Le anatre sono in grado di dormire e allo stesso tempo guardarsi da eventuali nemici. Chiudono solo un occhio e lasciano riposare una metà del cervello mentre l’altra fa la guardia. Le due metà del cervello ogni notte si danno il cambio più volte, sostengono i ricercatori della rivista specializzata Nature. Quando gli animali si riposano in gruppo, gli individui che si trovano al margine corrono il rischio maggiore. Mentre le anatre al centro del gruppo dormono “con un occhio solo” solo il dodici per cento della notte, quelle esposte all’esterno lo fanno il trentun per cento della notte.
Quando i bagagli furono quasi tutti in auto, apparve sulla scena il comitato di addio. I ragazzi più grandi, con i volti ruvidi, trasformati in torri instabili in una sola notte, si dimenavano contro la luce del sole invernale. Salutare era imbarazzante proprio come quasi tutto il resto. Si rilassarono solo con il fratello più giovane che gli arrivava appena alla pancia. Con lui dimenticarono le pose e si rallegrarono, lo sollevarono e lo baciarono. Le voci profonde erano ancora inconsuete, gli scherzi e i bisticci, invece, gli stessi di un tempo, quand’erano ancora piccoli e paffuti.
Era venuta anche Chloe, la vicina. Insieme al cappotto pesante, indossava un’espressione severa che accentuava il dolore dell’addio invece di nasconderlo. Negli anni passati Jenna e Chloe avevano fatto amicizia, con sorpresa di entrambe. Ormai Jenna condivideva con lei anche le preoccupazioni private. Ho sempre desiderato una figlia, era scappato di bocca una volta a Chloe, la quale, anche se nessuno voleva crederci, si avvicinava alla settantina. E Jenna, che si vantava di comportarsi con lei con la naturalezza che condivideva solo con un’altra persona, aveva risposto sicura di sé: ma tu hai me.
Ben era impegnato con gli ultimi preparativi. Girò intorno all’auto, la scosse per provare il carico e riempì gli spazi vuoti. Alla fine, quando si trovarono di fronte un mucchio crescente di sciocchezze che dovevano infilare da qualche parte, scoppiò il caos. Jenna cominciò a metterle nelle borse e nei sacchetti di plastica: le scarpe preferite, l’ultimo paio di mutande dimenticato, la macchina del caffè, la ricarica per il Tirannosauro Rex telecomandato e qualche decorazione natalizia per il prossimo Natale, così lontano che era quasi inimmaginabile.
Ci fu una breve discussione tra Ben e Jenna su chi poteva guidare per primo. Intanto Chloe fotografava i bambini che si erano raggruppati formando una A. I grandi, in un momento di rara armonia, stavano spalla a spalla e tenevano di traverso come una trave il piccolo che sgambettava ridendo. Poi accadde tutto in fretta. Le braccia dei ragazzi si posarono goffe e frettolose intorno alle spalle. Movimenti meccanici, quasi come robot, anche se di sicuro erano sentiti. Tra il padre e i figli più grandi, il rumore maschile prodotto dalle esagerate pacche sulla schiena con la mano piatta, come su un tamburo. Si salirono sui piedi a vicenda, si scusarono, si smarrirono per un momento in un minuscolo bosco di familiarità, inciampando qua e là. Impressioni che scivolavano via. Una macchia sospetta sul collo di quello più grande – ma allora fa già sesso? Quello di mezzo si schiacciava ancora troppo spesso i brufoli. Non bisognava dirglielo. Alla fine Jenna sentì, con sorprendente intensità, il profumo familiare di Chloe e ricevette un paio dei suoi ricci selvaggi negli occhi. I turchi, disse Chloe, versano un po’ d’acqua dietro un’auto che parte e i passeggeri ci nuotano sani e salvi fino alla meta. La risata di Jenna risuonò con tono sbagliato. Come se quella novità portasse sfortuna, considerato che non avevano l’acqua.
Si sedette al volante, perché l’aveva avuta vinta, come sempre, aveva commentato Ben e non era stato possibile stabilire se fosse innervosito oppure ironico e affettuoso. Il loro matrimonio si teneva in equilibrio su questo filo imperscrutabile già da tempo, da entrambe le parti. E poi partirono, così, come se un addio non significasse niente, il sole splendeva, non c’era traffico e solo quando furono ai confini della città Jenna si accorse che non aveva guardato nello specchietto retrovisore. Perché sopportava così male le figure che rimpicciolivano?
Quando cercava di immaginarsi la partenza del padre, allora, le immagini si oscuravano. Quasi che i pensieri soffrissero di un disturbo visivo. Cupa e fredda, una massa di gente isterica così silenziosa da essere spettrale. Al centro dell’immagine la famiglia, con i vestiti di un tempo. I nonni e lo zio adolescente immobili, come pietrificati, solo il papà piccolo, che non capiva niente, si agitava. Aveva quegli enormi occhi da bambino che non appartenevano solo a lui, bensì a tutti i bambini poveri del mondo e della storia. Tutto in bianco e nero, un vecchio film senza il sonoro. Quando Jenna era di umore masochista, s’immaginava in sottofondo un pianoforte che suonava, com’era normale ai tempi del film muto. Valzer, polca, musica militare. Il Führer che carica gli ebrei sul treno.
Durante tutti i decenni che Jenna aveva trascorso portandola con sé, quella scena non era quasi cambiata. In fondo non era niente, solo una decalcomania. Ma era il segnaposto di una verità che non si lasciava più nascondere. E anche se fosse stato possibile nasconderla, non l’avremmo comunque sopportata, rammolliti, ignari, idioti del dopoguerra colmi di benessere, quali eravamo.
Di certo sapeva che nella vita i momenti importanti passano inosservati proprio come tutti gli altri. Solo uno sguardo retrospettivo conferisce a determinate scene la loro forza, la loro luce straordinaria. Ma ci dovevano essere degli avvenimenti dei quali si sapeva subito che avrebbero avuto un peso maggiore rispetto agli altri che il futuro ci riservava.
Per esempio dire addio ai propri figli, quando non si aveva la garanzia di rivedersi. E tuttavia non riusciva ad avvicinarsi al vero problema come un pesce all’acqua, anche se ne è circondato e impregnato.
La prima ora e mezza quasi non si parlarono e non ascoltarono neanche la musica. Fuori sfilava quello che Jenna considerava il paesaggio più deprimente di Europa, il piatto, quasi deserto Brandeburgo. Kleinmachnow, Teltow-Fläming, Beelitz-Heilstätten. Anche solo i nomi avevano un suono simile al sapore del cavolo nero. A poco a poco migliorarono, i nomi e il paesaggio, ma Jenna se ne accorse solo quando attraversarono l’Elba. Sammy era seduto dietro, le cuffie rosso fuoco in testa, dondolava i piedi e quando Jenna gli sorrideva nello specchietto retrovisore le faceva una V di vittoria con le mani. Aveva insistito perché il seggiolino di Sammy restasse al centro del sedile posteriore, come un tempo, quando i più grandi gli sedevano a destra e a sinistra e lo divertivano o tormentavano a turno. Perché se stava seduto lì nel mezzo, lo spazio vuoto intorno a lui era più grande e poteva riempirsi prima che la carrozzeria incidentata raggiungesse gli arti di Sammy, i teneri arti del suo unico bambino. Sammy avrebbe preferito stare seduto accanto al finestrino, ma quando si lamentava, Jenna gli decantava quel posto dicendo che così poteva guardare fuori tra loro due, come se fosse seduto davanti anche lui.
Secondo le statistiche il passeggero muore per primo. Jenna ci pensava ogni volta, quando lei e Ben, dopo l’ora e mezza consigliata dall’ADAC, si scambiavano i posti. Un errore di Ben poteva costarle la vita. Era vero anche il contrario, ma fintantoché era al volante, non aveva paura. Era convinta che per tutta la vita non sarebbe riuscita a liberarsi dai sensi di colpa, cosa che doveva essere molto più straziante di morire.
Ma finché guidava lei, aveva la situazione in mano. E sperava che in caso di emergenza sarebbe riuscita a fare qualcosa, anche se avrebbe avuto a disposizione solo qualche frazione di secondo. Al contrario dei piloti di aereo. Quando lassù succedeva qualcosa di inaspettato, il pilota aveva molto tempo per reagire. Lo aveva imparato al seminario sulla paura di volare. Era stata una delle informazioni che avevano fatto effetto quasi subito. Come anche un’altra frase di quell’istruttore della Lufthansa invecchiato in modo esemplare. Con quelle rughe di esperienza e abbronzate, non avrebbero potuto sceglierlo meglio. L’altra frase era: Lassù, a diecimila metri, ci sono in giro solo dei professionisti. Non come qui sotto, sulle strade.
Quando era tornata a casa dopo quell’affascinante fine settimana – era ormai in grado di spiegare a Sammy perché un areoplano può volare con un semplice disegno su un foglio di carta – Jenna era convinta di essere sulla via giusta per guarire. La paura di volare era una specie di colpo della strega dell’anima che poteva aggravarsi molto se, per non sentire il dolore, si assumeva una posizione sbagliata. Tra l’altro si presenta molto spesso nelle donne subito dopo che hanno avuto dei figli, predicò, e mentre lo diceva sapeva di essersi lasciata alle spalle quella miserevole creatura con le mani sudate e un incontrollato tremore delle ginocchia. Quella creatura ingoiava Valium e vino rosso già di prima mattina quando doveva salire su un aereo. Balbettava felice quando atterrava. Era imbarazzante. Disse a Ben: ti viene subito la voglia di prendere il brevetto da pilota. E Ben l’aveva guardata, con quell’aria a metà tra l’innervosito e l’ironico e affettuoso, e aveva risposto: da te c’è da aspettarsi di tutto.
