A Maurizio Mamiani
in memoriam
Quando il 29 ottobre 1669, in seguito alle dimissioni di Isaac Barrow (1630-1677), che ne è stato il primo titolare, ottiene l’ambita e ben remunerata cattedra lucasiana di matematica,1 Isaac Newton (1642-1727) è un giovane fellow del Trinity College, praticamente sconosciuto, al di fuori dell’università di Cambridge, perfino in Inghilterra.2 Nessun risultato delle sue numerose indagini è stato ancora reso pubblico. E delle sue promettenti e straordinarie doti di matematico,3 a parte Barrow che lo ha nominato suo successore, sono a conoscenza davvero in pochissimi, al massimo due o tre membri della Royal Society.
È soltanto alla fine del 1671 che l’anonimato di Newton inizia a dissolversi. Non sono però le sue conquiste matematiche a porlo all’attenzione della comunità scientifica, bensì un prodotto delle sue mani: il telescopio a riflessione, realizzato sul finire del 1668.4
Il dispositivo costruito da Newton è lungo circa sei pollici, ma ha una capacità di ingrandimento alquanto superiore rispetto a quella di un comune telescopio a rifrazione lungo sei piedi.5 A suscitare l’interesse della Royal Society, molto incline a valorizzare i risultati pratici della ricerca scientifica, è proprio questa caratteristica dello strumento. Il 2 gennaio 1672, infatti, Henry Oldenburg (1619-1677), segretario della Royal Society, comunica a Newton che il suo telescopio è stato «grandemente apprezzato» da «alcune delle personalità più eminenti nella scienza e nella pratica ottica».6
Oldenburg fornisce inoltre al giovane professore lucasiano un’informazione assai lusinghiera, vale a dire che Seth Ward (1617-1689) lo ha candidato come membro della Royal Society,7 dove è formalmente accolto nel giro di pochi giorni.
Il successo del telescopio ha due effetti immediati. Anzitutto, consente a Newton di essere pubblicamente riconosciuto dalla comunità dei filosofi naturali. E secondariamente — circostanza ancor più rilevante — gli fornisce l’occasione di far uscire dall’ombra i risultati teorici delle proprie indagini scientifiche. L’ampio consenso ottenuto per un’invenzione alla quale ha attribuito, fino ad allora, «così poco valore»8 e l’elezione alla Royal Society convincono infatti Newton a divulgare qualcosa che egli ritiene di gran lunga più importante del telescopio a riflessione. Lo strumento tanto acclamato, lungi dall’essere l’esito fortunato di un espediente sperimentale, scaturisce da un’elaborazione teorica nuova e originale. E di ciò Newton è pienamente consapevole, come emerge dalla lettera che scrive a Oldenburg il 18 gennaio 1672:
Desidero che nella vostra prossima lettera mi vogliate informare per quanto tempo la Royal Society continua le sue riunioni settimanali, giacché se esse proseguono per qualche tempo intendo proporre, affinché sia considerato ed esaminato, un resoconto di una scoperta filosofica che mi indusse alla costruzione del detto telescopio e che non dubito risulterà molto più gradita della comunicazione di quello strumento, essendo a mio giudizio la più straordinaria, se non la più considerevole, rivelazione che sia stata compiuta finora nelle operazioni della natura.9
Ma qual è la «scoperta filosofica» tanto «straordinaria» cui si sta riferendo Newton?
Per comprendere il senso di questa affermazione bisogna fare un passo indietro.
Il telescopio a rifrazione — quello con il quale Galileo (1564-1642) ha effettuato le straordinarie scoperte astronomiche riferite nel Sidereus Nuncius (1610) _10 all’uso si è rivelato meno perfetto di quanto ritenessero i suoi primi estimatori.11 A renderne difficoltoso l’impiego sono, in particolare, la mancanza di definizione delle immagini e l’apparizione dei colori nell’oculare; difetti che, combinati, fanno sì che le immagini osservate con il telescopio a rifrazione risultino distorte e confuse.
Quanto al primo inconveniente, l’esperienza ha ormai ampiamente mostrato che le lenti le cui superfici curvate sono segmenti di sfere non possono produrre immagini con una perfetta messa a fuoco, poiché tali lenti non rifrangono i raggi paralleli — come sono quelli provenienti dai corpi celesti — in modo che essi si intersechino in un unico fuoco. Le lenti sferiche, in altre parole, sono all’origine di quel fenomeno denominato aberrazione di sfericità. La maggior parte degli studiosi di ottica del XVII secolo crede che, al pari di qualsiasi altro difetto dovuto ad accidentali errori di molatura e di composizione del vetro, l’aberrazione di sfericità possa essere pertanto eliminata adottando lenti non sferiche.12
Relativamente al secondo difetto — le frange colorate che compaiono ai bordi dell’oculare —, si pensa che sia un fenomeno affine a quello dell’aberrazione di sfericità. È risaputo che quando la luce solare viene rifratta da un mezzo rifrangente, quale appunto una lente, si producono i colori dell’arcobaleno. Per questo motivo le immagini che si vedono attraverso l’oculare del telescopio appaiono con contorni iridescenti. Questo fenomeno, chiamato aberrazione cromatica, non viene interpretato come una proprietà che la luce mostra durante le rifrazioni, ma come un effetto accidentale dovuto alla forma del mezzo rifrangente. Per gli studiosi di ottica, sia l’aberrazione di sfericità che quella cromatica sono imputabili alla forma delle lenti. Essi ritengono che la soluzione di questi inconvenienti vada ricercata esclusivamente in espedienti di tipo tecnico, nella realizzazione cioè di lenti con superfici ellittiche o iperboliche. Il problema però consiste nel riuscire a molare questo tipo di lenti. E che si tratti di faccenda ardua lo si può facilmente arguire considerando che nel XVII secolo ogni tentativo in tale direzione si rivelò del tutto inefficace.13
Quando intorno ai primi anni Sessanta del Seicento il giovane Newton comincia a interessarsi di ottica, i problemi più dibattuti in Europa riguardano quindi i tentativi di migliorare la qualità delle immagini ottenute con il telescopio.14 Anche le prime ricerche dello stesso Newton sono ancora orientate in questo senso, come documenta un manoscritto della fine del 1665 o degli inizi del 1666,15 dedicato alla molatura di lenti non sferiche, in base a quanto suggerito da Descartes nella Dioptrique.16 Ben presto però si convince che tutti gli sforzi in questa direzione sarebbero stati fatica sprecata, poiché la soluzione di Descartes si basa su un’ipotesi fisica, l’omogeneità della luce, che per Newton è in profondo contrasto con una sua scoperta sulla natura della luce.
Orbene, la «scoperta filosofica» annunciata a Oldenburg nella lettera del 18 gennaio 1672 è quella della dispersione cromatica, del fatto cioè che la luce è una mescolanza eterogenea di raggi diversamente rifrangibili. Ciò significa che la luce solare non è semplice e omogenea, come tutti gli studiosi di ottica ritengono, ma composta da diversi raggi luminosi aventi differenti gradi di rifrangibilità, a cui corrispondono i vari colori. Quando ognuno di questi diversi tipi di raggi attraversa un mezzo rifrangente, come per esempio una lente, è rifratto in misura differente e ognuno di essi obbedisce alla legge di rifrazione, ma con un diverso grado di rifrazione. Di conseguenza, la dispersione cromatica che si verifica durante le rifrazioni non è un effetto accidentale del mezzo rifrangente, ma una proprietà essenziale della natura della luce. Il mezzo rifrangente ha un’incidenza del tutto strumentale, agisce cioè come un filtro, capace soltanto di rendere visibile la natura composta della luce solare.
La costruzione del telescopio a riflessione ha la sua principale raison d’être proprio nella scoperta dell’eterogeneità della luce. Questa «rivelazione» fa comprendere a Newton che l’imperfezione maggiore dei telescopi a rifrazione non è dovuta tanto alla forma sferica delle lenti, quanto al diverso grado di rifrangibilità dei raggi luminosi componenti la luce solare. Dal suo punto di vista, l’aberrazione di sfericità è cosa trascurabile rispetto all’aberrazione cromatica causata dalla dispersione. Per cui, se anche la tecnica di molatura avesse consentito di realizzare lenti ellittiche o iperboliche, l’immagine sarebbe rimasta ancora altrettanto confusa di prima, in quanto l’effetto della dispersione cromatica non si sarebbe potuto eliminare. L’aberrazione cromatica è una conseguenza della costituzione della luce e non della forma delle lenti. La diversa rifrangibilità è una proprietà essenziale della luce e quindi si manifesterà ogniqualvolta si configurerà un fenomeno di rifrazione. Poiché le lenti formano le immagini curvando i raggi di luce, generano cioè rifrazione, sarà impossibile — modificando soltanto la forma delle lenti e considerato che i raggi dovranno pur essere curvati — che i raggi di luce non si rifrangano diversamente.
La certezza che non si possa avere rifrazione senza dispersione rende, secondo Newton, impossibile la costruzione di telescopi a rifrazione privi di aberrazione cromatica, qualunque forma abbiano le lenti. E ciò lo ha conseguentemente sollecitato a progettare e realizzare un nuovo tipo di telescopio in cui l’immagine è ottenuta mediante uno specchio sferico concavo. L’adozione di questo stratagemma, infatti, consente di neutralizzare la proprietà che la luce esibisce durante le rifrazioni, poiché gli specchi non rifrangono la luce, ma la riflettono, producendo così un’immagine che non comporta alcuna dispersione cromatica.
Il telescopio a riflessione dunque, nonostante l’entusiasmo suscitato per il suo valore pratico, è l’esito logico e necessario della scoperta della natura composta della luce.17 Lo stretto legame tra la sua «scoperta filosofica» e il telescopio a riflessione, però, apparirà evidente soltanto quando Newton invierà a Oldenburg il «resoconto» promesso nella lettera, ormai più volte citata, del 18 gennaio 1672. Il che accade precisamente il 6 febbraio dello stesso anno, non appena cioè Newton, mettendo a profitto la buona accoglienza del suo telescopio, si risolve a svelare la sua nuova teoria della luce e dei colori.
Il resoconto che Newton invia alla Royal Society sotto forma di lettera indirizzata a Oldenburg viene pubblicato, con lievi ma significativi tagli, nelle «Philosophical Transactions» del 19 febbraio 1672. A quel punto, leggendo la Nuova teoria sulla luce e i colori, secondo il titolo che Oldenburg dà alla lettera di Newton, 18 ogni studioso di ottica può intendere la vera ragione che lo ha indotto a costruire un nuovo telescopio. Newton illustra perché, sul piano tecnico, non accetta la premessa su cui di solito si basa la spiegazione dei difetti del telescopio a rifrazione, identifica la vera causa, fino ad allora sconosciuta, di quei difetti per mezzo della propria teoria, ne predice il rimedio, ancora una volta grazie alla sua teoria, e presenta il telescopio a riflessione da lui realizzato come prova dell’accuratezza della sua diagnosi.19
Il telescopio a riflessione è, in definitiva, la dimostrazione tangibile della supremazia della sua teoria sulle tradizionali teorie della luce.
La Nuova teoria sulla luce e i colori è la prima esposizione pubblica delle idee di Newton sulla natura della luce. Ma Newton, come si vedrà, ha già formulato la sua teoria della luce e dei colori anteriormente alla decisione di renderla pubblica, e quindi gli sembra ormai del tutto ovvia. Il successo del telescopio costituisce, da questo punto di vista, soltanto un’occasione favorevole per presentare in forma concisa il frutto di un’intensa attività sperimentale e teorica che si è sviluppata — con tentativi e approssimazioni successive — in un considerevole arco di tempo, dal 1664 al 1671. Per i contemporanei di Newton però le cose stanno in tutt’altri termini.
Da circa duemila anni la luce solare è considerata semplice, pura e omogenea e si pensa che i colori non siano altro che un qualche tipo di modificazione o mutamento di tale luce. Non va inoltre trascurato che nel linguaggio sia letterario sia religioso della cultura occidentale l’immagine della luce solare incarna il simbolo della purezza e della semplicità, e che la luminosità del Sole è intrinsecamente connessa con l’immagine del divino e con le figurazioni simboliche del trascendente. La teoria di Newton si contrappone frontalmente a questa tradizione millenaria: la luce solare non è affatto pura e omogenea, bensì una mescolanza eterogenea di diversi tipi di raggi aventi diversi gradi di rifrangibilità, a ognuno dei quali corrisponde un colore diverso. Sono i colori quindi, secondo Newton, a essere semplici e omogenei, mentre la luce solare consiste di una mescolanza di innumerevoli colori.
La scoperta della natura composita della luce solare e del diverso grado di rifrangibilità dei colori non nasce però nel vuoto storico. Non è un caso che, in apertura della Nuova teoria sulla luce e i colori, lo stesso Newton, alludendo alle sue iniziali ricerche sui colori osservati attraverso un prisma, usi l’espressione «i famosi fenomeni dei colori»20 I colori prodotti dal prisma, «i famosi fenomeni dei colori» appunto, sono noti fin dall’ antichità,21 e nel XVII secolo si trovano ormai ampiamente descritti nelle opere di diversi filosofi naturali.22 È proprio grazie alla loro lettura che Newton ne viene a conoscenza, soprattutto attraverso lo studio di quegli autori che considerano i colori il campo privilegiato per mettere a fuoco le radicali differenze tra la filosofia della natura di Aristotele e quella del meccanicismo,23 cui essi, pur con modalità diverse, aderiscono.
La filosofia meccanicistica rappresenta il contesto culturale entro cui si sviluppano le ricerche di Newton, poiché essa gli fornisce quell’indispensabile background di nozioni e argomenti che la sua nuova teoria avrebbe poi definitivamente rovesciato. Per comprendere dunque il complesso percorso che porta Newton all’elaborazione della sua dottrina, è opportuno prendere in considerazione il modo in cui i fenomeni dei colori vengono spiegati dai filosofi meccanicisti in opposizione alla tradizione che prende avvio da Aristotele.
Nel De sensu et sensibilibus Aristotele (384-322 a.C.) ha sostenuto che la luce è prodotta dalla presenza del fuoco o di qualcosa di simile in un mezzo trasparente come l’aria o l’acqua, e che l’assenza di questo fuoco determina il buio. I colori quindi risultano visibili soltanto alla luce, quando il mezzo trasparente è illuminato, ossia, in termini aristotelici, quando in tale mezzo è presente del fuoco. Per Aristotele i colori dei corpi si originano dal fuoco e dal trasparente contenuti in essi.24
Il colore viene concepito pertanto come luce, con la significativa differenza che esso si trova delimitato o inquadrato entro un corpo e ha bisogno di luce esterna, di essere cioè illuminato, per diventare visibile. Dopo aver spiegato l’origine del bianco e del nero, Aristotele afferma che tutti gli altri colori — il giallo, il rosso, il violetto, il verde e l’azzurro (il grigio è considerato una varietà di nero)25 — sono prodotti da varie mescolanze di bianco e di nero, i due colori fondamentali. L’individuazione di «sette specie» di colori implica, in maniera alquanto vaga, il riferimento all’idea di una scala cromatica in cui agli estremi si trovano il bianco e il nero, mentre al centro sono disposti gli altri colori. Occorre sottolineare, tuttavia, che a essere determinante, in questa classificazione, non è tanto la tinta o il colore in sé, quanto piuttosto il suo valore tonale, la sua intrinseca luminosità. I nomi dei colori indicano semplicemente una posizione su una scala lineare compresa tra il bianco e il nero, una posizione che deriva dal loro tendere alla luminosità o all’oscurità. Il giallo, per esempio, è intrinsecamente luminoso perché contiene in prevalenza bianco e poco nero, ed è collocato più vicino al bianco; l’azzurro, invece, è scuro perché contiene poco bianco ed è collocato più vicino al nero. I concetti fondamentali della teoria del colore di Aristotele sono, in definitiva, la luminosità e l’oscurità, ossia il bianco e il nero, e non il colore o la tinta.26
Relativamente alla genesi dei colori nell’arcobaleno, nei Meteorologica Aristotele ha però elaborato una teoria fondamentalmente diversa da quella adottata nel De sensu et sensibilibus per i corpi colorati. Egli riconosce nell’arcobaleno soltanto tre colori principali: il rosso, il verde e il violetto. Questi, secondo Aristotele, sono «gli unici colori che i pittori non possono produrre: essi infatti creano i propri colori per mescolanza, ma nessuna mescolanza dà il rosso, il verde o il violetto». 27 Tali colori sono generati dall’indebolirsi e dall’oscurarsi della luce, anzi, come afferma lo stesso Aristotele, della vista. Egli osserva che una nuvola vicina al Sole appare bianca, mentre se la si guarda riflessa nell’acqua presenta tracce di qualche colore dell’arcobaleno. Ciò è dovuto al fatto che quando la vista viene riflessa, essa si indebolisce e fa apparire il colore scuro più scuro e quello bianco meno bianco, approssimandosi al nero. Di conseguenza, a mano a mano che la vista si indebolisce, si generano in successione il rosso, il verde e il violetto.28
Le teorie del colore esposte nel De sensu et sensibilibus e nei Meteorologica presentano insomma differenze rilevanti, sia in merito alla scala dei colori che alla loro genesi. Nel primo caso, infatti, la scala contempla sette colori, mentre nel secondo essa ne contiene soltanto tre. E mentre nel De sensu et sensibilibus ogni colore risulta dalla mescolanza del bianco e del nero, nei Meteorologica i colori vengono spiegati in termini di relativa forza o debolezza della vista, strettamente connessa con la luminosità di ciascun colore.
Elaborando questi due diversi modelli esplicativi in una fondamentale dicotomia, già a partire dal XIII secolo i filosofi scolastici, con sfumature diverse e talvolta contraddittorie, iniziano a introdurre la distinzione tra colori apparenti o enfatici della luce, quelli transitori cioè che si vedono nell’arcobaleno o nel prisma, e colori reali o permanenti dei corpi.29 Nella tradizione aristotelica, quindi, i colori apparenti sono dovuti soltanto a una qualche modificazione della luce solare, considerata pura e uniforme, mentre quelli reali sono forme o qualità intrinseche dei corpi che la luce si limita a svelare. Questa divisione, che trova una precisa formulazione nei diffusissimi Commentarii dei Gesuiti di Coimbra,30 è ancora ampiamente operante nel Seicento.31
I filosofi meccanicisti del XVII secolo, però, si oppongono strenuamente a questa distinzione. Pur trattandosi di un gruppo eterogeneo, con differenze assai notevoli nei tratti specifici delle loro filosofie, essi concordano nel sostenere che i corpi non possiedono qualità come il sapore o il colore, corrispondenti alle sensazioni che ne ha il soggetto percipiente, ma soltanto proprietà di tipo geometrico-meccanico, quali la grandezza, la forma e il moto, che sono all’origine di quelle determinate sensazioni. Come ha precisato Galileo nel Saggiatore (1623),32 le qualità sensibili non appartengono agli oggetti esterni che le producono, ma sono il risultato di un’interazione tra l’apparato sensoriale e il moto proveniente dagli oggetti esterni. Al pari delle altre sensazioni, il colore non è altro che una risposta fisiologica agli stimoli esterni suscitati dalla luce. Di conseguenza, la distinzione scolastica tra colori reali e apparenti non ha più alcun fondamento, giacché sia gli uni che gli altri sono soltanto sensazioni prodotte dalla luce che colpisce l’organo della vista, a prescindere cioè dal fatto che la fonte sia un arcobaleno o un corpo.
Il rifiuto della distinzione tra colori reali e apparenti costituisce, per i filosofi orientati in senso meccanicistico, un punto di non ritorno, diventando la premessa di ogni nuova spiegazione dei colori. A partire da Descartes, che nelle Météores (1637) è tra i primi a stigmatizzarne l’inconsistenza,33 autori come Pierre Gassendi (1592-1655), Walter Charleton (1620-1707) e Robert Boyle (1627-1691) - giusto per limitarsi a quegli studiosi le cui opere, direttamente o indirettamente, hanno influenzato in modo significativo le ricerche newtoniane sulla luce e il colore _34 respingono fermamente tale distinzione.35 Allo stesso modo, i meccanicisti abbandonano la distinzione tra luce e colore, poiché tutta la luce causa sempre una sensazione di colore e quindi, per studiare il colore, bisogna studiare soltanto la luce colorata. Questo nuovo orientamento condurrà direttamente all’opera di Newton, il quale potrà basare la sua teoria dei colori pressoché esclusivamente sugli esperimenti con il prisma.
