Dal cassettone nel fondo del granaio uscirono uno per volta, come fantasmi evocati, i vestiti che erano stati di Svuàl. Roba povera, ma di cui tarme e arvicole non avevano ancora avuto il tempo di accorgersi. C’erano due paia di pantaloni e tre camicie di fustagno, un paio di scarponi da montagna e quelle babbucce di velluto con la suola di feltro che in Cadore chiamano scufoi. E poi due maglie di lana e una coperta militare che Svuàl aveva rubato in caserma, un giorno che il magazziniere aveva dimenticato di chiudere la porta del deposito. Nell’altro baule, chiuso da tempo, dormivano i vestiti invernali, ancora ignari della fine del loro padrone. A vederla rovistare nel cassettone, Maria sembrava felice, anche se gli occhi le si inumidivano ogni volta che appoggiava al petto di Italo maglie e camicie per accertarsi che gli andassero bene. Poi, mentre lui si lavava nella tinozza in cucina, andò alla fontana che stava dietro la casa e lavò con la liscivia e la cenere il camiciotto con cui Ardenghi era fuggito dal manicomio. Una volta asciutto, bastò qualche sera di lavoro accanto al lume a petrolio per accomodarlo abbellendolo con una pettorina di tessuto a fiori e dei bottoncini di osso; poi lo accorciò di una spanna e ne arricciò le maniche. Appena ebbe finito lo indossò, e divenne la sua camicia da notte.

I pochi abitanti di Rucorvo non facevano domande. La presenza di Ardenghi accanto a Maria era stata accettata senza meraviglia, e dopo pochi giorni anche il vecchio Celso, alto e nodoso come un antico abete, e non di meno sospettoso e severo, che della piccola comunità era il patriarca, prese l’abitudine di far risuonare nella valle il suo fischio acuto e modulato quando qualche forestiero o la pattuglia di carabinieri a cavallo imboccava la carrareccia che da Ospitale si inerpicava su fino al paese. Capitava raramente, ma la presenza di quel giovane al villaggio, quando tutti i ragazzi della valle erano al fronte, avrebbe potuto destare qualche sospetto.

Italo ripensava spesso al vecchio padre, all’angoscia che doveva avergli procurato la notizia della sua fuga, la vergogna per la fine dell’unico figlio al quale aveva imposto quel nome che tanto sapeva di patriottismo e alti ideali. Aveva pensato di scrivergli, addirittura di rimandare Maria a Treviso per avvisarlo almeno che era sano e salvo e che, se tutto fosse andato per il verso giusto, si sarebbe fatto vivo alla fine della guerra. Se mai la guerra fosse finita. Ma ogni espediente gli parve troppo ardito e Maria stessa, che sembrava leggergli nel pensiero quando, a sera, lo sguardo gli si incantava sulla fiamma del foghèr, non avrebbe mai accettato l’incarico.

Svelta e silenziosa come sempre, la donna rassettava la casa, preparava la polenta e puliva l’orto con l’alacre laboriosità della formica; poi scendeva alla Piave con il paniere della biancheria da lavare. Spesso racimolava mezza dozzina di uova o un quarto di forma di formaggio facendo il servizio anche per qualche vicina, oppure andava per erbe buone da minestre, arrampicandosi lungo i pendii che salivano alla Lasta. Ardenghi usciva poco, perché allontanarsi da casa era troppo pericoloso per lui; solo qualche volta, quando ormai l’ombra bigia dei monti copriva Rucorvo, e il contorno degli alberi si faceva indefinito, scendeva fino al greto del fiume e restava a guardare l’acqua che rotolava a valle. Gli pesava quella prigionia, soprattutto il pensiero di restare nascosto come un topo nel suo buco per chissà quanto tempo, senza rendersi utile né sapere nulla su come andasse la guerra, salvo ascoltare con avida attenzione le poche notizie che Maria gli portava da Perarolo, dove si recava al sabato per il mercato. Ripensava al reggimento, alla fine di Pecchioli e di Svuàl, e a dove fosse stata la sua mente nei diciannove lunghi mesi in cui era rimasto rannicchiato nella branda del Sant’Artemio. Poi rientrava in silenzio, lo sguardo fisso a terra, e si richiudeva la porta alle spalle. A sera mangiavano l’uno di fronte all’altra, alla luce della lampada davanti al larìn; sempre polenta, che di quella ce n’era a sazietà, e poi un po’ di formaggio, qualche verdura dell’orto, quando toccava, un uovo in due. La guerra, avida e senza cuore, si era già portata via tutto, e la gente poco si rallegrava di avere ancora qualcosa con cui tenere a bada i morsi della fame.

Accanto a Italo, Maria, che pure aveva avuto in dono dalla montagna la forza del carpino, si faceva piccina, quasi indifesa, e solo lo sguardo acuto e profondo e i rari fili di argento che risaltavano nella gran massa di capelli neri le restituivano la fiera autorità della lupa.

Giugno intanto era esploso in tutto il suo fulgore, rinvigorendo la salute e l’aspetto di Ardenghi; sembrava quasi che il suo corpo si trasformasse, acquisendo giorno dopo giorno le fattezze e la forza dell’uomo maturo. Anche l’aria che scendeva a brevi, improvvise folate giù dalle vette veniva accolta dai suoi polmoni come una panacea capace di guarire ogni malanno. Restava soltanto la cicatrice della ferita alla testa, memoria di quanto gli era accaduto, e che nemmeno il lungo oblio della mente era riuscito a cancellare. In quell’inizio estate del ’17, quando al mattino le finestre della cucina di Rucorvo venivano spalancate sulla valle e l’aria fresca entrava portando lontano l’odore greve di cucina, fumo e caligine, nemmeno la guerra sembrava far più paura. Solo le vecchie case del paese tremavano, perché mai come quell’anno i rovi e le robinie erano sembrati tanto decisi ad aver ragione delle loro pietre. I giorni così passavano piani, frugali e senza storia. Ma la notte, quando la luna spuntava dalla Palazza, e dal larice che accarezzava con i suoi rami le scandole del tetto l’assiolo attaccava con il suo urgente e monotono canto d’amore, i materassi di scartocci di pannocchia su cui riposavano Italo e Maria si chiamavano, da una stanza all’altra, quasi fino all’alba. Ardenghi, dopo tanto dolore, risentiva crescere in sé la vita, e la ruvida canapa del lenzuolo non bastava a placare ciò che la natura ordinava. Maria intanto, insonne nella sua camera dall’altra parte del solaio, si convinceva, notte dopo notte, che per lei l’autunno non era ancora arrivato. Confusa e vergognosa, smaniava ora per quel corpo giovane che lei stessa aveva strappato dagli artigli della guerra, rinascendolo a nuova vita, e che intuiva ormai pronto all’amore. Proprio come la femmina dell’assiolo o quella del cervo quando, raggiunta dal bramito del maschio, lo cerca e lascia che la natura faccia il suo corso.