Di sicuro abbiamo dimenticato qualcosa, disse Ben poco prima che si dessero il cambio. Nella testa Jenna corresse: di sicuro hai dimenticato. A voce alta disse: non c’è niente che non si possa comprare anche lì.
Se la pensi così… disse Ben e bevve un sorso d’acqua dalla bottiglia. Jenna lo osservò con la coda dell’occhio mentre richiudeva il tappo della bottiglia e la rimetteva nello scomparto laterale della portiera. Disse: ne vorrei un po’ anch’io. Ben si scusò e le passò l’acqua.
L’opinione generale su di loro come coppia era: centro. Erano entrambi esuberanti e di personalità decisa, ma altrettanto affabili, socievoli e comunicativi. Forse lui un po’ più terreno, lei un po’ più leggera, ma erano entrambi molto solidi.
L’opinione della famiglia di Jenna era: una fortuna che avesse trovato quell’uomo, difficile e nervoso come lei. Lei è in gamba, ma bisogna essere in grado di reggerla. Non tutti ce la fanno. Loro non ce l’avrebbero fatta, per poco non ce l’avevano fatta quando Jenna era minorenne e abitava ancora a casa. Qualche volta era stato tutto in bilico, l’aria tesa in famiglia, il matrimonio dei genitori. Il precetto di non picchiare i figli, a quei tempi, non valeva ancora. Quando a diciotto anni se ne era andata di casa con un gesto molto drammatico (nessuno a parte Jenna ne ricordava il motivo), si erano sfregati le mani, come per scrollarsi di dosso la polvere della lotta. Anche se, ovviamente, erano stati anche tristi. Ma era meglio tenere le distanze.
Dopo essersi scatenata per un po’ e aver scoperto le radici più importanti dei propri bisogni emotivi e sessuali, Jenna aveva sposato Ben. È così che l’avrebbe raccontata lei.
Dopo un’avventurosa serie di passi falsi, tra cui anche un gioielliere alcolizzato e un motocrossista di professione a quanto pare bisessuale – e non erano stati i peggiori – per fortuna aveva trovato Ben: così la raccontavano ghignando il padre e il fratello di Jenna quando erano dell’umore giusto.
Da quel momento in poi si era calmata. Perciò la sua famiglia apprezzava Ben, che con loro si mostrava più affidabile e giudizioso di quello che era. Ma poiché i suoi non erano molto attenti quando non si trattava della famiglia intesa come opera d’arte collettiva, non si accorgevano di niente. Per questo persistevano in quel mito offensivo che addirittura trasformava Ben nel domatore di un animale selvaggio. E Jenna nella vincitrice del primo premio alla lotteria degli uomini.
Da qualche tempo Jenna aveva l’impressione che Ben avesse assunto i suoi difetti, mentre rifiutava quelli che Jenna riteneva i suoi pregi con una tale forza che lei stessa aveva cominciato a metterli in dubbio. La faccenda della bottiglia d’acqua e la paura nevrotica di aver dimenticato qualcosa, erano dei buoni esempi. Un tempo Ben la tranquillizzava o la prendeva dolcemente in giro, liste alla mano, programmava tutto e poi lo ricontrollava altre cinque volte. La canzonava dicendo che se avesse continuato a calcolare gli eventuali ritardi con quella generosità per essere sicura di arrivare in tempo, prima o poi sarebbe arrivata in anticipo di un giorno. Adesso invece era lui che stava nell’ingresso con il mazzo di chiavi tintinnante, mentre lei si truccava. Anche se lei era puntuale come sempre. Nel frattempo era Ben a essere insoddisfatto quando lei, come presente da portare agli amici aveva pensato solo a una bottiglia di vino o a qualche fiore, sebbene, al contrario di lui, Jenna si ricordasse bene cosa gli ospiti di turno avevano regalato a loro l’ultima volta: e cioè niente.
Non per questo era cambiato qualcosa della sconfinata sbadataggine di Ben, che Jenna, lo ammetteva, all’inizio aveva scambiato per una quasi commovente disattenzione intellettuale. Lasciava che le porte a vento le si richiudessero sul viso, andava avanti per chilometri perché non si accorgeva che si era fermata davanti a una vetrina o che con le scarpe con il tacco alto proprio non riusciva a stargli dietro. L’aveva già chiusa più volte in auto con il telecomando – in quei casi Jenna restava seduta, livida di rabbia, e contava i secondi prima che Ben se ne accorgesse. Non versava mai il vino agli ospiti perché lui preferiva conversare e quando cucinava, al momento di servire, si rendeva conto di aver dimenticato di accendere la piastra sulla quale c’era la pentola con il contorno preparato da lei. Quando Jenna cercava di richiamarne con discrezione l’attenzione, Ben la redarguiva davanti a tutti e diceva che per fortuna non era l’idiota che pensava lei. Quando invece – cosa che le riusciva difficile –non gli diceva niente e qualcosa andava storto, Ben la indicava sghignazzando e diceva, prego guardate che faccia, crede di nuovo che presto diventerò demente.
Erano questi gli anfratti banali, ma melmosi, in cui si impantanava un matrimonio di per sé felice. Dopo più di un decennio non se ne usciva più. Jenna aveva cercato di spiegarglielo. Era come avere un’allergia. Bastava pensare alla nocciola e già si respira a fatica.
Jenna aveva iniziato così la loro ultima infruttuosa conversazione: capiva che spesso Ben si sentiva controllato da lei. Non era importante se a ragione o a torto, dato che si trattava del suo vissuto. Da qualche tempo Jenna si sforzava di migliorare. Come consigliavano le riviste femminili, contava in silenzio fino a tre prima di criticarlo. Qualche volta conto anche fino a cinque, diceva ridendo nervosa. Spesso riusciva a ingoiare la frase. Tuttavia il problema era che Ben non notava le volte che Jenna si mordeva la lingua per impedirsi di esternare le sue cosiddette tipiche osservazioni e, al contrario, quando Jenna non ci riusciva, si arrabbiava come sempre.
Capisco, disse Ben, e i piccoli punti dorati nell’iride brillarono come allora, quando Jenna si era innamorata di lui. Innamorata come mai in vita sua. Nel frattempo Ben aveva molta più pancia e meno capelli. A lui dava fastidio la perdita dei capelli, a Jenna invece la pancia. Ma non credeva che Ben lo sapesse.
– Insomma vuoi dire che io scambio un quarto di nocciola per una intera.
– La molecola di una nocciolina.
Sei migliorata così tanto e io non me ne sono accorto, domandò Ben, con un briciolo di ironia. La pregò di fargli un paio di esempi di quando si era rimangiata le critiche. Non disse “rimangiata eroicamente”. Glielo chiese in un tono neutrale. Così Jenna alzò il pollice compiacente: la settimana scorsa hai comprato il succo di frutta sbagliato, quello che Sammy ha sempre vomitato… non fa niente, l’ho bevuto io. L’indice: mercoledì hai messo il parmigiano nella salsa davanti a Oliver, adesso non mangerà mai più neanche gli spaghetti alla carbonara. Se ne è andato subito con un pretesto, ma non ti sei accorto neanche di questo, è andato via senza mangiare, proprio Oliver che ha sempre fame… Alzò generosa il dito medio e disse: questo in realtà vale già come punto tre.
Stop, disse Ben e quando Jenna alzò lo sguardo su di lui si stupì di quanto in fretta potesse cambiare il suo viso. Ricordati una cosa, disse Ben tagliente, io non ti accontenterò mai, perché tu sei incontentabile. E il problema non è che tu a volte dici queste ridicole cazzate, ma che le pensi sempre! E che dopo settimane sei ancora in grado di ripeterle!
Dopo giorni mormorò Jenna, ma era troppo tardi. Non era stato più possibile impedire le grida e le porte che sbattevano, né le lacrime (di Jenna) né i reciproci insulti. Non le frasi finali (ma per quale motivo da quindici anni stai insieme a un pazzo come me? Ti pagano forse per questo?), né la responsabilità collettiva (tu e la tua famiglia vi interessate solo di voi stessi, siete perfetti e ineguagliabili). Quell’ultima volta, quasi quattro mesi prima, alla fine era apparso Sammy, in pigiama. Di sicuro lo avevano svegliato con le loro grida. Non era ancora mai successo. Stava sulla porta e li squadrava non con aria di rimprovero, non era spaventato ma sembrava un piccolo etologo spietato sul campo. Quando Jenna lo riportò a letto, Sammy si girò verso la parete. Quando lei mendicò, per favore un bacetto soltanto, si mise il cuscino sulla faccia.
Due settimane dopo, per una serie di svariate coincidenze che più tardi chiamarono magiche, Jenna conobbe un pittore che sia dal punto di vista sessuale sia da quello psicologico era sensibile come una vergine dalla pelle lattea. Quattro settimane e duecento SMS più tardi erano andati a letto insieme. E da allora lei e Ben non avevano più litigato. Forse perché Ben, in considerazione del grande viaggio si era trattenuto, ma anche perché Jenna sapeva di aver perso ogni diritto a lamentarsi. Qualsiasi cosa facesse o omettesse il marito, qualsiasi cosa dimenticasse, trascurasse, non capisse o perdesse, non era niente in confronto a quello che gli faceva dietro le familiari spalle quasi ogni due giorni, come una criminale, dimentica di sé, insieme a quell’altro che era più bello, più giovane, più impulsivo e aveva forse metà dell’intelligenza di Ben, ma che nell’insieme era un’unica, divina liberazione.
