OPOSSUM

Un americano di cinquantacinque anni ha cercato di rianimare un opossum morto su una superstrada in Pennsylvania. Alcuni automobilisti l’hanno visto inginocchiarsi davanti all’animale e supplicarlo a gesti. A quanto pare gli avrebbe addirittura fatto la respirazione bocca a bocca. L’opossum tuttavia era già morto da parecchio tempo. La polizia indaga sul salvatore mancato per ubriachezza molesta.

Fino al confine della città non aveva pensato a niente.

Si era obbligato a non pensare, in verità. Un coperchio posato sui pensieri, liscio e brillante, cromato magari, e l’ovvia associazione con la cucina, perché è nelle cucine che abbiamo trasferito gli sforzi di rappresentanza.

Un coperchio cromato quindi, su cui si rispecchiavano il cielo, il sole, le nuvole e forse anche un po’ del viso. Una parte del mento. Sotto il coperchio, la brodaglia velenosa. Era ancora bollente e schiumosa. Lui però aveva davanti a sé una lunga strada per tornare a casa e doveva concentrarsi. Per questo il coperchio. Com’era pesante, e che chiusura ermetica. Quanto era perfetta la superficie alla luce. Senza graffi e preziosa, di pregio, come si si usa dire adesso. Quando comparvero i primi campi, entrò in ballo Isolde. Quando, la mattina prima che lui se ne andasse, era uscita dalla doccia con le braccia alzate. Erano passati cinque giorni, ma a lui sembravano molti di più.

Quando alzo le braccia, i miei seni hanno ancora un bell’aspetto, aveva detto Isolde e, a ripensarci, gli venne ancora da ridere. Isolde che era rimasta magra e nerboruta, tutta lei nelle diverse tonalità di marrone che lo intenerivano così tanto. A eccezione dei capelli, una chioma nera. Ma a parte questo, tutte le sfumature del marrone e uno schizzo di verde oliva: pelle, capezzoli, labbra. Era rimasto a guardarla indossare un paio di vecchie mutande e lasciar cadere un camice su tutto quel marrone, mentre raccoglieva la chioma e la fissava con un fermacapelli di legno. Lui non sapeva disegnare, ma gli sarebbe piaciuto sapere se con l’aiuto di un disegnatore professionista sarebbe riuscito a scomporre nei singoli gesti quel modo di raccogliere i capelli, passo dopo passo, in un libretto sfogliabile. Non credeva. Lo aveva osservato centinaia di volte, migliaia, molto più di seimila volte, persino se lo avesse visto solo una volta al giorno e neanche tutti i giorni. E tuttavia. Quel veloce torcere, spingere e arrotolare e rincalzare con una mano, con l’altra tenere e poi infilare – era come guardare un film accelerato, in cui tutto si confondeva. Se avesse avuto bisogno di questo particolare gesto per una scena teatrale, non avrebbe saputo descriverlo né mostrarlo. Queste donne abili nelle cose più strane. Sarebbe dovuto andare a prendere Isolde, perché lo mostrasse all’attrice. Ma il modo di raccogliersi i capelli di Isolde era troppo privato per il palcoscenico. Apparteneva a lui. Che lo conosceva così bene e non sapeva come funzionava.

Dopo aver caricato il bagaglio sull’auto, era tornato da lei. L’aveva trovata davanti al fregio di pietra arenaria, il primo lavoro per una chiesa. Prima le scostò l’orecchio, poi la baciò proprio lì dietro. Odorava di sapone e caffè.

Alla prossima settimana, aveva detto lui.

Isolde aveva annuito, in apparenza tutta presa dalla pietra. Ma quando era già sulla porta, lo aveva chiamato. Lui si era fermato e voltato. Isolde non lo guardava. Non posso tenere le braccia sollevate per il resto della vita, disse rivolta al fregio.

Non fare la bambina, aveva risposto lui e se ne era andato.

Fino a quel momento non aveva avuto tempo di rifletterci. Quando gli tornò in mente, quella frase lo sbigottì. Da dove arrivava all’improvviso? Isolde aveva sempre dato l’impressione di essere al di sopra di ogni sforzo, di tutte le paure di invecchiare e di imbruttire, di tutto quel panico e quella vanità tra i quali nel frattempo si aggrovigliavano i loro amici.

Isolde, un imperturbabile spirito libero. Se solo avesse saputo quanto aveva bisogno di lei. Doveva saperlo, glielo aveva detto abbastanza spesso. Tutte le volte ci rideva su e basta. Per lei non era importante non capirlo. Aveva i suoi motivi per stare insieme a lui. Ma lui, senza di lei si sarebbe sentito come senza una gamba, del tutto privo di equilibrio. Sì, lui, che sembrava così sicuro di sé, che tutto il mondo considerava un uomo di carattere e creativo. Un sensuale maschio alfa. Soltanto lui era consapevole che tutto quello che sapeva fare all’inizio lo aveva maturato accanto a lei, perfino in suo onore, sebbene Isolde non se ne fosse quasi accorta. Ma se era riuscito a mettere insieme i suoi talenti era stato grazie a lei, alla sua mera presenza. Isolde gli permetteva di bilanciare i colori. Adesso le chiedeva di rado un consiglio. Poiché il suo infallibile gusto gli era entrato nel sangue. La direzione era quasi sempre la stessa: scegliere la variante più drastica e non pensare mai al pubblico. Meno che mai chiedersi se sarebbe stato in grado di capire. Doveva esserlo. Quando le chiedeva un consiglio, Isolde decideva sempre per la soluzione più inconsueta e se lui non ne aveva da proporle, allora ne pensava una per lui. Scartalo se è debole. Scartalo se hai un dubbio. Poiché l’aveva ascoltata, dal punto di vista artistico era rimasto se stesso. Così nel corso degli anni aveva imparato tutto, a parte vivere senza di lei. E aveva accettato che, al contrario, lei ci sarebbe riuscita senza problemi. Prima del suo arrivo, nella vita di Isolde c’erano state numerose separazioni quasi mai volute da lei.