Venne il tempo della fienagione. Il taglio delle vare del fondovalle, i piccoli appezzamenti attorno al paese, si era già concluso a maggio, e ora toccava ai pràs de mont, i prativi d’alta montagna distanti un paio di ore di cammino dal paese. Molte famiglie di Rucorvo lasciavano allora la casa per trasferirsi sugli alpeggi.

A inizio primavera, l’ultima neve non si era ancora disciolta, le donne erano salite a ripulire il bosco; avevano accatastato le rame cadute nell’inverno e le avevano bruciate. Lunghe spirali di fumo si erano alzate allora verso il cielo, unendosi alle grandi nubi che s’infagottavano nel tramonto, dileguandosi incalzate dal vento verso la pianura. Per ultimo avevano trasportato a valle i rami più grossi, buoni per essere bruciati nelle stufe.

Così a luglio anche gli uomini avevano lasciato il paese e, ognuno con la sua falce in spalla, chini come soldati, avevano risalito le strette mulattiere scavate dai secoli. Portavano nello zaino il poco che serviva per vivere e qualche attrezzo, perché forse ci sarebbe stato da riparare il tetto di qualche tabià che aveva aspettato tutto l’inverno il ritorno dei padroni. Forse il vento era riuscito a staccare qualche scandola e l’aveva portata lontano, con tutto il suo muschio, o una porta era stata divelta da un bracconiere di passaggio che aveva trovato rifugio in una notte di tormenta e poi se n’era andato portandosi via la caldiera di rame o il mestolo. Raggiunti gli alpeggi, gli uomini ritrovarono quasi tutti i tabià come li avevano lasciati l’autunno prima; solo uno, ormai decrepito, non aveva retto il peso dell’ennesima nevicata e si era accasciato, come un vecchio ritrovato nel bosco schiantato dal peso della sua stessa gerla.

Maria salì con le donne qualche giorno dopo, portando con sé il suo lungo rastrello che sarebbe servito a rivoltare il fieno per farlo essiccare al sole, o riunirlo in piccoli covoni per la notte o in caso di pioggia. Certo anche le donne avrebbero saputo maneggiare la falce, ma quello era considerato un lavoro da uomini e in paese, salvo rare eccezioni, questa usanza secolare veniva rigorosamente rispettata.

Italo rimase dov’era, con i vecchi che non potevano più salire ai monti; stava in casa, davanti alla finestra spalancata, intento a intagliare distrattamente qualche ciocco con il coltello che era stato un tempo di Svuàl e che Maria gli aveva portato al Sant’Artemio. Mille pensieri gli passavano per la mente, ma quello più umano e consueto per la sua stagione stava ormai prendendo il sopravvento. Avrebbe rivisto Maria la settimana dopo, quando sarebbe salito anche lui ai pràs per festeggiare la conclusione della fienagione. Lassù ben difficilmente avrebbe incontrato qualche carabiniere ma, a ogni buon conto, avrebbe lasciato la casa dopo il tramonto, come Maria si era a lungo raccomandata, inoltrandosi presto nel bosco e confondendosi nella fustaia.

Eccolo divorare la salita, libero e forte come lo era stato un tempo, pieno di vita e speranza, quasi che tutto quanto era accaduto fosse stato spazzato via dalle stagioni. Mentre saliva, i pensieri che da tempo lo angustiavano parevano dissiparsi sull’andare del suo stesso passo di nuovo sicuro. Non più soldato, ma solo uomo, un uomo tra le montagne.

I valligiani avevano preparato un grande focolare nella radura tra i tabià, e quando Ardenghi finalmente arrivò le donne si stavano già affaccendando attorno al gigantesco paiolo dove la polenta fumava, mescolata a turno con un grosso mestolo. C’erano patate pronte per essere messe sotto la cenere, formaggio di capra e fiaschi di vino; sulla graticola sfrigolavano le salsicce, il cui colare veniva raccolto per condire la polenta, mentre il grasso profumo vagava liberamente per la radura provocando l’appetito dei più affamati. Non era molto, ma era tutto quello che la guerra, avara padrona di quegli anni, si era degnata di concedere.

Dopo la cena, il vecchio Celso lasciò alla moglie il compito di governare il fuoco, tirò fuori una piccola ocarina di terracotta e iniziò a suonare antiche melodie delle montagne. Le note semplici ma sincere si inoltrarono allora nel bosco, andarono a svegliare gli animali che già dormivano, insinuandosi furtive in certi valloncelli dimenticati e nelle forre, e disperdendosi poi verso il paese. Sapeva tutto della montagna, il vecchio, e conosceva l’animo delle donne e degli uomini come i sentieri che salivano su fino ai più alti alpeggi. Suonando la sua ocarina – le dita si alzavano e si abbassavano a scovare le note migliori – osservava Italo e Maria sempre più vicini, e anche le rughe dure che gli attraversavano il viso sembrarono distendersi per un lungo momento. Gli venne la voglia di fumarsi mezzo toscano, ma l’aria era fresca e pulita e sapeva di bosco e di acqua, così preferì continuare a riempirsi i polmoni di quella medicina, mentre la musica pareva uscire da sola dal piccolo coccio dalla voce del cuculo.

A mezzanotte il fuoco fu lasciato morire, e tutti si coricarono sul fieno già stivato nei tabià, coprendosi con i teli che sarebbero serviti, l’indomani, per portarlo a valle.

La mattina dopo tutto il fieno fu caricato sui carretti, coperto con rami di pino così che nemmeno una manciata andasse perduta, e iniziò la spola dagli alpeggi ai fienili del paese. Dopo una breve pausa a mezzogiorno, quando si consumarono in fretta i pochi avanzi della sera prima, il lavoro riprese e a metà pomeriggio anche l’ultimo carretto era ormai sulla strada del ritorno. Rimasti soli nella radura deserta e invasa dal sole, Maria e Ardenghi ascoltarono a lungo il ronzare delle api e dei calabroni, e un rumore lontano che non si capiva cosa fosse, forse un segantino che, dall’altra parte della valle, era intento a raddrizzare con il martello la lama della sua falce. Fu allora che Maria prese Italo per mano e senza una parola lo condusse in una piccola valletta distesa dietro ai tabià: in piedi davanti a lui, lasciò semplicemente scivolare a terra la gonna e, sfilata la forcina, anche i capelli le ricaddero sulle spalle, come l’acqua della stua1, quando il cuneo viene schiantato con un preciso colpo di mazza. Maria si stese sull’erba intiepidita dal sole del pomeriggio, e i suoi fianchi candidi si allargarono morbidamente tra i fiori di tarassaco e di erba medica, mentre i fili d’argento che le ornavano i capelli risplendevano come sottili collane. Ardenghi, che mai aveva conosciuto femmina, spogliatosi a sua volta con l’impeto dei suoi anni, le fu sopra e, guidato da Maria, la amò teneramente. Testimoni di quel momento tanto atteso e inutilmente trattenuto, un corvo che borbottò dall’alto di un vicino larice e le montagne, che da sempre osservano pietose, senza peraltro poter essere d’aiuto, le vicende degli uomini che le abitano.