Si diceva che il matrimonio dei nonni non era stato felice. Il nonno un furfante di bell’aspetto che non se ne faceva scappare una. La nonna una bellezza severa, con molto più seno che umorismo. Jena credeva che la nonna fosse stata più intelligente di quanto convenisse a quei tempi. I minuscoli spazi di libertà stringevano alla gola tutte le donne, ma quelle intelligenti soffrivano molto di più. Quindi il marito era di bell’aspetto ma infedele, spiritoso come nessuno ma spericolato, un giocatore accanito, megalomane, irresponsabile. Non c’era nessuna possibilità di esercitare una qualche influenza su di lui. Nemmeno di contenere i danni. La nonna biondo-rossiccia poteva solo stare a guardare, appena diventata madre: stare a guardare come lui si giocava il loro futuro. Con i soldi e la reputazione a Vienna ci si gioca anche le relazioni. E divenne pericolosissimo. Ma il nonno non poteva saperlo quando nei primi anni trenta sprecava il proprio denaro ai tavoli di poker o si faceva truffare da sedicenti commercianti con innovative strategie di affari. È vero che non aveva potuto saperlo ma, nonostante tutto lo charme, Jenna non gli avrebbe mai perdonato che a un certo punto i soldi non furono abbastanza per ottenere visti e garanzie. Per pagare funzionari o conoscenti.
La nonna rimproverava anche se stessa per questo? Oppure solo lui che aveva dilapidato il denaro? Avrebbe dovuto divorziare per amor dei figli? Allora ce n’erano a mucchi di situazioni del genere. Tu prendi le distanze dagli ebrei e noi chiudiamo i nostri nazi-occhi. Sarebbero venuti a prenderlo prima ancora che la firma della nonna si fosse asciugata.
Ma la nonna era onesta. Non aveva sacrificato nessuno, risparmiato nessuno. Aveva procrastinato le decisioni irreversibili e quindi sanguinose. Aveva cercato di giocare la partita. Forse sperava che non sarebbe stato poi così terribile. Quando si è in pericolo di vita bisogna muoversi appena, a piccoli passi come su un campo minato. La nonna sapeva che erano in pericolo di vita? Che possibilità pensava di avere? Quando decisero di mandare i bambini in Inghilterra deve aver creduto che li avrebbe rivisti. Lo aveva fatto? Forse aveva pensato che li avrebbe rivisti solo lei, perché lui sarebbe stato arrestato. Nessuno sapeva cosa sarebbe successo. Non si sa mai cosa succederà, anche se si fanno sempre delle supposizioni.
La nonna era una perfetta ariana, da infinite generazioni. Jenna ne conservava l’albero genealogico nella scatola per le scarpe blu brillante, su cui aveva scritto con il pennarello Archivio. Un’irreprensibile serie di contadini, fabbri, sellai, falegnami della Moravia. Nessun commerciante. L’uomo di mondo lo aveva sposato lei, era stato il suo biglietto per la capitale imperiale. Qual era la peggiore possibilità che aveva messo in conto, allora, in quella stazione decorata con gli addobbi natalizi? Sei mesi? Un anno intero? Oppure sapeva bene che quello poteva essere l’ultimo sguardo? L’ultimissimo sguardo ai due figli: il piccolo con le orecchie a sventola, al momento terrorizzato, ma indistruttibile. Si sarebbe fatto strada con il suo charme, proprio come il padre. Quello più grande invece, basso e magro in modo ridicolo, prendeva tutto troppo sul serio. A quindici anni aveva già un aspetto cupo e sembrava averne dodici. Ma era intelligente, e questo lo avrebbe aiutato, molto di più di quanto aveva aiutato lei.
Forse in altre circostanze il matrimonio dei nonni non sarebbe stato infelice per forza.
Si fermarono in un’area di servizio dove Ben e Jenna, circa un decennio e mezzo prima, mangiavano e contavano gli autotreni con il figlio più grande, che allora era ancora piccolo. Si fermarono lì per nostalgia, al vecchio confine tra le due Germanie, sebbene persino Sammy fosse già troppo grande per considerare un evento sensazionale un ristorante sospeso sull’autostrada. In realtà uno Zeppelin di cemento, di cattivo gusto come molte cose in quel paese, piazzato lì, nella proverbiale foresta tedesca. Ai piccoli non importava, perché mentre s’imbrattavano la faccia di maionese o di cioccolato, fissavano affascinati l’autostrada che dall’alto doveva sembrare loro una specie di giocattolo animato. Quand’erano stati lì la prima volta, Jenna era così innamorata di Ben che le mancava il fiato, e allo stesso tempo si sforzava di non imporre ai due figli di lui il peso di quest’amore. Dare e basta, senza aspettarsi niente. Come se anche la più generosa delle offerte prima o poi, anche anni più tardi, non venisse sospesa dall’offerente per mancanza di richiesta.
Due scene erano avvenute in quell’area di servizio, una bella, l’altra un incubo ricorrente. La prima: Jenna aveva accompagnato Oliver al bagno, o per meglio dire, per la prima volta il bambino aveva acconsentito ad andare con lei. Aveva cinque anni. Jenna non aveva nessuna esperienza con i bambini, era una ragazza innamorata alla follia e non sapeva che forse avrebbe dovuto tenerlo per mano. Oliver era caduto per le scale e aveva cominciato a urlare con quell’attimo di ritardo che da quel momento in poi Jenna avrebbe notato in ogni bambino. Una caduta, una pausa lunga un respiro, e solo dopo le urla. Un ritmo che si potrebbe scrivere con un preciso valore musicale: colpo di timpano, pausa di semiminima, attacco delle trombe, fortissimo. Le trombe però significano: è andata bene, ma allora questo Jenna ancora non lo sapeva.
Un pianerottolo di marmo screziato di grigio, un bambino con la faccia rossa, stravolta fino a essere irriconoscibile. E nessuno nelle vicinanze. Per fortuna niente sangue. Jenna allargò le braccia, scioccata e Oliver, il timido, in mancanza di alternative ci si gettò. Jenna lo abbracciò, lo strinse forte, sentì il sudore della sua cute di bimbo, la genetica le consigliò di mormorare rassicurazioni e di cullarlo, funzionò, Oliver si calmò. Poi rimase seduto per un po’ sulle sue ginocchia, lei gli scostò i capelli dalla fronte e glieli mise dietro le orecchie, con quel gesto materno e inutile che in seguito si proibì quasi sempre. Si vergognava di essere stata quasi riconoscente a quella caduta.
La seconda scena doveva essersi svolta uno o due anni più tardi, perché Luca non era più nel passeggino. Avrebbe potuto disegnarla ancora per il giudice o per il perito dell’incidente: lei che per un qualche motivo era andata avanti e si trovava già all’entrata del ristorante, Ben che parlava con Oliver tra le auto parcheggiate. Poi Ben si era mosso insieme a Oliver senza badare a dove fosse Luca che, come sempre, si era fermato sognante accanto al ginocchio del padre. Ben e Oliver avevano attraversato il parcheggio chiacchierando, Luca era rimasto indietro e quando all’improvviso si era mosso, Jenna avrebbe voluto gridare… ma non lo aveva fatto. Non capì mai perché.
Ben e Oliver l’avevano quasi raggiunta, mentre l’auto si avvicinava molto piano, in quel momento Luca le era passato davanti sfiorandola per un pelo e si era diretto verso di loro. Forse il guidatore non lo aveva visto; perché quanto si è alti a tre o quattro anni? Un metro? Accadde tutto così in fretta, fu tutto così veloce, ma non successe niente, niente invece dell’eterna catastrofe. Jenna aveva balbettato delle accuse, ma Ben non aveva capito cosa intendeva. Jenna non aveva voluto dargli troppe spiegazioni davanti ai bambini, devi prenderlo per mano, singhiozzò. Ben aveva commesso l’errore, ma lei lo aveva visto e non era intervenuta. Sarebbe stata colpa sua se. Era lì per prevedere tutti gli errori e, quando non ci riusciva, per deviare il destino in corsa.
Allora, più di un decennio dopo la svolta, il ristorante puzzava di olio rancido e di birra scadente. Nel frattempo si era trasformato in un paesaggio gastronomico: il banco delle insalate, quello degli hamburger, il reparto del caffè, una formica colorata e degli archi di ottoni decorati con zucche, pannocchie di mais e uva finta, adatti a solleticare l’appetito di un pazzo omicida. Ma dall’alto si vedevano ancora sfrecciare le auto come su un’autostrada Faller,10 ormai era forse lei quella che si divertiva di più. Lo sguardo distaccato dall’alto.
Mentre Ben e Sammy facevano la fila al banco degli hamburger, Jenna doveva prendere un’insalata per Ben. Perché si diceva banco degli hamburger e buffet delle insalate? C’erano dei rari momenti in cui Ben sembrava intenzionato a dimagrire. Oppure era l’eterna preoccupazione per i soldi? Negli ultimi mesi Jenna aveva riservato del tempo solo per sé, abile e ritrosa come una tossica. E non si trattava delle ore decadenti in cui, all’apparenza libera da tutti i vincoli del mondo, giaceva sul materasso del pittore avvinghiata a lui, mentre lingue di sole strisciavano sul parquet polveroso allungandosi verso di lei.