Pur rifiutando l’idea che i colori siano qualità intrinseche dei corpi, i meccanicisti assumono tuttavia che l’origine dei colori sia dovuta a una qualche forma di modificazione o di alterazione della luce bianca, estendendo in questo modo la teoria scolastica dei colori apparenti a tutti i colori, vale a dire a quelli dei corpi così come a quelli della luce. Nel XVII secolo, infatti, sia prima che dopo Newton, tutti i filosofi naturali — aristotelici o anti-aristotelici – adottano teorie della modificazione, per quanto non vi fosse alcun consenso sulla natura di tale modificazione.
Gli aristotelici e alcuni meccanicisti aderiscono ancora all’idea che i colori si generino da una mescolanza del bianco e del nero, benché la dottrina venga talvolta riformulata attribuendo il colore a una mescolanza della luce con l’oscurità o con le ombre.36 In contrapposizione a tale interpretazione più tradizionale, maturano però nuovi modelli esplicativi che costituiscono una concreta alternativa alle teorie aristoteliche basate sui concetti di bianco e nero.37
La spiegazione dei colori fornita da Descartes nell’ottavo discorso delle Météores può senz’altro essere considerata un nuovo tipo di teoria della modificazione. Essendosi servito di un’ampolla di vetro per studiare la formazione dell’arcobaleno come un fenomeno causato dalla rifrazione che subisce la luce nelle gocce d’acqua sospese nell’aria, Descartes intende risolvere la difficoltà connessa al fatto che soltanto alcuni raggi di luce fanno apparire i colori:
E per risolverla, ho cercato se non vi fosse proprio qualche altro oggetto in cui tali colori apparissero nel medesimo modo, affinché, mediante il paragone dell’uno con l’altro, potessi meglio valutare la loro causa. Ricordandomi poi che un prisma o triangolo di cristallo ne fa vedere di simili, ne ho considerato uno uguale a questo MNP [fig. 1], le cui due superfici MN e NP sono completamente piane e inclinate l’una sull’altra secondo un angolo di circa 30 o 40 gradi, cosicché, se i raggi del Sole ABC attraversano MN secondo angoli retti o quasi retti, non subendo in tal modo alcuna rifrazione, devono subirne una abbastanza grande nell’uscire da NP. E coprendo una di queste due superfici con un corpo oscuro, in cui era stata praticata un’apertura abbastanza stretta come DE, ho osservato che i raggi, attraversando questa apertura e di là andando a raggiungere un telo o un foglio di carta bianco FGH, vi dipingono tutti i colori dell’arcobaleno, e che vi dipingono sempre il rosso verso F e l’azzurro o il violetto verso H.38
Da questo esperimento Descartes conclude che per la genesi dei colori è sufficiente soltanto una rifrazione — purché tuttavia il suo effetto non sia distrutto da una seconda rifrazione contraria su una superficie parallela alla prima — e che non è necessario che la superficie sia curva come nelle gocce d’acqua, essendo quelle del prisma tutte piane. Osserva inoltre che occorre l’ombra o qualcosa che limiti la luce, poiché, se si toglie il corpo scuro sovrapposto alla superficie NP, i colori cessano di apparire.39
Identificati nella rifrazione, nella luce e nell’ombra i fattori necessari alla produzione del fenomeno, Descartes comprende tuttavia che essi non sono sufficienti per spiegare le differenze dei colori. Perché, si chiede infatti, quando la luce attraversa un prisma i suoi raggi appaiono sempre rossi da una parte e azzurri dall’altra, «nonostante la rifrazione, l’ombra e la luce vi concorressero nel medesimo modo»,40 ovvero benché rimangano uniformi le condizioni dell’esperimento individuate prima? La causa di ciò, secondo Descartes, va ricercata in una modificazione che interviene all’interno della struttura stessa della luce. Come già ipotizzato nella Dioptrique,41 Descartes sostiene che la luce debba essere concepita in termini di pressione esercitata da una fonte luminosa, come per esempio il Sole, su una materia sottilissima costituita di piccole sfere o globuli, attraverso cui si trasmette la luce e che ruotano nei pori dei corpi. Inizialmente, prima cioè che la luce sia rifratta, queste sfere hanno soltanto un moto in direzione della loro propagazione. Quando incontrano una superficie rifrangente, esse acquistano un moto rotatorio che, in assenza di influenze esterne, sarà della stessa velocità del loro moto di traslazione. Il moto di rotazione di queste sfere, però, è influenzato dalla velocità delle sfere circostanti, le quali possono aumentare o diminuire la loro rotazione. Ciò avviene al limite tra ombra e luce, vale a dire nei punti D ed E (fig. 1), dove il moto rotatorio delle sfere della materia sottile subisce una modificazione che determina una variazione nella loro velocità di rotazione. Descartes suppone che le sfere sul raggio DF incontrino sfere che, muovendosi più velocemente, aumentano il loro moto rotatorio, dando origine al rosso (o, meglio, alla sensazione che il soggetto percipiente ha di questo colore), mentre quelle sul raggio EH incontrano sfere che, muovendosi più lentamente, diminuiscono il loro moto rotatorio, dando origine all’azzurro. Gli altri colori sono spiegati supponendo che le sfere sui loro raggi ruotino con velocità intermedie comprese tra la velocità di rotazione maggiore del rosso e quella minore dell’azzurro.
Descartes nega che la genesi dei colori sia imputabile all’attraversamento del cristallo del prisma. Anzi, ritenendo di avere individuato la causa fisica dei colori unicamente nella diversa velocità di rotazione delle piccole sfere componenti la materia sottile, non attribuisce alcuna funzione determinante né alla rifrazione né al limite tra luce e ombra. Il caso dei corpi colorati, spiega Descartes, dimostra precisamente che altri fattori — quali la grandezza, la forma, la posizione e il moto delle parti di questi corpi — possono concorrere in vari modi a un aumento o a una diminuzione della rotazione delle sfere della materia sottile.42 Tali corpi, infatti, sono di diversi colori in quanto le loro superfici trasmettono alla luce da essi riflessa varie velocità di rotazione, e questo è il motivo per cui appaiono di colore rosso, giallo, verde, azzurro, e così via.
Con la sua teoria Descartes riesce a trasformare efficacemente la concezione aristotelica in un nuovo modello meccanicistico della modificazione della luce solare: i colori si producono a causa di una velocità di rotazione che si modifica per effetto degli urti meccanici tra le sfere ruotanti.
Analogamente, Robert Hooke (1635-1703) nella sua Micrographia, pubblicata nel 1665, abbandona l’idea che i colori si formino dalla luce e dall’ombra. Hooke concepisce la luce come un movimento che, a partire da una fonte luminosa, si propaga con impulsi successivi attraverso il mezzo circostante. Quando la luce si diffonde in un mezzo omogeneo, il fronte dell’impulso è sempre perpendicolare alla direzione di propagazione. E nella fattispecie, secondo Hooke, la luce — essendo semplice, uniforme e imperturbata — genera la sensazione del bianco. Adottando l’ipotesi di Descartes,43 Hooke sostiene però che quando la luce colpisce una superficie rifrangente e penetra in un mezzo più denso dell’aria, come per esempio il vetro o l’acqua, la sua velocità aumenta e dopo la rifrazione il fronte dell’impulso, anziché rimanere perpendicolare, diventa obliquo rispetto alla direzione di propagazione. 44 Attraverso questa obliquità dell’impulso, che è una mera modificazione della luce bianca incidente, egli spiega l’apparizione dei colori.
I colori sono prodotti quando l’impulso uniforme della luce viene perturbato e quindi modificato dal mezzo rifrangente, sia esso il vetro del prisma o le gocce d’acqua dell’arcobaleno. Questa modificazione infatti, secondo Hooke, scompone la luce in impulsi obliqui deboli e forti, e la successione di tali impulsi determina la differenza dei colori. Hooke assume che la parte o estremità dell’impulso che per prima colpisce la superficie rifrangente «deve necessariamente essere alquanto più indebolita o impedita dalla resistenza del mezzo trasparente», 45 mentre la seconda estremità, essendo stato il suo percorso preparato dalla prima, incontrerà meno resistenza da parte del mezzo. Di conseguenza:
il raggio AAAHB [fig. 2] avrà il suo lato HH più indebolito dalla resistenza del mezzo scuro o in quiete PPP, per cui ci sarà un tipo di indebolimento più sviluppato sul lato HHH, che aumenterà continuamente a partire da B, e penetrerà sempre più all’interno del raggio lungo la linea BR; pertanto tutte le parti del triangolo RBHO saranno di un colore azzurro smorzato, e tanto più intenso quanto più esse si avvicineranno alla linea BHH, che è la più indebolita o impedita, e tanto più attenuato quanto più si avvicineranno alla linea BR. Poi, sull’altro lato del raggio AAN, l’estremità A dell’impulso AH sarà favorita o resa più forte, essendo stato il suo percorso già preparato dalle altre parti che la precedono, e così la sua impressione sarà più forte; e a causa della sua obliquità rispetto al raggio, sarà propagato all’interno del mezzo adiacente scuro o in quiete un tipo di moto debole che si propagherà sempre più all’interno di QQ, mentre il raggio è propagato sempre più a partire da A, ossia lungo la linea MA, per cui tutto il triangolo MAN sarà colorato di rosso, e quel rosso sarà più intenso quanto più si avvicinerà alla linea MA e più attenuato o più giallo quanto più si avvicinerà alla linea NA.46
La teoria di Hooke contempla esclusivamente due colori fondamentali, l’azzurro e il rosso, che vengono così definiti:
l’azzurro è un’impressione sulla retina di un impulso di luce obliquo e confuso, la cui parte più debole precede e quella più forte segue. E [...] il rosso è un’impressione sulla retina di un impulso di luce obliquo e confuso, la cui parte più forte precede e quella più forte segue.47
L’intensità di ognuno di questi colori cambia dal bordo verso l’interno: il bordo BH varia da un azzurro cupo a un azzurro più tenue, mentre quello MA da un rosso intenso a uno più smorzato che sfuma nel giallo. Tutti gli altri colori non sono altro che alterazioni di questi due colori fondamentali, e si originano o da una loro mescolanza o da una mescolanza dei loro derivati, come nel caso del verde che si forma dall’azzurro attenuato e dal giallo.
Quando Newton, tra il 1664 e il 1666, s’immerge nello studio dell’ottica contemporanea, il quadro che si trova di fronte è grosso modo quello che si è appena delineato. Molte idee aristoteliche sulla natura del colore risultano ormai quasi completamente abbandonate: la distinzione tra colori reali e colori apparenti, quella tra luce e colore, l’idea che la mescolanza del bianco e del nero possa produrre i colori, e le connesse teorie della modificazione basate su questo principio. Gli esperimenti con il prisma, inoltre, acquistano un nuovo statuto: bandita infatti la distinzione tra colori dei corpi e quelli della luce, essi diventano la chiave fondamentale per indagare la natura dei colori tout court, quale cioè che sia la loro fonte. E il prisma, in questo modo, da semplice dispositivo per generare i colori enfatici e illustrare la formazione dell’arcobaleno, appare, come riconosce consapevolmente Boyle, «lo strumento più utile che gli uomini abbiano finora usato per la contemplazione dei colori».48
L’introduzione di queste importanti innovazioni, tuttavia, non ha affatto scalfito il concetto di modificazione, giacché anche i nuovi modelli esplicativi, come quelli di Descartes e Hooke, si basano, come si è visto, sul presupposto che i colori nascano da una qualche forma di modificazione della luce bianca. Lo stesso Newton, d’altronde, in un primo tempo svilupperà modelli basati sulla modificazione, anche se in seguito vi si sarebbe opposto strenuamente, proponendo, come si è già anticipato, un’idea completamente nuova sulla natura del colore.
Newton entra all’università di Cambridge il 5 giugno 1661 ed è ammesso al Trinity College come subsizar, ossia come studente povero.49 Nel 1661, a Cambridge, il curriculum ufficiale degli studi è ancora basato su un modello educativo incentrato sulla filosofia di Aristotele. Esso prevede una dose massiccia di logica che, insieme all’etica e alla retorica, avrebbe dovuto fornire le basi per affrontare lo studio della filosofia aristotelica.
I primi studi di Newton a Cambridge seguono l’indirizzo prescritto dal curriculum tradizionale, come testimoniato dal cosiddetto Taccuino di Trinity, iniziato proprio nel 1661, che contiene le annotazioni relative alle materie dei suoi corsi universitari.50 Gli appunti di Newton, stesi in greco e in latino, consistono in una semplice trascrizione di frasi tratte dall’Organon e dall’Etica Nicomachea di Aristotele, ma anche dai più diffusi compendi scolastici di filosofia aristotelica, quali i Phisiologiae peripateticae libri sex (forse nell’edizione uscita a Cambridge nel 1642) di Johannes Magirus e gli Axiomata philosophica (anch’essi probabilmente nella seconda edizione stampata a Cambridge nel 1645) di Daniel Stahl.51
Soltanto una mancanza di prospettiva storica potrebbe portare a sottovalutare la rilevanza che la filosofia aristotelica ha avuto nella formazione di Newton. Come per molti suoi contemporanei che intraprendono la carriera del filosofo naturale, anche per Newton l’aristotelismo rappresenta il primo contatto con serie e complesse questioni filosofico-scientifiche, e un modo per liberarsi del suo provincialismo intellettuale. La filosofia aristotelica, infatti, racchiude un corpo dottrinario rigorosamente organizzato, che fornisce un’interpretazione sistematica e coerente della diversità della natura, mostrando inoltre che una spiegazione intelligibile e comprensiva dei fenomeni naturali sarebbe stata quanto meno perseguibile.
Ben presto, però, la dottrina aristotelica appare a Newton un sistema filosofico ormai logoro e in ritardo rispetto alle posizioni più avanzate della filosofia europea. Non è un caso che Newton non abbia mai completato alcuno dei testi aristotelici previsti dal curriculum ufficiale di cui ha iniziato la lettura. Due pagine di annotazioni tratte dalle Meditationes (1641) di Descartes interrompono infatti bruscamente le note aristoteliche con cui ha inaugurato il suo Taccuino di Trinity. Le pagine successive contengono, invece, una lunga serie di note relative a un nuovo corso di letture, cui Newton dà il titolo di Quaestiones quaedam philosophicae (Alcune questioni filosofiche).52
Le Questioni filosofiche sono scritte usando una tecnica assai diffusa tra gli studenti dell’epoca, quella del commonplace book, una sorta di rubrica di voci accompagnate da citazioni, commenti, domande e prese di posizioni critiche.53
Benché sia difficile determinare con assoluta certezza la datazione delle Questioni, diverse considerazioni consentono comunque di stabilire per la loro redazione un terminus a quo nei primi mesi del 1664 e un terminus ad quem nell’aprile del 1665.54
Le Questioni vengono redatte quindi in un lasso di tempo assai breve, nel giro forse di un paio d’anni. Ciò tuttavia non impedirà a Newton di impadronirsi dei principali risultati metodologici e scientifici di un secolo di ricerche, e di porsi all’avanguardia in pressoché ogni campo di indagine. In quei due anni egli si dedica a uno studio febbrile degli Essais e dei Principia philosophiae di Descartes, ma anche alla lettura della Physiologia di Charleton — non c’è invece alcuna evidenza di una lettura diretta del Syntagma philosophicum di Gassendi —, del Dialogo di Galileo, del De corpore di Hobbes, degli Experiments and Considerations touching Colours di Boyle, dell’Arithmetica infinitorum di Wallis, e sicuramente di tante altre opere.55 Da questo punto di vista, il 1664 segna davvero una svolta decisiva nella formazione intellettuale di Newton: l’incontro con la matematica contemporanea e soprattutto con la concezione meccanicistica della nuova filosofia gli permette di lasciarsi per sempre alle spalle l’universo di Aristotele, superando in pochissimo tempo i limiti di una preparazione universitaria retrograda e formale.
Le Questioni filosofiche, pur non essendo un’opera sistematica e compiuta, rappresentano una straordinaria testimonianza sia delle tendenze della ricerca e degli interessi di Newton in quegli anni, sia dei suoi tentativi di dominare la materia che attinge dalle varie fonti e dagli esperimenti che viene effettuando. Esse inoltre prefigurano i problemi su cui in seguito si sarebbe concentrata la sua attività scientifica, nonché il metodo con il quale avrebbe cercato di risolverli; le voci più estese ed elaborate sono infatti quelle sul moto e sui colori.
La prima annotazione con cui si apre la voce Sui colori delle Questioni filosofiche concerne un fenomeno percettivo ben noto e ampiamente utilizzato nella tecnica pittorica fin dall’Antichità: l’illusione ottica che fa apparire i colori scuri più lontani di quelli chiari.56 Newton però va oltre la mera descrizione del fenomeno e suggerisce subito la propria ipotesi esplicativa:
Che i colori scuri sembrino più lontani di quelli luminosi può dipendere da questo: che i raggi perdono poco della loro forza riflettendosi da un corpo bianco perché ne sono potentemente contrastati, mentre un corpo scuro, a causa della scioltezza delle sue parti, lascia un po’ entrare la luce e la riflette ma debolmente. E così le riflessioni dal bianco giungeranno all’occhio più presto. O anche perché il bianco invia i raggi con più forza all’occhio e gli dà un colpo più intenso.57
La fonte principale di questa annotazione, come ha dimostrato Maurizio Mamiani, è Descartes.58 Nel sesto discorso della Dioptrique, infatti, stigmatizzando l’assioma dell’ottica antica, in base al quale la grandezza apparente degli oggetti dipenderebbe soltanto dall’angolo visuale, il filosofo francese nega che l’asserto abbia validità assoluta, poiché, fa notare,
ci si inganna anche per il fatto che i corpi bianchi o luminosi, e generalmente tutti quelli che hanno molta forza per muovere il senso della vista, appaiono sempre un po’ più vicini e più grandi di quel che sembrerebbero se avessero meno forza.59
Descartes, inoltre, si riferisce esplicitamente al modo in cui nella tecnica pittorica si usino talvolta i colori scuri per produrre l’illusione ottica di profondità.60
La differenza percettiva della distanza dei corpi luminosi da quelli scuri ha qui però una spiegazione diversa rispetto a quella avanzata da Newton. Il fenomeno, infatti, secondo Descartes, è di natura fisiologica, dipenderebbe cioè da un riflesso meccanico della pupilla che si contrae per evitare la forza della luce dei corpi bianchi o luminosi, in maniera analoga al meccanismo che consente all’occhio di vedere distintamente gli oggetti vicini.61 Nondimeno, l’ipotesi di Newton rimane ancora entro un contesto teorico completamente cartesiano, giacché egli per spiegare il fenomeno utilizza un altro luogo del secondo discorso della Dioptrique, in cui si afferma che il movimento della luce è simile a quello di una palla che «perde più movimento urtando un corpo molle che uno duro».62
Servendosi di due diversi luoghi della Dioptrique, Newton quindi sostiene che i raggi di luce perdono poco della loro forza quando sono riflessi da un corpo bianco, in quanto la struttura fisica di quest’ultimo fa sì che i raggi incontrino una resistenza maggiore. Per converso, riflettendosi da un corpo nero che oppone una resistenza minore, i raggi sono dotati di una forza minore. Così i colori bianchi o luminosi si caratterizzano per la maggior forza dei raggi che li producono, mentre quelli neri o scuri per la minor forza dei loro raggi. L’elemento distintivo dei raggi riflessi dal bianco è pertanto la loro maggior velocità rispetto a quelli riflessi dai corpi scuri.
Newton riesce così a basare la spiegazione dell’illusione percettiva della diversa profondità dei colori luminosi e scuri anziché sul soggetto percipiente, come fa Descartes, sul comportamento meccanico dei raggi di luce, ossia sull’interazione tra i raggi di luce e i corpi bianchi e neri.