Ma non glielo aveva mai domandato apertamente. Sarebbe stata una domanda impossibile. Forse gli avrebbe fruttato solo uno sconcertato cenno di diniego, come all’inizio, quando quasi assieme all’attrazione e all’innamoramento, era stato assalito dalla gelosia nei confronti di tutto il passato. Isolde non glielo aveva permesso. Prima aveva scosso la testa, una volta l’aveva addirittura chiamato stupido ragazzino. Ma lui l’aveva sollecitata a rivelare di più, voleva rifocillarsi con i cadaveri degli amori passati, indurla a condannare quelli che l’avevano lasciata, voleva che gli consegnasse l’arma con cui a posteriori avrebbe giustiziato quei miseri idioti, i profanatori di Isolde. Lei negò cadaveri e armi. Non si confaceva al suo modo di legittimare la fede amorosa. Stava insieme a lui, questo doveva bastare. Alla fine aveva tirato troppo la corda, quando aveva criticato il figlio di lei che, dopo un paio di mesi che Isolde e lui si erano messi insieme, aveva scelto di andare in un collegio in Canada. E non era più tornato. Né per le vacanze, né per il loro matrimonio. Allora Isolde gli aveva detto con la sua voce profonda non mi tormentare e il giorno dopo, mentre lavorava, si era rotta una caviglia. Poco dopo era sparita per qualche giorno. Con un uomo, come si seppe più tardi. Allora, quando voleva, Isolde sembrava trovarne uno a ogni angolo, un estraneo che tagliasse la corda con lei, anche solo per un paio di giorni, e che forse la portò in braccio, perché Isolde aveva la gamba ingessata.

Così aveva raggiunto il limite. Aveva imparato, come un animale che infila il morbido naso in una presa elettrica. Che doveva vivere con lei senza i limiti negativi di tutto il resto, degli ex, perché altrimenti l’avrebbe fatta scappare.

Di sicuro si era ribellato alla dipendenza. Dopo un paio di anni, quando avevano cominciato a volargli tra le braccia da sole, aveva avuto delle donne, prima in modo occasionale, poi in una successione più selvaggia, sfrenata. Era solo sesso. Non si sentiva in colpa, non aveva relazioni, scopava come altri fanno sport, senza regolarità ma con decisione. Provava le nuove possibilità che erano arrivate con il successo. Ma tutto ciò che faceva, lo faceva in modo così discreto che Isolde non se ne accorgeva e non le giunse mai all’orecchio. Quando tornava a casa da un viaggio, da una donna qualunque, e Isolde, che lo sentiva arrivare, lo aspettava in giardino per mostrargli le alcee fiorite, allora era felice.

Con un suono d’allarme la colonnina del carburante s’illuminò. Aveva dimenticato di fare benzina. Questo mostrava in quale stato si trovava, nonostante il coperchio sui pensieri. Forse era troppo concentrato a non lasciar emergere la cosa, a rimandarla a più tardi. E così aveva raggiunto in fretta le montagne, accompagnato da sentimenti più o meno miti. Ma aveva dimenticato la benzina. Conosceva molto bene quella strada, sapeva che c’erano pochi distributori. Doveva tornare subito indietro fino all’ultimo, venti chilometri prima, oppure confidare che una volta arrivato in cima, al Grimbarter Höhe, qualcuno gli avrebbe venduto un paio di litri di carburante. Di preferenza l’oste. Tanica e tubo di gomma erano nel bagagliaio. Avrebbe di sicuro trovato qualcuno. In questo modo sarebbe sceso senza problemi dall’altra parte, dove i distributori ricominciavano a succedersi uno dopo l’altro. Non era solo l’idea di tornare indietro e di aver fatto quaranta chilometri senza motivo che lo ripugnava, no, non ce la faceva proprio. Persino il tratto più breve, gli avrebbe dato l’impressione di ritornare da dove era appena fuggito così a fatica. E poi, dopo aver fatto il pieno, avrebbe dovuto invertire la marcia un’altra volta. Se la prima era stata difficile, la seconda sarebbe stata impossibile.

Si accese una sigaretta e aprì appena il finestrino. Il tramonto calava sulla valle come un sipario. L’oste di Grimbart lo avrebbe aiutato, si piacevano. Era un tipo strambo, brutto e affascinante. Una faccia che pareva composta di materiali diversi: pelle, lino, pellicola di plastica. Con quel volto sarebbe potuto diventare un attore. I tipi come lui mancavano da quando raddrizzavano le orecchie ai neonati.

Se l’oste non avesse avuto benzina a sufficienza, avrebbe trovato qualcun altro, più faceva notte e più avventori arrivavano, alla spicciolata. E lui, lui avrebbe di nuovo detto due paroline all’oste: ma perché maledizione non provvedeva a far istallare un distributore di benzina vicino alla locanda. Sarebbero stati in tanti a beneficiarne. Il vuoto si sarebbe colmato.

Meglio ancora sarebbe stato passare la notte lassù. La sera annebbiarsi con un paio di grappe, buttarsi sulle lenzuola a quadri senza lavarsi e la mattina telefonare al distributore e farsi portare la benzina lassù. Dargli una mancia principesca, ma per favore niente autografi.

Cercò di orientarsi. Quanto mancava ancora? Il simbolo del distributore aveva appena suonato la seconda volta. Così era deciso. Non sarebbe più riuscito a raggiungere nessun benzinaio. Si era sbarrato la via del ritorno. Continuando ad avanzare deciso, come in guerra.

Il bosco su entrambi i lati della strada assorbiva quel che restava della luce come una spugna irta di spine. Ma il nastro di cielo tra le cime degli alberi brillava ancora azzurro. In alto era sera, ai lati notte fonda. Le curve si stringevano, la mano rimaneva sul cambio come a volte sulla gamba di Isolde. Bastava la terza. Seguire il ritmo delle curve, respirare con il cambio e i freni. C’è un giusto ritmo del respiro per molte cose, non solo per il sesso e lo yoga.

E per ogni cosa c’è il suo tempo. Un tempo per abbracciare e un tempo per sciogliere l’abbraccio. Ecclesiaste. La testa una raccolta di citazioni e una macchina di associazioni, piena zeppa e tuttavia elastica come il ventre di una donna incinta. No, questo no! Meglio allora: Il bosco è scuro e silenzioso7. Si sforzò di pensare a quando aveva visto l’ultima auto. Era possibile risalire quella montagna tenendo una certa velocità. Conosceva la montagna. Sapeva frenare e accelerare con economia quasi come la gente del posto.