No, aveva bisogno di ulteriori insignificanti minuti che rubava all’unione familiare, non importava dove, per ricordare le ore con lui come si deve. Ben e Sammy laggiù in fila, lei sola qui. Più tardi sarebbe andata in bagno, avrebbe pagato la benzina, comprato da bere, ma durante quella pausa comune sarebbe stata davvero sola.
Come s’impara in fretta cosa piace all’altro. All’inizio se ne è orgogliosi e si collezionano informazioni con frenesia, ma con gli anni la sovrabbondanza di dettagli, intimi e insignificanti, porta alla pazzia. Ben, al contrario di lei, mangiava volentieri le barbabietole. Il succo di barbabietola corse allegro tra le foglie di insalata. Jenna vi aggiunse il mais e le carote. Nelle spesse brocche di terracotta non trovò nessun condimento che gli piacesse. Nessuna semplice miscela di olio e aceto, solo grasse salse colorate, rosa, giallo ocra, bianco o bianco punteggiato di verde. Jenna decise per quest’ultima già sapendo che Ben si sarebbe lamentato e lo avrebbe considerato un errore. Ma tutto sommato, lui non sapeva quasi niente di cosa piaceva a lei. Non sapeva nemmeno quanto, al contrario, Jenna lo conoscesse. E per questo si offendeva quando Ben la accusava a torto di aver preso la cosa sbagliata invece di dedurre che non c’era quella giusta.
E per di più cara, disse Ben. Arrotolò una grossa foglia di insalata intorno alla forchetta e lasciò sgocciolare il condimento alle erbe aromatiche. Jenna mangiò una salsiccia al curry mentre guardava l’autostrada. Anche nel suo matrimonio sedeva in un ristorante sospeso e guardava i movimenti da un’altezza distaccata. Finora l’avarizia era stato il peggior difetto di Jenna, la rigida preoccupazione del futuro che le faceva dimenticare di godere del presente. Nel frattempo sembrava che Ben si fosse caricato sulle spalle anche questo, come il Redentore i peccati del mondo.
Sammy domandò se poteva avere anche un gelato. Ben scosse la testa, ma Jenna saltò in piedi. Ma certo, disse, oggi è un giorno speciale. Sammy che negli ultimi mesi era diventato così grande e in gamba, come se l’assenza fisica e psichica della madre contribuisse alla sua crescita, la prese per mano e insieme si rimisero in fila come un’armoniosa coppia mamma e figlio. Jenna lo incoraggiò a prendere un gelato grande, almeno due palline; ti piacciono ancora i croccantini? Sammy notò con interesse quella generosità. I figli sanno tutto dei genitori, anche se non riescono a esprimerlo a parole, forse nemmeno da adulti.
Quando Sammy aveva cinque o sei anni, una volta Jenna aveva trascorso con lui quasi un’ora nel reparto giocattoli di un grande magazzino fino a quando aveva capito il motivo della crescente, e alla fine sconvolgente disperazione del bambino. Per il compleanno o per Natale aveva ricevuto una banconota dai genitori di Jenna e adesso voleva comprarsi qualcosa. Jenna gli aveva mostrato i cartellini dei prezzi sugli scaffali e spiegato: tutto fino a diciannove virgola qualcosa. Sammy conosceva già i numeri.
All’inizio il bambino aveva trovato interessante che dietro la virgola tutto costasse novantanove. Tornava sempre da lei per assicurarsi di aver capito. Nove virgola va bene? Cinquantanove virgola no? E sette virgola novantanove? Con amore, Jenna glielo spiegava ogni volta.
– Cosa succede se prendiamo lo stesso quello di cinquantanove virgola?
– Non ce lo farebbero portare via.
Jenna lo osservava mentre correva su e giù tra gli scaffali di Lego e Playmobil e guardava tutto con attenzione. Il primo acquisto, la prima responsabilità del proprio denaro. Jenna aveva intenzione di lasciargli il tempo di cui aveva bisogno. L’impazienza era uno dei suoi peggiori difetti ma riusciva a tenerla a freno per Sammy. Eppure sapeva quanto fosse difficile decidere per i bambini. Ben presto il figlio sembrò guardare solo i cartellini del prezzo, con le dita percorreva i listelli sui quali erano fissati. Infine tornò da lei pallido e sfinito e disse che voleva andare via.
Ma perché, domandò Jenna, tra tutte queste belle cose non c’è niente che ti piace?
Sammy guardò per terra.
Se c’è qualcosa che ti piace che è un po’ più cara, forse posso aggiungere io… disse Jenna.
Sammy scosse la testa e continuò a guardare per terra.
Sammy, disse Jenna, per favore, sono sicura che, per esempio, ti piacerebbe avere questo Pronto Soccorso, con le ambulanze…
Senza espressione Sammy disse: non mi posso permettere niente di quello che mi piace.
Jenna si odiava ancora oggi per questo. Di aver messo un bambino di cinque anni in quella situazione. Per non avergli detto, scegli ciò che ti piace, lo prendiamo. Di aver discusso in tutta serietà con lui delle virgole, di avergli mostrato i propri limiti economici. Di avergli tolto a soli cinque anni l’illusione che tutto sia possibile, ogni felicità del mondo.
Suo padre aveva otto anni quando lo aveva imparato. A parte i vestiti non aveva niente con sé. Non riusciva a ricordare di aver avuto nemmeno un oggetto che gli ricordasse casa, che lo consolasse.
A quei tempi non si possedeva niente. Oggi non riuscireste nemmeno a immaginarlo.
Biglie, carte da gioco e palle fatte con gli stracci. Una zolletta di zucchero di uno dei bar di Vienna, quando uno degli adulti beveva il caffè meno dolce. Quando Jenna era piccola, riceveva in regalo manciate di zollette di zucchero e il fine settimana le dava da mangiare a un asino cieco nel parco di Baden. Quelle labbra pulsanti sulla mano. Papà la teneva in braccio, mamma faceva fotografie. La madre di Jenna non era quasi mai nelle foto. In tutte le foto il padre sorrideva e mostrava i figli all’obiettivo come trofei di sopravvivenza.
Da bambino giocava per strada e nei parchi. A casa loro la stanza più grande rimaneva chiusa durante l’anno, i mobili coperti. Il salotto buono. Vi si entrava solo quando venivano in visita i parenti e a Natale. L’anno della partenza, quindi, mai. I parenti se ne erano già andati tutti e i nonni non avranno festeggiato senza i figli, pochi giorni dopo. Come hanno passato la prima sera? E la prima ora?
Ma Jenna supponeva che la nonna avesse messo in valigia delle loro foto. Perché di quell’anno esistevano delle foto, alcune che sembravano fatte addirittura apposta. Per i bambini o per i genitori?
La maggior parte dei bambini doveva andare da sola in quella stazione con l’albero di Natale e gli uomini delle SS. C’erano bambini di quattro anni che sui documenti erano stati dichiarati più grandi perché li lasciassero partire. Bambini così piccoli che nel giro di alcune settimane avevano già dimenticato i genitori. Li avrebbero riconosciuti ancora per un po’ di certo. Ma poiché i genitori non tornavano, ben presto non avrebbero più saputo cos’era che mancava loro così tanto. Le più recenti ricerche di neurofisiologia sulla memoria dei bambini interessavano moltissimo Jenna. Studi sull’apprendimento del linguaggio e sulla perdita della parola. Quanto sia terribilmente breve la durata di un ricordo nei bambini piccoli. Ricordare come si mangia e che bisogna mangiare è più importante del viso della madre.
Molti stavano peggio di noi. Quasi tutti forse. Non bisogna essere ingrati.
Suo padre non era da solo. Era partito con il fratello. Non aveva quattro anni, ma otto. Quasi nove. E col senno di poi, aveva avuto una fortuna incredibile. Ma non si può osservare la vita dalla fine mentre si vive. Il padre, che non ricordava niente, si ricordava molto bene di aver pensato che fosse un’avventura. Un viaggio per bambini, con giochi, divertimenti e intrattenimento.
Dopo la sosta continuò a guidare Jenna. Ben sbadigliò e ripiegò il sedile all’indietro. Sammy protestò dicendo che così gli schiacciava la gamba. Non fare tante storie, disse Ben, papà adesso deve dormire un pochino.
Mi annoio, disse Sammy.
Hai già giocato a tutti i tuoi giochi del Nintendo? Domandò Jenna.
Non ne ho più voglia, rispose Sammy.
Questo frase da sola dà senso al viaggio, disse Ben, e mise la mano tra le gambe di Jenna: guarda fuori dal finestrino allora.
È noioso pure quello, disse Sammy.
Tutti i più grandi inventori…, cominciò Ben.
… all’inizio si sono annoiati, conclusero Jenna e Sammy.
Ma nessuno ha mai inventato qualcosa viaggiando in un’auto, disse Jenna.
Come fai a saperlo? Domandò Ben e le passò l’indice lungo la chiusura lampo dei jeans. Non volendo Jenna spostò appena le anche.
Credo che la maggior parte delle grandi idee vengano al gabinetto, disse Jenna.
O a letto, disse Ben.
– Lì non penso, lì provo delle sensazioni, disse lei.
– Se solo le provassi più spesso.
Jenna storse la bocca. Buonanotte, disse.