Questo risultato è reso possibile, molto probabilmente, dal fatto che Newton sta impiegando, oltre alla Dioptrique, un’altra fonte: gli Experiments and Considerations Touching Colours (1664) di Robert Boyle.63 In quest’opera Boyle fornisce una lunga serie di ipotesi per spiegare la diversa origine dei colori — con particolare riguardo alla natura del bianco e del nero —, ispirandosi a concetti e argomenti contenuti nella Dioptrique. Boyle suggerisce, facendo propria l’analogia cartesiana con il rimbalzo di una palla, che un modo di spiegare il colore nero consiste nel supporre che la struttura dei corpi neri sia tale che, o perché cedono ai raggi di luce o per qualche altra ragione, essi rendono per così dire smorzati tali raggi, e gli impediscono di essere riflessi verso l’esterno copiosamente oppure con considerevole forza o movimento [...]; verificandosi in questo caso quasi la stessa cosa che succede a una palla che, scagliata contro una pietra o sul pavimento, rimbalzerebbe verso l’alto per un buon tratto, ma rimbalza assai poco o nient’affatto quando è lanciata contro l’acqua, o il fango o una rete a maglie larghe, poiché le parti cedono e assorbono in se stesse il moto [...].64
La medesima ipotesi esplicativa viene simmetricamente applicata al bianco:
i corpi bianchi non solo riflettono copiosamente quei corpuscoli incidenti [che compongono i raggi di luce] verso l’esterno, ma li riflettono fortemente, senza alterare in alcun modo il loro movimento.65
Benché derivi le proprie congetture da Descartes, Boyle tuttavia non fa alcun esplicito riferimento al fenomeno dell’illusione ottica di profondità. Newton, invece, riprendendo il modello elaborato da Boyle e mettendolo in relazione con la propria lettura della Dioptrique, arriva alla conclusione che i corpi bianchi e neri modifichino i raggi di luce in maniera differenziata prima che raggiungano l’occhio, mutandone così la velocità.
Se il bianco e il nero sono la conseguenza della quantità di moto della luce riflessa dai corpi, rimane tuttavia da spiegare il modo in cui si generano gli altri colori. L’annotazione iniziale sul fenomeno dell’illusione percettiva è pertanto seguita da una scarna presentazione di alcune cause possibili:
I colori derivano o dalle ombre frammischiate con la luce, o da riflessioni più forti e più deboli. Oppure da parti del corpo mescolate con la luce e portate via da essa.66
Newton si sta qui riferendo a tre spiegazioni relative alla genesi dei colori. Le prime due sono varianti meccanicistiche della teoria tradizionale della modificazione, mentre la terza è l’antica dottrina atomistica degli effluvi. Newton, in base al modello esplicativo individuato per dar conto dell’illusione ottica di profondità, considera tutte e tre queste teorie assolutamente compatibili. 67 Assimilando infatti, sulla scorta di Boyle, il bianco alla luce e il nero all’ombra, la teoria della mescolanza della luce e dell’ombra può essere tradotta nella maggiore o minore riflessione della luce da parte dei corpi. Ciò implica che i colori sono la conseguenza della differenziata quantità di moto della luce riflessa, ossia delle variazioni di velocità della luce prodotte durante la riflessione dalla diversa struttura dei corpi, e quindi di «riflessioni più forti e più deboli». Ma questo, in accordo con la teoria degli effluvi, equivale anche a dire che i colori possono nascere dalla diversa quantità di moto comunicato durante la riflessione dalle parti del corpo ai corpuscoli che compongono la luce, ovvero da «parti del corpo mescolate con la luce e portate via da essa».
Alcuni dubbi portano tuttavia Newton a considerare poco plausibile il proprio modello. Si chiede, per esempio, «perché i pezzi di carbone sono neri e le ceneri bianche»?68 La risposta è così evidente che Newton non sente neanche il bisogno di esplicitarla. Se infatti il suo modello fosse stato del tutto coerente, la cenere, essendo le sue parti più sciolte e meno coese di quelle del carbone, avrebbe dovuto riflettere la luce più debolmente e apparire nera; e, in base al medesimo ragionamento, il carbone dovrebbe quindi essere bianco. Ma ciò urta irrimediabilmente con l’osservazione empirica.
Ancora più decisiva si rivela una constatazione fattuale ripresa da Boyle, il quale ha negato che i colori si possano ottenere mescolando il bianco e il nero:
non ho trovato — osserva Boyle — che da una mescolanza di bianco e di vero nero [...] possa essere prodotto un azzurro, un giallo, o un rosso, per non dire di altri colori; e dal momento che troviamo che questi colori possono essere prodotti nel prisma di vetro e in altri corpi trasparenti con l’ausilio delle rifrazioni, sembra che la rifrazione debba essere presa in considerazione nella spiegazione di quei colori alla cui generazione essa appare concorrere, o facendo un’ulteriore o diversa mescolanza delle ombre con la luce rifratta, o in qualche altro modo di cui adesso non è il caso di parlare.69
Da questo fatto, però, Boyle non ha ricavato alcuna conseguenza teorica radicale, limitandosi a suggerire che se per la spiegazione del bianco e del nero è necessaria soltanto la riflessione, per quella degli altri colori bisogna ipotizzare il concorso della rifrazione con un’ulteriore mescolanza di luce e ombra. Newton invece comprende che l’impossibilità pratica di ottenere i colori da una mescolanza di bianco e di nero comporta necessariamente l’abbandono di ogni modello teorico basato su questa ipotesi. Di conseguenza, sia il proprio modello fondato sulla maggiore o minore riflessione della luce sia le teorie a esso connesse non hanno alcuna possibilità esplicativa in merito alla genesi dei colori:
Nessun colore si genererà dalla mescolanza del nero puro e del bianco, perché in questo caso le immagini tracciate con l’inchiostro sarebbero colorate, o quelle stampate sembrerebbero colorate a una certa distanza, e i contorni delle ombre sarebbero colorati, e il nerofumo e il bianco di Spagna produrrebbero colori. Dunque essi non possono derivare da una minore o maggiore riflessione della luce o dalle ombre mescolate con la luce.70
La prima voce Sui colori delle Questioni filosofiche si conclude con questa affermazione, che rappresenta una svolta significativa nelle ricerche di Newton. Abbandonata infatti, almeno in parte, la teoria della modificazione secondo cui i colori derivano da una modificazione acquisita dai raggi di luce durante la riflessione, d’ora in avanti l’attenzione di Newton si concentrerà sul ruolo della rifrazione e sul modo in cui il prisma di vetro concorra alla produzione dei colori.
La seconda voce delle Questioni filosofiche dedicata ai colori è stata scritta, ancor più della prima, prevalentemente sotto l’influsso dell’opera di Boyle. E non tanto perché ben oltre la metà di essa consiste di annotazioni numerate (dalla 10 alla 51) tratte direttamente dagli Experiment,71 quanto piuttosto per il fatto che Newton si muove lungo una linea di ricerca stabilita da Boyle.
L’obiettivo principale di Boyle è stato quello di dimostrare che i colori dei corpi si generano da una modificazione della luce e, in particolare, di spiegare tali colori e la loro alterazione con mezzi chimici e meccanici in termini di disposizione delle parti dei corpi.72 L’assunto generale è che tutti i colori sono una modificazione della luce incidente causata dalla struttura dei corpi e che essi non sono affatto qualità intrinseche dei corpi. Proprio per questo motivo molti suoi esperimenti con il prisma hanno lo scopo esplicito di negare la distinzione scolastica tra colori reali e colori apparenti o enfatici.73
Per dimostrare che i colori cosiddetti enfatici, una volta prodotti, sono altrettanto permanenti di quelli dei corpi, Boyle effettua un esperimento con il prisma, che attesta appunto come essi non siano ulteriormente modificati dalla riflessione e dalla rifrazione:
l’iride prismatica [ossia i colori che si ottengono quando la luce attraversa un prisma] può essere riflessa senza perdere alcuno dei suoi diversi colori [...] non solo da uno specchio piano e da una calma superficie di acqua limpida, ma anche da uno specchio concavo; e la rifrazione distrugge altrettanto poco questi colori quanto la riflessione.74
Boyle osserva anche che i colori prismatici si possono mescolare tra di loro e con quelli considerati reali, generando gli stessi colori composti ottenuti mescolando i comuni pigmenti del medesimo colore. Tutti questi esperimenti, tuttavia, servono soltanto per fornire una base sperimentale alla confutazione della tesi che stabilisce una netta distinzione tra colori reali e colori apparenti o enfatici. Pertanto, essendo lo scopo precipuo quello di dimostrare che i colori che si generano mediante il prisma sono reali, Boyle non usa mai questo strumento per indagare l’origine dei colori prismatici, quei colori cioè prodotti dal prisma quando la luce diretta del Sole lo attraversa. Egli, per così dire, si accontenta di aver provato, in opposizione alla dottrina scolastica, che i colori enfatici hanno la stessa natura di quelli dei corpi.
La seconda voce Sui colori delle Questioni filosofiche, al pari degli Experiments di Boyle, è pressoché esclusivamente consacrata ai colori dei corpi. Essa si apre con un esperimento semplice, il primo in cui Newton utilizza il prisma, che non ha precedenti in alcuna delle sue fonti. Non si tratta infatti dell’esperimento tradizionale in cui la luce diretta del Sole è fatta passare attraverso un prisma e i colori che ne risultano vengono proiettati sulla parete opposta. Che Newton non sia a conoscenza di questo modo di ottenere i colori con il prisma è senz’altro da escludere, giacché esso è riportato nelle Météores, di Descartes, nella Physiologia di Charleton, nel De corpore di Hobbes e negli stessi Experiments di Boyle,75 vale a dire in opere la cui lettura è ampiamente attestata dalle Questioni. Questo dimostra che Newton al momento, seguendo in ciò Boyle, non manifesta alcun interesse per la luce incidente direttamente sul prisma, ma focalizza la sua attenzione sulla luce riflessa dai corpi e su quel che si verifica quando essa viene rifratta.
Newton osserva attraverso un prisma, usato come una lente davanti all’occhio, una tavoletta le cui due metà sono l’una bianca e l’altra nera, o diversamente colorate, oppure dello stesso colore ma di diversa intensità. La versione con cui Newton esemplifica tutte le altre è quella della tavoletta con una superficie tutta bianca, una metà della quale è illuminata, mentre l’altra è in ombra. Egli suppone che sulla linea di divisione intermedia della tavoletta i raggi riflessi dalla metà illuminata si mescolino con quelli riflessi dall’altra metà in ombra. Si aspetta anche che, osservando tale linea attraverso il prisma, in seguito alla rifrazione compaiano finalmente i colori, quei colori che invece non appaiono dalla semplice mescolanza dei raggi riflessi dalle due metà (una illuminata e l’altra in ombra) della tavoletta. E infatti il prisma, rifrangendo la luce riflessa dalle due metà della tavoletta, fa apparire i colori.
Anziché commentare e interpretare subito l’esperimento, Newton premette un’ipotesi di carattere generale, che si rivelerà decisiva per comprendere i dati sperimentali da lui ottenuti.76 Con essa Newton è in grado di proporre una spiegazione diversificata dei colori (rosso, giallo, azzurro, verde, etc.), da un lato, e del bianco, del nero e del grigio, dall’altro:
Tanto più uniformemente i globuli muovono i nervi ottici, tanto più i corpi sembrano essere colorati rossi, gialli, azzurri, verdi, etc. Ma tanto più variamente li muovono, tanto più i corpi appaiono bianchi, neri o grigi.77
Il termine globuli per riferirsi alle particelle che compongono i raggi luminosi indica chiaramente un contesto cartesiano. Nella Dioptrique Descartes ha sostenuto che la luce e i colori corrispondono ai movimenti dei sottili movimenti del nervo ottico, innescati da un qualche colpo che quest’ultimo riceve da una certa quantità di luce.78 Una variazione dell’intensità del colpo sul nervo ottico proporzionale alla quantità di luce che vi arriva non può tuttavia spiegare la produzione dei diversi colori, poiché Newton si è già convinto, come si è visto, che essi non si generano mai da una variazione della quantità di luce riflessa. Riprendendo quindi un’affermazione di Boyle — il quale, a questo riguardo, ha suggerito di considerare non solo i raggi di luce in quanto tali, ma anche «il modo in cui le particelle che compongono ogni singolo raggio arrivano al sensorio» —,79 Newton imputa le sensazioni del colore alla modalità con cui l’intensità del colpo viene comunicata all’apparato sensoriale: le sensazioni del colore dipendono, piuttosto che da una sommaria quantità di luce, dall’uniformità o dalla varietà del movimento prodotto dai globuli di cui essa è composta sul nervo ottico. Se i globuli suscitano un movimento uniforme, si percepiscono i diversi colori; se invece essi producono un movimento vario, a essere percepiti saranno il bianco, il nero o il grigio. Implicitamente, questo significa anche che il movimento vario può essere inteso come una somma o mescolanza di più movimenti uniformi.
Ma qual è il fondamento fisico di questa ipotesi fisiologica? Ovvero, quali proprietà devono avere i raggi di luce per produrre siffatti movimenti sul nervo ottico?
Newton sostiene che essi siano dotati di diversi gradi di velocità. Questo assunto deriva dal modello esplicativo proposto per spiegare l’illusione percettiva di profondità, rettificato però alla luce dei risultati cui Newton è pervenuto nella prima voce Sui colori.
Dall’impossibilità pratica di ottenere i colori mediante una mescolanza di bianco e di nero, Newton ha ricavato che i colori non si producono mai per una variazione di quantità di luce riflessa. L’esperimento con la tavoletta mostra però che se la semplice mescolanza dei raggi riflessi dalle sue due metà non fa apparire i colori, quando invece questa luce riflessa viene rifratta dal prisma i colori compaiono in tutta evidenza. È indubbio quindi che la rifrazione modifica la luce riflessa. Ma questo non comporta che i colori, come sembra suggerire Boyle, derivino da un’ulteriore o diversa mescolanza di luce rifratta e di ombra.80 È impensabile, secondo Newton, che se la mescolanza per riflessione non produce i colori, potrebbe invece produrli per rifrazione. Anzi, si deve escludere che la riflessione o la rifrazione possano generare i colori autonomamente. L’unica conclusione che se ne può trarre è pertanto che i colori devono essere determinati già prima, prima cioè che siano riflessi o rifratti.
Ora, il modello dell’illusione percettiva di profondità, una volta emendate le parti che si sono rivelate insostenibili (quali l’attribuzione dell’origine dei colori alla riflessione e la dipendenza dalla mescolanza del bianco e del nero), è comunque in grado di offrire una soluzione. Dall’ipotesi che i colori luminosi siano prodotti da raggi più veloci di quelli che producono i colori scuri, si può infatti dedurre, in generale, che alcuni raggi siano più veloci e altri meno veloci. Newton può così assumere che i colori, ossia i raggi atti a produrli, abbiano diversi gradi di velocità indipendenti sia dalla riflessione sia dalla rifrazione. E ciò gli consente di fornire all’ipotesi sulla fisiologia della percezione un fondamento fisico: il movimento uniforme o vario prodotto sul nervo ottico dipenderebbe dalle supposte differenze di velocità di cui i raggi sarebbero dotati.
In base a questi assunti teorici, Newton interpreta adesso, con due note alquanto brevi, l’esperimento della tavoletta diversamente illuminata. Nella prima egli esplicita il tipo di effetto che la rifrazione produce su raggi aventi differenti gradi di velocità: «Nota che raggi lentamente mossi sono rifratti più di quelli veloci»,81 ossia raggi diversamente veloci produrranno corrispondenti differenze di rifrazione.
In tal modo risulta anche chiaro che, quando la luce riflessa dalle due metà della tavoletta viene osservata attraverso il prisma, sulla linea di divisione, all’intersezione cioè della metà illuminata e di quella in ombra, per effetto della separazione operata dalla rifrazione si generano i colori. L’azione del prisma consiste dunque unicamente nel separare, mediante la rifrazione, i raggi meno veloci da quelli più veloci, e ciò è possibile proprio perché essi sono già diversamente veloci entro una mescolanza che può essere indifferentemente bianca, grigia o nera:
In conseguenza di ciò — osserva Newton nella seconda nota esplicativa -, poiché a causa della rifrazione il raggio lentamente mosso è separato da quelli veloci, sorgono due specie di colori, ossia: da quelli lenti l’azzurro, color cielo, e il porpora; da quelli veloci, il rosso e il giallo; e da quelli che sono mossi né molto velocemente né lentamente sorge il verde; ma dai raggi mossi lentamente e velocemente, mescolati, sorge il bianco, il grigio e il nero.82
Questa nota, insieme all’ipotesi fisiologica relativa alla spiegazione differenziata dei colori, testimonia in maniera piuttosto eloquente che Newton, all’epoca in cui scrive la seconda voce Sui colori delle Questioni, è già in possesso, come è stato osservato, di «una teoria della luce bianca (nonché grigia e nera) come una mescolanza di colori, o, a rigor di termini, che la causa delle nostre sensazioni della luce bianca è la mescolanza delle cause delle sensazioni dei colori».83
Al momento, la teoria è in realtà soltanto un’ipotesi, una conseguenza logica dei due assunti (fisiologico e fisico) stabiliti prima. Si tratta però di un’ipotesi nuova, che capovolge in maniera radicale la teoria tradizionale della modificazione. Newton stabilisce un rapporto completamente diverso tra luce e colore: la luce bianca è una mescolanza di raggi dotati di diversi gradi di velocità, cioè di diversi colori, i quali quindi non si generano ex novo per mescolanza, ma soltanto per separazione da quella mescolanza in cui sono già presenti. In altri termini, quando i raggi diversamente veloci vengono separati attraverso la rifrazione dalla mescolanza e colpiscono il nervo ottico causano le sensazioni corrispondenti ai vari colori.
Per Newton quindi le cause delle sensazioni dei colori sono separate dalla rifrazione con il prisma. E a ulteriore conferma che raggi lentamente mossi sono rifratti di più, egli concepisce un esperimento per rendere visibile lo spostamento prodotto da un’eventuale rifrazione differenziale:
Che i raggi che producono l’azzurro siano più rifratti dei raggi che producono il rosso appare dal seguente esperimento: se una metà del filo abc è azzurra e l’altra rossa, e un corpo nero o in un’ombra viene collocato dietro di esso, allora guardando il filo a b c attraverso un prisma, una metà del filo apparirà più alta dell’altra, e non entrambe su una linea retta, a causa delle diverse rifrazioni dei due colori differenti.84
Mostrando che, «a causa delle diverse rifrazioni» dovute al prisma, la metà azzurra del filo sembra essere più spostata di quella rossa, Newton ha così un’evidenza fattuale che i raggi dei diversi colori sono rifratti differentemente.