All’improvviso dietro di lui si accesero due fari. Be’ allora, eccolo il collega che voleva salire fino al passo come lui. Benvenuto.

Sembrava aver fretta, a giudicare da com’era vicino. La prossima occasione di sorpasso si sarebbe presentata poco prima dell’oste di Grimbach, dopo quattro o cinque tornanti. Poteva anche accostare e lasciarlo passare. Ma era esagerato. In fondo era una strada di montagna, non un’autostrada. Un po’ di pazienza, vogliamo arrivare tutti in cima e, come si diceva, qui non si può comunque andare molto più veloci. Se non si vuole finire fuori strada.

Adesso gli lampeggiava pure con gli abbaglianti. Ma cosa gli prendeva? Forse era una specie di cavaliere pieno di testosterone, con una macchina sportiva. La gente del posto non guida in modo così aggressivo, sa che non ha senso. La ripetizione di una cosa laboriosa genera pazienza, per forza. La montagna era la montagna e in giro c’era molta gente senza esperienza, oppure si stava in fila dietro un camion.

L’auto dietro di lui non si riconosceva bene, nelle curve scivolava fuori dallo specchietto retrovisore, dentro e fuori. Quel lampeggiare impaziente, tuttavia, si vedeva benissimo, riflesso dalle pareti nere del bosco. Adesso l’auto gli era di nuovo molto sotto e si spostò addirittura un poco a sinistra. Ecco, guarda se funziona. Certo che no, la curva arriva subito: frenare, scalare la marcia, sterzare, accelerare. Dietro di lui lo stridio delle gomme sull’asfalto. Era quasi inquietante. C’era forse un pazzo alla guida? Uno stanco di vivere?

Poi arrivò l’unico rettilineo un po’ più lungo. Per sicurezza mise la freccia a destra, come un camionista gentile o una donna titubante. Prego, la strada è libera. Poi frenò con cautela. L’altra auto passò così veloce che non riuscì a vedere niente più che una doppia marmitta un po’ schiacciata. Come una grossa coda luccicante, una doppia coda. Gli sembrò di aver sentito il rombo del motore, il ruggito del vincitore in calore. Le luci posteriori erano sparite. Fece un respiro profondo. Tra un paio di minuti sarebbe giunto all’incrocio, al sentiero che saliva al casermone in rovina e all’oste pazzo. E la cuoca ci sapeva fare. Finora non era riuscito a scoprire se era la moglie dell’oste. L’oste non aveva l’aspetto di chi ha o ha bisogno, o sopporta una donna. In ogni caso, tuttavia, c’era da temere che la cuoca, di indiscutibile talento, presto avrebbe trovato qualcosa di meglio di quella landa desolata.

Una volta era capitato lì durante la stagione della caccia. I cacciatori andavano e venivano, i cani abbaiavano, la grappa di ginepro scorreva a fiumi, qualcuno la metteva nel caffè già di primo mattino. Nel cortile, sotto la tettoia, un macellaio brandiva un coltello, gli aiutanti in cucina correvano avanti e indietro con bacinelle insanguinate, la cuoca era inginocchiata, le mani piene di gesso bianco, davanti alla lavagnetta con il menù del giorno all’entrata e sbagliava a scrivere “medaglioni di cinghiale”. Dai portabagagli nel parcheggio sporgevano le zampe degli animali. Scene dionisiache. Sulle valli, la nebbia era come una calda coperta grigia. La si guardava da sopra, come da un estatico olimpo di cacciatori. Quando lo aveva raccontato a Isolde, negli occhi aveva visto brillare un cupo piacere. Una delle prossime volte voleva venire anche lei, per forza. Era fatta così, di certo non era vegetariana, meno che mai nello spirito.

Poco mancò che non andasse a finire contro la sbarra. Inchiodò e si fermò appena in tempo. Non sapeva che avessero messo una sbarra, tutta nera nell’oscurità a parte qualche minuscolo punto catarifrangente. Accanto, di traverso sopra il cartello più grande sponsorizzato da una marca di birra che annunciava la locanda, c’era una striscia di carta attaccata con il nastro adesivo e con scritto a mano: Chiuso.

Scese dalla macchina e si accese un’altra sigaretta. La sbarra era un tronco d’albero scortecciato, fissato a un’estremità su un montante, con una vite verticale spessa come un dito. L’altra estremità era appoggiata in una forcella a forma di Y. Tanto primitivo quanto presuntuoso. Come se un gigante avesse detto: Sta attento, se non voglio che passi di qui, mi basta strappare un paio di alberi e usarli per sbarrare la strada. Qui ce ne sono abbastanza.

Spostò la macchina di qualche metro e alzò la sbarra. Di lato, nei cespugli di oscurità, il piede che tastava in avanti trovò l’appoggio corrispondente, il secondo palo a forcella. Ci appoggiò l’estremità del tronco e con l’auto percorse gli ultimi duecento metri fino alla locanda. L’illuminazione esterna era spenta ma nella sala la luce era accesa. Nel parcheggio c’erano diverse auto, il furgone dell’oste, due camioncini e un’Audi TT scura. Quando ci passò davanti posò una mano sul cofano. Era ancora caldo.

La porta si aprì, l’oste berciò che era chiuso, maledizione.

Calmati, Hansi, disse, ho bisogno del tuo aiuto. L’oste si avvicinò cauto nell’oscurità. Quando lo riconobbe, sorrise, cosa che la maggior parte delle volte rendeva più simmetrico quel volto così poco armonioso. Oggi invece rimase storto.

Senti, siamo chiusi davvero, cominciò Hansi, anche noi qualche volta dobbiamo …

Una birra, un panino e un paio di litri di benzina, lo interruppe, ma in ogni caso la benzina, altrimenti non ti libererai di me.

Dalla porta una voce maschile chiese: problemi, Hansi?

L’oste si voltò.

– No, no, è solo Charly Reincke, il regista, sapete eh, un cliente fisso, ha finito la benzina.

Sbrigati, ordinò la voce, e la porta si rischiuse sbattendo.