Non sono molte le persone che riescono a dormire sul sedile del passeggero mentre l’auto sfreccia a centocinquanta chilometri all’ora. Un’auto che va a sbattere contro un ostacolo a quella velocità si deforma fino a essere irriconoscibile. Quando aveva paura di volare, Jenna non riusciva a dormire neanche un minuto in aereo. Era attenta ai rumori e ai movimenti, al minimo sobbalzo. Come se la vita di tutti i passeggeri dipendesse dalla sua concentrazione. La peggior cosa era quando, attraversando le nuvole, perdeva per qualche secondo l’equilibrio, perché l’aereo prendeva una traiettoria che lei sentiva ma non vedeva. Allora per alcuni attimi non sapeva più dove era il sopra e il sotto, pensava che l’aereo stesse cadendo con la punta di un’ala rivolta verso il basso, credeva di scorgere nel sorriso delle hostess un panico appena mascherato e faticava a non mettersi a gridare. Quando atterrava si sentiva come se avesse appena rifatto la prova di matematica alla maturità. La prova di matematica della maturità se la sognava spesso, volare e precipitare mai. Anche da questo si sarebbe potuto capire che la paura di volare era una specie di sintomo tardivo che poteva risolvere. Anche se da allora Jenna non aveva più fatto lunghi viaggi.
Ben riusciva a dormire sempre e dappertutto. Durante i primi anni avevano condiviso la sua imperturbabilità come una pietanza calda e dolce. La prendeva tra le braccia, le borbottava qualcosa tra le pieghe del collo, si addormentava e la trascinava con sé nel regno di Morfeo. In seguito quel rito e, ancora più tardi, il suo russare avevano preso a disturbarla. Adesso, se durante la giornata voleva sdraiarsi un po’, andava a rintanarsi in un remoto angolo buio. Jenna era sempre stanca quando gli altri erano svegli. Ma quando la famiglia dormiva, allora le piaceva vagare per casa. Rimaneva sveglia sempre più a lungo, come quando era una studentessa, e la mattina era a pezzi e intrattabile. Il fine settimana invece le piaceva scivolare presto fuori dal letto. Non faceva niente di particolare, si sedeva in cucina, beveva il caffè e guardava fuori dalla finestra. Purtroppo Ben aveva cominciato a svegliarsi quando la sentiva sgattaiolare fuori dalla camera. E allora si alzava anche lui, con sollecitudine addirittura. Invece di interpretarlo come un gesto complice contro i bambini chiassosi e irriguardosi, Jenna lo considerava un tradimento. Per questo negli ultimi tempi preferiva rimanere sdraiata a riflettere sul pittore. Era convinta di non essere mai riuscita a immaginare così bene una persona assente come le capitava di fare con lui. Le pareva di sentire la pressione delle dita da distanza metafisica. Le dita erano la cosa più risoluta del pittore che altrimenti era nervoso, pessimista, quasi cupo. Sempre pronto a disperarsi perché aveva conosciuto Jenna troppo tardi, perché lei eludeva le domande su un futuro insieme. A volte si arrabbiava, altre si offendeva. Allora si voltava dall’altra parte e fissava la parete e Jenna si sentiva inerme come una bambina che ha dimenticato la parola magica. Quando durante le loro appassionate discussioni sull’arte Jenna s’infervorava troppo, o quando rideva troppo e troppo forte, come non faceva da anni – a casa indossava la stessa maschera di pietra di malumore e di fatica che aveva tanto odiato della madre – il pittore le afferrava con una mano entrambi i polsi, li alzava sopra la testa e la baciava in quella posizione scomoda, abbandonata, come non l’aveva mai baciata nessuno. Ben e lei avevano trascurato i baci, vi avevano quasi rinunciato a favore di gioie più dirette che adesso, a paragone, Jenna vedeva in tutta la loro monotonia, quasi senza variazioni, pur sapendo che avevano soddisfatto entrambi. Con il pittore non c’era niente di abitudinario. Era giocherellone e all’apparenza senza secondi fini, con lui l’approccio era spesso romantico, quasi casto, le si avvicinava pieno di adorazione come se fosse una principessa delle favole. Solo più tardi, ma all’improvviso, diventava cattivo, selvaggio, proibito. A volte la allontanava proprio sul più bello e la fissava con le sopracciglia aggrottate. Cosa c’è, gli aveva chiesto lei all’inizio, ma ormai sapeva che quei momenti preannunciavano le pazzie più belle. Tu sei fatta per me, tu mi appartieni, vuoi forse negarlo? Le domandava brusco. Oppure pretendeva: mi devi regalare almeno quattro settimane, quattro settimane insieme da qualche parte, giuramelo, ora.
Jenna non negava niente, giurava e quando ci ripensava accanto a Ben che russava piano, si tirava la coperta sul viso così che nemmeno Dio potesse vederne il sorriso. Sapeva che l’avrebbe pagata cara. Sperava solo che il conto arrivasse più tardi possibile.
Per la terza volta, a intervalli regolari, Sammy tirò su forte con il naso. Jenna cercò nello specchietto retrovisore il suo sguardo, rivolto fuori dal finestrino. Parlargli non aveva senso perché aveva di nuovo le cuffie. Alla cieca spostò una mano all’indietro e gli batté sul ginocchio. Sammy guardò nello specchietto e nello stesso momento tirò su con il naso per la quarta volta, forte e umido.
Ben trasalì.
Così non riesco a dormire, brontolò, soffiati il naso e smettila! Avresti anche potuto dirgli qualcosa!
Stavo proprio per farlo, disse Jenna.
Ben scosse indispettito la testa. Abbiamo dei fazzoletti di carta? Domandò poi.
Abbiamo una borraccia per l’acqua? Domandò una voce impertinente nella testa di Jenna, abbiamo un pannolino di ricambio, abbiamo detersivo, carta igienica, lampadine, dove sono i cerotti, abbiamo pensato alla crema solare? A tutte queste domande la risposta sarebbe stata: Sì, ci ho pensato io, non tu, le abbiamo solo grazie a me.
Ma era uno degli argomenti proibiti. Dato che Ben apparteneva alla prima generazione consapevole di padri impegnati, trovava inammissibile ogni critica rivolta a lui e a quelli come lui. Accettava solo il confronto con la generazione di suo padre, rispetto alla quale i nuovi papà come lui sembravano fulgidi eroi. A parte questo, nelle discussioni sull’argomento urlava con rabbia insuperabile, noi facciamo tutto proprio come voi donne: il nostro meglio, appunto.
Sono nella mia borsa, disse Jenna e si rimangiò un “come sempre”. Ben allungò a Sammy un fazzoletto. Sammy si pulì un po’ il naso.
Soffia, gridò Ben.
Soffia forte, esclamò Jenna.
Tieni chiusa una narice e soffia attraverso l’altra, forte, precisò Jenna e glielo mostrò con la mano, senza fazzoletto. Sammy si soffiò il naso piano e si infilò un pezzo di fazzoletto nella narice.
Non ci riesco, disse in tono di rimprovero, lo sapete.
Non si sa ancora soffiare il naso? Chiese Ben e si mostrò esterrefatto.
È ridicolo, lo sgridò Jenna che si sentiva sempre in difetto quando Sammy non sapeva fare qualcosa: a nove anni tutti sanno soffiarsi il naso.
Io ho otto anni, disse Sammy.
Quasi nove anni, disse Jenna, è davvero una vergogna!
Dietro Sammy fece un’impenitente espressione che significava andate a quel paese. Ma Jenna sapeva quanto lo tormentasse essere biasimato per una cosa che non sapeva fare. Sfacciato – nessun problema. Chiassoso – neanche questo un problema. Sammy mutuava con precisione il catalogo interiore di valori di Jenna, alla quale da bambina non era permesso essere sfacciata o chiassosa, due cose che in segreto ammirava di suo figlio.
Ma l’incapacità faceva male. Come lei anche il figlio voleva sempre sapere far tutto. Lo aveva punzecchiato apposta in quel modo per risvegliarne l’ambizione. Vergogna, aveva detto. Una parola grossa. Ora gli sembrava di sanguinare. E a ragione.
Ben reclinò di nuovo il sedile, la mano sulla coscia. Le dita non si muovevano, era pesante come l’ancora del padrone. Quando Ben la accarezzava, lo faceva con il palmo della mano. Ben non sapeva che due mani possiedono dieci punti vigorosi che si possono addirittura moltiplicare. C’erano dei segreti tra lei e il pittore che le facevano drizzare i peli delle braccia. Si concentrò. Passò lo sguardo sui peli biondi e dritti, guardò il tachimetro. Centoquarantacinque, a quella velocità non sarebbe mai riuscita a dormire.
Nella sua fantasia, forse ingenua, i nonni non avevano avuto una quotidianità che li avrebbe logorati. Quotidianità? Era lusso che allora non esisteva. Proprio come i giocattoli. Se i bambini conoscevano le buone maniere ed erano bravi in qualcosa era grazie alle madri e alla loro educazione. L’uomo s’interessava dei figli al massimo quando erano quasi adulti. Non si sarebbe mai immischiato. Non esisteva la collaborazione, c’era una gerarchia. Per quanto Jenna ritenesse che i cambiamenti sociali avvenuti da allora fossero dei progressi, tuttavia riusciva anche a vedere il senso che vi era stato in questo. Per la nonna, malgrado tutta l’intelligenza, le vicissitudini della vita avvennero come catastrofi naturali cui lei poteva solo reagire. Jenna invece credeva che studiando in profondità tutte quelle accadute finora, sarebbe stata in grado di impedirle. L’oggetto di studio più proficuo era la shoah.