L’individuazione o, se si vuole, la scoperta della diversa rifrangibilità dei colori però non dimostra affatto, come invece è stato sostenuto,85 che Newton, a questo stadio della ricerca, concepisca già la luce bianca come un aggregato eterogeneo entro il quale i colori sono intrinsecamente presenti, vale a dire come nella teoria matura in cui i raggi che producono i vari colori sono immutabili. Non c’è infatti alcun elemento per cui si possa ritenere che la proprietà dei raggi che causano i diversi colori sia intrinseca a essi. Anzi, poiché la proprietà che Newton associa ai raggi è la velocità, un parametro che può essere alterato quando i raggi interagiscono con i corpi, evidentemente essa non può essere intrinseca. Come è stato messo in evidenza anche da A.I. Sabra, essendo le velocità dei raggi influenzate dalla struttura dei corpi, non esiste una velocità unica sempre associata a un dato raggio e quindi la proprietà responsabile (cioè la velocità) della produzione di un determinato colore non è originaria o innata ai raggi.86
Pur scardinandone diversi elementi costitutivi, Newton dunque non si è ancora del tutto svincolato dalla dottrina tradizionale della modificazione. Per Newton la luce è intrinsecamente una mescolanza di raggi aventi un diverso grado di velocità; questo grado di velocità però non è immutabile, poiché non è intrinseco al raggio in quanto tale. La struttura interna del corpo che riflette la luce può cambiare la velocità dei raggi, rallentandone o eliminandone addirittura il moto. Ciò sottintende, chiaramente, una dipendenza dal modello della modificazione, come d’altronde emerge dalla spiegazione dei colori dei corpi naturali che Newton fornisce nella nota 4:
il rosso, il giallo, etc. sono prodotti nei corpi fermando i raggi lentamente mossi senza impedire di molto il moto dei raggi più veloci; e l’azzurro, il verde e il porpora diminuendo il moto dei raggi più veloci e non di quelli più lenti. Oppure in alcuni corpi tutti questi colori possono sorgere diminuendo il moto di tutti i raggi in una minore o maggiore proporzione geometrica, poiché in tal caso ci sarà una differenza minore nei loro moti che non altrimenti.87
Come nel caso della rifrazione, i colori sono prodotti per effetto di una separazione, operata questa volta dalla riflessione, su una mescolanza di raggi diversamente veloci. Questa separazione però non lascia invariate le velocità associate ai raggi, poiché il moto dei raggi è rallentato dai corpi, facendo sì che il loro colore e il loro grado di rifrangibilità siano continuamente destinati a mutare, non appena interagiranno con corpi diversi.
Nelle annotazioni 5, 6 e 7, per spiegare il colore dei corpi naturali Newton formula diverse altre ipotesi meccanicistiche in cui immagina che i corpi abbiano pori interstiziali entro i quali si trovano le particelle e una materia sottile dotata di «potere elastico». I colori dei corpi dipenderebbero così dalla loro interazione con la luce, secondo le seguenti modalità: o mediante le «virtù elastiche» delle loro parti, oppure mediante la presenza nei loro pori di materia sottile o di strettoie in grado di ritardare o meno la velocità dei raggi di luce.88
Fin qui Newton ha fatto ricorso soltanto alla velocità quale parametro per la distinzione dei raggi colorati. Nella nota 8, tuttavia, egli elabora un modello di tipo geometrico che prende in considerazione anche la grandezza dei raggi di luce, in quanto «anche se due raggi fossero ugualmente veloci, tuttavia se un raggio fosse minore dell’altro, quel raggio avrà tanto minore effetto sul sensorio di quanto ha un moto minore degli altri».89 Newton intende fornire una spiegazione quantitativa della relazione tra le grandezze e le velocità dei raggi prima e dopo l’urto con i corpi. Partendo dal presupposto che i raggi hanno inizialmente la stessa velocità, ma sono composti di particelle diversamente grandi, egli tenta di spiegare il modo in cui i moti individuali sono alterati dopo che le particelle dei raggi entrano in collisione con quelle che si trovano nei pori dei corpi. In questo modo, la grandezza delle particelle diventa un ulteriore parametro, poiché influenza in maniera diversa i moti dei raggi da esse composti. Non è però soltanto la grandezza a produrre il colore, ma la grandezza e la velocità combinate, ossia la quantità di moto dei raggi.
Contrariamente a quanto è stato affermato,90 non c’è nulla nella nota 8 che suggerisca che le particelle di una particolare grandezza siano invariabilmente connesse a un dato colore. Tutte le ipotesi concepite da Newton sembrano invece confermare, direttamente o indirettamente, la tesi che i colori risultano essere una modificazione della luce, poiché la struttura dei corpi agisce in maniera determinante su qualsiasi proprietà dei raggi, potendone così alterare sia la velocità che la grandezza.
Le voci Sui colori delle Questioni filosofiche rappresentano una fase intermedia della ricerca di Newton. Egli ha già abbandonato la teoria tradizionale della modificazione, giacché concepisce la luce bianca come una mescolanza di colori; tuttavia reputa ancora che i colori si generino in seguito a una qualche modificazione subita dai raggi di luce nella loro interazione con i corpi. Parimenti, egli riconosce che alcuni colori siano più rifrangibili di altri, ma non che la luce diretta del Sole consista di raggi diversamente rifrangibili. Newton prende in considerazione la luce immediata del Sole soltanto indirettamente, poiché tutti i suoi esperimenti e le sue ipotesi sui colori riguardano soltanto la luce riflessa dai corpi e mai quella trasmessa direttamente dal Sole. Come si è già messo in evidenza, le Questioni sono dedicate ai colori dei corpi e non ai colori prismatici: esse infatti non contengono neanche un esperimento con la luce proiettata attraverso un prisma.
Due brevi annotazioni tuttavia suggeriscono chiaramente che già nelle Questioni Newton abbia, quanto meno, iniziato ad affrontare l’argomento relativo ai colori prismatici. Riportando sommariamente i risultati che Boyle ha ottenuto mediante un esperimento in cui ha sovrapposto un’«iride prismatica» a un’altra,91 nella nota 12.bis egli conclude: «si dovrebbe provare quali colori produrrebbe la mescolanza di colori che cadono da due prismi».92 E nel memorandum con cui si apre la seconda voce Sui colori fa questa previsione: «prova se due prismi, l’uno che proietta l’azzurro sul rosso proiettato dall’altro, non producano un bianco».93
Per realizzare questo esperimento sono necessari però due prismi. E Newton, a questa data, con ogni probabilità, ne possiede soltanto uno, come dimostra il fatto che tutti gli esperimenti delle Questioni filosofiche contemplano l’impiego di un solo prisma. Non è da escludere pertanto che egli, date le circostanze, si sia limitato a formulare una previsione che, una volta verificata, avrebbe probabilmente consentito di decidere se la sua ipotesi del bianco come una mescolanza di colori fosse fondata o meno.
Quando nel 1665 diventa Bachelor of Arts,94 Newton ha già acquisito, attraverso un personale programma di ricerca che esula dal curriculum universitario ufficiale, una notevole padronanza dell’ottica contemporanea, grazie soprattutto a un’assimilazione critica delle opere di Descartes e Boyle. Sempre nel corso del 1665 — allorché le voci Sui colori delle Questioni filosofiche sono ormai state redatte — egli legge anche la Micrographia di Hooke, pubblicata nel gennaio di quell’anno, venendo così a conoscenza di un’altra importante versione meccanicistica della teoria della modificazione. La reazione di Newton alle dottrine di Hooke, affidata a delle annotazioni manoscritte,95 è prevalentemente negativa.
A rendere poco plausibile la teoria di Hooke, secondo Newton, è la sua inadeguatezza a spiegare la regolarità dei fenomeni luminosi, soprattutto la propagazione in linea retta della luce. Se la luce, come ha sostenuto Hooke,96 è un impulso, perché allora, osserva Newton, essa «non può deviare da linee rette come i suoni»?97 Inoltre, se i colori si generano da un’alterazione o perturbazione degli impulsi della luce provocata dal mezzo rifrangente, essi dovrebbero mostrare un alto grado di instabilità; e rimarrebbe comunque poco chiaro come, nel caso per esempio della produzione dell’azzurro, un impulso debole possa essere seguito da uno più forte senza esserne assorbito. Si chiede infatti Newton: «come può il primo impulso debole procedere di pari passo con l’impulso successivo più forte ed essere poi più debole a sufficienza»?98
Le ricerche sui colori di Newton nel periodo compreso tra il 1664 e il 1665 possono essere compendiate in questi termini: assimilazione dei principali modelli esplicativi sulla genesi dei colori del XVII secolo; rifiuto sia delle teorie tradizionali della modificazione che di quelle più innovative di Descartes, Boyle e Hooke; ipotesi che la luce bianca sia una mescolanza di colori; radicale trasformazione della relazione tra luce e colore; scoperta della diversa rifrangibilità dei colori.
Questi fattori però, come si è sottolineato, non sfociano in un definitivo abbandono del modello della modificazione. Fin qui, pertanto, la sua nuova teoria dei colori, secondo cui i singoli raggi di luce sono immutabili nelle loro proprietà e manifestano sempre lo stesso grado specifico di rifrangibilità (ossia lo stesso colore), non è stata ancora formulata.
Si è detto che l’ipotesi secondo cui la luce bianca è una mescolanza di raggi diversamente colorati implica la previsione che la sovrapposizione dei colori prismatici produca il bianco. E si è anche accennato che Newton, nelle Questioni filosofiche, non ha realizzato l’esperimento perché, molto probabilmente, non possiede un secondo prisma. Sebbene sui tempi e sulle modalità attraverso cui Newton è riuscito a procurarsi i prismi esistano testimonianze discordanti, che hanno suscitato interpretazioni non meno discordanti,99 i manoscritti esistenti consentono tuttavia di ricostruire gli eventi con un sufficiente grado di plausibilità.
Newton inizia la Nuova teoria sulla luce e i colori del 1672 con una «narrazione storica», che rappresenta l’unica descrizione autobiografica della sua scoperta:
[...] all’inizio dell’anno 1666 (epoca in cui mi dedicavo alla molatura di vetri ottici di figure diverse da quella sferica) mi procurai un prisma di vetro triangolare per verificare con esso i famosi fenomeni dei colori. E avendo, a questo scopo, oscurata la mia camera e praticato un piccolo foro nelle mie imposte, per far entrare una quantità appropriata di luce del Sole, collocai il mio prisma al suo ingresso, dimodoché potesse a causa di ciò essere rifratta verso la parete opposta. Al principio, fu un divertimento molto piacevole osservare i colori vividi e intensi prodotti in questo modo, ma dopo un po’, applicandomi a considerarli con maggiore circospezione, rimasi sorpreso di vederli in una forma oblunga, poiché, secondo le leggi ammesse della rifrazione, mi aspettavo che dovessero avere una forma circolare. [...] Confrontando la lunghezza di questo spettro colorato con la sua larghezza, la trovai circa cinque volte più grande; una differenza così strana che mi spinse, con curiosità sempre crescente, a esaminare da cosa potesse derivare.100
In questo passo e nel prosieguo Newton intende far credere al lettore che ha scoperto la propria teoria dei colori mediante l’esperimento dello spettro allungato, nel periodo in cui è impegnato a molare lenti non sferiche. Dopo aver scartato altre cause possibili, Newton descrive l’esperimento con due prismi, da lui denominato experimentum crucis, che, stando al suo racconto, lo avrebbe portato direttamente a concludere che «la Luce consiste di raggi diversamente rifrangibili».101
Il resoconto autobiografico di Newton è indubbiamente una ricostruzione storica semplificata e idealizzata che, grazie a un’accorta strategia retorica, mira a far apparire la propria scoperta come una rigorosa induzione baconiana,102 condensando consapevolmente, in un contesto narrativo lineare, un lungo processo di ricerca sui colori — caratterizzato da esperimenti, ma anche da varie ipotesi teoriche — iniziato con le voci Sui colori delle Questioni filosofiche. Eppure, nelle sue parti essenziali, il resoconto newtoniano non è in completo disaccordo con quanto si può ricostruire attraverso i documenti disponibili.
Il taccuino di annotazioni matematiche Sulle rifrazioni, la maggior parte del quale tratta della molatura di lenti iperboliche e paraboliche e che è stato redatto prima che abbia formulato la nuova teoria sui colori, rappresenta il tentativo di Newton di molare lenti non sferiche intorno alla fine del 1665 o agli inizi del 1666.103 Benché esso sia soltanto uno studio teorico, che non ha consentito a Newton di realizzare alcuna lente del genere, la sua indicazione che abbia scoperto la teoria mentre si sta dedicando alla molatura delle lenti non è così infondata. È plausibile infatti che, nel tentativo di eliminare l’aberrazione di sfericità delle lenti, la sua attenzione sia caduta su un’altra distorsione ben più rilevante, l’aberrazione cromatica, e soltanto a quel punto il significato della sua prima scoperta della diversa rifrangibilità dei colori gli è apparso in tutta la sua portata. Se, avrà forse pensato Newton, la luce immediata del Sole, prima che sia riflessa da qualche corpo colorato, consiste di raggi di diverso colore e di diverso grado di rifrangibilità, allora ogni colore dovrebbe essere inclinato o rifratto in misura differente. Per verificare questa ipotesi, egli riferisce di aver effettuato, «all’inizio dell’anno 1666», un esperimento in cui fa passare la luce solare attraverso un prisma per vedere se lo spettro sia allungato anziché circolare. Ebbene, che questo esperimento Newton lo realizzi effettivamente intorno a quella data è attestato, come si vedrà, da un altro manoscritto dedicato ai colori.104
In un’annotazione sugli anni della grande peste (1665-1666), scritta cinquant’anni dopo questi drammatici eventi, in occasione della sgradevole controversia sul calcolo infinitesimale con Leibniz (1646-1716), 105 Newton afferma, come già aveva fatto nella «narrazione storica» premessa alla Nuova teoria sulla luce e i colori, che nel gennaio 1666 possiede «la Teoria dei colori».106 Nella lettera a Oldenburg del 10 gennaio 1676, tuttavia, egli dichiara che nell’effettuare l’esperimento dello spettro allungato segue il medesimo metodo «da più» (above) di sette anni;107 il che sembrerebbe spostare la datazione di questo esperimento, diversamente da quanto indicato nelle altre due testimonianze, al 1668, sebbene il termine above sottenda comunque un margine di indeterminatezza che lascia la questione impregiudicata.108
La conversazione del 31 agosto 1726 tra Newton e John Conduitt, suo nipote acquisito e confidente negli anni della vecchiaia, fornisce un’ulteriore versione dei fatti:
Nell’agosto 1665 Sir I.[saac], che allora non aveva ancora ventiquattro anni, comperò alla fiera di Stourbridge un prisma per verificare alcuni esperimenti relativi al libro dei colori di Descartes; quando giunse a casa, praticò un foro nella sua imposta, oscurò la stanza e collocò il suo prisma tra quel foro e la parete; e scoprì che invece di un cerchio la luce aveva questa forma, con i lati retti e le estremità circolari, etc. Il che lo convinse immediatamente che Descartes aveva torto e formulò così la propria ipotesi sui colori, benché non potesse dimostrarla per mancanza di un altro prisma, per il quale aspettò fino alla successiva fiera di Stourbridge e a quel punto dimostrò ciò che prima aveva scoperto.109
La tarda testimonianza di Conduitt, pur presentando diverse inesattezze — Newton lascia Cambridge prima che si svolga la fiera di Stourbridge, peraltro annullata, come quella dell’anno successivo, per l’imperversare della peste —110 e una ricostruzione manifestamente celebrativa, contiene comunque due informazioni che si accordano con quanto risulta dalle Questioni filosofiche, vale a dire che Newton all’epoca sta leggendo Descartes e possiede soltanto un prisma. Essa inoltre, in linea con quanto viene detto nel saggio del 1672 e nell’annotazione sugli anni della peste, conferma che Newton nel 1666 ha già formulato, con l’ausilio di un altro prisma, la sua nuova teoria.
Le testimonianze appena riferite non fanno alcun cenno agli esperimenti sui colori effettuati da Newton nelle Questioni filosofiche, concentrandosi invece su quello dello spettro allungato. E concordano tutte — con l’eccezione della lettera a Oldenburg, che però rimane vaga — nell’assegnare al 1666 la data in cui Newton ha enunciato la nuova teoria dei colori. A quella data pertanto egli dovrebbe necessariamente poter disporre di due prismi. Westfall suggerisce infatti che, malgrado il ricordo della fiera di Stourbridge sia errato, Newton avrebbe potuto procurarsi i prismi alla fiera di mezza estate, il primo in quella del 1665 e il secondo in quella dell’anno successivo, essendo entrambe scampate alla peste.111 Una nota di Newton contenuta nel Fitzwilliam Notebook attesta tuttavia che egli ha comperato in un periodo imprecisato, ma successivo al 12 febbraio 1668, tre prismi.112
Quale che sia il modo in cui Newton è riuscito a procurarsi i primi, un fatto è certo: in un periodo compreso tra il 1666 e il 1669, ma probabilmente più vicino alla prima data che alla seconda, egli riordina gli esperimenti realizzati nelle voci Sui colori delle Questioni in un nuovo saggio, anch’esso intitolato Sui colori,113 in cui presenta la nuova teoria dei colori nella forma di una storia sperimentale.114 Il manoscritto infatti non fa appello ad alcuna esplicita ipotesi teorica, limitandosi a dispiegare una serie interconnessa di esperimenti numerati, che richiedono l’uso contemporaneo anche di tre prismi, dai quali tuttavia emergono chiaramente sia l’abbandono definitivo del modello della modificazione sia gli elementi fondamentali della teoria definitiva.
Il primo esperimento con il prisma, l’esperimento 6 nella numerazione di Newton, è quello relativo al filo bicolore, per metà azzurro e per metà rosso, già registrato nelle Questioni filosofiche.115 La diversa rifrangibilità dei colori azzurro e rosso — o, meglio, dei «raggi che producono l’apparenza di tali colori» — 116 è adesso però ricavata per via sperimentale, conferendole così un’evidenza meramente fattuale, senza cioè far ricorso a ipotesi meccanicistiche, come quella, assunta nelle Questioni,117’ del differente grado di velocità dei raggi. E sulla base di questa evidenza, Newton interpreta anche l’esperimento successivo dello spettro allungato, quello dei «famosi fenomeni dei colori», come una conferma che i raggi sono rifratti diversamente, giacché essi non si raccolgono sulla parete in una forma circolare.
Contrariamente a quanto si può desumere dal saggio del 1672 e dalla conversazione con Conduitt del 1726, questo non è l’esperimento che ha portato Newton a formulare una nuova teoria sui colori, ma una conferma dell’ipotesi affacciata nelle Questioni filosofiche. È certo tuttavia, di là dalla centralità assegnata retrospettivamente a tale osservazione, che il manoscritto Sui colori documenta che Newton ha effettivamente eseguito l’esperimento di proiezione della luce attraverso il prisma proprio intorno al 1666; e ciò concorda pienamente con quello che viene riferito da entrambe queste testimonianze.
Abbandonate quindi le ipotesi meccanicistiche delle Questioni, Newton prende ora in considerazione soltanto l’evidenza fattuale che non tutti i raggi sono rifratti allo stesso modo, e progetta un altro esperimento, l’esperimento 7, per verificare la previsione sottesa a quella stessa evidenza ottenuta dall’esperimento precedente del filo bicolore. In base alla legge di rifrazione, i raggi di luce che arrivano in una camera oscura attraverso un foro rotondo e vengono poi rifratti da un prisma collocato simmetricamente — in modo tale cioè che i raggi siano rifratti all’ingresso tanto quanto all’uscita — proiettano sulla parete opposta i colori. E questi colori, coerentemente con l’ammessa legge di rifrazione, dovrebbero produrre sulla parete un’immagine circolare, «se tutti i raggi fossero rifratti ugualmente, ma la loro forma — osserva Newton — era oblunga delimitata ai loro lati [...] da linee rette».118
Nella Nuova teoria sulla luce e i colori Newton affermerà di essere rimasto «sorpreso» nel vedere la forma oblunga dello spettro.119 Ma in realtà l’osservazione, lungi dall’essere fortuita, è un risultato del tutto previsto, in quanto strettamente connesso alla conclusione tratta dall’esperimento 6. Partendo infatti dall’evidenza fattuale che i raggi sono rifratti con angoli diversi, allora quello che ci si deve aspettare quando essi, arrivando da un foro rotondo, sono proiettati attraverso un prisma è proprio la formazione di uno spettro allungato. In altri termini, dal momento che, secondo l’ammessa legge di rifrazione, a raggi con diversi angoli di incidenza corrispondono raggi con diversi angoli di rifrazione, perché la forma allungata dell’immagine dovrebbe essere un prodotto inatteso della legge di rifrazione? Nell’esperimento descritto da Newton però il prisma, come si è visto, viene collocato simmetricamente, in modo tale cioè che i raggi siano «ugualmente rifratti» su entrambe le sue facce «nell’entrare e nell’uscire». 120 La scelta ha una ragione ben precisa: è soltanto per questa determinata posizione del prisma che, «se tutti i raggi fossero rifratti ugualmente», la forma dello spettro, in base all’ammessa legge di rifrazione, dovrebbe essere circolare anziché oblunga. Newton quindi si preoccupa di collocare il prisma precisamente in quella posizione perché sa che essa potrebbe far emergere l’uniformità di rifrazione dei raggi di luce, e sa anche che è l’unica situazione in cui l’allungamento dell’immagine non è previsto. L’intenzione è confermata dal fatto che Newton impone all’esperimento due condizioni predeterminate.