Rimase colpito da quella presentazione così corretta. Finora l’oste di Grimabart gli aveva fatto capire solo con battute sprezzanti che conosceva la sua cosiddetta celebrità. Una volta una donna gli aveva domandato – Mi dica, ma lei non è… – e l’oste aveva gridato dal bancone: quello va al cesso per cacare, come tutti!

Lassù quello era il modo normale di comunicare. Adesso dovette aspettare un momento prima che l’oste gli facesse cenno di entrare. Al tavolo dei clienti fissi erano seduti tre uomini, ognuno dietro a una birra, un tizio ben vestito con la testa rasata, che si abbinava all’Audi come il cane al padrone e che confermava un altro pregiudizio – che gli uomini che si radono a zero quando cominciano a perdere i capelli si lucidano la testa con l’olio di noce. Accanto a lui, altri due di rango inferiore. Uno gli ricordava quel pasticcione bosniaco che aveva coperto il tetto a lui e a Isolde, l’altro poteva essere tutto, rumeno, siciliano. Testa d’uovo lo osservò ostile.

La cuoca uscì dalla cucina ciabattando. Da sempre era affascinato dalla fisicità di quella donna che sembrava traboccare dal corpo, come una bottiglia con un cretto sottile dal quale il vino non esce ma evapora, raddoppiando l’effetto. Cercava di nascondere il fascino animale che emanava dietro un’enorme sciatteria. D’altra parte, con abiti puliti, alla moda, con tutta probabilità l’effetto sarebbe sparito. Non era mai successo che un ospite si prendesse qualche libertà; lui però si era accorto degli sguardi degli altri, come ventose.

La cuoca salutò senza guardarlo e gli servì subito il panino, con cetriolini tagliati a ventaglio, pomodori e ciuffetti di prezzemolo. L’oste gli portò la birra. La bevve a grandi sorsi e ne ordinò un’altra ancora prima di cominciare a mangiare. C’era silenzio. Dopo un po’ stava per fare una battuta riguardo agli ospiti di primo e di second’ordine, o su chi in realtà bisognava essere per avere ospitalità anche quando la trattoria era chiusa, quando nell’anticamera scoppiò un tumulto. Grida soffocate, pianto di bambini, la porta si spalancò, un bambino corse dentro gridando come un matto, come se fuggisse. Dietro di lui apparve una donna con i capelli grigi che si gettò sul bambino. Lo afferrò e se lo mise in spalla, il bambino si difese sgambettando e le grida divennero ancora più acute, uno dei sottoposti si piazzò davanti a entrambi cercando di zittire il bambino con la sua figura minacciosa. Il pelato fece un gesto con la mano. Il bosniaco spinse fuori la donna e il bambino. Il chiasso era ancora forte, come un arco di metallo carico di elettricità che accarezza i nervi. Se li immaginò come un groviglio di corde musicali bianche e tese, che attraversavano il corpo dalla testa alla punta dei piedi. Lì dappertutto, ma soprattutto nella nuca e tra le orecchie strillava quel minuscolo bambino, tuttavia a ogni porta chiusa tra lui e la sala del ristorante, il dolore diminuiva.

Parenti della cuoca, osservò il pelato, prima che qualcuno dicesse qualcosa. Il brutto oste trafficava dietro il bancone come se la cosa non lo riguardasse.

Nonostante i capelli e gli occhi scuri, ma per le bianche forme rotonde, lui aveva sempre ritenuto che la cuoca fosse una del posto. Ma va be’, forse lassù aveva un fratello o uno zio tonto che non aveva saputo combinare niente, aveva venduto un terreno e con il ricavato aveva ordinato una moglie su un catalogo. E questo era il risultato – forse in futuro sarebbero stati degli asiatici gentili ma resistenti a mettere al riparo il fieno su quei ripidi pendii. Non era affatto improbabile.

E, deve fare ancora molta strada oggi? Gli chiese il pelato.

Per poco non scoppiò a ridere. In realtà pensavo di prendere una stanza, disse solo per vedere la reazione, sono ore che sto seduto in auto.

L’oste lo fissò dal bancone strizzando gli occhi, come se aspettasse la risposta da qualcun altro. Non è possibile, disse Hansi alla fine, ti ho già detto che siamo chiusi e poi…

Sta ristrutturando, s’intromise il pelato e indicò l’uomo al suo tavolo, gli ho portato quassù gli operai.

Il pelato ghignò come se avesse fatto una battuta molto divertente. Il secondo suddito tornò al tavolo e si sedette.

Allora si alzò, andò al bancone e chiese il conto. Questo posto sarà irriconoscibile, Hansi, lo punzecchiò mentre l’oste serviva due grappini doppi. Pieno di colori e luce, avrò bisogno degli occhiali da sole.

Ma Hansi non era dell’umore giusto. Solo la carta da parati e una sistemata ai gabinetti, mormorò, quando di solito gli avrebbe buttato là almeno un va’ a cacare, bolscevico privilegiato.

Quando brindarono, chiese all’oste la benzina.

Già fatto, ci ha pensato subito Milo, e con la testa accennò all’operaio bosniaco che di nuovo sedeva immobile e osservava il bicchiere di birra come se fosse un problema complesso.

E io che credevo che avesse strangolato il bambino che piangeva, ribatté perché non gli venne in mente niente di meglio per adattarsi a quell’atmosfera ambigua. Dal tavolo arrivò una risata che sembrava un latrato.

Niente male, esclamò il pelato, davvero niente male, ha delle trovate creative, non c’è da meravigliarsene con il lavoro che fa.

L’oste gli versò un’altra grappa: One for the road.

Brindarono di nuovo. Gli chiese quanto gli doveva per la benzina. Hansi alzò le spalle e disse che lui non vendeva benzina. Lo contraddisse. Non era la prima volta che lo faceva. Se l’oste si fosse deciso a istallare una pompa, avrebbe incrementato il giro di affari. E adesso, che addirittura investiva nella ristrutturazione del locale, gli sarebbe tornato utile incassare in fretta, si chiamava redditività, tu brutto babbano…

D’un tratto il pelato era alla porta e la teneva aperta.

Una notte stellata, tuonò, ma temo che non resterà così a lungo.