Di sicuro suo padre sapeva soffiarsi il naso quando era partito. Di sicuro diceva sempre per favore e grazie, dava la mano agli adulti e faceva addirittura dei leggeri inchini. Questo lo aveva aiutato, senza alcun dubbio. Un bambino ben educato era più facile da collocare di un demonio viziato. Oggi quelli come suo padre si chiamavano minorenni non accompagnati. Per lo più erano trasandati e con la pelle scura e considerati al massimo un aiuto per i borseggiatori. Oggi non indossavano vestiti raffinati e non erano attesi nel paese di accoglienza, oggi si rannicchiavano nei barconi o nello spazio vuoto dei camion. In confronto, suo padre aveva fatto una fuga lussuosa. Forse bisognava pensare anche a questo.
Sammy non sopportava mettersi nemmeno una camicia, solo magliette con grandi mostri e Jenna era contenta che fosse così biondo. Se non aveva buone maniere, allora la pelle bianca l’avrebbe aiutato. L’aveva presa da Ben. “Negri di ricotta” si diceva un tempo a Vienna riferendosi alle persone che avevano la pelle così chiara, oppure: “panino bianco”. Ma a Sammy non sarebbe successo niente, certo che no. Sammy viaggiava verso sud, protetto dai genitori accademici, in un seggiolino collaudato, con dei serpenti stampati che sorridevano. Sammy aveva le migliori possibilità di diventare vecchissimo al sicuro e nel benessere, la peggiore esperienza di vita sarebbe stata forse un divorzio o una difficoltà di riproduzione, ma poteva vivere fino al 2100.
Jenna conosceva storie di madri che avevano lasciato i figli nei fossi lungo la strada mentre andavano in un campo di concentramento. Madri che avevano cacciato i figli, li avevano rinchiusi, messi tra le braccia di estranei o abbandonati, perché speravano che così avrebbero avuto maggiori possibilità di sopravvivere. Non c’è molto da dire pro o contro questa scelta, a parte: rientra nella gamma dei comportamenti umani. La sopravvivenza possibile ma non garantita del proprio bambino giustifica il trauma di una vita? Fino a quando un bambino è con la madre, è meno spaventato. E se infine è ucciso insieme alla madre, allora ha avuto paura per un paio di minuti al massimo. E è morto. Mentre l’altro bambino vaga affamato, nel panico, per giorni, forse per settimane. E anche se riuscirà a sopravvivere e più tardi diventerà un grande uomo d’affari in Iowa, anche dopo i cinquant’anni continuerà a svegliarsi di soprassalto nel cuore della notte e guarderà dentro un terrore da cui riuscirà ad allontanarsi solo per fugaci momenti con pasticche, alcol, cocaina e prostitute minorenni.
Jenna pensava che la sopravvivenza non doveva essere considerata un bene scontato. Era una questione di talento individuale. Uno riusciva ad arrotolare la lingua in lunghezza, un altro a muovere le orecchie, un terzo a sedersi tra le ginocchia e i talloni. Una madre riusciva ad abbandonare il proprio figlio assegnandogli il compito morale di sopravvivere e di combattere per tenere alto il ricordo dei genitori, l’altra riusciva a stringerlo a sé e a canticchiare per tranquillizzarlo, mentre entrambi venivano fucilati davanti a una fossa. E la maggior parte non aveva comunque scelta.
A febbraio le montagne tra l’Austria e l’Italia erano un paesaggio lunare, marrone fango, grigio roccia e bianco neve sporca, a chiazze come una sgraziata pelle di mucca. Le autostrade le attraversavano in lungo e in largo. Ma per Ben e Jenna le frontiere erano ancora qualcosa di speciale. Nella loro infanzia, passare il confine era complesso e degno di nota, costava tempo e nervi. File di auto, doganieri con gli specchi sulle aste, i cani che abbaiavano, l’autorità ostentata dello stato e, almeno per Jenna, piccoli e poco appetitosi avanzi di paura di essere smascherata e arrestata. Ormai quel momento era annunciato solo dai limiti di velocità, ma anche a sessanta chilometri orari si passava frusciando comodi sui nuovi confini che fingevano di non esserci più. E quando capitava che i bambini alzassero gli sguardi dai videogiochi, attribuivano alla frase adesso siamo in Italia la stessa importanza che poteva averne una sul tempo.
Quando ero un bambino, questa autostrada non c’era, allora bisognava patire per ore laggiù, in quelle stradine, disse Ben pavoneggiandosi, Sammy mi stai a sentire?
Quando Jenna era una bambina, al Prater c’era la sala della risata, con gli specchi convessi e concavi, il labirinto di vetro e il pavimento rotante. Alla fine sotto i vestiti della gente venivano soffiati getti di aria calda. Gli adulti che si fermavano come davanti a una vetrina, speravano di vedere le gonne delle donne sollevarsi fino ai fianchi, ma Jenna, che una volta aveva visto un uomo con un vestito nero che all’improvviso era sembrato grasso il doppio, in procinto di volar via su gambe come colonne, fu proprio questa immagine che non dimenticò mai. Oggi, al di fuori dei cimiteri, nessuno indossava più i completi neri, tutti avevano i pantaloni stretti, uomini e donne, e forse la sala delle risate non c’era più. Ma Jenna pensava sempre a quell’uomo con le gambe che sembravano pesare tonnellate quando Ben cominciava con l’istruzione storico-politica dei bambini, che di solito iniziava con la frase prima, come sapete, c’erano due Germanie. Allora in quella ridicola sala delle risate, Jenna sapeva ben poco della Germania e forse avrebbe trovato giusto che era stata spaccata in due.
Sì, disse Sammy da dietro, lo so, prima non c’erano auto né computer e neanche l’elettricità.
Ben si voltò verso di lui per misurare il grado d’impertinenza.
Sammy guardava avanti innocente. O intendi dire i nazisti? Aggiunse.
I nazisti? Chiese a sua volta Ben. Come ti vengono in mente i nazisti adesso?
È un bambino, disse Jenna, non si ricorda quando ci sono stati i nazisti.
Ah ecco, disse Sammy, i nazisti c’erano quando il nonno era bambino.
Molto bene, disse Jenna.
E quando papà era un bambino, erano già andati via? Domandò Sammy.
Per fortuna, tesoro mio, disse Jenna e non torneranno più.
Ben sprofondò nel sedile e scosse la testa.
Quando entrarono nel centro di Firenze Jenna ebbe un attacco di panico, non le capitava da parecchio tempo. Fatta eccezione per l’aereo, riconosceva questi attacchi solo quando erano passati e allora se ne vergognava. Ma mentre erano in corso si riteneva l’unica persona ragionevole, capace di proteggere gli altri dalle catastrofi scatenate altrimenti dalla loro disattenzione e ignoranza.
Le strade erano più tortuose e strette, Ben guidava e seguiva imperterrito la grossa freccia verde del navigatore, persino quando li portava in una via a senso unico o in una zona pedonale. Stop, gridava allora Jenna sbracciandosi, qui non puoi andare!
Non gridare così, disse Ben, ma è strano, dice che…
È una macchina e tu devi continuare a guardare la strada, esclamò Jenna che detestava la devozione di Ben nei confronti del navigatore, come se si trattasse di un rivale. Rimpiangeva i tempi in cui lui guidava mentre lei, con la fronte aggrottata e la cartina sulle gambe, gli dava istruzioni. Dato che Ben non sapeva mai dove si trovava, la seguiva senza fare obiezioni. Così come seguiva il navigatore. Ma da quando avevano a bordo quell’apparecchio, c’erano sempre due opinioni. Nel labirinto fiorentino anche Jenna dovette affidarsi alla macchina e come un tempo, quando aveva ancora paura di volare, qualcosa nella testa deragliò. Il navigatore diventò una specie di essere malvagio, che la trascinava nella sventura, che con angoli sempre più stretti, la conduceva in una strada senza uscita dove non era possibile invertire la marcia. E lì sarebbe successo qualcosa di orribile. A parte Jenna, non lo sospettava nessuno. I suoi presentimenti erano l’unica cosa che alla fine li avrebbe salvati. Le pareti di calce rossiccia a destra e sinistra si facevano sempre più vicine come se i palazzi avessero piedi nascosti. Presto il primo specchietto sarebbe saltato via. Jenna si rannicchiò a sinistra, dalla parte di Ben e della leva del cambio. Ovunque barcollavano in giro i turisti che saltavano all’occhio per il loro abbigliamento funzionale e dai colori sgargianti che un italiano non si sarebbe mai degnato di indossare. Jenna ne vedeva già la metà sotto la loro auto, le tracce degli pneumatici come una stampa extra sul Sympatex verde rana. Il minuscolo vicolo alla fine si piegava in due stretti angoli, a destra una strada a senso unico, contrario alla loro direzione di marcia, a sinistra un negozio di verdura che occupava la strada senza riguardi con la propria merce. Non sarebbero riusciti a svoltare in quel punto, era impossibile. E dietro di loro c’erano due motorini scoppiettanti.
Molto stretto qui, disse Ben.
Dietro, Sammy cominciò a cantare: We all live in a yellow submarine…
La freccia verde del navigatore indicava a destra.
Ci capisci qualcosa tu? Domandò Ben.
Jenna si batté le mani sul viso e si morse i palmi più forte che poté. Qualcuno suonava il clacson. Da fuori arrivava un brusio.