Fecero l’amore ancora, e poi ancora una volta, con la costanza animalesca e sana che l’età di Ardenghi concedeva. E alla fine Maria, sazia di baci e tenerezze, nella grande calma delle montagne, non smetteva di accarezzare con gli occhi lustri il suo giovane uomo, quasi cercasse di imprimersi nella mente ogni più piccolo particolare del suo corpo, caso mai il destino o la guerra glielo volessero rubare. Ascoltarono insieme il canto delle cicale e il lento suono dondolante dei campanacci delle mucche, libere nel vicino pascolo pieno di sole, e tutti gli altri impercettibili rumori delle montagne.

Ritornarono con il buio, tenendosi per mano e sostando spesso lungo il cammino per abbracciarsi e bisbigliare semplici, tremolanti frasi, forse d’amore. Intanto, lentamente e senza rumore, come soltanto le cose più segrete possono accadere, i fili di erba che i due amanti avevano schiacciato con i loro corpi si rialzarono, e nella valletta non rimase più alcun segno della loro intimità.

Maria volle offrire dei fiori che aveva raccolto al capitello del Cristo che, dai tempi più lontani, sovrastava Rucorvo; poi entrò in paese accanto al suo uomo, serena e senza più paura che qualche sguardo curioso, da dietro un’imposta socchiusa, li cogliesse abbracciati. Perché ciò che è stato benedetto da Dio, pensava, nessun essere umano può più condannare.

Agosto si fece avanti sereno mentre, al di là della stretta valle su cui si affacciava Rucorvo, la morte continuava a imporre alle famiglie italiane spaventosi tributi di sangue e dolore. Si sarebbe combattuta di lì a poco l’undicesima battaglia dell’Isonzo: la Bainsizza, il San Gabriele e il Monte Santo erano pronti a cadere in mano italiana, ma gli austriaci, inesorabilmente, ripresero quasi ovunque il controllo della situazione. E il Monte Hermada, arcigna sentinella sulla strada di Trieste, sarebbe rimasto saldamente in loro possesso. Negli stessi giorni la popolazione di Torino insorse contro i razionamenti e la guerra dando del filo da torcere a esercito e polizia. La città fu messa a ferro e fuoco per una settimana, e anche le donne scesero in strada, riuscendo addirittura a bloccare una colonna di mezzi blindati pronti a sedare la rivolta. Mancavano il pane, che ormai scarseggiava a causa dei razionamenti di farina, e altri generi alimentari di prima necessità. Gli operai chiesero la pace, e in poco tempo la rivolta passò di quartiere in quartiere, trasformandosi in un’imponente manifestazione antimilitarista. Alla fine dei disordini si contarono alcune decine di morti e molti feriti; molti anche gli arrestati, processati per direttissima e finiti in carcere a scontare pene durissime. Anche tra le truppe serpeggiava ormai il malumore, e manifestini inneggianti alla pace furono fatti circolare persino nelle trincee. La situazione era pronta a tracollare.

Nelle povere stanze di Rucorvo la guerra faticava a entrare, perché il cuore di Maria, dopo tanti lutti, ricominciava a palpitare al tiepido contatto del corpo di Italo. Ora toccava a lui attizzare il fuoco al mattino, accomodare un’imposta sconnessa e prendersi cura di lei e della vecchia casa, sempre bisognosa di qualche riparazione, stanca com’era di tener testa alla neve dell’inverno e al sole implacabile dell’estate. Saliva sul tetto al mattino di buon’ora e trafficava con le scandole richiudendo la fessura da cui pioveva nel granaio oppure, con infinita pazienza, rattoppava di lamiera gli antichi gradini che portavano alle stanze del solaio. Quella casa aveva visto passare la storia e l’acqua della Piave dai tempi più remoti: ora assisteva silenziosa all’incontro di due anime ferite e le benediva con sommessi scricchiolii notturni e repentine folate estive che facevano sbattere le imposte come avessero preso improvvisamente vita.

Solo quando il brontolio cupo del cannone rotolava giù dalle vallate più lontane, la casa sembrava rabbuiarsi come i prati d’estate, quando una nuvola scura osa nascondere per un attimo i raggi del sole.

Ardenghi si dava all’amore con lo slancio degli affamati, e con tale costante entusiasmo e passione rozza e sincera che nemmeno il più raffinato degli amanti avrebbe saputo eguagliare la sua dedizione. Amava Maria da uomo e bambino a un tempo, ora come padrone assoluto di quel corpo maturo che giaceva sotto di lui, ora cercandovi rifugio, quasi volesse esserne risucchiato per trovare, alla fine, quiete e riparo. Poi crollava, inondandolo con il suo sudore giovane, aggrappato alla sua donna come un naufrago al relitto.

Maria, da parte sua, lo accoglieva senza indugi e quasi materna, fintanto che la passione glielo permetteva, per trasformarsi poi, abbandonato ogni pudore, in amante vorace e mai paga. La passione li travolgeva sui tavolati del fienile, dove i loro corpi spogliati a mezzo subivano le benevoli trafitture della luce che filtrava dai solai, o tra le stie dei conigli, inebriati dall’odore del fieno, o ancora in cucina, sulla pietra del larìn. E l’ansimare dei due amanti si spegneva allora sotto lo sguardo vuoto di Svuàl che, dalla foto sopra alla cappa del camino, sembrava quasi sorridere. Ardenghi, la testa di Maria addormentata poggiata sul petto, indagava allora lo sguardo corretto a pennello dell’amico perduto, cercando di ricongiungere il volto sbiadito al corpo che aveva conosciuto nella rimessa del Sant’Artemio. Poi si addormentava a sua volta, sereno, fino a che i sensi non lo risvegliavano ancora, e Maria se lo ritrovava tra le braccia, affamato, assetato, pronto a darsi ancora, ebbro di passione e gioventù.

Una notte di agosto il tuono venne a svegliarli. Ardenghi andò alla finestra per capire se non si trattasse invece della voce maligna del cannone, e lo accolse una pioggia inaspettatamente fredda e tagliente; tre corvi passarono alti diretti verso le montagne, veloci come chi fugge, e il loro gracchiare attraversò la vallata, segno che lontano ancora si combatteva. Serrò le imposte come davanti al maligno, ma la pioggia gli aveva già bagnato il corpo nudo. Ritornò nella camera che lo sguardo di Maria risplendeva nel buio.