L’oste sfilò dietro il bancone e uscì, mancò poco che agitasse un ombrello rosso per richiamare l’ospite indesiderato. Da dietro sembrava che zoppicasse un po’. Si era già chiesto altre volte in precedenza se Hansi fosse brutto di natura o sfigurato da un incidente. Lo affascinava il fatto di non riuscire a decidere. Non aveva cicatrici evidenti, come Franck Ribéry, ma era difficile credere che uno nascesse in quel modo. Forse quando era bambino, quando le ossa erano ancora tenere, un ubriaco gli aveva dato un pugno in faccia. Oppure era stato un incidente. Era caduto dal trattore o in un dirupo, oppure aveva duellato armato di pezzi di ghiaccio affilati. Cose che capitano ai bambini su queste montagne nere.

Quando furono davanti all’auto, si strinsero la mano. Chiese all’oste quando sarebbero finiti i lavori di ristrutturazione.

Difficile a dirsi, rispose l’oste.

– Ma a ottobre, per la stagione della caccia?

– Ma sì, certo.

Lo salutò ancora con la mano dal finestrino. Nello specchietto retrovisore, l’oste non si vedeva più, solo la notte nera. Lasciò aperta la sbarra.

La grappa si diffuse piacevole dentro di lui. Pareva penetrare centimetro dopo centimetro, come un anestetico, dal ventre nelle membra, nella punta delle dita e nei lobi delle orecchie e, infine, nel cervello. Forse sarebbe ancora riuscito a trovare una stanza, oppure avrebbe dormito un po’ in auto. Forse subito quassù, nel bosco? Ma no, meglio guidare un paio di chilometri e concentrarsi.

Che strana compagnia. Come se aspettassero l’ultimo traghetto. La cuoca che ormai stava perdendo la stuzzicante aura formosa, e presto sarebbe diventata solo una sciatta befana. E poi gli operai che arrivavano la sera tardi, e l’ambiguo pelato. La moglie doveva avere un carlino. Al pelato avrebbe potuto raccomandare qualcosa sulla guida responsabile in montagna. Che in curva non si deve frenare. Solo gli sprovveduti frenano in curva, gli autisti della domenica, i topi di città. Scalare la marcia prima della curva, lasciare entrare in azione il freno motore, dopo il vertice accelerare, così si aveva una maggiore stabilità. Era così che si faceva. Ma chissà se era davvero lui. Non aveva guardato se l’Audi aveva una doppia marmitta. E poi anche in quel caso.

Immaginò l’Audi che usciva dalla curva, nel bel mezzo dello scintillante blu notte. La vedeva volare, non cadere. Non era un’immagine minacciosa, ma pacifica, silenziosa. L’auto girava al rallentatore per aria, tra le cime degli alberi, non come un pollo allo spiedo, ma come un frisbee, intorno a un asse verticale. Il frisbee si trasformò nel coperchio di cromo luccicante. Si sforzò di rimetterlo a posto, ma era indebolito dalla grappa. L’alcol apre i cancelli, indebolisce i confini, il controllo. Niente si chiude più davvero, tira, cede, cambia forma come plastica da quattro soldi sul vapore. La maggioranza delle volte lo si vuole, si beve proprio per questo, per liberarsi dagli irrigidimenti, per spogliarsi della corazza e rotolarsi per qualche ora nudi nella neve, ridendo. Per arieggiare i ripostigli della vergogna, o meglio ancora, per presentarli al mondo come se fossero la cosa più importante che si ha. Ma qualche volta si beve solo per abitudine e ci si accorge troppo tardi che è stato un errore. Le mura crollano e tutto implode verso l’interno.

Lo sguardo di Heidi mentre se ne andava.

Si può essere uno stronzo anche senza fare niente.

Non prendendo decisioni, non confessando né promettendo niente. Per anni si era sentito sicuro, in pace con la vita, un uomo baciato dalla fortuna al quale non riusciva proprio tutto, ma quasi. Che poteva fare ciò che lo divertiva. Che pensava che la sua più grande abilità consistesse nel non lasciarsi ferire, che aveva quasi dimenticato cosa sono le ferite. Quando qualcosa diventava difficile, spiacevole, forzato, allora troncava, scappava veloce come un lampo. Perché poteva permetterselo: rinunciare senza rimpianti. Per lui si trattava comunque solo di scoprire qualcosa di nuovo. E così, di sicuro non aveva notato che andava da lei sempre più spesso. Che non riusciva a staccarsi come sempre, dopo un paio di volte. Una pasticciera creativa. No, una ragazza che ristrutturava un negozio, così l’aveva conosciuta un fine settimana in cui, a differenza del solito, era rimasto in città tra due blocchi di prove. Un mattino chiaro. Indossava una tuta blu da meccanico e spingeva una carriola piena di detriti. Una cosa così avrebbe potuto farla anche Isolde, prendere l’iniziativa, fare da sola, senza tante storie, come le donne tra le macerie della seconda guerra mondiale.

Isolde.

Fino a quel momento si era proibito di fare qualsiasi paragone. Mai. Metterle a confronto avrebbe significato che avevano a che fare l’una con l’altra. Che potevano influenzarsi. Ma Isolde era un’isola. Una fortezza su un’alta montagna. La sua fortezza. Paragoni vietati.

C’era riuscito per quasi due anni.

Ma forse doveva succedere. Perché non oggi? Non doveva ormai avere il coraggio di guardare ogni cosa, le somiglianze e le differenze, almeno per capire com’era arrivato fin lì? Visto che non ne capiva il significato. Né cosa avrebbe significato in futuro. Perché non se ne sarebbe liberato tanto in fretta. Anche se Heidi avesse fatto quello che aveva annunciato. Se non lo avesse fatto, allora tanto meno. Allora avrebbe dovuto e anche voluto tornare, regolarmente, anche se lei lo aveva minacciato che andandosene non le avrebbe lasciato altra scelta.

Allora via, subito, qui, in questo stramaledetto bosco, che non aveva fine. Anche la montagna non aveva fine. Una curva dopo l’altra e a parte lui nessun altro lì fuori. Poteva essere d’aiuto mettersi dietro a uno che ti illuminava la curva. Ma non c’era nessuno. Sarebbe rimasto ancora ore seduto in quell’auto. Voleva fare una pausa, aveva bisogno di una pausa, ma l’idea di accostare così sul ciglio della strada, senza un riparo, senza tetto, luce e birra e un tavolo stabile, lo faceva esitare. Solo quando sarebbe arrivato giù, solo allora, una volta fuori dal bosco.

