia vicina Cosima con in braccio il gatto rosso tigrato che risaltava con eleganza sull’abito di pizzo bianco lungo fino a terra. Dietro di lei, in formazione, tutti gli impiegati con i vestiti blu scuro o beige. Per contrasto sembravano ancora più abbronzati e maschi, ancora più professionali e militareschi. Un esercito meridionale segue la nuova regina del nord. Tagliarono in diagonale il grande prato così come fanno spesso i parrocchetti dal collare quando lo sorvolano: in formazione a V, con un’asta poco più corta. O si dovrebbe dire a forma di bumerang?

Nell’angolo di Jenna si applaudiva e si esultava. Pareva che avesse trovato un messaggio nei pixel anche se non tutte le lettere si riconoscevano con certezza. È una magia, sentii dire a Verena, davvero una magia, come lo sapevi?

Io non vedo niente, sentii che si lagnava la prima assistente di Julius, quella che fuma e beve, ma che come tutti gli altri nella sua sfera d’influenza, è una rigida vegetariana: per me, con molta fantasia, c’è una T, ma non vedo nemmeno una A, avete le allucinazioni!

Da quel momento in poi nella mia testa accade tutto alla rinfusa. Che la soluzione doveva essere Et in arcadia ego, che Jenna salì su un tavolinetto e fotografò il puzzle perché diceva che da lontano si riconosceva meglio. Che quasi allo stesso tempo la processione si arrestò davanti al gazebo, che la mia meravigliosa Cosima con quel vestito da sposa degno di una silfide cercò di parlarci attraverso il vetro spesso. Che ci vollero diversi tentativi, che alla fine alcune orecchie si premettero al vetro mentre da fuori si cominciò a gridare, a gridare e indicare. Che a un certo punto tutti avevano capito cosa diceva, solo io no, perché la testa mi frusciava come se fossi sotto una cascata. Cosima m’indicò attraverso il vetro, tutti mi guardarono, c’era un tale chiasso minaccioso, quel dito come un’arma, ma forse c’era anche silenzio e Cosima mi avrebbe di nuovo sfiorato con tenerezza: È lui che ha la chiave, perquisitelo! In quel momento svenni e deve essere stato Samuel, quel brillante osservatore, che subito sfilò la chiave dal mio calzino.

Sono stato malato a lungo; nel frattempo è autunno. Da quando i nostri paesi sono in guerra in oriente, la situazione in Europa si è distesa. Certo si prega per i soldati, ma finora le perdite sono minori di quanto annunciato. Il nostro tempo qui volge al termine giorno dopo giorno. Sono partiti quasi tutti, anche il marito di Jenna e, con mio rammarico, il mio piccolo amico Samuel. Julius ha mandato a casa tutti gli assistenti. Ho sentito dire che lavora a nuove sculture, molto più piccole ma in compenso di un materiale più robusto.

Cosima svolge il suo compito in altro modo, meglio di Ringelmann. Beppo, Bosco, Baldassare e gli altri sorridono.

Di tanto in tanto li si vede con il colletto sbottonato. Cosima va in giro per la colonia con qualsiasi tempo e si occupa di noi. Porta in braccio il gatto che fa le fusa, e si informa sul nostro lavoro, ci incoraggia a fare domande, esprimere desideri e lamentele, carpisce i bisogni di tutti. Ci ha assicurato che in Germania, nuove giurie specializzate si sono messe già al lavoro. La prossima annata non dovrà essere inferiore alla nostra. Dobbiamo mantenere un certo livello, dice e sorride orgogliosa. È convinta che qui andrà avanti per sempre una tradizione incontestabile e importante. Della salvezza del mondo non se ne parla più, solo di migliori condizioni per noi, gli artisti e i pensatori scelti della nazione.

Una volta alla settimana, ogni martedì, ci invita a cena da lei nella villa di servizio. Non si aspetta una conferma, ognuno può andare oppure no, ma tutti si sforzano di rispettare l’appuntamento. L’ultima volta è successo che noi coloni ci siamo trovati per un momento nel salone, soltanto noi, Franca, Jenna, Sören, Hovland, Julius, Alice, Verena e io, mentre Cosima e i collaboratori erano impegnati con il barbecue. Nemmeno il gatto era a portata di orecchio. Fuori grigliavano le verdure avvolte nella carta stagnola, ma c’erano anche delle eccellenti formine di pesce, frutti di mare, aglio ed erbe fresche.

In quella occasione abbiamo concordato di tacere. Ci siamo messi d’accordo di custodire i miei appunti in un posto sicuro, forse nella biblioteca che tanto non usa quasi mai nessuno. Resteranno lì con un altro nome e un altro titolo. In questo modo vogliamo garantire che le prossime annate non ne vengano influenzate. Che comunque, anche se stentiamo a crederlo, ci saranno di sicuro, così come la terra continuerà a girare anche dopo quest’anno, sebbene diventi sempre più sporca, affollata e violenta. Ma nel caso in cui, come è stato finora, un’annata succeda caparbia all’altra senza che gli sconvolgimenti che abbiamo vissuto qui abbiano una conseguenza, allora non ci sarà nessun condizionamento. E nessun effetto. Non è mai successo. Perché ogni annata è un’isola, come un anno con le stagioni, come ogni maledetta generazione umana. Tutto comincia sempre daccapo ma rimane lo stesso. L’unica differenza, quella più interessante in assoluto, sta nei dettagli. Ma è proprio prevedere i dettagli, i drammi individuali e le loro conseguenze, anno dopo anno, generazione dopo generazione, che è impossibile.