«Piove?».

«È il temporale che porta l’autunno, ormai la stagione è vicina, e sui monti più a nord si combatte ancora».

Maria si coprì con lo scialle mettendosi a sedere sul letto.

«Italo, finirà mai questa guerra? Ho sentito al mercato che i soldati sono stanchi e tremano al pensiero di un altro inverno in trincea. Si dice che c’è chi si ferisce da solo, pur di non andare più all’assalto, e chi si dà prigioniero agli austriaci per salvarsi la vita. Una donna di Caralte, che ha il figlio alpino in Valparola, dice che ne muoiono più di slavine che per il cannone».

Svuàl e Ardenghi, ognuno dalla propria parte dell’esistenza, ascoltavano muti.

«Certe volte mi sento male al pensiero che me ne sto qui nascosto mentre gli altri combattono; certe volte, fossi certo di non finire davanti al tribunale militare, ritornerei al mio reggimento. Cosa penserà mio padre? Cosa diranno di lui, padre di un disertore?».

Maria rabbrividì, gli si fece più vicino e lo strinse forte, con tanto struggimento che Ardenghi capì che ormai non poteva più vivere lontano da lui. Sentì l’odore di femmina invadergli l’animo, l’odore dolce e aspro a un tempo che aveva imparato a conoscere. Ma non era il momento per fare l’amore, perché, stretti su quel letto, persi in quello sputo di paese ai piedi delle Dolomiti che era Rucorvo, mai erano stati così lontani. Certo la guerra, sempre più vicina e famelica, li stava spiando da qualche vetta contesa, una di quelle dove da anni si combatteva strenuamente senza che nessuno dei due contendenti riuscisse a sopraffare l’altro.

«Cosa sarà di noi due dopo la guerra?».

Era una domanda che spesso era rimbalzata nei loro discorsi.

«Non lo so, Maria, proprio non lo so».

«Ti perdoneranno di essere fuggito o sarai un disertore per sempre e dovrai continuare a stare nascosto?» incalzava. «Qualcuno potrebbe fare la spia, alla fine, e tu finiresti in prigione, forse fucilato».

«Aspettiamo, stiamo a vedere, forse la guerra sarà vinta e tutto verrà cancellato. Forse il re...».

E le parole rimasero sospese, tra speranza e illusione.

Qualche notte dopo Ardenghi, preda dei suoi pensieri, scivolò fuori dal letto silenzioso come un gatto, scese la scala e, accostato l’uscio, si inoltrò nel bosco. Raggiunse una radura vicina che conosceva, le montagne intorno erano nere, soltanto la luna illuminava le cime degli abeti e dei larici. Maria, che aveva finto di dormire, l’osservò muta da dietro i vetri della piccola finestra della camera, accompagnandolo con lo sguardo fino a che la sua figura non fu inghiottita dagli alberi, bigi come le tenebre.

E quella stessa notte, per quei misteriosi legami che il destino si diverte a tessere intrecciando le vite degli uomini, anche il dottor Borletti, nel suo studiolo del Sant’Artemio, non riusciva a riprendere sonno. Sedeva nel silenzio rotto a tratti dai rumori soliti dell’ospedale: una porta che cigola, uno scarico che si svuota, l’urlo secco e gutturale di un matto perduto in chissà quale corridoio lontano che si ripete all’infinito. Lì accanto, il suo letto sfatto: un giaciglio umido di spine e sudore. Teneva sul tavolo la copia della denuncia di irreperibilità inoltrata ai carabinieri; un atto dovuto, uno dei tanti obblighi che il suo ruolo gli imponeva. I militari erano venuti, avevano interrogato il personale in servizio il giorno della scomparsa di Ardenghi, cercato poi in ogni recesso del manicomio, quasi che la parola di Borletti non fosse bastata, e qualcuno era andato persino a controllare nella porcilaia e nel casotto degli attrezzi dove forse ancora si aggirava inquieto lo spirito di Svuàl.

I carabinieri rimasero a lungo chiusi nello studio con Borletti, e la conversazione assunse presto il tono ostile di un interrogatorio: domande serrate, diffidenti, spesso insinuanti, quasi che si sospettasse che il dottore fosse stato complice della fuga o che, per lo meno, l’avesse favorita o non avesse fatto il possibile per evitarla. Qualcuno allora ricordò che lo stesso Borletti aveva concesso ad Ardenghi di girare liberamente per l’ospedale, e questo peggiorò la situazione. Dietro la porta chiusa dello studio si era radunato intanto un capannello di infermieri e matti, e ognuno ascoltava in silenzio, capendo quello che gli era dato di capire.

Poi i militi se ne andarono sulla loro camionetta, lasciando Borletti a rodersi come un delatore pentito: Italo Ardenghi era ormai un disertore, e i suoi dati segnaletici sarebbero stati diffusi in giornata a tutte le stazioni dei Reali Carabinieri.

Maria, fatalista e innamorata, trovava sempre più spesso rifugio nei sogni: la fine della guerra, un’amnistia che cancellasse le colpe di Italo, una vita compassionevole da cui poter sperare di godere in pace delle povere cose di ogni giorno, senza sapere che quelle ingenue fantasticherie erano tutto ciò che il destino era disposto a concederle. Ma intanto puliva e rassettava la casa con benefica intenzione, quasi che l’ordine che aveva in mente potesse traboccare dal suo cuore e mondare tutti i mali del mondo. Girando per le montagne con Maria, Ardenghi si era fatto intanto più ardito; rinvenne in una grotta dei sacchetti di balistite, forse dimenticati da soldati di passaggio, che nascose nel granaio con la speranza di poterli rivendere a Castellavazzo. Insieme raccolsero i primi funghi nelle impervie vallette fuori mano dove nessuno del paese mai si avventurava, per seccarli in vista dell’inverno, e la catasta della legna da ardere attorno alla casa non era mai stata così abbondante, in ordine e ben squadrata. Ardenghi, che non poteva lavorare per paura di essere scoperto e viveva sotto la muta protezione della gente del paese, quando Maria era occupata nelle sue faccende trascorreva sempre più tempo nel granaio, quasi si dedicasse anche lui a mettere ordine tra i propri pensieri. Sedeva in silenzio, disturbato appena dallo scricchiolare dei vecchi mobili o dal frenetico lavorio di qualche topo, e ripensava alla casa, alla sua città bombardata, all’odore buono della bottega di Vittorino. Altre volte scendeva le scale e andava a ritrovare il vecchio Celso nella sua cucina nera di fumo e oscuri presagi. Discutevano della guerra e dell’inverno a venire, e di quanto si poteva immaginare del mondo stando a Rucorvo. Anche Celso, taciturno e riservato con tutti, covava come Maria delle speranze segrete: la caduta dei Savoia, la nascita di uno stato libero e socialista e la fine di tutte le guerre. Pensieri rivoluzionari di cui ben volentieri metteva a parte Ardenghi.