A metà del XVII secolo, i «famosi fenomeni dei colori», come si è detto, sono ormai stati ampiamente descritti da ogni studioso di ottica.121 Nessuno però ha mai ottenuto lo spettro allungato riferito da Newton. Nell’eseguire l’esperimento di proiezione della luce solare, questi autori hanno infatti osservato l’immagine da una distanza troppo ravvicinata,122 e in questo modo, poiché il prisma si limita soltanto a curvare o deviare i raggi di luce, senza cioè disperderli, l’immagine del Sole dopo la rifrazione appare altrettanto circolare di prima. Newton invece proietta l’immagine su una parete distante dal prisma «260 pollici» (6,70 m circa).123 Mentre quindi praticamente tutti i suoi predecessori, osservando la proiezione prismatica da una distanza assai limitata, hanno visto un’immagine circolare bianca con i colori soltanto alle estremità, egli vede un’immagine allungata e pienamente colorata del Sole. Nel saggio del 1672 Newton chiamerà questa immagine con il termine tecnico di spettro,124 un termine che da lì in poi è entrato nel corrente uso scientifico.
La distanza di proiezione della luce sulla parete è la prima condizione che Newton impone all’esperimento 7. Poiché però in questo esperimento il Sole copre un angolo visuale di 31 minuti, i raggi incidenti sul prisma non sono paralleli e cadono quindi sul prisma con angoli di incidenza sensibilmente diversi. Tale circostanza avrebbe senz’altro potuto rappresentare una seria obiezione contro l’esperimento, in quanto implica che l’immagine sarebbe dovuta apparire allungata anche secondo l’ammessa legge di rifrazione. Per prevenire questo tipo di obiezioni e per fugare ogni dubbio che la forma dell’immagine sia interpretabile come l’effetto di una dilatazione proiettiva causata dai diversi angoli di incidenza dei raggi di luce sul prisma, Newton ripete l’esperimento, imponendogli un’altra condizione con la quale limita le differenze di inclinazione dei raggi incidenti.
Nell’esperimento 8, Newton mantiene il prisma nella stessa posizione di prima, e colloca tra il foro dell’imposta e il prisma un’assicella con un piccolo foro del medesimo diametro di quello dell’imposta per assottigliare i raggi incidenti di luce. In questo modo, egli ha la certezza che tutti i raggi che attraversano entrambi questi fori arriveranno sulla superficie del prisma «quasi paralleli», come dimostra il fatto che l’angolo massimo di incidenza è adesso «meno di 7 minuti, mentre nell’esperimento precedente alcuni raggi erano inclinati 31 minuti».125 Poiché il prisma è in posizione simmetrica, i raggi incidenti lo attraverseranno con una deviazione minima e saranno quindi altrettanto paralleli anche dopo la rifrazione. Ciò comporta che gli angoli di incidenza sulla prima faccia del prisma, dove i raggi entrano, saranno uguali agli angoli di rifrazione sulla seconda faccia, dove essi lo lasciano. E di conseguenza, anche le rifrazioni su entrambe le facce del prisma, vale a dire dei raggi incidenti e di quelli emergenti, saranno uguali.
Questa è precisamente la condizione necessaria per quella data posizione del prisma in cui la forma dell’immagine, in base all’ammessa legge di rifrazione, dovrebbe essere circolare e non oblunga, se tutti i raggi subissero la stessa rifrazione. Quanto emerge dall’esperimento 8, tuttavia, contraddice palesemente questa previsione. Sebbene infatti il restringimento dei raggi di luce a opera del foro praticato nell’assicella determini una riduzione proporzionale di tutte le dimensioni dello spettro, nondimeno la sua forma allungata, anziché essere diminuita, come ci si potrebbe aspettare, essendo adesso tutti i raggi quasi paralleli, risulta ancor più accentuata. Tant’è, osserva Newton, che
i raggi rossi e azzurri che erano paralleli prima della rifrazione, si possono stimare generalmente inclinati l’uno rispetto all’altro dopo la rifrazione (un po’ più un po’ meno) di 34 minuti.126
Newton quindi impone all’esperimento 8 quelle condizioni — la distanza di proiezione e la posizione simmetrica del prisma — per verificare due previsioni opposte: quella ricavata dall’ammessa legge di rifrazione, per cui, se la rifrazione dei raggi fosse stata uguale, lo spettro avrebbe dovuto disporsi in forma circolare, e quella ricavata dall’esperimento del filo bicolore, per cui, essendo i raggi di luce diversamente rifratti, lo spettro dovrebbe essere allungato. Il risultato è che, anche quando il prisma viene collocato in quella determinata posizione in cui l’allungamento dello spettro non è previsto, la sua forma appare ugualmente oblunga. E ciò, in base all’ammessa legge di rifrazione, non sarebbe stato possibile, se tutti i raggi, cadendo sul prisma con lo stesso angolo di incidenza, avessero subito la medesima rifrazione. Ma Newton, ovviamente, sa che i raggi non avrebbero subito la medesima rifrazione, perché l’esperimento 6 del filo bicolore ha già attestato che essi sono rifratti in modo diverso; la diversa rifrazione dei raggi su entrambe le facce del prisma è un aspetto attentamente progettato dell’esperimento 8. La forma allungata dello spettro è stata tutt’altro fuorché un’osservazione casuale.
L’esperimento dello spettro allungato consente a Newton di estendere la diversa rifrangibilità dei raggi non solo alla luce proveniente dai corpi, come accade nelle Questioni filosofiche, ma anche alla luce diretta del Sole. Esso tuttavia non stabilisce alcuna connessione tra il fatto che la luce del Sole consiste di raggi con diversi gradi di rifrangibilità e quello che i colori specifici sono immutabilmente presenti nei suoi singoli raggi. L’immutabilità dei colori appare comunque dagli esperimenti successivi, che sono effettuati seguendo le medesime modalità dei precedenti.
Nell’esperimento 10, Newton dipinge «su un pezzo di carta un bel colore azzurro e rosso nessuno dei quali era molto più luminoso dell’altro»127 e proietta su di esso, dapprima un azzurro prismatico e poi un rosso. La proiezione dei colori prismatici sul pezzo di carta diversamente colorato fa vedere che se l’azzurro prismatico cadeva sui colori entrambi apparivano perfettamente azzurri, ma la parte dipinta di rosso produceva l’azzurro molto più debole e oscuro, mentre se il rosso prismatico cadeva sui colori entrambi apparivano perfettamente rossi ma la parte dipinta d’azzurro produceva il rosso molto più debole.128
La superficie del pezzo di carta quindi riflette i colori prismatici, ma non li modifica, poiché i colori della superficie appaiono sempre del colore dei raggi che vengono proiettati su di essi. La permanenza dei colori prismatici riflessi da una superficie diversamente colorata dimostra così che essi non possono essere alterati, né tantomeno generati, dall’azione dei corpi riflettenti. Newton osserva anche che tanto più puro è il rosso della superficie, tanto meno è visibile con raggi azzurri e che, viceversa, tanto più puro è l’azzurro, tanto meno è visibile con raggi rossi.129 Questa osservazione racchiude sia l’idea che i raggi sono immutabili, sia quella che i corpi sono atti a riflettere più alcuni raggi di altri, apparendo pertanto colorati del colore che riflettono maggiormente. L’abbandono del modello della modificazione, ancora operante nella spiegazione dei colori dei corpi fornita nelle Questioni filosofiche,130 è ormai definitivo.
L’evidenza fattuale che la riflessione dei colori prismatici non modifica i colori specifici fa acquisire all’esperimento 6 un valore ancor più rilevante, poiché implica che la causa della diversa rifrazione dei raggi di luce non è imputabile ad alcuna proprietà acquisita durante la riflessione. Di conseguenza, una seconda rifrazione dei colori prismatici dovrebbe produrre sia un’ulteriore diversa rifrazione dei raggi colorati sia la conservazione dei colori specifici.131 Newton affida questa verifica all’esperimento 44-45, che rappresenta la versione primitiva di quello che poi diventerà il celebre experimentum crucis del saggio del 1672:
44. Rifrangendo i raggi attraverso un prisma in una camera oscura (come nel settimo esperimento) e tenendo un altro prisma a circa 5 o 6 iarde dal primo per rifrangere di nuovo i raggi, ho trovato, in primo luogo, che i raggi azzurri subiscono una rifrazione maggiore dal secondo prisma rispetto ai raggi rossi;
45. e, in secondo luogo, che i raggi puramente rossi rifratti dal secondo prisma non producevano altri colori tranne il rosso e quelli puramente azzurri nessun altro colore tranne l’azzurro.132
La conclusione che si trae dalla rifrazione della luce rifratta è chiara: tutti i raggi azzurri e rossi sono rifratti allo stesso modo da qualsiasi prisma. Pertanto, come il prisma rifrange in modo diverso i raggi riflessi, altrettanto fa con i raggi rifratti. E proprio come la riflessione dei raggi puramente azzurri o rossi non produce altro colore che l’azzurro o il rosso, come risulta dall’esperimento 10, altrettanto accade con la loro rifrazione. Sebbene questi esperimenti suggeriscano inoltre che il grado di rifrazione corrisponde ai diversi colori e viceversa, Newton tuttavia, nel saggio Sui colori, non rende esplicita questa deduzione.133
Gli esperimenti fin qui analizzati hanno per oggetto esclusivamente la scomposizione della luce. Essi riguardano infatti la rifrazione della luce riflessa, la proiezione della luce diretta del Sole mediante il prisma, la riflessione della luce rifratta e, infine, la rifrazione della luce rifratta. Questa ricca articolazione sperimentale fa emergere due risultati di estremo rilievo: anzitutto, che la luce immediata del Sole consiste di raggi colorati diversamente rifrangibili e, in secondo luogo, che tali raggi sono dotati di proprietà immutabili. Stabilendo che i colori sono il prodotto di una scomposizione della luce bianca e non di una sua modificazione, Newton scopre così una nuova e inattesa proprietà della luce, la sua eterogeneità. Ma se la scomposizione rivela che la luce solare è una mescolanza eterogenea entro cui i raggi che producono i diversi colori sono immutabili, ricomponendo sperimentalmente questi colori, dovrebbe allora risultare possibile ricostituire la luce bianca originaria. Occorre, in altre parole, accertare se la previsione fatta nel memorandum delle Questioni filosofiche134 sia corretta o meno.
Nell’esperimento 46, Newton osserva gli spettri congiunti di tre prismi (A, B, C), disposti in modo tale che « il colore rosso del prisma B cada sul colore verde o giallo del prisma A e il colore rosso del prisma C cada sul colore verde o giallo del prisma B», proiettandosi infine su uno schermo. Il rosso del prisma A e l’azzurro del prisma C appariranno rispettivamente alle due estremità dello schermo, ma al centro «dove i rossi, i gialli, i verdi, gli azzurri e i porpora dei diversi prismi sono mescolati insieme appare un bianco».135 Il medesimo risultato viene ottenuto con un altro ingegnoso esperimento, l’esperimento 47, che è una semplificazione del precedente. Newton impiega adesso soltanto un prisma, alla cui faccia attacca un foglio di carta con parecchie fenditure parallele agli spigoli. Attraversando queste fenditure la luce solare raccolta su uno schermo posto in prossimità del prisma produce una linea colorata in corrispondenza di ogni fenditura. Ma se si allontana lo schermo, «fino a che le suddette linee colorate siano mescolate insieme, vi apparirà il bianco».136
Newton ha adesso un’ulteriore conferma che né la rifrazione né la riflessione possono modificare le proprietà intrinseche di un raggio di luce. I colori derivano unicamente dalla mescolanza eterogenea della luce bianca e, una volta separati, possono di nuovo essere ricomposti per formare la luce bianca originaria.
Questi ultimi esperimenti completano così un percorso di ricerca avviato, in un primo momento, con la scomposizione della luce attraverso l’esperimento delle due superfici riflettenti e, in un secondo momento, con la proiezione della luce diretta del Sole mediante il prisma. Durante questo percorso il fine delle indagini di Newton si delinea in maniera sempre più chiara e mirata, come attesta l’estrema compattezza e consequenzialità degli esperimenti effettuati intorno al 1666 e riportati nel saggio Sui colori. Tale saggio rappresenta pertanto un vero e proprio spartiacque nelle ricerche sulla luce e i colori, non solo perché segna l’abbandono definitivo della teoria della modificazione, ma soprattutto perché, pur senza enunciarli esplicitamente, esso contiene già molti degli elementi che, non appena sistematizzati, costituiranno il nucleo fondamentale della teoria definitiva.
Il saggio Sui colori è l’unica testimonianza relativa all’elaborazione di una nuova teoria dei colori nel periodo compreso tra il 1666 e il 1670. Le ricerche di ottica geometrica che Newton compie nel medesimo periodo sono invece meglio documentate. In seguito alle acquisizioni riportate nel saggio Sui colori, nella parte finale del taccuino Sulle rifrazioni (risalente alla fine del 1665 o agli inizi del 1666),137 non più tardi del 1668,138 Newton aggiunge alcune annotazioni, una delle quali mostra chiaramente che egli sta cercando di progettare una lente acromatica composta,139 in palese contraddizione quindi con quanto sosterrà anni dopo nell’Ottica, dove si afferma appunto che una tale lente sia impossibile da costruire. Tra le altre cose, Newton inserisce anche una tabella delle rifrazioni e della dispersione per il vetro, il cristallo e l’acqua, nonché alcuni calcoli in cui determina l’aberrazione sferica di una lente piano-convessa. Nello stesso periodo, s’imbatte nell’Optica promota (1663) di James Gregory (1638-1675), come riconoscerà egli stesso in una lettera a Oldenburg del 4 maggio 1672,140 in cui il matematico scozzese fornisce il modello teorico del telescopio a riflessione, trattando anche, più in generale, delle proprietà delle immagini degli specchi e delle lenti.
Prima quindi di essere nominato, nell’autunno 1669, professore lucasiano di matematica,141 Newton è diventato notevolmente versato nell’ottica geometrica. Non è un caso infatti che Isaac Barrow, di cui Newton probabilmente frequenta i corsi sia nel 1667 che nel 1668, gli affidi nel 1669 la correzione delle bozze delle sue lezioni di ottica geometrica, che appariranno quello stesso anno, elogiandone poi, nell’introduzione all’opera, le capacità in questo campo.142 Newton non si limita a correggere semplicemente le bozze, ma suggerisce costruzioni geometriche alternative per alcuni problemi particolari, suggerimenti che Barrow accoglie, riconoscendogliene la paternità.143
Ora, sebbene gli interessi di Newton in questo periodo riguardino anche la matematica144 e l’alchimia, 145 è innegabile che a partire dal 1668, poco prima cioè di succedere a Barrow sulla cattedra lucasiana di matematica, le sue ricerche si focalizzino prevalentemente sull’ottica. Ciò risulta confermato in particolare da due circostanze ben precise. Anzitutto dalla più antica lettera di Newton giunta fino a noi, datata 23 febbraio 1669. In questa lettera, in cui descrive il suo telescopio a riflessione, egli accenna infatti, pur indirettamente, alla teoria dei colori, affermando addirittura che la costruzione di quel dispositivo è la «conseguenza necessaria di alcuni esperimenti» da lui effettuati sulla natura della luce.146 E da un fatto ancor più significativo: per inaugurare il suo corso di lezioni, Newton, seguendo la tradizione del suo predecessore, sceglie come argomento proprio l’ottica, cogliendo così l’occasione per elaborare in forma sistematica le riflessioni sulla luce e i colori sviluppate nel corso dei precedenti cinque anni.
In base agli statuti, al professore lucasiano è richiesto di fare una lezione di circa un’ora ogni settimana, per tre trimestri universitari, e di depositare annualmente presso la biblioteca universitaria il testo di non più di dieci di tali lezioni per il pubblico uso.147 Newton tiene il corso sull’ottica tra il 1670 e il 1672, ma adempirà a questa regola solo il 21 ottobre 1674, quando consegnerà alla biblioteca universitaria di Cambridge le proprie Lezioni di ottica scritte in latino, divise in due parti, rispettivamente di quindici e di sedici lezioni ciascuna.148 Del manoscritto di queste lezioni saranno fatte diverse trascrizioni, una delle quali, dovuta a David Gregory (1659-1708), costituirà la base dell’editio princeps del 1729.149
Esiste però un’altra versione delle Lezioni di ottica, quella conservata dallo stesso Newton, molto più breve rispetto a quella depositata nel 1674, che consta soltanto di diciotto lezioni continue.150 Questo manoscritto è senza alcun dubbio la versione originaria, dato che tutti i cambiamenti e le numerose aggiunte in essa introdotti risultano incorporati nella versione consegnata alla biblioteca di Cambridge, che è quindi, sostanzialmente, una versione allargata e riorganizzata di quella originaria. Le due versioni, tuttavia, non si differenziano soltanto per il fatto che la seconda è più ampia di circa il quarantacinque percento, ma anche in merito alle date e ai contenuti. Se infatti, in base a quanto riportato nelle annotazioni a margine, la prima lezione di entrambe le versioni sarebbe stata tenuta nel gennaio 1670, nella versione originaria la lezione nona è datata luglio 1670, mentre nella seconda versione la medesima lezione viene datata ottobre 1670; e il contenuto della lezione nona della versione originaria non corrisponde affatto a quello della lezione nona della seconda versione.151
In presenza di due versioni così diverse, qual è delle due che corrisponde alle lezioni realmente svolte da Newton durante il suo corso? Sarebbe ingenuo credere che entrambe le versioni possano essere una testimonianza letterale dei suoi insegnamenti effettivi, poiché c’è una certa differenza tra le lezioni preparate per gli studenti e le revisioni ripulite pensate per un pubblico più ampio, come richiesto dagli statuti del professore lucasiano. Né si può ritenere che le Lezioni di ottica rimaste in possesso di Newton, essendo la versione originaria, siano necessariamente le lezioni lette agli studenti. Fatta eccezione per la lezione inaugurale, datata gennaio 1670, in nessuna delle due versioni le date possono essere considerate attendibili. Da un’analisi degli inchiostri, sembra infatti che le date della versione originaria non fossero inizialmente presenti nel manoscritto, ma siano state aggiunte in seguito, nell’autunno 1671, con lo stesso inchiostro scuro delle altre revisioni.152 Sembra inoltre che Newton abbia suddiviso il testo della seconda versione riveduta in lezioni e assegnato loro delle date in maniera del tutto arbitraria, per ottemperare alla regola che almeno dieci lezioni all’anno fossero state effettivamente depositate.153 Le due versioni delle Lezioni di ottica sono quindi, molto probabilmente, una sistemazione del materiale impiegato da Newton nel suo corso, indipendentemente cioè dall’effettivo svolgimento delle medesime lezioni. Poiché inoltre non sono state rinvenute altre testimonianze relative al corso di ottica di Newton, quali potrebbero essere per esempio le note di qualcuno dei suoi studenti, oltre che inutile, risulta difficile stabilire le date in cui le singole lezioni, sia dell’una che dell’altra versione, siano state realmente tenute.