L’auto si fermò.
Cosa faccio adesso? Chiese Ben. Jenna sentiva Sammy cantare, sentiva il clacson che di sicuro era indirizzato a loro, e nella testa si mescolò tutto in un coro minaccioso. Avrebbe tanto voluto inveire. Non appena fosse riuscita a togliersi le mani dal viso, il coro avrebbe almeno smesso di ingrossarsi. Strappò via le mani. Per un paio di secondi fissò davanti a sé stordita, si sentì quasi soffocare per il profondo disorientamento che le suscitava Ben, che non si preoccupava del tempo. Infine aprì la portiera e scese. Fuori raddrizzò le spalle e provò un sorriso che non era diretto a qualcuno di preciso, in ogni caso non a Ben. Richiuse la portiera più forte del necessario. In battaglia con un sorriso. I due motorini s’infilarono e le passarono accanto. Jenna alzò le mani per scusarsi. L’ortolano la guardò raggiante.
Mi scusi, disse Jenna, non sappiamo dove… Non aveva ancora imparato la parola “persi” oppure l’aveva dimenticata. Fu investita da un amichevole fiume di parole dal quale ne pescò qualcuna senza, tuttavia, riuscire a trarne un senso.
Sì, disse Jenna, sì, sì, ma vede, non riusciamo… E poi indicò i banchi pieni di pomodori e melanzane e fece l’imitazione di una grossa auto che non riusciva a fare la curva.
L’ortolano era deliziato. Ricominciò daccapo e indicò, annuì e disse qualcosa.
Jenna chiuse gli occhi. Poi lo guardò con fermezza e disse fluida, o almeno così le sembrò: potrebbe parlare un po’ più lentamente per favore? Il mio italiano non è così buono.
E all’improvviso lo capì. Il suo italiano è molto buono, le assicurò l’uomo solo sulla base di quelle due ridicole frasi, e come le dicevo, può svoltare a destra, lo fanno tutti, è solo un pezzettino e così tornerà sulla strada principale. Quelli che hanno messo i cartelli devono essere matti come cavalli.
Grazie, molte grazie, disse Jenna, molto, molto gentile, l’ortolano rise e le augurò buona giornata e buon viaggio.
Una volta tornata in auto Jenna disse: a destra.
A destra è vietato, disse Ben.
– L’uomo ha detto che possiamo svoltare a destra senza problemi, lo fanno tutti, è solo un pezzetto.
Non ho una bella sensazione, disse Ben.
Vuoi che guidi io? Allora scendi, disse Jenna.
Perché urli? Chiese Ben.
Per favore gira a destra, adesso, per favore, disse Jenna, fallo e basta oppure lascia che lo faccia io, devo andare via da qui subito.
Non so davvero cosa ti prenda di nuovo, disse Ben.
Mamma è stressata, disse Sammy da dietro. E allora Ben la guardò davvero per la prima volta. Perché sudi così, domandò, non stai bene?
Tutto a posto, disse Jenna e si voltò, fuori c’è un’afa incredibile. Rimise i palmi delle mani tra i denti, cercò di mordere proprio nelle impronte di prima e si disperò all’idea che avrebbe dovuto sopportarlo per il resto della vita, anche se tra loro non ci fosse niente che si poteva chiamare davvero un problema.
I genitori di Jenna non accettavano le disgrazie. Una disgrazia era una morte improvvisa, ma la diagnosi di un cancro non era per forza una disgrazia – il padre e la madre se ne uscivano spesso con simili frasi. Non avevano quasi mai avuto casi di cancro in famiglia, noi ebrei moriamo giovani o quasi mai, amava dire il padre.
Quando Jenna era giovane, a volte raccontava aneddoti ingarbugliati per spiegare la parsifalesca incomprensione del padre per le disgrazie e i problemi. Una volta gli aveva raccontato che una delle amiche soffriva di una grave depressione, al che lui con un’espressione di estremo sgomento aveva esclamato: Ma per l’amor del cielo, perché depressa? Se la passa bene!
Jenna crescendo si era tenuta per sé quella storia anche se era stata sempre accolta con favore. Perché nel frattempo, le sembrava che la battuta finale mirasse con precisione alla disgrazia della vita del padre e ne acuisse il dolore. La disgrazia del padre che non fu mai definita tale, era la misura di tutto. O meglio, la disgrazia che sarebbe potuta accadere, nel caso peggiore, il più terribile. Altri stavano molto peggio. Avrebbero potuto assassinare i suoi genitori. Lui sarebbe potuto morire. Il fatto che la sorella e la nonna erano state uccise, non era un motivo per trascurare tutto il resto. Il resto si chiamava: vita. Ed era sinonimo di fortuna. Chi era in vita aveva avuto fortuna.
Ed era per questo che quando era infelice Jenna si sentiva sporca e irriconoscente, la testa e il cuore pieni di un’appiccicosa schiuma grigia come quella che si usa per montare le cornici delle finestre. Una delle sue amiche, una volta, aveva paragonato con una certa banalità le proprie pene amorose a un coltello che la fendeva e la tagliava. Ma ogni coltello, ogni pugnale o ogni tenaglia incandescente si scioglievano in quella massa grigia che delegittimava ogni piccola disgrazia quotidiana.
I suoi non volevano avere niente a che fare con problemi meno importanti della morte. Anche per questo in famiglia erano molto riservati. Le malattie venivano taciute per principio in modo da non preoccupare gli altri. Le diagnosi allarmanti restavano segrete fino a quando si rivelavano innocue oppure erano superate. Una volta la madre di Jenna era andata dal dottore a causa di un ridicolo fiato corto che riteneva lo strascico di un raffreddore e che dopo settimane non voleva saperne di sparire. La madre si era scusata con il dottore per l’eccessiva prudenza non appena era entrata. Venti minuti più tardi era uscita da quella stanza sulla barella di un infermiere, e l’avevano portata in ospedale dove le avevano messo due stent. Trovò esagerato che dopo l’intervento dovesse andare in una clinica di riabilitazione per quattro settimane. Jenna e i fratelli dovettero sgridarla per farle iniziare la cura. Agli altri pazienti del centro sanitario del Burgenland raccontò che si trovava lì solo per amore dei figli. In modo che, loro, non si preoccupassero troppo.
Questo genere di cose divertiva il padre di Jenna alla follia. Le malattie trattate come un rude scherzo. In fondo, in famiglia, erano rare anche le malattie circolatorie. I parenti del ramo paterno erano per la maggioranza magri, avevano la pressione bassa e nessun problema di colesterolo. Come si era già potuto appurare con i genitori, era gente che moriva solo quando non c’era più niente da fare. Diventavano vecchissimi, poi cadevano e morivano senza complicazioni e con rapidità per le conseguenze della caduta. Era andata così anche con il fratello maggiore del padre, lo zio di Jenna.
Se solo non fosse caduto, rimuginava il padre di tanto in tanto, che sfortuna, bisogna stare molto attenti.
Ma anche a causa di tutto questo, per Jenna era impensabile dirgli che negli ultimi tempi stava accarezzando l’idea di lasciare Ben. Forse non si può fare ciò che non si riesce a dire al proprio padre. Perché, le avrebbe domandato esterrefatto, che motivo hai?
Pensa al bambino, avrebbe detto, la cosa più importante è che Sammy sia felice. E allora si sarebbe creato di nuovo quel soffocante circolo vizioso in cui da Sammy e dal piccolo padre in giacca e cravatta alla stazione ovest di Vienna emergeva un unico bambino bisognoso di protezione. Con degli occhioni enormi, soprannaturali, simili a quelli dei peluche dai colori al neon che negli ultimi tempi la guardavano da una vaschetta di plastica, dappertutto, persino ai distributori di benzina. Sammy ne desiderava uno da tempo. Finora Jenna lo aveva preso in giro con tenerezza: non sei troppo grande?
Ma quello non è un animale di peluche, aveva ribattuto Sammy, quello è un guerriero!
La frase le tornò in mente adesso, e Jenna cambiò opinione. Anche il sacchetto che ride, che aveva posseduto da bambina non era un animale di peluche, ma qualcosa di strambo, fastidioso. Spegnilo subito, brontolava la madre, non lo reggo. Ma Jenna lo aveva amato, quel morbido sacco che rideva a comando e infastidiva così tanto sua madre. Mise la freccia e imboccò l’uscita della stazione di servizio.
Ma quel giorno Sammy non voleva un peluche con gli occhi sproporzionati. Era assonnato e sudato, pretese per provocazione una Coca Cola che di solito non otteneva mai e alla fine con un ghigno malvagio le portò un’enorme scatola di Lego: se vuoi regalarmi qualcosa puoi comprarmi questo.