«Ci pensi, Italo? Un mondo senza re e senza guerre, in cui il popolo è sovrano!».

Poi scendeva un silenzio carico di pensieri, e allora Celso sentiva crescere la pena per quel giovane in balìa del tempo a venire, una pena ben occultata dietro le folte sopracciglia bianche e il burbero e lento ruminare del mozzicone di sigaro.

E il destino volle che, qualche settimana dopo, fu proprio lui il primo a venire a sapere che la guerra si era ricordata di Ardenghi.

Il forestiero fu avvistato da una vecchia che andava per erbe sui pendii pieni di sole che sovrastano la Piave. L’uomo vestito da città arrancava su per la salita e, di tanto in tanto, si fermava a guardare intorno e ad asciugare il sudore con il fazzoletto. Era sceso dal treno a Longarone e poi, Dio solo sa come, era riuscito ad arrivare fino a Ospitale, e da lì, ancora a piedi, su fino a intravedere tra le robinie e i carpini le prime case di Rucorvo. Non pareva cattivo, e la calvizie che luccicava al sole quando l’uomo sollevava la paglietta aveva un che di bonario che rassicurava. Ma quegli anni avevano insegnato alla gente che le peggiori disgrazie possono annunciarsi per mano di qualunque messaggero. Così la vecchia scese dai prati e lesta, per rapidi sentieri, raggiunse la casa di Celso.

«C’è un forestiero che sta salendo!» disse bussando all’uscio. «Ho paura che porti rovina».

«Corri subito da Maria» rispose Celso rabbuiandosi alquanto, «dille che nasconda Italo nel granaio e che se ne stia lì fino a che non mi farò vivo io».

Il vecchio, che aveva immediatamente capito cosa mai fosse venuto a cercare lo sconosciuto, abbandonò la roncola con cui stava sgrossando un ceppo e si mise in cammino.

L’incontro avvenne poco dopo, nel piccolo slargo dove stava la fontana all’ingresso del paese. Celso si parò davanti all’uomo con un gesto così risoluto e deciso che l’altro quasi temette di essere aggredito. Vacillando si appoggiò alla vasca e, inumidito il fazzoletto, si rinfrescò il viso, evitando di guardare il grande vecchio che lo sovrastava a braccia conserte.

«Sono il dottor Eugenio Borletti e vengo da Treviso» disse in un filo di fiato, «sono venuto a dire che Italo Ardenghi è in pericolo, perché i carabinieri lo stanno cercando».

Celso, seduto sulla sua sedia accanto al foghèr spento, osservava ora Borletti, crollato sulla panca davanti al tavolo e già più a suo agio; la porta della cucina era chiusa con il chiavistello, e il vecchio aveva accostato anche l’imposta, segno che nessuno doveva permettersi di disturbare, nemmeno la moglie. Il dottore, non ancora riavutosi del tutto dalla fatica della salita e dalla sorpresa del brusco incontro, raccontò dell’interrogatorio subìto da parte dei carabinieri e della preoccupazione per la sorte del fuggiasco. Lui aveva rivelato soltanto che il malato era sparito, chiarì quasi ce ne fosse bisogno, quando e in che modo tutto ciò fosse accaduto non aveva saputo dire. Ardenghi era lì a Rucorvo, nascosto in casa di Maria, Borletti ne era sicuro, l’aveva intuito consultando in archivio la cartella clinica del povero Svuàl, e così aveva trovato il nome del paese in cui viveva con la madre prima della guerra.

Il vecchio Celso, ieratico come un patriarca, ascoltò in silenzio, senza ammettere nemmeno per un attimo che Ardenghi si trovava proprio lì, dall’altra parte dell’orto, seppellito sotto il fieno nel granaio come un topo spaventato. Ma quando si fece convinto che Borletti era sincero e non mosso da intenzioni malvagie, cavò dalla madia una caraffa di vino e gliene versò un bicchiere; poi prese l’uscio e lasciò il dottore solo nella vecchia cucina. Si udiva forte il frinire delle cicale e, di tanto in tanto, anche qualche uccello perduto nel bosco faceva sentire la sua voce. Borletti uscì allora nel cortile, e tutto intorno si fece un gran silenzio.

Celso salì le scale che portavano al granaio seguito da Maria, spaventata e tremante, trasse Ardenghi da sotto il fieno, spiegò ogni cosa, e dalle fessure delle pareti spiarono insieme Borletti che aspettava giù nel cortile, solo e impacciato.

«C’è per te un grande pericolo: salirai in montagna, subito, perché anche i carabinieri saranno presto qui».

Ardenghi avrebbe voluto correre giù a salutare il dottore, forse – in questi casi, si sa, il pensiero è più veloce del lampo – consegnargli un messaggio da recapitare a suo padre, ma Celso fu irremovibile: ridiscese da solo le scale scricchiolanti e congedò presto Borletti che, ancora frastornato, ma ormai convinto di non essersi ingannato su dove si nascondesse il fuggitivo, si rimise in cammino verso valle. Quasi contemporaneamente Ardenghi, fatti su quattro stracci e qualche provvista, prese il sentiero per gli alpeggi; Maria, in grande ansia, lo accompagnò per un lungo tratto.

C’era una casera disabitata da tempo immemorabile sulle pendici del Cavaleto, una bicocca tirata su per comodità dai pastori appena sotto le rocce, e che presto le ghiaie avrebbero inghiottito nella loro lenta ma inesorabile discesa verso valle. Da quando era stata abbandonata, ci dormiva qualche bracconiere di passaggio o i contrabbandieri che poi, passando di notte per il Passo di Cibiana, scendevano in Val Boite. Oltre la casera si perdeva il sentiero che un tempo portava alle miniere del Ciarsies ma ormai, frana oggi frana domani, la montagna se l’era quasi ripreso. Ardenghi la raggiunse in tre ore di cammino; da lì poteva vedere tutta la valle della Piave e, ancora giù, Longarone e oltre, verso la pianura. Una porzione del tetto era ancora al suo posto e, sistemate quattro assi già crollate dalla parete verso nord, si costruì una specie di baracchino per avere riparo nella notte. Poi iniziò la sua vita da eremita.