Heidi era più giovane di Isolde, ma per lui non era mai stato questo il punto. Era più giovane solo per caso quando l’aveva incontrata. Era così e basta. Ce ne erano state altre più vecchie. Non era questo il motivo. All’inizio non aveva pensato che fosse una con cui andare a letto, era divertente e pronta di spirito come una sorella minore, aperta e trasparente e non aveva idea di chi fosse lui. Era spensierata, ecco la parola giusta. Senza pensieri, senza pesi. Chiara, sospesa. Aveva un’aria da ragazzina e tuttavia materna, invece lui era sempre stato affascinato dall’oscurità e dalla freddezza. Legato a Isolde. All’ineffabile che c’era in Isolde. Che sarebbe potuta fuggire in ogni momento, come allora, quando le aveva detto senza rifletterci tuo figlio è completamente pazzo, proprio come il padre. Da quel momento in poi si era convinto che Isolde potesse fuggire in ogni momento. Ma non era più andata via, da allora non più. Che fosse solo un malinteso? Un’architettura che lo legava a lei? Anche se in fondo era uguale se l’architettura era sua o di Isolde. Forse l’avevano realizzata insieme, con un tacito accordo, proprio come tutto il resto, il giardino, la casa, il letto sotto l’abbaino, gli ideali artistici. Così come avevano scelto insieme l’arruffato gatto di angora al ricovero degli animali randagi, che presto era ingrassato così tanto, e quello prima ancora, delicato e tigrato che era finito sotto un’auto.

Voleva avere figli. Provava un sincero e serio desiderio di avere dei figli, non solo, come insinuava Isolde, perché non sopportava di vederla soffrire per la scomparsa del suo. Aveva desiderato dei figli per altri motivi, e perché era Isolde, perché lei era quella giusta, perché voleva conoscere dei bambini che discendevano da loro due, olivastri e di temperamento, fulvi e riservati, le loro caratteristiche mescolate. Per molto tempo Isolde si era rifiutata poi, a un certo punto, era troppo tardi. Nel mezzo c’erano stati uno, due insuccessi, lei li aveva attribuiti, quasi con allegria, all’età. Al fatto che il corpo aveva già dimenticato com’era essere incinta. Durante i primi anni, in cuor suo aveva odiato il figlio assente. Perché proprio con la sua assenza, era sempre lì, come uno spettro. Sospettava che volesse infliggere un dolore tanto grande alla madre, in modo che per Isolde fosse inimmaginabile avere altri figli, e quindi altri dolori. Scomparendo si era incoronato re. Quel fanciullo dagli occhi neri che lo aveva guardato come un rivale prima di sgombrare il campo con una fretta infame. Ma se doveva essere sincero, quel desiderio non era durato. Aveva cominciato la propria carriera, era stato in giro sempre più spesso, aveva amato quella vita che lo impegnava senza interruzione in cose molto eccitanti e piano piano l’idea di avere dei figli si era persa dietro tutto ciò.

Heidi, invece, con le sue quattro siringhe per decorare le torte e le sode morbidezze dei fianchi. Ma di tutto il corpo in realtà. Quando sudava, odorava di limone, un sudore lieve come il sorriso. Durante quella prima estate l’aveva aiutata a dipingere le pareti del locale di colori cremosi, lei lo aveva portato in barca a remi sul lago e la notte, quando gli veniva fame, faceva montagne di topinky all’aglio8. E non si era accorta che lui, nonostante quello sciocco ghigno di felicità che in sua presenza gli copriva il volto come un crampo, in verità era diverso, più freddo e duro.

Avrebbe dovuto saperlo. Nel negozio c’erano sempre dei bambini ai quali Heidi spolverava la panna con lo zucchero colorato, metteva le scaglie d’oro nella limonata e regalava ciliegie glassate infilate in bastoncini di legno se piangevano dopo un capitombolo.

Avrebbe dovuto dare una di quelle meraviglie di ciliegie, rosso brillante, a quel mini viet-cong al passo di Grimbart. Di sicuro lo avrebbe calmato più che essere caricato in spalla come un sacco e trasportato via.

Sentì il cuore battere forte due volte, come un bussare deciso alla porta. Uno spavento tardivo. Forse aveva trascurato qualche dettaglio? Forse lassù tramavano qualcosa? Qualcosa di criminale? La donna con i capelli grigi non poteva essere la madre del bambino. L’oste era solo spazientito? O piuttosto intimidito? Il pelato con la testa lucida era solo uno stronzo di natura, o era davvero pericoloso? I sottoposti, tipici compari che per soldi fanno di tutto, anche gettare nelle gole sperdute le profughe soffocate in un bagagliaio?

Ma allora non lo avrebbero nemmeno fatto entrare! L’oste avrebbe sbarrato la porta e fatto finta che non ci fosse nessuno.

Ma non era proprio quello che avevano fatto?

La sbarra era abbassata! Devono essersi sorpresi che qualcuno avesse proseguito nonostante la sbarra, nonostante il cartello “chiuso”. In quel caso si preferisce far entrare l’intruso e mostrargli una scena tranquilla. Le birre non erano piene quando era entrato? Come se fossero state appena servite? La scena pacifica distrutta dalle grida metalliche del bambino. Il modo in cui uno dei due era saltato in piedi, solo per un bambino. Si comportano così quelli che nascondono qualcosa.

Ma che razza di pensieri si fanno in piena notte. In alcuni esperimenti è stato constatato che le persone che vengono private del sonno, diventano psicotiche dopo due sole notti in bianco. Ma chi è che conduce simili esperimenti? Dov’è che permettono cose del genere?