Rimettilo subito a posto, disse Jenna a bassa voce. Sopportava a fatica l’immodestia. Inoltre il grado consentito era proporzionale all’età. Più si era giovani e meno si doveva pretendere, le suggerivano educazione ed esperienza. Quand’era una ragazzina di appena dieci anni, durante una vacanza in Italia, aveva desiderato una borsa di velluto blu scuro, ma non l’aveva detto a nessuno. Tuttavia ogni sera, durante la passeggiata in famiglia, si fermava davanti al banco dov’era esposta quella borsa e la guardava. Se poteva la prendeva in mano e la apriva per ammirare gli scomparti interni. Chiusure lampo dorate. Ti piace? Le aveva chiesto una sera sua madre. Oh sì, disse Jenna e si voltò piena di speranza. Ma la madre era già andata avanti, tastava la pelle di altre borse e infine ne comprò una per sé. In seguito Jenna si era meravigliata di essersi innamorata di una borsa a dieci anni. Quest’anacronismo era forse il motivo per cui nessuno si era accorto del suo desiderio e lo aveva esaudito. Sarebbe andata in altro modo se ogni sera si fosse fermata davanti a una vetrina con delle bambole. E se le bambole fossero state piccole o di media grandezza. Grandi bambole e grandi desideri non erano permessi, questo Jenna lo sapeva da sempre. Anche se non ricordava dove l’aveva imparato, da chi né perché, si ricordava ancora la sensazione che aveva provato davanti a quella ridicola borsetta, di desiderarla e di non averla. Invece i bambini di oggi! Al ristorante pretendevano la bistecca o la pizza con i frutti di mare, bevevano la Coca Cola nel momento stesso in cui gliela portavano e poi tiravano la giacca al cameriere per ordinarne un’altra di propria iniziativa. Sarebbe stato impensabile nella famiglia di Jenna. Lei si era ribellata alle costrizioni in cui era cresciuta, alla prudenza e ai limiti, a quella vita quasi in punta di piedi. Ma quello lo trovava giusto e si vergognava dei figli quand’erano immodesti e materialisti.
Prese Sammy per le spalle, lo fece voltare verso di lei e cominciò il vecchio monologo: un regalo è un atto spontaneo e la persona che fa il regalo, al contrario di quello che pensano quasi tutti i bambini, non è una macchina che esaudisce i desideri. Proprio come non si possono restituire i regali che non piacciono, così non si ha nessun diritto di decidere cosa ricevere. E non te ne uscire adesso con il Natale, disse anticipando Sammy quando lo vide aprire la bocca, anche in quel caso non si riceve tutto quello che si desidera.
Ma come ti è venuto in mente che potesse volere una bestia simile con gli occhi fuori dalle orbite, disse Ben.
Jenna lo fissò. L’ha detto cento volte… cominciò.
Ben scosse la testa.
Sammy la guardava, impenetrabile.
Quante volte mi hai detto che volevi un animale così? Gli domandò.
Non lo so, rispose Sammy.
Jenna si voltò e tornò al contenitore di plastica antigraffio trasparente, a forma di gigantesca coppa di champagne. Rimase a lungo lì davanti. Non tutti gli animaletti avevano gli occhi enormi. C’erano mucche, pesci, uccelli. C’erano dei maialini con delle magliette a righe e un pipistrello color caramello con le ali che sembravano un mantello protettivo avvolto intorno a un tronco smunto e senza braccia. Ma soprattutto c’erano quelli colorati con gli enormi occhi bovini, celesti o azzurri, e a giudicare dal corpo erano orsi antropomorfizzati. Non molto cari, forse prevedevano una vendita su vasta scala per fare profitto. D’un tratto Jenna ebbe ancora l’impressione di aver visto quel giocattolo dappertutto. Nel ricordo, quegli animali spuntavano come pop-up, al supermercato, accanto alle casse del negozio di mobili, addirittura negli angusti negozi di fiori asiatici.
Se Sammy non lo voleva come regalo, ne avrebbe comprato uno per sé. Oppure lo avrebbe mandato al pittore per posta. Senza parole. Si sarebbe messo a ridere, avrebbe pianto oppure si sarebbe meravigliato, in ogni caso avrebbe riflettuto su quello che Jenna voleva dirgli. Non avrebbe reagito in modo quasi automatico come Ben – manovalanza cinese e sostanze cancerogene – sebbene neanche Ben dicesse proprio sul serio. La parte meno seria era un’ironica citazione riferita a una società isterica che voleva morire il più tardi possibile e che per questo temeva la carne, i pesticidi nella frutta e le radiazioni dei cellulari. E tuttavia anche loro facevano parte di questa società paurosa, Jenna lo sapeva bene, e defilarsi facendo dell’ironia era comodo ma scorretto. A Jenna sarebbe piaciuto essere diversa senza compromessi, intrepida e selvaggia, ma proprio non le riusciva. Doveva restare vicino alla riva e calcolare tutti i pericoli.
Scelse una scimmia. Sembrava buffa e disperata al tempo stesso, l’amante avrebbe capito. Le poche volte in cui erano usciti dall’atelier e avevano osato spingersi nell’ostile mondo esterno, si erano poi detti che erano capaci di fare sesso anche con gli occhi. Era questo che avrebbe pensato il pittore vedendo quella languida scimmia. E non che Jenna era uscita di senno e che era si era fatta abbindolare dal turbocapitalismo globale.
Non gli aveva regalato niente quando gli aveva detto addio, perché voleva fare finta che non fosse un addio. Era stata evasiva negli ultimi giorni prima della partenza, su quando sarebbe partita e quando si sarebbero rivisti. Nel ricordo le ultime volte si fondevano come le lacrime di lui, lo champagne e le strisce di luce sul parquet. Per come si conosceva, il dolore sarebbe subentrato dopo giorni, forse dopo settimane. Adesso era impassibile quando pensava a lui, come se un colpo le avesse paralizzato i nervi.
Quando Sammy aveva tre anni, la scuola materna aveva organizzato una gita estiva. Una settimana in un parco naturale a misura di bambino, ai margini della città, con capanne di legno, bosco e prati. Ovviamente i bambini non rimanevano a dormire. Molti portavano ancora il pannolino. Un grosso autobus veniva a prenderli la mattina alla scuola materna e li riportava il pomeriggio alle quattro. Stavano via come al solito solo che, forse a causa del viaggio in autobus, a tutti sembrava più lontano e importante. Quando Jenna arrivò con Sammy al punto di ritrovo, non credette ai propri occhi. I genitori agitavano la mano ed esultavano, alcuni sventolavano delle bandierine di carta su cui c’era scritto Buon viaggio. Jenna dovette sollevare Sammy sul primo scalino, tanto era alto. Gli dette una pacca di incoraggiamento sul sedere. Buon divertimento, disse, vado a mettermi laggiù e ti saluto con la mano.
Si mescolò ai genitori eccitati. Dopo un po’ in uno dei finestrini comparve il volto di Sammy. La guardò serio. Jenna si comportò come gli altri, come se si trattasse di un grosso evento sportivo. Saltava su e giù, sorrideva come per la pubblicità del dentifricio e agitava la mano frenetica. L’autobus era fermo, arrivavano di continuo nuovi bambini. Sammy la guardava fissa, senza salutarla. D’un tratto il labbro inferiore cominciò a tremargli, strizzò gli occhi, voltò la testa. Jenna smise di saltare. Sammy sparì, un altro bambino schiacciò il naso contro il vetro, si erano scambiati i posti oppure Sammy era stato costretto.
Jenna non riusciva a crederci. Quando a sei mesi aveva imparato a gattonare, si era allontanato da lei allegro, ridacchiando. Quando a dodici aveva imparato a camminare, era corso via. Da quando sapeva parlare, conversava con gli sconosciuti. Da qualche settimana sapeva andare in bicicletta, il primo bambino di tre anni in lungo e largo. Jenna aveva ritenuto il figlio un bambino dotato e impavido e questo l’aveva inorgoglita più di tutto il resto. Sammy riusciva a fare ciò che lei non faceva, se ne andava per il mondo, fin da piccolo, curioso e libero da ansie. Jenna si guardò intorno. Una, due bambine piangevano attaccate alle madri, le stesse che ogni mattina non riuscivano a separarsi neanche all’asilo. Tutti gli altri erano contenti e agitavano la mano. Ma la cosa peggiore era stata l’espressione di Sammy, un bambino di tre anni che cerca di nascondere le lacrime. Jenna fece fatica a essere forte come lui. A non farsi largo tra la folla e raggiungere l’autobus e tirare fuori il figlio come da un mare di fiamme. Fino alla partenza camminò su e giù in punta di piedi con la speranza di afferrare ancora uno sguardo. Poi se ne andò nella direzione sbagliata per non incontrare le madri che abitavano nelle vicinanze. Come un fragile contenitore, si trascinò fino a casa per strade diverse. Quando richiuse la porta, tutto crollò. Jenna corse nella stanza di Sammy, si gettò sul letto e si lasciò sprofondare senza opporre resistenza. Non c’era più la schiuma grigia, era molto più pericoloso, un vortice che la tirava verso un’antica catastrofe. Era il primo e l’ultimo addio che l’aveva colta impreparata. Da allora cresceva una scrupolosa crosta resistente al dolore. Quello strato si formava già da tempo ormai e al momento decisivo era solido e affidabile. Forse c’era voluto altrettanto impegno per liberare il pittore da ogni protezione. L’ultima volta che si erano visti si era tolto dal cuore uno strato di pelle dopo l’altro davanti a lei. Starlo a guardare era stato terribile anche perché così l’aveva costretta ad allontanarsi ancora di più. Non poteva lasciarsi trascinare a fondo. La speranza di tornare in superficie, Jenna non ce l’aveva. E forse era proprio questa la tecnica della sua famiglia da generazioni.
Pagò la scimmia e la infilò in borsa. Non disse niente a nessuno. Ma mentre tornava alla macchina, verso una nuova vita sconosciuta, Sammy l’affiancò e le prese la mano.
Posso guardarla? Le chiese. E più tardi si addormentò sul seggiolino con la scimmia disperata in braccio, che di sicuro al risveglio avrebbe voluto tenere.