La prudenza di Celso non era stata eccessiva, infatti, qualche giorno dopo – Maria aveva già provveduto a nascondere ogni indizio della presenza di Ardenghi – quattro carabinieri agli ordini di un maresciallo arrivarono al paese: cercarono, interrogarono e poi, saputo quale fosse la casa di Maria, entrarono senza bussare e misero tutto sottosopra. Trovarono soltanto la foto di Svuàl al suo posto, appesa al camino, perché Celso, accodatosi al drappello con la scusa di far strada, aveva provveduto a dare un calcio e far scomparire sotto al letto gli scufoi di Ardenghi, incautamente dimenticati da Maria sul pavimento. Poi, sul tavolo della cucina, davanti a un bicchiere di vino, il maresciallo scrisse il nome degli interrogati, firmò il verbale e se ne tornò con i suoi uomini da dove era venuto. A Rucorvo nessuno commentò, quasi che il passaggio dei militi avesse attraversato il paese come una nuvola di fumo, presto sfilacciatasi verso le vette.

Il giorno dopo Maria salì alla casera abbandonata per avvertire Ardenghi che il pericolo era passato. Lo trovò intento a rifare il filo su una pietra a una vecchia roncola trovata tra le macerie, assorto nei suoi pensieri e con lo sguardo perso lontano. Il Col Alto e le Laste si vedevano appena, nascosti all’orizzonte da un velo di foschia.

«Sono passati i contrabbandieri sere fa» esordì prima ancora di salutarla «e hanno detto che la guerra si sta mettendo male».

«Madonna santa, sarà vero? Quelli sanno sempre tutto! Vanno su e giù per le valli come il vento: raccolgono notizie e le portano da qualche altra parte».

«Dicono che noi non sappiamo niente perché siamo ignoranti e stiamo sui monti, ma tutta l’Italia è in subbuglio: la gente vuole pane e pace, e non ne può più della guerra».

«Ma se l’Austria vincesse la guerra, tu forse...».

Maria, nella sua semplicità, non aveva avuto il coraggio di esprimere fino in fondo quel pensiero grandioso e ingenuo che si insinuava nel suo cuore come un’inconfessabile speranza. Ma Ardenghi aveva capito quello che voleva dire: se la guerra fosse stata perduta, e il nemico avesse occupato i territori, forse Ardenghi non sarebbe stato più considerato un disertore. Era un desiderio bieco ma umano, perché ormai l’unica cosa che importava a Maria era salvare il suo Italo, qualunque fosse stato il prezzo da pagare.

Ridiscesero al paese, e la vita riprese il ritmo del lento sgranare dei giorni, tutti uguali, tutti frugali e disperati allo stesso modo. Restava l’amore, ma anche quel sentimento così dissimmetrico e nuovo pareva offuscarsi, a volte, sotto il peso della preoccupazione.

E a fine ottobre, si stavano raccogliendo le castagne, e la legna per l’inverno era già sistemata all’asciutto, iniziarono a scendere dai monti verso la pianura lunghe file di soldati. Camminavano senza disciplina, molti senza più l’elmetto o il fucile; qualcuno sorreggeva i compagni feriti che potevano ancora camminare, mentre altri, stipati sui carri, lasciavano ciondolare la testa come inutili pupazzi. Passarono compagnie e battaglioni, sovente con gli ufficiali che cercavano di far rispettare una parvenza di disciplina; molti, alla vista del fiume, si precipitavano a riempire le borracce, altri chiedevano pane ai valligiani che si affacciavano alle porte. Girò voce che il nemico avesse travolto il fronte e la guerra fosse ormai perduta, qualcuno parlava di tradimento. Altri, senza farsi sentire dagli ufficiali, parevano quasi contenti e ripetevano euforici: «A casa, si va tutti a casa!».

Gli austriaci avevano sfondato a Caporetto. Preceduti, all’alba del 24 ottobre, da un bombardamento senza precedenti, condotto anche con granate a gas, e sostenuti da sette divisioni germaniche, avevano sferrato un poderoso attacco alle posizioni italiane, verso Tolmino e in tutta la conca di Plezzo. L’artiglieria italiana non sparò, i soldati ormai esausti, vista l’impossibilità di sostenere un simile urto, lasciarono cadere le armi. Comandi confusi, rifornimenti impossibili, nessun coordinamento capace di porre freno, se mai fosse stato possibile, all’avanzata austro-germanica. I portaordini, partiti eroicamente e a più riprese con i dispacci per i comandi avanzati, scomparvero, inghiottiti dalla battaglia.

Alle diciotto la prima linea italiana è annientata.

La situazione è drammatica: interi corpi d’armata in fuga intasano le strade, mentre i genieri fanno saltare i ponti per rallentare l’incalzare nemico; ormai tutti gettano le armi e i primi drappelli tedeschi, lanciati all’inseguimento degli italiani in ritirata, vengono scambiati sulle prime per prigionieri condotti nelle retrovie.

Qualche giorno dopo, erano ormai i primi di novembre, mentre le truppe nemiche ormai dilagano nella pianura veneta, i quotidiani d’Italia riportano in prima pagina il comunicato firmato da Cadorna: «La mancata resistenza di reparti della Seconda armata, vilmente ritiratisi senza combattere, o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso alle forze austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte giulia. Gli sforzi valorosi delle altre truppe non sono riusciti a impedire all’avversario di penetrare nel sacro suolo della Patria».

Ancora una volta, quindi, si cercava di addossare la responsabilità della sconfitta proprio a quegli uomini che da più di due anni combattevano su ogni fronte, compiendo il proprio dovere a costo di sacrifici enormi. Ma l’Italia dei contadini e degli operai, quella che aveva sfamato le fauci della guerra con la carne dei figli e dei padri, sapeva come stavano davvero le cose.

L’invasore avanzava ormai senza trovare resistenza, e sui muri delle case, dopo il saccheggio, comparivano le scritte «Venedig, Mailand, Rome» e i nomi delle altre città, ancora più a sud, che il nemico, nella sua baldanza, riteneva ormai conquistate. I comandi italiani ordinarono esecuzioni sommarie, improvvisati tribunali di guerra emanarono sentenze lampo che sempre si concludevano con fucilazioni. Il popolo italiano patì la perdita di altri quattrocentomila uomini, che andavano a ricongiungersi con le altre vittime del conflitto che cambiò il corso della storia.