La datazione delle due versioni si rivela invece di particolare rilievo, sia al fine di determinarne la reciproca relazione, sia soprattutto per comprendere quale sia il destino assegnato a esse da Newton. In una lettera del 30 aprile 1672, John Collins (1625-1683) scrive a Newton:
un po’ prima di Natale il reverendo dottor Barrow mi ha informato che eravate impegnato ad ampliare il metodo generale delle quadrature o delle serie infinite e a preparare 20 lezioni di diottrica.154
Siccome le «20 lezioni di diottrica», di cui parla Collins, concordano con buona approssimazione con le diciotto Lezioni di ottica della versione originaria, sembra che Newton stesse lavorando alla loro revisione per pubblicarle. Ciò risulta confermato dalla lettera che scrive a Oldenburg per Leibniz il 24 ottobre 1676 (la cosiddetta epistula posterior), in cui riferisce appunto che nel 1671 aveva «predisposto un piano per pubblicare un trattato sulla rifrazione della luce e sui colori» insieme a un altro sul metodo delle serie.155
È quindi abbastanza plausibile che la prima versione delle Lezioni di ottica sia stata completata intorno all’ottobre 1671, quando cioè Newton inizia la revisione del manoscritto in vista della pubblicazione. Insoddisfatto della versione originaria, probabilmente la mette da parte per iniziarne una nuova, poiché la interrompe bruscamente senza alcuna conclusione. Altrettanto plausibile è che questa revisione sia stata ultimata, per l’essenziale, agli inizi di febbraio 1672, prima della pubblicazione della Nuova teoria sulla luce e i colori, avvenuta il 19 febbraio di quell’anno.156 La priorità delle Lezioni di ottica rispetto a questo saggio è infatti documentata da una lettera a Oldenburg del 18 agosto 1676 dello stesso Newton:
prima che vi scrivessi la mia prima lettera sui colori [ossia la Nuova teoria sulla luce e i colori] mi ero preso parecchia cura nell’effettuare degli esperimenti su di essi e avevo scritto un Trattato su quell’argomento in cui avevo ampiamente annotato i principali esperimenti che avevo verificato.157
Sebbene nell’inverno 1671-1672 Newton lavori alla revisione delle proprie Lezioni di ottica per darle alle stampe, le dispute suscitate dalla prima esposizione pubblica della sua dottrina, la Nuova teoria sulla luce e i colori,158 lo convincono tuttavia ad abbandonare il «piano» iniziale. Così, il 25 maggio 1672 egli risponde alla precedente lettera di Collins, manifestandogli la sua amarezza e la decisione di non pubblicare le Lezioni di ottica:
la vostra gentilezza nei miei confronti anche nell’offrirvi di promuovere l’edizione delle mie Lezioni, di cui vi ha parlato il dr. Barrow, la reputo tra le più grandi, considerando le molteplici occupazioni in cui siete impegnato. Ma ho deciso ora altrimenti per esse, trovando già per quel poco uso che ho fatto della stampa, che non godrò della mia precedente libertà finché avrò a che fare con essa.159
Newton quindi destina la versione revisionata ed emendata delle Lezioni di ottica a un uso diverso, depositandola cioè nel 1674 alla biblioteca universitaria di Cambridge come testo delle sue lezioni lucasiane svolte tra il 1670 e il 1672, con rimaneggiamenti e aggiunte anche successive al 1672.160
Ora, di là dalle circostanze fin qui riferite, è innegabile che le due versioni delle Lezioni di ottica siano il primo tentativo di sistematizzare le sue ricerche di ottica e la più comprensiva e dettagliata spiegazione della sua nuova teoria dei colori che Newton avrebbe mai presentato, servendo, con la ricca rassegna di esperimenti, da fonte immediata per la stesura del saggio del 1672 e, circa vent’anni dopo, per quella del primo libro dell’Ottica.
Tuttavia, dal momento che alla versione consegnata nel 1674 vengono fatte aggiunte anche dopo il 1672, per seguire diacronicamente lo sviluppo delle ricerche di Newton risulta più opportuno prendere in considerazione il manoscritto rimasto in suo possesso, ossia la versione primitiva.
Le Lezioni di ottica si aprono con una polemica contro gli studiosi di ottica geometrica, i quali ritengono che l’aberrazione sferica sia l’unica fonte di errore nelle immagini formate dalle lenti, e che confidano pertanto di poter perfezionare i telescopi molando lenti secondo «la figura geometrica desiderata».161 Questa convinzione, secondo Newton, si basa su «una certa proprietà della luce che si riferisce alle rifrazioni», che suppone a sua volta, benché «tacitamente», «una certa ipotesi non ben fondata», l’idea cioè che la luce sia rifratta uniformemente. Gli sforzi in questa direzione però devono considerarsi «fatica inutile», poiché Newton ha scoperto nelle rifrazioni
una certa irregolarità che sconvolge ogni cosa, e non solo fa sì che le figure delle [sezioni] coniche [le lenti cioè con la forma generata da tali sezioni] non siano di molto superiori a quelle sferiche, ma anche che le sferiche siano molto meno buone di quanto sarebbero se la detta rifrazione fosse uniforme.162
La scoperta di cui sta parlando Newton è relativa al fatto che quell’irregolarità durante le rifrazioni deriva da una fino ad allora insospettata proprietà della luce, la sua eterogeneità. La luce non è semplice e omogenea, ma composta da diversi raggi aventi differenti gradi di rifrangibilità, ai quali corrispondono i vari colori. I raggi della luce infatti non sono, come tacitamente è stato supposto, ugualmente rifrangibili, poiché i raggi che generano il colore rosso vengono rifratti da un prisma o da una lente in misura minore di quelli che generano l’azzurro o il porpora.163 E la conseguenza necessaria di questa scoperta è, come si è già visto,164 l’impossibilità di costruire telescopi a rifrazione privi di aberrazione cromatica.165
Newton incomincia così la Lezione I con un’esposizione di quello che è l’elemento fondamentale della sua teoria: la scoperta, conseguita nel saggio Sui colori, che la luce solare consiste di raggi colorati diversamente rifrangibili. Per dimostrare questa scoperta egli ripropone l’esperimento dello spettro allungato descritto in quel saggio, che dalle Lezioni di ottica in poi Newton affermerà essere stato all’origine degli esperimenti successivi e quindi della sua nuova teoria.166
La prima cosa che Newton nota è il diverso rapporto tra la lunghezza e la larghezza dell’immagine solare proiettata attraverso il prisma sulla parete opposta. Misurando l’immagine egli constata infatti che tale rapporto è di quattro a uno, nel senso cioè che la lunghezza dell’immagine risulta quadrupla rispetto alla sua larghezza, «e anche di più».167 L’esperimento mostra inoltre un limite costante del rapporto lunghezza-larghezza dell’immagine proiettata, svelando una dispersione della luce in senso longitudinale così marcata da escludere che sia imputabile agli effetti accidentali del mezzo rifrangente. «E da ciò» conclude Newton «sembra essere dimostrato con certezza che dei raggi ugualmente incidenti alcuni subiscono una rifrazione maggiore di altri.»168
Per corroborare questa conclusione, Newton utilizza un argomento negativo, consistente nel supporre che raggi ugualmente incidenti attraversando il prisma siano rifratti uniformemente. In base all’ammessa legge di rifrazione, infatti,
se fosse vero il contrario [ossia se la rifrazione fosse uniforme], l’immagine del Sole di cui si è detto apparirebbe quasi circolare, e in una certa posizione del prisma si mostrerebbe ai sensi completamente circolare.169
Ma ciò, afferma Newton, urta contro ogni esperienza:
In qualunque posto infatti disposi il prisma, tuttavia non potei mai far sì che la lunghezza non fosse più che quadrupla della larghezza.170
Dalla costanza del rapporto lunghezza-larghezza dello spettro Newton ricava due risultati ben precisi: che il prisma è soltanto la causa strumentale della dispersione della luce, e che, di conseguenza, la causa reale risiede nella diversa rifrangibilità dei raggi che la compongono. Per stabilirlo con certezza bisogna però dimostrare che questa diversa rifrangibilità dei raggi sia un fenomeno costante e non contingente, cioè che la quantità di rifrazione di ogni singolo raggio è costante e dipende da una sua «disposizione» a essere rifratto in un determinato modo e non altrimenti, traducendosi così in una legge certa che esclude la contingenza del fenomeno. A questo scopo pertanto la conclusione, già ricavata, che la forma oblunga dello spettro è una conseguenza necessaria della natura della luce, non può essere affidata soltanto alla considerazione, del tutto negativa, che non è possibile osservare la forma circolare prevista dall’ammessa legge di rifrazione, poiché se l’irregolarità della rifrazione fosse contingente, si avrebbe ugualmente quell’impossibilità.
Per determinare con precisione che la costanza della dispersione della luce è l’effetto necessario della diversa rifrangibilità dei raggi, nella Lezione II Newton escogita un ingegnoso esperimento, poi ripreso in forma succinta nel saggio del 1672,171 in cui vengono utilizzati due prismi simili con i rispettivi lati paralleli. Prima però di spiegare i dati ottenuti, egli fa notare che la forma dell’immagine proiettata attraverso il prisma è «delimitata nel senso della sua lunghezza da linee rette, e nel senso della larghezza da due [...] semicerchi», 172 per cui
Se ora qualcuno obietta che nelle rifrazioni si dia invero un’irregolarità, ma che essa è contingente e non è sorta da una precedente disposizione dei raggi, né da alcuna legge certa, rispondo che la detta immagine del Sole, se diventasse oblunga mediante raggi rifratti in base a nessuna legge certa, non potrebbe essere delimitata distintamente da linee rette nella sua lunghezza.173
Che lo spettro risulti delimitato da linee rette nel senso della sua lunghezza suggerisce che si è già in presenza di leggi certe, sia dal punto di vista geometrico che fisico. La luce dispersa «per puro caso qua e là», ossia in maniera contingente, infatti non presenta mai linee e limiti così netti:
Ché anzi non dovrebbe essere affatto oblunga, ma la sua parte mediana e più luminosa dovrebbe apparire di forma circolare, e distinguersi con un limite sensibile dalla più debole luce erratica dispersa da ogni parte, proprio come appare il Sole quando è quasi oscurato dalle nuvole; o come si scorge la sua immagine, quando è fatta passare per una lastra di vetro delimitata da piani paralleli, e lievemente offuscata o con l’alito o con il fumo, in modo che la luce, mentre si rifrange, sia un po’ alterata174
Non è pensabile però, secondo Newton, che una stessa causa — un’irregolarità contingente nella dispersione della luce — possa produrre effetti talmente diversi e irriducibili, quali sono appunto quelli dello spettro prismatico e quelli della luce erratica. Per escludere dunque che la dispersione che si ottiene mediante il prisma e quella dovuta a effetti accidentali, come per esempio le lastre di vetro offuscate o appannate, abbiano la stessa causa, Newton introduce l’esperimento con i due prismi paralleli. Egli colloca un secondo prisma immediatamente dietro il primo, con il vertice rovesciato affinché la luce sia rifratta in direzione opposta. Se la forma oblunga dello spettro, ottenuta rifrangendo la luce con il primo prisma, fosse dovuta a un’irregolarità contingente dei suoi raggi, come quella che produce la «più debole luce erratica», il secondo prisma, raddoppiando la rifrazione, dovrebbe anche raddoppiare l’irregolarità dei raggi e accrescere le dimensioni dello spettro, rendendolo quindi molto più oblungo. L’esperimento invece attesta un risultato completamente diverso: lo spettro che emerge dai due prismi collocati con i lati rispettivamente paralleli appare regolarmente circolare, vale a dire come se i raggi di luce non li avessero affatto attraversati. E ciò esclude che l’irregolarità della rifrazione sia contingente: se due rifrazioni opposte si neutralizzano a vicenda, esse devono essere governate da una legge certa.175
L’esperimento dei due prismi paralleli dimostra quindi che la quantità di rifrazione di ogni singolo raggio è costante e che dipende da qualche precedente disposizione innata al medesimo raggio. In questo modo Newton scopre un’altra costante, ben più rigorosa di quella del rapporto lunghezza-larghezza dello spettro, che gli consente di individuare e distinguere ogni singolo raggio appartenente allo spettro con una misurazione matematica, il grado di rifrangibilità.176 L’affinità tra proprietà fisiche e proprietà matematiche riscontrata nello studio sperimentale della luce rende inoltre possibile sviluppare, secondo Newton, una nuova teoria dei colori più certa rispetto a quelle precedenti, perché costruita sull’uso congiunto dell’esperimento e della matematica.
Avendo spiegato la diversa rifrangibilità dei diversi raggi, nella Lezione III, dopo una vigorosa confutazione sia della teoria della modificazione aristotelica che di quelle più recenti,177 Newton presenta la sua nuova teoria in quattro proposizioni, che poi cercherà di dimostrare con diversi esperimenti, e che costituiranno il nucleo del saggio del 1672. Nelle prime due proposizioni egli afferma che tra grado di rifrangibilità e colore esiste una corrispondenza biunivoca, nel senso cioè che i diversi colori corrispondono a definiti gradi di rifrangibilità e viceversa. Nella terza proposizione sostiene la natura composita del bianco e di tutti gli altri colori; e nella quarta che i colori dei corpi naturali non sono generati da altro che da una certa disposizione tale per cui essi sono atti a riflettere alcuni raggi e ad assorbirne altri.178
Per giustificare la sua trattazione matematica dei colori Newton fa il seguente ragionamento:
la generazione dei colori contiene tanta geometria, e la loro conoscenza è confermata con tanta evidenza, che proprio grazie a essi potrei accingermi ad ampliare un poco i confini della matematica. Infatti, allo stesso modo che l’astronomia, la geografia, la navigazione, l’ottica e la meccanica sono ritenute scienze matematiche benché in esse si tratti di cose fisiche — cielo, terra, navi, luce e moto locale — così anche se i colori appartengono alla Fisica, tuttavia la loro scienza deve essere ritenuta matematica in quanto ricevono una spiegazione matematica. Anzi, poiché la scienza accurata di questi sembra essere tra le più difficili che un filosofo possa desiderare, spero, quasi ad esempio, di mostrare quanto la matematica valga in filosofia naturale e quindi di esortare i geometri ad accingersi a un più stretto esame della natura, e gli amanti della scienza naturale ad appropriarsi prima della geometria, affinché i primi non sprechino totalmente il loro tempo in speculazioni in alcun modo utili alla vita umana, e i secondi, a lungo impegnati con un metodo inadeguato, non perdano ogni loro speranza per sempre; ma affinché, filosofando i geometri ed esercitando la geometria i filosofi, otteniamo, invece di congetture e cose probabili, che si smerciano ovunque, una scienza della natura finalmente confermata con la più alta evidenza.179
Il riferimento è qui al carattere misto dell’ottica, così come di molte altre scienze matematiche che egli elenca (astronomia, geografia, navigazione e meccanica). In base a una divisione disciplinare di matrice aristotelica queste scienze sono dette «miste» in quanto, pur essendo il loro oggetto i fenomeni naturali ossia sensibili, le «cose fisiche» appunto, per la loro spiegazione esse adottano dimostrazioni di tipo matematico.180 Pur concedendo che i colori, in quanto oggetti fisici, appartengono alla fisica, Newton afferma che essi appartengono altrettanto alla matematica. Non solo quindi è legittimo fondare una scienza matematica dei colori, ma se scienze matematiche miste quali l’astronomia, la geografia, ecc., sono valide, ciò potrà essere esteso anche alla scienza dei colori. Poiché inoltre i colori presentano proprietà fisiche e matematiche che si implicano a vicenda, la loro indagine, secondo Newton, deve valere come esempio per mostrare quanta maggiore certezza possa essere ottenuta nella filosofia naturale con l’uso della matematica. Anzi, la fondazione di una scienza matematica dei colori deve essere inserita entro una più generale riforma della filosofia naturale, che comporta l’abolizione dei confini disciplinari tra fisica e matematica. Soltanto così infatti, secondo Newton, è possibile realizzare una scienza dei colori fondata sul rigore della dimostrazione matematica e sull’evidenza dell’esperimento.181
L’appello di Newton a riformare la filosofia naturale, affinché si possa avere una scienza nuova e più certa, ha come conseguenza il rifiuto della fisica ipotetica introdotta dalla filosofia meccanicistica. I principali filosofi meccanicisti del XVII secolo – Descartes, Gassendi e Hobbes — hanno sostenuto, diversamente dagli aristotelici, che è impossibile conoscere le intrinseche operazioni della natura e che la cosa migliore da fare consiste nel suggerire spiegazioni probabili o plausibili — ipotesi appunto — in grado di dar conto in qualche modo dei fenomeni. La fisica ipotetica ha infatti elaborato diversi modelli arbitrari basati su presunti meccanismi invisibili. Questo tipo di fisica però ha reso, secondo Newton, la filosofia naturale sterile e improduttiva. Rifacendosi quindi a una lunga tradizione matematica, che gli arriva attraverso la mediazione di Barrow, egli intende sostituire le spiegazioni probabili della fisica ipotetica alla Descartes con un nuovo tipo di certezza e verità in cui la descrizione della natura sia matematica e basata direttamente sul fenomeno, ossia sull’osservazione e l’esperimento.182
Per Newton esiste un’intima connessione tra l’evidenza dell’esperimento e la dimostrazione matematica. Egli crede fermamente che un approccio matematico porti a una maggiore certezza e che l’esperimento possa fornire il requisito dei fondamenti sicuri di qualsiasi scienza, e quindi anche di quella dei colori. E ritiene così che la sua teoria dei colori, combinando esperimento e matematica, sia una scienza dimostrativa unica, con le scoperte sperimentali che fungono da principi primi di quella scienza.
Avendo indicato su quali basi si fonda il suo ideale di scienza certa, Newton procede ora a dimostrare sperimentalmente le proposizioni attraverso cui ha delineato gli elementi fondamentali della sua teoria. In particolare, intende mostrare che i diversi colori sono diversamente rifrangibili.183
A tal fine Newton ricorre a una variazione dell’esperimento dei due prismi paralleli, collocando il secondo prisma trasversalmente e perpendicolarmente, incrociandolo cioè con il primo prisma. Lo spettro prodotto dalle rifrazioni di entrambi i prismi ha la medesima forma oblunga dello spettro prodotto soltanto dal primo, risultando tuttavia più inclinato rispetto a quest’ultimo. Dal momento che i raggi che corrispondono ai colori rosso e porpora sono ugualmente incidenti sul secondo prisma, se essi subissero la medesima rifrazione i due spettri dovrebbero essere paralleli. L’esperimento attesta invece che i due spettri non sono affatto paralleli e siccome i raggi purpurei più rifratti in lunghezza dal primo prisma sono anche più rifratti dal secondo prisma, tanto che lo spettro generato dai due prismi subisce una deviazione maggiore proprio nella sua estremità purpurea, «si deve necessariamente ammettere che i raggi che tendono verso l’estremità purpurea [...] sono più rifratti di quelli che tendono verso l’estremità rossa [...]».184
Il medesimo risultato viene conseguito con un altro esperimento, che è una variante di quello appena descritto, in cui i raggi rifratti dal primo prisma sono fatti passare attraverso un foglio di carta al cui centro è stato praticato un foro, in modo tale che essi cadano sul secondo prisma quasi con lo stesso angolo di incidenza. Facendo ruotare lentamente il primo prisma sul proprio asse, Newton è in grado di trasferire le due estremità dello spettro sul secondo prisma, dove, come nell’esperimento precedente, «i raggi che mostrano il porpora si rifrangono di più di quelli che mostrano il rosso».185 Questo esperimento rappresenta il modello di quello che nella Nuova teoria sulla luce e i colori diventerà l’experimentum crucis.
Dopo aver stabilito che i raggi che producono i vari colori sono diversamente rifrangibili, nella Lezione IV Newton intende mostrare quanto affermato nella terza proposizione, vale a dire che il bianco, in particolare la luce del Sole, è composto da tutti i colori mescolati insieme. La dimostrazione di questa proposizione è affidata a una serie di esperimenti, come quello della proiezione congiunta di più spettri, che ripropongono, sebbene in forma più sistematica e dettagliata, i risultati già ottenuti nel saggio Sui colori.186 Mentre la ricomposizione della luce bianca si rivela sperimentalmente agevole e non incontra alcuna difficoltà, ben diverso appare il compito che Newton assegna alla Lezione VI, di mostrare cioè che la luce diretta del Sole è composta dai raggi di tutti i colori «non solo quando esce dal prisma e non è ancora separata in quei colori, ma anche quando non ha ancora toccato il prisma e precedentemente a ogni rifrazione».187’ In questo caso infatti Newton è in grado di fornire soltanto prove indirette e, pur introducendo un argomento teorico apparentemente forte, tuttavia egli non riesce a darne una conferma sperimentale conclusiva.