Le curve divennero più ampie, la quarta marcia tornò in servizio. I contorni si fecero più nitidi. Adesso riusciva a distinguere i singoli alberi, la parete omogenea di alberi ai lati della strada si dissolse in grosse macchie. Grosse macchie. Non aveva mai visto Heidi piangere prima. L’aveva vista stupita, ed era più carina che mai. L’aveva spesso stupita, quello che diceva, che faceva, come lo faceva con lei. Ridire, sorprendersi, le donava. Piangere no. Rendeva tutto banale, insulso come la parete turchese dietro il banco dei dolci. Con una decorazione all’altezza delle spalle. Gli aveva fatto tenere la mascherina, si sentiva ancora come in una gita stravagante in un mondo sconosciuto, come gli capitava a volte, beato, giocoso e poi via di nuovo a passo leggero, promiscuo come un greco dell’antichità. Heidi gli aveva dipinto anche le dita, le punte turchesi, e lui le aveva fatto dei pois dappertutto, sul sedere, sul seno. Quella vernice non era facile da togliere una volta seccata. Heidi voleva usare l’acquaragia, ma glielo aveva proibito, niente acquaragia sul seno, su quella pelle fine e venata!

Non se n’era andato, non se n’era andato in tempo. Era sempre tornato da lei. Non voleva rimproverarselo. Era stato bello ogni volta, a parte l’ultima. E per una volta era stato del tutto sincero, l’aveva portata con sé nel resto della sua vita, come un punto nascosto nella fodera dove è cucita una moneta d’oro, che sentiva solo lui. Si era convinto del contrario: che forse significava qualcosa ma che non poteva influire sul resto, che non vi era nessun punto di contatto, nemmeno né soprattutto dentro di lui. Isolde, vestita d’oro risiedeva nel castello costruito con infinita cura nel corso di decenni. E Heidi non era impegnativa in quella maniera che lui aveva giudicato ingenua o follemente saggia e che, in ogni caso, faceva proprio al caso suo. Non aveva preteso niente e domandato niente, mai. E adesso questo.

Solo a causa di quel bambino asiatico col moccolo al naso, all’improvviso era tentato di considerare tutto all’esatto opposto: l’oste di Grimbart un produttore di film pedofili o per lo meno il tirapiedi di una banda internazionale di criminali. Isolde una finta donna indipendente che recitava la propria parte in modo così brillante che uno con la paura dei legami affettivi come lui, che non aveva mai voluto essere accalappiato, le aveva gettato subito il lazo al collo. E Heidi la classica amante scaltra che non faceva pressioni, che metteva a disposizione la propria risata, il proprio corpo, un piccolo avvallamento baciato dal sole della vita indipendente di ragazza, fino a quando non avrebbe avuto in mano, o meglio nella pancia, uno strumento per fare pressione. Un tubicino di plastica con due finestrelle colorate, alzato in modo minaccioso come una bacchetta magica con cui voleva incatenarlo, con l’aggiunta di una cascata tropicale di lacrime per mascherare l’intenzione.

Avrebbe tanto voluto piangere anche a lui. Era senza speranza. Una cosa così succedeva di rado, da un punto di vista formale. Comunque la si girava, sarebbe finita in un disastro. Poteva soltanto congelare la scena e lasciar calare il sipario. Le morbidezze di Heidi cui aggrapparsi, sarebbero ingrassate oppure no, la stessa Heidi sarebbe diventata piccolo borghese e ordinaria oppure no. Isolde, il presunto porto franco, con addosso solo i suoi boxer e le braccia alzate perché d’un tratto si era accorta che invecchiava o che era già vecchia.

Era rivoltante quanto si facesse pena di fronte a certe donne. Perché di sicuro quella storia non era vera neanche al contrario. Era addirittura meno vera della prima versione. Alla quale lui era rimasto attaccato così a lungo e con tanta fedeltà. Di cui non aveva mai dubitato. Finché tutto fila liscio come l’olio, non lo si fa. Eppure è proprio allora che bisognerebbe dubitare: perché “liscio come l’olio” non è umano.

La voglia di diventare padre gli era passata già da un pezzo, una fase della vita a cui si ripensa increduli come ad altri tempi passati, capelli lunghi, capelli corti, colletti lunghi, niente colletti, alcuni hanno dei figli e spariscono per qualche anno, gli altri si lasciano sfuggire il momento giusto e ci piangono sopra quando si ubriacano. Ma adesso lì c’era un’opzione che gli si era piantata come una piccozza nel cervello, da dietro, e all’improvviso quello che immaginava come il resto della vita, gli apparve diverso. Il futuro nelle mani di una piccola fornaia. Era fuggito subito perché sapeva quanto sarebbe diventato seducente quel pensiero entro pochi minuti. Come di certo lo sarebbe stato adesso nonostante tutto. Di sicuro avrebbe avuto un paio di giorni di tempo per cambiare decisione. E così quella di Heidi.

Gli ci sarebbe voluta un’altra grappa per snebbiare il cervello stanco. Da quelle parti sapevano dare al veleno un sapore così buono che scorreva giù come velluto e seta. Come avrebbero fatto sennò a resistere lassù, in una cattedrale di spettacoli naturali ma così solitaria che la gente s’impiccava nei fienili? Le donne scendevano al fiume e gli uomini s’impiccavano nei fienili, glielo aveva spiegato l’oste.

Una natura così bella da intimidire serve a qualcos’altro a parte che ad attirare i turisti? Nessuno lo chiede alla gente del posto incatenata dalla mancanza di coraggio e di talento. In silenzio lasciano che i forestieri si congratulino per l’unicità delle loro bellezze, perché altrimenti non avrebbero nient’altro per cui invidiarli. Lui in certi momenti di disgusto per il mondo era stato incline a considerarla la vita vera. Quella da dove non si può venir via, che si deve accettare come la realtà cui si appartiene. Non come lui e tutti i turisti a caccia di esperienze che, ovunque si trovassero, provavano, facevano confronti e poi ripartivano così comodi da non sapere dove volevano stare davvero.

Qualche volta aveva portato della grappa da lassù come un souvenir, in bottiglie di birra richiudibili. Una volta addirittura in un vasetto di marmellata. Eppure l’oste non vendeva grappa, proprio come non vendeva benzina, quel cretino. Però i soldi li prendeva lo stesso.

Il primo villaggio apparve a lato della strada, era buio pesto. Finalmente il profilo di un’opera dell’uomo. La montagna era alle spalle, il peggio era passato. Presto sarebbe arrivato a un distributore di benzina. Per quanto ne sapeva, il bancomat funzionava ventiquattrore su ventiquattro.