A Rucorvo, mischiate ai soldati italiani in fuga, unite dalla medesima paura dell’invasore, passarono le genti delle zone ormai occupate, fuggite con il poco che potevano: i materassi, scampoli di mobilio, la specchiera, le caldiere e un po’ di stoviglie; e poi coperte, vestiti per l’inverno, sacchi di farina di mais e qualche damigiana. Passavano su carri stracarichi e traballanti, seguiti da mucche e capre legate per la cavezza; i bambini in piedi, affacciati alle fiancate, i vecchi muti, la testa che ciondolava per il sonno e la malinconia. Gli uomini camminavano di fianco alle bestie, a capo chino, guardando con pietà o dispetto i soldati che, in lunga fila indiana, procedevano spediti: tutti erano la preoccupazione fatta persona. Avevano lasciato la casa e ora andavano profughi chissà dove, da parenti, da amici che forse non vedevano da tempo, o dove il destino li avrebbe sbattuti. Anche le città vicine al fronte si svuotarono, e l’ultimo treno che lasciò Treviso fu proprio la tradotta dei matti del Sant’Artemio, diretta a Borgo Panigale, dove tutti sarebbero stati ospitati fino alla fine della guerra.

Il giorno dopo, appena dopo l’alba, o forse avevano iniziato a passare già durante la notte senza che nessuno se ne fosse accorto, si videro le prime pattuglie tedesche in avanzata. Soldati stanchi, sfiniti sotto il peso dello zaino e del grosso elmo; ma il pensiero della vittoria vicina rimbaldanziva gli animi e il turpe desiderio di far bottino e razzia. In paese tutti avevano nascosto quel poco che poteva far gola ai barbari: spariti i conigli, coperte di frasche o portate nel bosco la legna e le patate, nascosti tra le assi del solaio i pochi valori di famiglia. La farina da polenta, divisa in sacchetti, finì dentro ai sacconi del letto, i fiaschi dell’olio furono sotterrati nell’orto o in cantina.

Un ufficiale preceduto da due soldati salì dalla strada verso le case e, armi in pugno, requisì una delle due mucche del vecchio Celso; un soldato insisteva per portar via anche l’altra, ma l’ufficiale fu irremovibile: una mucca per loro poteva bastare. La macellarono, con il resto della compagnia, sulla piazzetta, a colpi di baionetta e di scure, tra urla e imprecazioni. Poi ripresero il cammino, ognuno con la sua parte di carne nello zaino.

Deposto Cadorna e affidato il comando al generale Diaz, a metà novembre le truppe italiane avrebbero arginato l’avanzata degli imperiali tra la Piave, il Monte Grappa e l’Altopiano di Asiago; ma Trentino, Friuli, Venezia Giulia e il territorio di Belluno sarebbero rimasti saldamente in mano al nemico.

Ora Ardenghi doveva restare sempre nascosto in casa e, in caso di pericolo, sarebbe salito ancora una volta nel granaio, rifugiandosi sotto il fieno. Durante il giorno stava accanto alla finestra a spiare la strada, a volte con Maria che, spaventatissima come una gatta con i piccoli, andava e veniva sempre a caccia di notizie. Piovve per due settimane e sovente la pioggia si trasformava verso sera in nevischio: un’onda triste di freddo e umido che penetrava nelle ossa e faceva fumare malamente la legna del foghèr. Dai tetti delle case lo stillicidio continuo scavava nei viottoli profonde canalette in cui il passo si impantanava, mentre il cielo, come un lugubre compianto, riversava sugli uomini tutto il suo dolore. Il mercato di Perarolo era sparito, perché chi aveva qualcosa da parte se lo teneva caro, e tutti avevano paura degli austriaci e dei tedeschi che, si diceva, avessero violentato nella vicina Longarone una donna sotto gli occhi dei figli. In un altro paese della vallata, avevano ammazzato a sangue freddo una coppia di contadini che non voleva farsi portar via tre capre.

Accade una sera verso la fine di novembre: Ardenghi già da qualche giorno non si sentiva bene, ma aveva insistito per aiutare Maria a trasportare della legna dal bosco alla cucina. Ormai nevicava e, rientrando bagnato fradicio, sentì su di sé una stanchezza mai provata, accompagnata da una sgradevole sensazione di paura. Maria, dopo averlo obbligato a sorbire una minestra di patate e rape, lo mise a letto. La sua fronte scottava come la brace e la tosse secca e maligna che gli scuoteva il corpo aumentava di ora in ora. Maria lo vegliò tutta la notte, alla luce fioca della lampada a petrolio, pregando e misurando ogni più piccolo respiro, ma all’alba la febbre era ancora più alta. Spaventata, corse a svegliare la moglie di Celso, che da sempre curava i malanni e a cui tutti, a Rucorvo come in altri paesi della valle, riconoscevano misteriosi poteri. La donna accorse in cernecchi, sprofondando con le sue ciabatte nella neve che silenziosa aveva coperto i viottoli durante la notte. Visitò Ardenghi a modo suo: per prima cosa guardò la sclera, a lungo e con straordinaria attenzione, quasi dovesse leggerci il destino del malato, spostando le palpebre verso il basso e poi verso l’alto. Auscultò i polmoni come avrebbe fatto un vero medico appoggiando l’orecchio alla schiena sudata e gelida, toccò il ventre, sprofondò due dita nella gola di Ardenghi fino a provocare un leggero conato di vomito, raccolse dell’espettorato e lo esaminò attentamente alla luce della lampada, riuscendo a nascondere a Maria che era venato da leggere striature di sangue. Poi scese le scale e scomparve. Ritornò che era ancora buio, con un piccolo tegame colmo di un unguento color della pece; spiegò come applicarlo sul corpo del malato, dando ordine di tenerlo in assoluto digiuno. Dopo essersi segnata per tre volte, discese le scale e ritornò a casa. La giornata trascorse senza alcun miglioramento; Ardenghi non parlava, e il suo aspetto era terreo, le labbra esangui, gli occhi chiusi, il respiro corto e irregolare. Maria si attenne scrupolosamente agli ordini della fattucchiera, pregando e sperando che a nessuno dei soldati che di continuo transitavano sulla strada venisse in mente di entrare in casa per chiedere cibo o far razzia. All’ora del precoce imbrunire di novembre la febbre era salita ancora; la moglie di Celso, ritornata per la terza volta al capezzale, scosse la testa impotente e rimase accanto al letto mentre Maria, digiuna dal giorno prima, scendeva in cucina per cercare di mangiare un po’ di minestra. C’era poco da fare: Italo Ardenghi stava ormai morendo e non avrebbe passato la notte.

Invece, come volle Dio, la notte passò, e alle prime luci dell’alba Italo viveva ancora. Maria decise di richiamare al capezzale la moglie di Celso e di partire per raggiungere Longarone, a cercare un dottore. La donna arrivò subito dopo e non riuscì a nascondere un moto di disperata sorpresa: la pelle del malato aveva assunto un’orribile sfumatura bluastra e a ogni colpo di tosse l’espettorato sanguinolento macchiava il lenzuolo.

«È un male cattivo e misterioso, portato dai soldati o forse dai venti: corri, Maria, bisogna fare presto! Va’ a Longarone e cerca il dottor Da Cort» ordinò, «è un uomo buono, ci aiuterà».