L’argomento utilizzato si basa su un nuovo principio, il principio dell’immutabilità del colore, ed è così espresso: poiché i colori sono assolutamente immutabili e la luce solare mostra i colori dopo essere stata rifratta, ne segue necessariamente che quei colori sono innati alla luce solare prima della rifrazione, benché essi non siano ancora visibili.188 Stabilire però che i colori siano innati alla luce del Sole prima della rifrazione non è così ovvio come potrebbe apparire, perché non è semplice dimostrare l’immutabilità del colore per la luce diretta del Sole prima che essa sia separata nei diversi colori.
Agli inizi di febbraio del 1672, quando le Lezioni di ottica sono praticamente pronte per la stampa, Newton porta dunque a compimento un lungo e complesso lavoro di ricerca sulla luce e i colori avviato fin dagli anni in cui è ancora uno studente universitario. L’occasione fornita dal successo con cui, sul finire del 1671, viene accolto il suo telescopio a riflessione arriva così in un momento più che propizio.189 In possesso di un trattato in cui la teoria è formulata in ogni dettaglio ed è fiduciosamente considerata una scienza matematica certa, a Newton non sarà sembrato un compito troppo gravoso presentarne un resoconto conciso. La pubblicazione della sua nuova teoria avrebbe inoltre reso evidente come l’invenzione del telescopio a riflessione non fosse altro che l’esito logico e necessario della scoperta, ben più significativa, della natura eterogenea della luce. Da questo punto di vista, la Nuova teoria sulla luce e i colori avrebbe dovuto rappresentare un’anticipazione della sua dottrina, un modo cioè per sondare il terreno. Se la risposta fosse stata benevola, Newton avrebbe pubblicato la spiegazione completa fornita nelle Lezioni di ottica.
Newton decide così di affidare la prima esposizione pubblica della propria teoria a un breve saggio di dodici pagine, che contiene appena tre esperimenti, di cui soltanto uno – e di certo non il più importante — viene illustrato con un diagramma. Una decisione che si rivelerà però un serio errore di calcolo, poiché egli dovrà difendere e rielaborare diverse parti della sua teoria, che i lettori, non a torto, considereranno oscure, piuttosto che offrire una coerente formulazione basata sugli assunti originari.
La Nuova teoria sulla luce e i colori consta di due parti: nella prima Newton stabilisce la diversa rifrangibilità dei raggi luminosi e nella seconda svela l’origine dei colori. Il saggio si apre con una «narrazione storica» in cui Newton racconta che, avendo effettuato l’esperimento tradizionale dei «famosi fenomeni dei colori», è rimasto «sorpreso» nel vedere che lo spettro proiettato dal prisma sulla parete opposta avesse una forma oblunga, poiché in base all’ammessa legge di rifrazione esso avrebbe dovuto averla circolare.190 Il problema che egli si pone è quindi quello di capire perché lo spettro si allunghi in modo così inconsueto.
Newton elimina rapidamente una serie di cause possibili dell’allungamento dello spettro e infine risolve il problema mediante un dispositivo sperimentale che denomina experimentum crucis, un dispositivo, come si è visto, la cui matrice è senz’altro rintracciabile nel saggio Sui colori e ancor meglio nelle Lezioni di ottica, dove però l’espressione experimentum crucis non figura affatto.191 Dietro a un prisma che trasmette un fascio di luce rifratta, egli colloca un’assicella con un piccolo foro e poi, a circa dodici piedi di distanza, sistema una seconda assicella anch’essa perforata dietro alla quale si trova un secondo prisma. Poiché le assicelle sono tenute fisse in una determinata posizione, i due fori in esse praticate definiscono il percorso della luce che colpisce il secondo prisma, garantendo così che tutti i raggi cadano su di esso quasi con il medesimo angolo di incidenza. Ruotando il primo prisma sul proprio asse, Newton riesce a trasmettere diverse parti dello spettro attraverso i due fori, e incontrando il secondo prisma queste parti vengono rifratte e proiettate sulla parete opposta. Egli scopre che quella parte di luce che subisce una maggiore rifrazione nel primo prisma subisce una maggiore rifrazione anche nel secondo:
E così la vera causa della lunghezza di quell’immagine [cioè dello spettro] si trovò essere nient’altro che questa, vale a dire che la Luce consiste di raggi diversamente rifrangibili, i quali, senza alcun riferimento a una differente incidenza, erano trasmessi verso diverse parti della parete, secondo i loro gradi di rifrangibilità.192
L’experimentum crucis è stato sviscerato da diverse prospettive,193 e di recente si è anche sostenuto che esso non può reggere l’interpretazione teorica che Newton intende attribuirgli.194 In breve, la critica consiste nel negare che l’experimentum crucis possa provare che i colori siano innati alla luce diretta del Sole e che siano quindi immutabili. Ora, se s’intende criticare l’experimentum crucis, bisogna anzitutto comprendere lo scopo che Newton gli assegna nella Nuova teoria, così come nelle Lezioni di ottica. Certamente, non che i colori sono innati alla luce bianca prima di qualsiasi rifrazione, ma piuttosto che la luce solare consiste di raggi di diverso grado di rifrangibilità.195 Sebbene infatti nelle Lezioni di ottica196 si utilizzi un esperimento quasi identico o analogo per sostenere che i raggi di diverso colore sono rifratti differentemente, ciò non significa che Newton sia incoerente; egli ha strutturato la teoria e la sua dimostrazione in maniera leggermente diversa. La funzione dei due fori collocati in posizione fissa nell’esperimento delle Lezioni è esattamente la stessa di quella della Nuova teoria, ossia assicurare che la diversa rifrazione dei diversi raggi non derivi da una differenza dell’angolo di incidenza. E il secondo prisma in questi esperimenti serve per verificare l’effetto del primo prisma, per vedere cioè se esso scompone ulteriormente il raggio. Conformemente all’obiettivo di Newton, in un esperimento particolare la verifica concerne o il colore o la rifrazione. Ma sia nell’experimentum crucis sia nell’esperimento analogo delle Lezioni di ottica il secondo prisma verifica il raggio appena rifratto in riferimento alla rifrangibilità. Pur utilizzando l’esperimento in contesti un po’ differenti, come accadrà anche in seguito,197 nondimeno le affermazioni di Newton sull’experimentum crucis sono sempre connesse alla rifrangibilità e mai all’immutabilità del colore.198
Avendo stabilito la parte più radicale della sua teoria, vale a dire che la luce è una «mescolanza eterogenea di raggi diversamente rifrangibili», dopo una digressione sui telescopi e un riepilogo della conclusione ricavata dall’experimentum crucis, nella seconda parte del saggio Newton affronta l’argomento del colore:
Procederò ora a farvi conoscere un’altra più notevole difformità nei suoi [sc. della luce] raggi, in cui è racchiusa l’origine dei colori. [Un naturalista non si aspetterebbe davvero di vedere la scienza di questi diventare matematica, e tuttavia oso affermare che in essa vi è tanta certezza quanta in ogni altra parte dell’ottica, poiché ciò che dirò su di essi non è un’ipotesi, ma la più rigida conseguenza, non congetturata semplicemente inferendo che è così perché non è altrimenti o perché essa soddisfa tutti i fenomeni (la topica universale dei filosofi), ma ottenuta con la mediazione di esperimenti che concludono direttamente e senza sospetto di dubbio. Continuare la narrazione storica di questi esperimenti costituirebbe un discorso troppo tedioso e confuso], e pertanto delineerò piuttosto prima la dottrina, e poi, per il suo esame, vi darò uno o due esempi degli esperimenti, come un campione degli altri.199
La dottrina viene enucleata in tredici proposizioni. Le prime due proposizioni affermano la corrispondenza biunivoca tra i colori e il grado di rifrangibilità:
1. Come i raggi della luce si differenziano nel grado di rifrangibilità, così essi si differenziano nella loro disposizione a mostrare questo o quel colore particolare. I colori non sono qualità della luce, derivate dalle rifrazioni o dalle riflessioni dei corpi naturali (come si crede generalmente), ma proprietà originarie e innate, che sono diverse nei diversi raggi. [...]
2. Allo stesso grado di rifrangibilità appartiene sempre lo stesso colore, e allo stesso colore appartiene sempre lo stesso grado di rifrangibilità. I raggi meno rifrangibili hanno la tendenza a mostrare un colore rosso, [...] ; allo stesso modo, i raggi più rifrangibili hanno tutti la tendenza a mostrare un colore violetto scuro.200
Newton sostiene quindi che i colori sono innati alla luce del Sole e per dimostrarlo invoca un nuovo principio recentemente acquisito nelle Lezioni di ottíca,201il principio cioè dell’immutabilità del colore e del grado di rifrangibilità, la terza proposizione della Nuova teoria:
3. La specie del colore e il grado di rifrangibilità propri a un particolare genere di raggi, non sono mutabili per rifrazione, né per riflessione dai corpi naturali, né per qualche altra causa, che finora abbia potuto osservare. Quando un dato genere di raggi sia stato ben separato da quelli di altre specie, in seguito esso ha ostinatamente mantenuto il suo colore, nonostante i miei massimi sforzi per cambiarlo.202
Sebbene qui Newton accomuni nell’immutabilità la specie del colore e il grado di rifrangibilità, il problema di stabilire la natura innata dei colori e la loro immutabilità è completamente diverso da quello della rifrangibilità. Anzitutto, la diversa rifrangibilità può essere descritta da una legge matematica, la legge di rifrazione per ogni singolo raggio luminoso. E, secondariamente, tale legge può essere parimenti applicata a ogni rifrazione, poiché non vi è alcuna sostanziale differenza tra la prima rifrazione e quelle successive. La validità della legge di rifrazione e dell’immutabilità del grado di rifrangibilità può quindi, in linea di principio, essere empiricamente dimostrata con una serie di misurazioni degli angoli di incidenza e di rifrazione. 203 Siccome inoltre la rifrangibilità è una «disposizione» che i raggi mostrano soltanto durante la rifrazione e non prima (o dopo), non può essere considerata innata alla luce solare nello stesso modo in cui possono esserlo i colori.
Come alla fine lo stesso Newton sarà costretto a riconoscere, è impossibile dimostrare empiricamente che i colori siano innati alla luce del Sole e che siano immutabili prima della rifrazione. La dimostrazione infatti va incontro a un’insormontabile difficoltà: prima della rifrazione la luce solare appare bianca e dopo essere rifratta dispiega tutti i colori dello spettro. In altri termini, poiché prima della rifrazione i colori non sono percepibili nella luce diretta del Sole, essi non possono essere confrontati con i colori che emergono da quella rifrazione per vedere se sono cambiati o meno. Tant’è che se vengono comparati sembrano essere proprio cambiati. Ciò che invece può essere facilmente dimostrato è l’immutabilità del colore dopo la prima rifrazione, ed è precisamente questo principio che Newton dimostra nella terza proposizione della Nuova teoria.204
Nelle prime tre proposizioni si afferma quindi che i diversi gradi di rifrangibilità e i colori sono innati alla luce del Sole, che esiste una corrispondenza biunivoca tra grado di rifrangibilità e colore, e che essi sono immutabili. Eppure, si osserva nella quarta proposizione, quando i raggi dei diversi colori si mescolano, il colore appare effettivamente mutato; se, per esempio, i raggi azzurri e quelli gialli vengono mescolati producono il verde. Queste trasformazioni, sottolinea Newton, non sono reali, ma soltanto apparenti: quando infatti i raggi sono di nuovo separati l’uno dall’altro «essi mostreranno esattamente gli stessi colori che avevano prima di entrare nella composizione».205 Per risolvere il problema, nella quinta proposizione egli introduce una distinzione tra colori semplici o primari e colori composti:
5. Esistono dunque due generi di colori. L’uno originario e semplice, l’altro composto da questi. I colori originari o primari sono il rosso, il giallo, il verde, l’azzurro e il violetto-porpora, insieme con l’arancione, l’indaco e un’indefinita varietà di gradazioni intermedie.206
In tal senso, il giallo e l’azzurro, se mescolati, compongono il verde, e il rosso e il giallo l’arancione, che sono «colori identici in specie a questi primari».207
Dal modo in cui Newton formula qui la sua teoria del colore, si evince che esistono due generi di colori: quelli semplici che non mutano, e ai quali si applicano le prime tre proposizioni; e quelli composti ai quali invece non si applica la sua teoria e che devono quindi essere composti dagli elementi più semplici. La causa di questo iato, come è stato opportunamente sottolineato da Shapiro, dipende dal fatto che Newton all’inizio non ha definito le entità cui la sua teoria deve essere applicata.208 Nella terza proposizione, per esempio, egli ha affermato che «la specie del colore e il grado di rifrangibilità propri a un particolare genere di raggi, non sono mutabili per rifrazione, né per riflessione dai corpi naturali [...]», senza tuttavia chiarire cosa intenda per particolare genere di raggi. In questo modo, il verde semplice e quello composto potrebbero benissimo essere considerati particolari generi di raggi, poiché, proprio come lo stesso Newton ha detto, il loro colore è sensibilmente lo stesso. Ciò significa che nella Nuova teoria i concetti di colori semplici e composti sono ancora pensati in termini di colore e non di rifrangibilità, il parametro che, secondo Newton, determina effettivamente la natura semplice o composta dei colori. Egli riconoscerà l’inadeguatezza di questa distinzione, e infatti nel corso degli scambi con i suoi primi critici, come si vedrà, chiarirà i concetti in termini di rifrangibilità.
Alla distinzione tra colori semplici e colori composti fa infine seguito, nella settima proposizione della Nuova teoria, il risultato più celebre e sorprendente ottenuto da Newton nelle sue ricerche sulla luce e i colori, vale a dire che il bianco è una mescolanza eterogenea di tutti i colori dello spettro: «esso è sempre composto, e per la sua composizione sono richiesti tutti i suddetti colori primari, mescolati in una proporzione data».209 Da ciò, continua Newton nella proposizione successiva,
segue quindi che il bianco è il colore consueto della luce. La luce, infatti, è un confuso aggregato di raggi dotato di tutti i generi di colori, emanati promiscuamente dalle varie parti dei corpi luminosi. E da questo confuso aggregato, come ho detto, è generato il bianco, se esiste una data proporzione degli ingredienti.210
Questa è indubbiamente la parte più rivoluzionaria della teoria di Newton, poiché scardina una tradizione di pensiero millenaria in cui la luce solare è concepita come semplice e pura, e in cui i colori sono considerati come una qualche forma di modificazione di tale luce. In tal modo, la relazione tra i colori e la luce bianca viene completamente capovolta: sono i colori adesso, in base alla nuova teoria di Newton, a essere semplici e omogenei, mentre la luce bianca del Sole è una mescolanza impura ed eterogenea di tutti i tipi di raggi, ognuno di colore diverso. I colori che si vedono sono dovuti soltanto alla scomposizione della luce solare, essi si trovano già in essa e non vengono mai generati; il prisma li rende visibili in quanto la rifrazione li scompone e li separa facendoli curvare con una diversa quantità in base alla loro diversa rifrangibilità.
Contrariamente alle sue aspettative, pressoché subito la Nuova teoria diventa oggetto di numerose obiezioni. Queste reazioni sono in buona parte dovute alla strategia impiegata da Newton nel rendere pubblica la propria dottrina. Una teoria così radicale che ribalta tante idee consolidate da secoli avrebbe indubbiamente suscitato lo stesso una significativa opposizione, anche con la più chiara delle esposizioni. A maggior ragione, la scelta di pubblicare un saggio così conciso, per descrivere concetti complessi e tecniche sperimentali non semplici, risulterà del tutto inappropriata. Le difficoltà inizialmente incontrate dalla teoria di Newton hanno quindi, come è stato osservato da Shapiro, due cause principali: la sua natura rivoluzionaria e la sua presentazione superficiale.211
La prima critica è quella di Hooke, che la presenta sotto forma di rapporto alla Royal Society il 15 febbraio 1672,212 esattamente una settimana dopo che la Nuova teoria è stata letta in quella stessa sede.213 Hooke esamina in dettaglio gli elementi centrali della teoria di Newton: l’affermazione che i colori sono proprietà dei raggi della luce, che esistono colori semplici e colori composti, e che il bianco è una mescolanza di colori primari in una proporzione data. Trova però alquanto impudenti le dichiarazioni perentorie di Newton sulla certezza della sua teoria, che si trovano in quel passo della Nuova teoria che Oldenburg deciderà di depennare nella versione a stampa,214 ma che Hooke legge avendo in mano la versione originale. In quel passo, inoltre, Newton prende di mira il metodo ipotetico dei filosofi, sfidando così la filosofia scettica della scienza propugnata da parecchi membri della Royal Society e dallo stesso Hooke.215
La linea di attacco seguita da Hooke consiste nel negare che le affermazioni di Newton sulla luce e i colori siano constatazioni fattuali, poiché per lui esse sono soltanto mere ipotesi; e di conseguenza le asserzioni newtoniane sulla certezza della sua teoria gli sembrano prive di senso. Hooke non nega la validità degli esperimenti eseguiti da Newton, avendoli egli stesso ripetuti e trovati corretti, ma non vede alcuna connessione necessaria tra i fenomeni sperimentali e la teoria newtoniana dei colori:
Ho esaminato accuratamente l’eccellente discorso del Sig. Newton sui colori e le rifrazioni, e sono stato non poco soddisfatto della bellezza e della curiosità delle sue osservazioni. Ma sebbene mi trovi completamente d’accordo con lui riguardo a quelle che egli ha riportato, avendole trovate così mediante molte centinaia di prove, tuttavia, quanto alla sua ipotesi di salvare i fenomeni dei colori in quel modo, confesso che non riesco a vedere alcun argomento irrefutabile per convincermi della sua certezza.216
Infatti, prosegue Hooke,
tutti gli esperimenti e le osservazioni che ho fatto finora, e addirittura quegli stessi esperimenti che egli ha riportato, mi sembrano dimostrare che la luce non è altro che un impulso o un moto propagato attraverso un mezzo omogeneo, uniforme e trasparente e che il colore non è altro che la perturbazione di quella luce dovuta [...] alla sua rifrazione.217
Il nucleo della critica di Hooke si risolve quindi nella riaffermazione della propria versione della teoria della modificazione formulata nella Micrographia.218 Da meccanicista convinto però egli non attribuisce alcuna implicazione di tipo ontologico alla propria spiegazione dei colori, limitandosi a considerarla come una delle tante ipotesi possibili. E valuta la teoria di Newton negli stessi termini, ossia essenzialmente come un’esposizione dell’ipotesi corpuscolare, assicurandolo di essere in grado di «salvare tutti i fenomeni della luce e dei colori» non solo con la propria ipotesi, ma anche con altre due o tre, tutte diverse sia dalla sua che da quella newtoniana.219
Nel giro di un mese e mezzo il gesuita Ignace Gaston Pardies (1636-1673), senza il tono altezzoso di Hooke, fa pervenire a Oldenburg le proprie osservazioni al saggio di Newton, definendo anch’egli la teoria newtoniana dei colori un’«ipotesi molto ingegnosa». 220 Nella seconda lettera dell’11 maggio 1672, Pardies sostiene infatti che la dispersione cromatica, che Newton attribuisce alla diversa rifrangibilità dei diversi raggi, può essere ugualmente ben spiegata mediante altre ipotesi.221
Le critiche di Hooke e Pardies costringono Newton a confrontarsi sul terreno delle ipotesi, quel terreno cioè che egli, a ragione o a torto, crede di aver già abbandonato con la proposta, sviluppata nelle Lezioni di ottica, di una scienza dei colori basata sulla certezza dell’esperimento e sul rigore della matematica.222 Così, nella lettera di risposta a Pardies del 10 giugno 1672, egli spiega il suo rifiuto delle ipotesi:
quella dottrina che ho esposto sulla rifrazione e sui colori consiste soltanto in certe proprietà della luce, trascurando le ipotesi mediante cui si devono spiegare quelle proprietà. Il modo migliore e più sicuro di filosofare, infatti, sembra essere, in primo luogo, quello di ricercare con accuratezza le proprietà delle cose e di stabilirle mediante esperimenti, e quindi, in seguito, di rivolgersi alle ipotesi per la loro spiegazione. Infatti, le ipotesi si devono soltanto applicare alla spiegazione delle proprietà delle cose, e non usare per determinarle, se non in quanto possano offrire a conferma degli esperimenti. E se qualcuno può fare una congettura sulla verità delle cose soltanto dalla possibilità delle ipotesi, non vedo in che modo si possa stabilire qualcosa di certo in alcuna scienza, dal momento che è sempre lecito escogitare ipotesi continuamente diverse, che sembreranno procurare nuove difficoltà.223
E nella replica a Hooke dell’ 11 giugno dello stesso anno, Newton, riprendendo le argomentazioni svolte nelle Lezioni di ottica,224 precisa che non è affatto necessario ricorrere a ipotesi esplicative per giustificare la sua teoria dei colori, giacché essa è tanto certa quanto l’ottica geometrica e più certa di una spiegazione qualitativa o meramente fisica.225
Newton inoltre non nega la propensione a credere che la luce abbia una natura corpuscolare, ma ribadisce che ciò non ha nulla a che vedere con la teoria dei colori, poiché quest’ultima è svincolata da qualsiasi ipotesi sulla natura della luce. Per rassicurare quindi sia Pardies sia Hooke che la sua teoria non dipende dai corpuscoli della luce, egli spiega come anche la teoria ondulatoria da essi sostenuta possa ugualmente esservi adattata.226 È soltanto necessario che essi assumano che la luce solare sia composta da una mescolanza di onde con varie «profondità» o «grandezze», ognuna delle quali dotata di un diverso grado di rifrazione e capace di causare un colore diverso, senza quindi alcun bisogno di ricorrere ai corpuscoli della luce.227
La discussione che si apre con Pardies e Hooke tuttavia non ha come unico esito quello di obbligare Newton a confrontarsi sul piano del metodo scientifico. Le obiezioni, infatti, riguardano alcuni aspetti specifici della sua dottrina che nella Nuova teoria, a causa dell’estrema stringatezza con cui sono formulati, sembrano sconfinare nell’oscurità. Di conseguenza, le critiche offrono a Newton, malgrado la sua malcelata irritazione, l’occasione di rielaborare le sue idee su questi punti in maniera più perspicua.