Dietro di lui si accesero due fari abbaglianti, i fasci di luce lo oltrepassarono. Trasalì. Era lo stesso o un altro che correva come un pazzo? La strada era stretta ma dritta e ancora una volta l’altra auto filò via così veloce che non riuscì a vedere niente. Ma adesso voleva saperlo. Se era il pelato. Pigiò sull’acceleratore e si rese conto di quanto avesse rallentato. Guidava mezzo addormentato. Ma poteva farcela. Anche se i fari dell’altro erano già molto avanti e sfioravano i tronchi degli alberi, i campi, i catarifrangenti, riuscì a recuperare terreno. Pigiò sul pedale del gas. Pensò di lampeggiare con gli abbaglianti. A ritmo, ta-taa-ta-taa-ta-taa. Forse quello davanti avrebbe rallentato o si sarebbe addirittura fermato. Si sarebbe inventato qualcosa nel caso non fosse il pelato. Lampi di fuoco dal tubo di scarico, un copricerchio perduto, o qualcosa del genere.

E se invece era lui, sì, allora…! Non doveva stare a pensare a questa possibilità. In quel caso si sarebbe affidato all’intuito. Gli capitava spesso. Dire cose imprevedibili, che lo sorprendevano e che in realtà erano quasi sempre migliori di tutto ciò che avrebbe potuto programmare o immaginare. Appunto: nella realtà. Bisogna entrarci per superarla, esporsi al dolore o all’imbarazzo, ed è difficile se non si prova in prima persona. È uno dei più grandi problemi del teatro, soprattutto con gli attori più giovani.

Ed ecco che correva come un pazzo sulla provinciale, dietro un’altra auto. Era pazzesco, lo sapeva, ma era una bella sensazione, allegra. L’altro era un punto chiaro molto avanti, ma lui voleva raggiungerlo. Almeno non voleva perderlo. Aveva perso così tanto fuggendo da Heidi ieri pomeriggio. In compenso avrebbe dato la caccia al pelato.

Gli stop s’illuminarono, a lungo, intensi. Il lampeggiare insistente aveva forse provocato una reazione, nonostante la distanza? Che una persona del genere guardasse nello specchio retrovisore… Frenò anche lui. Si avvicinò piano. Trecento metri, duecento. Quello era fermo lì, davanti a lui. Adesso sarebbe sceso. Oppure sarebbe rimasto seduto e avrebbe aspettato? In piena notte si era forse più cauti. In quel momento gli stop si spensero e si accesero le luci posteriori bianche, l’auto indietreggiò un po’, descrisse una breve sterzata sulla corsia opposta, poi pigiò tanto sull’acceleratore che gli pneumatici stridettero sull’asfalto. Come guida certa gente. Come guidano le macchine sportive certi uomini con una pelata artificiale lucidata con l’olio di noce! Non hanno idea di come impostare una curva, ma si mettono in mostra facendo baccano.

E perché si era fermato? Per farlo avvicinare? Per mostrargli che non aveva nessuna possibilità di raggiungerlo, come fanno i bambini che sfottono i più piccoli quando giocano ad acchiapparella? Prendimi se puoi.

Sulla strada c’era qualcosa.

Il cuore ricominciò a battergli forte.

C’era qualcosa sulla strada.

Qualcosa di grande. Qualcosa di scuro. Si fermò subito a una distanza incerta. Una giostra di pensieri in preda al panico. Continuare o chiamare la polizia e finire per essere sospettato, aveva bevuto davvero troppo per parlare con la polizia, ma è ridicolo, doveva proseguire, non bisogna per forza aver visto qualcosa, e se è una persona, sembra una persona, un animale è già abbastanza terribile, di quella taglia. Mise la prima e tastò in giro alla ricerca del telefono. Percorse l’ultimo tratto, fino a un certo punto. Lasciare i fari accesi, scendere. Chiuse la portiera e si avvicinò. Si vide farsi coraggio. Prendere fiato. Lo avrebbe guardato. Non ha senso scappare. Anche se di sicuro non è un bello spettacolo.

Era un capriolo, un capriolo grande o un capriolo maschio, non ne capiva niente di queste cose. Credeva che vi fossero specie in cui anche le femmine avevano le corna. O dei cornetti, come questo qui. Una femmina con i cornetti. Qualunque cosa fosse non era morto. Una gamba si muoveva su e giù. Imprecò. Chiamare la polizia. Una voce burbera all’orecchio, disse quello che c’era da dire. Certo che restava lì. Prese dal portabagagli la torcia, la trovò subito. Posizionò il triangolo, accese le frecce di emergenza. Ma quanto era bravo. Un cittadino affidabile. Illuminò il muso dell’animale. Cercò di girargli la testa. E poi successe qualcosa che lo fece inginocchiare, per lo sfinimento e perché quella vista lo commosse.

Si inginocchiò in modo che si potessero guardare, che per l’animale fosse più o meno comodo. Aveva occhi belli e grandi, come biglie. Voleva dire qualcosa. Era ancora giovane, non voleva morire. Voleva correre da un campo all’altro, da un bosco all’altro. A volte bisogna cambiare bosco, bisogna sentirsi liberi, persino quando non lo si è. Si ha bisogno di cambiare. Passo della selvaggina. Ho scelto l’ora giusta, sapevo che questo era un momento buono per passare dall’altra parte. Ho fatto del mio meglio. L’ho già fatto altre volte. Ma è andata male. Purtroppo succede. Adesso sono sdraiato qui e scalcio in aria la gamba buona.

Intorno alla bocca aveva un po’ di schiuma bianca. Non la trovò ripugnante. Nebbia mortale che saliva. Picchiettò con cautela sul fianco dell’animale. Quello digrignò i denti ma non provò nemmeno a morderlo. Poi si calmò e smise di calciare. Invece spalancò gli occhi come se già scorgesse le schiere celesti. Fissò la vita in quegli occhi, perché l’anima era di certo ancora lì dentro. Lacrimava ancora, gli occhi luccicavano e si muovevano, erano ancora in grado di compiere l’inspiegabile miracolo di trovare un altro sguardo e trattenerlo.