Maria, calzate le grosse scarpe da montagna e gettatosi addosso uno scialle, uscì nell’alba gelida e presto scomparve, risucchiata dal nevischio e dalle ultime ombre. Camminava veloce, con il cuore in tumulto, sicura che mai avrebbe fatto in tempo a salvare la vita del suo uomo; passo dopo passo, sentiva crescerle dentro l’angoscia, l’impotenza e la disperazione. A cosa era mai servito strappare Italo dalle fauci della guerra se ora il destino se lo portava via così, come si era portato via Svuàl? E che cosa aveva mai fatto lei di male per meritare tutto questo? Lei, piccola donna sola a cui la vita aveva già chiesto tanto. La Piave sotto la strada scendeva in tumulto, limacciosa come poche volte l’aveva vista; il fiume amico faceva ora paura, tormentava i ciottoli del greto, trascinava a valle rami e tronchi, come certo altrove i corpi dei morti, gonfi d’acqua in balìa della corrente.

A Ospitale si imbatté in un convoglio tedesco che riprendeva la marcia dopo la sosta notturna, soldati giovani con in testa enormi elmi di acciaio, alcuni ancora perduti nel sonno appena interrotto, altri, certo più esperti di guerra, parlavano tra loro fumando o masticando tabacco. Gli ufficiali, il frustino in mano, incitavano uomini e cavalli; un grosso sergente la sollevò di peso e, senza una parola, la mise a sedere sul carro più vicino. Disse ad alta voce una frase incomprensibile e tutti scoppiarono a ridere. Maria si tirò lo scialle sulla testa: seduta tra i nemici e le armi che avevano sparato contro i soldati italiani, guardava passare ai suoi piedi la strada, il fiume e la valle che l’aveva vista nascere e dove certo avrebbe concluso i suoi giorni. Le divise bagnate spandevano intorno un forte odore di umido e sudore, e sembrava impossibile immaginare che esistessero ancora prati pieni di sole e panni freschi di bucato, pensieri lievi, gioie semplici: la pace, l’amore, il rispetto. Quando vide che il convoglio si apprestava a prendere la strada per Codissago e risalire quindi la Val Cellina, Maria saltò a terra e, senza dar tempo ai soldati di trattenerla, si buttò alla macchia.

Raggiunse la piazza di Longarone per istinto, come fanno gli animali nel bosco, attraverso la vegetazione, scarmigliata e con la gonna trapuntata di foglie e di spine. Vide un vecchio e gli si buttò incontro.

«Per favore, per favore, dove abita il dottor Da Cort?».

Il vecchio l’accompagnò attraverso i vicoli e Maria presto bussò alla porta che le era stata indicata.

Il dottore ascoltò il racconto, assentendo gravemente, e disse che non c’era tempo da perdere e, mentre gli preparavano il calesse, versò a Maria una tazza di caffè bollente a cui aggiunse un’abbondante dose di grappa, obbligandola a berla tutta d’un fiato. Poi prese la sua borsa e si misero in viaggio.

Nella stanza di Rucorvo la morte non era ancora riuscita ad averla vinta su Ardenghi. Ma il malato, sprofondato nel saccone del letto, sembrava rimpicciolito, rinsecchito come un tralcio di vite che ormai non ha più linfa, e un orrendo rantolo accompagnava ogni respiro. La moglie di Celso si era assopita in un angolo e non si era nemmeno accorta che Maria era rientrata seguita dal dottore. Il cielo pareva essersi fatto più cupo, e i monti incombevano sul paese come mai prima, quasi fossero pronti anch’essi a ghermire. Alla luce della lampada, Ardenghi fu rigirato su un fianco e auscultato a lungo, con attenzione compresa. Era come se il vecchio Da Cort cercasse un appiglio, un piccolo, segreto salvacondotto, rimasto nascosto fino a quel momento, per strappare il malato alla morte. Poi gli tamburellò la schiena con le nocche, gli aprì gli occhi e la bocca quasi a forza, tanto era serrata.

«Non c’è più niente da fare: il suo fisico è giovane, robusto, ma la malattia è più forte. Ormai siamo alla fine».

Maria gli si buttò ai piedi.

«Me lo salvi, dottore, che muore, la prego, la prego: ci sarà una medicina, un rimedio!».

«No, Maria, mi dispiace, io non posso fare più nulla per lui». Poi, allargando le braccia in un gesto vago: «Forse in un ospedale, chissà? È un male nuovo, oscuro, che non lascia scampo e non si sa da dove viene: è più forte delle medicine, più forte della guerra».

Da Cort riprese la sua borsa e iniziò a scendere la scala; Maria, impietrita dal dolore, nemmeno lo accompagnò alla porta. Arrivarono due vecchie chiamate dalla fattucchiera e tutte e tre si misero in un angolo a pregare sottovoce. Maria discese le scale e uscì sulla strada, il calesse del dottore era ormai lontano e il nemico aveva ripreso a scendere verso la pianura, una fiumana inarrestabile, un serpente di uomini, carriaggi e cannoni. E Maria piangeva, sotto la pioggia fredda e crudele di quel maledetto novembre del 1917.

Con lo sguardo offuscato dalle lacrime, riconobbe un carro coperto con una vistosa croce rossa dipinta sulla fiancata e gli corse incontro allargando le braccia, decisa a fermarlo. Il conducente tirò le briglie e una crocerossina si sporse da cassetta.

«Mio figlio sta morendo: per favore, aiutatelo!».

La crocerossina saltò a terra e decisa precedette Maria verso la casa, salirono insieme le scale, una dietro l’altra; il lungo grembiale, che forse un giorno era stato pulito, frusciava sui gradini.

«Ecco» disse Maria entrando nella stanza dove Ardenghi agonizzava, «ecco!».

La crocerossina diede uno sguardo al malato, in silenzio, in piedi davanti al letto, e il suo pensiero forse vagava lontano. Poi, improvvisa, risoluta come un colpo di vento, corse giù per le scale e richiamò i barellieri.

«Schnell, schnell, bringt die Bahre! Der Mann liegt im sterben!» gridò con autorità, e gli uomini accorsero. Pochi minuti dopo la barella con Ardenghi esanime fu caricata sull’ambulanza: «Schnell, schnell!».

Le due donne si guardarono negli occhi per un lungo momento, immobili sotto la pioggia; poi la crocerossina raccolse il grembiale tra le mani e saltò sull’ambulanza che si stava già muovendo. Maria restò sull’uscio: confusa guardava il carro che si allontanava confondendosi con il resto della colonna nemica che dilagava verso la pianura.

Chiamò il nome del suo uomo che se ne andava, ma le rispose soltanto la pioggia.

1. Piccola diga edificata sul greto dei torrenti per facilitare la fluitazione dei tronchi.