A risultare poco chiaro è anzitutto l’experimentum crucis, per la brevità con cui viene descritto, e soprattutto per l’assenza di un diagramma del dispositivo sperimentale che mostri il preciso orientamento dei due prismi. A causa di questa difficoltà, Pardies, per esempio, nella sua prima lettera a Newton sostiene che l’experimentum crucis gli sembra «concordare con le ordinarie e comunemente ammesse regole della rifrazione», e così non reputa «necessario ricorrere a un’altra ipotesi, o ammettere quella diversa rifrangibilità dei raggi».228 Sebbene nella sua prima replica Newton si limiti a osservare che, molto semplicemente, Pardies non abbia affatto compreso l’esperimento,229 quando nella lettera successiva il gesuita rimette di nuovo in discussione il significato dell’ experimentum crucis, 230 egli si decide a fornire una doviziosa e dettagliata descrizione dell’esperimento accompagnandola finalmente con un diagramma, in modo tale che Pardies comprenda l’errore commesso nel collocare il primo prisma subito dopo la prima assicella perforata.231
L’altro aspetto non ben risolto nella Nuova teoria concerne, come si è visto, la distinzione tra colori semplici o primari e colori composti. Così Hooke obietta di non comprendere perché Newton abbia asserito l’esistenza di «un’indefinita varietà di colori primari o originari», ritenendo «del tutto inutile moltiplicare le entità senza necessità», poiché egli, nella Micrographia,232 ha mostrato che «tutte le varietà dei colori nel mondo possono essere formate con l’ausilio di due».233
Newton riconosce l’inadeguatezza della propria spiegazione, giacché rispondendo a Hooke di fatto la riformula in modo più rigoroso. Anziché però ammettere la propria confusione iniziale, egli ribatte a Hooke in questi termini:
Ma poiché intuisco da alcuni fatti che la distinzione potrebbe non essere stata correttamente afferrata, la esporrò un’altra volta e la spiegherò inoltre con degli esempi.
È primario o originario quel colore che non può essere mutato da alcun artificio, e i cui raggi sono tutti ugualmente rifrangibili; e composto quel colore che è mutabile negli altri colori, e i cui raggi non sono ugualmente rifrangibili.234
In questo modo quindi Newton definisce chiaramente e correttamente i suoi concetti di colori semplici e composti in termini di rifrangibilità: i colori semplici sono quelli i cui raggi sono tutti rifratti allo stesso modo, mentre i colori composti sono quelli i cui raggi non sono rifratti allo stesso modo. Sperimentalmente, questo vuole dire che se i raggi sono trasmessi attraverso un prisma e sono tutti ugualmente rifrangibili essi sono semplici; ma se vengono di nuovo dispersi, allora sono composti.
Sebbene nella sua difesa contro le obiezioni sollevate da Hooke e Pardies chiarisca e sviluppi alcune parti della dottrina esposta nella Nuova teoria, Newton tuttavia non avverte alcuna esigenza di riformulare la teoria nella sua interezza. Anzi, è così convinto dell’inefficacia di tali critiche da reputare, come scrive a Oldenburg il 6 luglio 1672, che vi sia soltanto un modo per chiudere la discussione:
Non credo sia utile alla ricerca della verità esaminare i diversi modi con cui i fenomeni possono essere spiegati, a meno che non vi possa essere un’enumerazione completa di questi modi. Voi sapete che il modo appropriato di indagare le proprietà delle cose consiste nel dedurle dagli esperimenti. E io vi ho detto che alla teoria da me proposta sono arrivato non inferendo che è così perché non è altrimenti, vale a dire non deducendola da una confutazione delle supposizioni contrarie, ma derivandola dagli esperimenti che concludono positivamente e direttamente. Di conseguenza, il modo opportuno di considerarla consiste nel verificare se gli esperimenti da me proposti dimostrano quelle parti della teoria a cui essi sono applicati, oppure nel compiere altri esperimenti che la teoria sia in grado di suggerire per la verifica.235
Proprio su questo terreno, però, nel gennaio successivo le penetranti obiezioni provenienti da Christiaan Huygens (1629-1695), uno dei più celebri filosofi naturali e astronomi dell’epoca,236 porteranno Newton a riformulare significativamente la sua teoria.
Nella lettera inviata a Oldenburg il 14 gennaio 1673, e che Newton riceve quattro giorni dopo, Huygens inizia sostenendo l’ipotesi di Hooke che siano sufficienti soltanto due colori, il giallo e l’azzurro, per la formazione di tutti gli altri e che questo sia il modo più semplice per spiegarli «meccanicamente e mediante la natura del movimento». Relativamente all’asserzione di Newton che il bianco sia composto da tutti i colori dello spettro, Huygens osserva:
è possibile che il giallo e l’azzurro siano ancora sufficienti allo scopo: la qual cosa vale la pena d’essere provata, e la si può fare con l’esperienza che propone il sig. Newton di raccogliere sulla parete di una camera oscura i colori del prisma e di illuminare mediante la loro luce riflessa un foglio di carta bianco. Bisognerebbe impedire ai colori delle estremità, ossia al rosso e al porpora, di battere contro la parete, e lasciare soltanto i colori intermedi, il giallo, il verde e l’azzurro, per vedere se la sola luce di questi ultimi non faccia apparire bianco il foglio di carta altrettanto bene come quando lo illuminano tutti insieme. Dubito perfino se la parte più luminosa del giallo non produca tutta da sola questo effetto; e io lo proverò alla prima occasione [...]. Comprendete bene tuttavia che, se queste esperienze riescono, non si potrà più dire che sono necessari tutti i colori per comporre il bianco, e che sarà assai verosimile che tutti gli altri non sono che gradi del giallo e dell’azzurro, più o meno carichi.237
Le affermazioni di Huygens risultano particolarmente sbalorditive, non solo perché, come dimostrerà in maniera definitiva Helmholtz (1821-1894) nel 1852, il giallo e l’azzurro producono effettivamente il colore bianco, 238 ma soprattutto per il fatto che esse vanno contro tutte le concezioni sulla mescolanza sostenute nel XVII secolo. All’epoca si crede infatti che tra la mescolanza dei pigmenti e quella dei colori prismatici non sussista alcuna differenza, per cui si pensa che se i pigmenti azzurro e giallo danno il verde e non il bianco, lo stesso si verifichi mescolando due identici colori dello spettro.239
La reazione di Newton al suggerimento che tutti i colori possono essere composti soltanto da due consiste anzitutto nell’appellarsi al problema pratico di essere certi che si abbia a che fare con colori realmente puri o primari e non composti. Rifacendosi pertanto alla risposta già data al riguardo nella lettera a Hooke,240 con tono decisamente irriverente conclude la sua risposta a Huygens così:
Ciò è così evidente che credo non vi possa essere alcun’altra incertezza, soprattutto per quelli che sanno come esaminare se un colore sia semplice o composto e di quali colori sia composto; la qual cosa, avendola spiegata altrove, non è necessario che la ripeta adesso.241
E in modo enigmatico e provocatorio prosegue:
Se quindi il sig. Huygens volesse concludere qualcosa, dovrebbe mostrare come il bianco possa essere prodotto da due colori semplici; e quando l’avrà fatto, gli dirò inoltre perché non può concluderne alcunché.242
Newton, in altri termini, sta cercando di confutare con un argomento debole la possibilità prospettata da Huygens che il bianco possa essere formato con due soli colori:
Ma credo che non possa essere effettuato un esperimento di quel tipo, perché mi ricordo che una volta ho provato, con una successione graduale, a mescolare tutte le coppie di colori semplici, e sebbene alcune di loro fossero più chiare e prossime al bianco delle altre, nessuna tuttavia poteva veramente essere detta di colore bianco. Essendo però trascorsi alcuni anni da quando feci questo esperimento, non ricordo bene le circostanze, e quindi consiglio ad altri di provare a farlo ancora.243
Malgrado questo debole tentativo di confutazione, Newton — come è stato sottolineato da Shapiro, che per primo ha attirato l’attenzione sull’importanza delle obiezioni di Huygens —244 non affermerà più che siano necessari tutti i colori per comporre il bianco. Diversamente da quanto asserito in precedenza,245 in tutte le formulazioni successive Newton restringerà la propria teoria soltanto alla luce del Sole.
Comprensibilmente irritato dal piglio veemente di Newton, pur rimanendo insoddisfatto della risposta, Huygens comunica a Oldenburg che non intende più continuare a discutere di questi argomenti con lui: poiché egli, scrive Huygens, «sostiene la sua dottrina con qualche fervore, non voglio polemizzare». Nondimeno, prima di congedarsi del tutto, Huygens non riesce a trattenersi dal chiedere a Newton di esplicitare la sua piuttosto enigmatica replica.246
Nella lettera del 23 giugno 1673, Newton chiarisce il senso della sua provocazione:
Per quanto concerne la vicenda dei colori, affermando che allorché il sig. Huygens avesse mostrato come il bianco potesse essere prodotto da due colori omogenei, gli avrei detto perché non poteva concluderne alcunché, il mio intento era che un tale bianco (qualunque cosa esso fosse) doveva avere proprietà diverse dal bianco che io avevo considerato quando descrissi la mia teoria, vale a dire dal bianco della luce immediata del Sole, dagli oggetti ordinari dei nostri sensi, e da tutti i fenomeni bianchi fin qui caduti sotto la mia osservazione. E quelle diverse proprietà dovevano mostrare che esso è di una diversa costituzione, tanto che una tale produzione di bianco anziché contraddire la mia teoria, doveva illustrarla e confermarla, poiché mediante la differenza tra questo [bianco] e gli altri bianchi doveva apparire che questi altri bianchi non sono composti soltanto da due colori, come lo è quello.247
Newton spiega quindi le diverse costituzioni di due tipi di bianco o di qualsiasi altro colore, impiegando lo stesso argomento della lettera a Hooke dell’11 giugno 1672.248 Questa concessione però rappresenta un indebolimento della sua teoria, poiché ne limita l’universalità — si passa infatti da ogni luce bianca alla luce immediata del Sole — e costringe Newton a introdurre «un’imbarazzante dicotomia tra due generi di luce bianca, una delle quali è innaturale».249
La seconda parte della lettera di Newton a Huygens costituisce un punto nodale di estremo rilievo sia perché egli riformula la propria teoria della luce e dei colori, sia perché ciò avviene mediante un rigoroso processo di assiomatizzazione, con definizioni e proposizioni, che costituirà il modello dell’Ottica. Articolando la spiegazione tra colori semplici e colori composti, così come viene sviluppata nella suddetta lettera a Hooke, Newton introduce quattro nuove definizioni. Nelle prime due distingue tra luci omogenee ed eterogenee:
1. Chiamo omogenea, simile o uniforme quella luce i cui raggi sono ugualmente rifrangibili.
2. Ed eterogenea quella [luce] i cui raggi sono diversamente rifrangibili.250
Poi definisce i colori omogenei ed eterogenei in termini di luci omogenee ed eterogenee, vale a dire in termini di rifrangibilità:
3. Chiamo semplici o omogenei quei colori che sono mostrati dalla luce omogenea.
4. E composti o eterogenei quei [colori] che sono mostrati dalla luce eterogenea.251
Avendo spiegato la differenza tra colori semplici e colori composti, Newton riformula la teoria attraverso dieci proposizioni, dalle quali emerge in tutta evidenza l’impatto delle critiche di Huygens, poiché il riferimento è adesso unicamente alle proprietà della luce solare. Nelle prime tre proposizioni si sostiene che «la luce del Sole consiste di raggi che differiscono per gradi indefiniti di rifrangibilità» e che a ognuno di questi gradi corrisponde soltanto un colore semplice o omogeneo. E nelle altre due si asserisce che «il bianco in tutti gli aspetti simile a quello della luce immediata del Sole e di tutti gli usuali oggetti sensi non può essere composto da due colori semplici soltanto», poiché, al contrario, per una tale composizione è richiesta «un’indefinita varietà di essi».252
Con queste proposizioni Newton stabilisce che la luce bianca simile a quella solare deve essere composta da tutti i colori, non che la luce del Sole sia composta da essi. Per stabilire ciò, nelle tre successive proposizioni, egli ricorre quindi al principio dell’immutabilità:
6. I raggi della luce non agiscono l’uno sull’altro nel passare attraverso il medesimo mezzo. Questo appare da alcuni passaggi nelle Transactions [...].
7. I raggi della luce non subiscono alcun cambiamento delle loro qualità per effetto della rifrazione.
8. E nemmeno, in seguito, per effetto del mezzo adiacente in quiete.253
Queste proposizioni affermano che i raggi della luce non vengono modificati dalla loro reciproca azione, né tantomeno dal mezzo rifrangente o dalle regioni delimitate dall’ombra. Il riferimento alle Transactions per la dimostrazione della proposizione 6 è alla Nuova teoria, e riguarda tutti quei passi in cui si mostra che la luce, che prima è stata scomposta nei diversi colori, viene poi ricomposta per produrre il bianco. Di conseguenza, Newton non riesce a stabilire che la proposizione 6, che dovrebbe svolgere un ruolo centrale nella sua dimostrazione che i colori sono innati alla luce immediata del Sole, sia valida per la medesima luce solare. Le proposizioni 7 e 8, secondo Newton,
sono manifeste de facto nella luce omogenea, il cui colore e rifrangibilità non sono affatto mutabili per effetto della rifrazione o della contiguità di un mezzo in quiete. E per quanto concerne la luce eterogenea, non è altro che un aggregato di alcuni tipi di luce omogenea, nessuno dei quali subisce alcuna ulteriore alterazione nel caso fosse da solo, poiché i raggi non agiscono l’uno sull’altro per la Prop. 6. E pertanto l’aggregato non ne subisce alcuna.254
L’importante conclusione cui Newton perviene nella proposizione 10 è che «la luce del Sole è un aggregato di una varietà indefinita di colori omogenei, per la Prop. 1, 3 e 9». Nelle proposizioni 1 e 3 Newton ha infatti sostenuto che la luce solare consiste di raggi diversamente rifrangibili, cui corrispondono appunto un numero indefinito di colori omogenei. L’immutabilità viene introdotta mediante la proposizione 9, dove si sostiene:
9. Non possono esistere colori omogenei estratti dalla luce mediante la rifrazione se essi non sono mescolati prima in essa, poiché per la Prop. 7 e 8, la rifrazione non cambia le qualità dei raggi, ma separa soltanto quelli che hanno differenti qualità, per mezzo della loro differente rifrangibilità.255
In questo modo, il principio dell’immutabilità del colore, formulato per la prima volta nelle Lezioni di ottica e poi ripreso nella Nuova teoria, è risolto adesso in tre componenti, le proposizioni 6, 7 e 8. Le ultime due tuttavia, come risulta dalla loro dimostrazione, seguono dalla proposizione 6 sull’indipendenza del colore, che afferma appunto che i raggi non agiscono l’uno sull’altro quando vengono mescolati insieme nella luce eterogenea. Allo stesso modo del principio dell’immutabilità, tuttavia, anche il caso dell’indipendenza del colore per la luce immediata del Sole non può essere dimostrato empiricamente. La proposizione 6 infatti sembra essere contraddetta dall’osservazione che quando tutti i colori sono mescolati insieme non si vede una mescolanza policroma ed eterogenea, bensì un colore bianco semplice e omogeneo. Anche questo ennesimo tentativo di dimostrare l’immutabilità del colore si rivela quindi privo di un riscontro empirico diretto e conclusivo.
Le polemiche che seguono alla pubblicazione della Nuova teoria sulla luce e i colori portano così a due risultati alquanto contrastanti: da un lato, come si è visto, impegnano Newton nella risposta alle obiezioni, costringendolo non solo a chiarire alcune parti della sua teoria, ma anche a riformularla nel suo complesso; e dall’altro lo convincono a rinunciare alla pubblicazione delle Lezioni di ottica e ad abbandonare addirittura il campo. Negli anni a venire infatti Newton si occuperà prevalentemente di alchimia e teologia256 e riprenderà a occuparsi di ottica soltanto a metà degli anni Ottanta, dopo la pubblicazione, avvenuta nel 1687, dei Philosophiae naturalis principia mathematica. E sebbene tra il 1687 e il 1688 abbia già ultimato la prima stesura del suo trattato di ottica, intitolato Fundamentum opticae,257 in cui confluiscono i materiali delle inedite Lezioni di ottica, la pubblicazione dell’Ottica avverrà soltanto nel 1704.
La formulazione della teoria della luce e dei colori che si trova nell’Ottica riflette tuttavia la struttura assiomatica espressa nella lettera a Huygens del 23 giugno 1673 e non quella della Nuova teoria o delle Lezioni di ottica. Nell’Ottica Newton non rinuncia all’idea che i colori siano innati alla luce diretta del Sole, rinuncia però definitivamente al tentativo di dimostrarla per via sperimentale. Dopo circa trent’anni quindi Newton abbandona il suo tentativo di dimostrare, come «la più rigida conseguenza», che i colori sono immutabili prima della rifrazione e che sono innati alla luce del Sole. Dalla prospettiva di Newton e dalle sue prime speranze di realizzare una scienza matematica dei colori certa, si può così comprendere quale sia stato il suo disappunto quando scrive le più modeste righe di apertura dell’Ottica, che sono giusto una flebile eco delle sue iniziali asserzioni:
La mia intenzione in questo libro non è di spiegare le proprietà della luce mediante ipotesi, ma di proporle e di spiegarle con la ragione e gli esperimenti.258
FRANCO GIUDICE
Desidero ringraziare Angelo Chierico e Elena Olivari per avermi assistito nella revisione delle traduzioni, rispettivamente dal latino e dall’inglese. Sono grato inoltre a Massimo Bucciantini, Michele Camerota ed Enrico Giannetto che mi hanno aiutato con suggerimenti, commenti e obiezioni a rendere il presente lavoro più agevole e comprensibile.