Il salotto della Sarfatti e il “covo” di Mussolini
Nel settembre 1919 Sironi arriva a Milano. In quel periodo la città è dilaniata dalla crisi economica e dalle tensioni politiche, ma è anche una capitale dell’arte dove confluiscono pittori, scultori, scrittori, intellettuali. Alla fine del 1918 era giunto Savinio, nel 1919 arrivano Bontempelli, de Chirico, Arturo Martini, Notte, Zanini, nel 1920 Marussig, Bucci e altri ancora.
Sironi, questa volta, non ha più l’entusiasmo di quando era venuto a Milano nel 1915 per entrare nel gruppo dirigente futurista. Le ferite della guerra sono ancora aperte, la nostalgia di Matilde è lacerante e, in più, ha il dubbio di aver commesso un errore rinunciando ad andare a Parigi. In una lettera dello stesso settembre scrive alla moglie:
Cara piccola,
speravo una tua oggi ma invece non è arrivata. E pure vorrei tue notizie e sentire la tua voce! Milano ronza intorno come quei motori del dirigibile che ascoltavamo svegli appena, quando anche l’amore mi era permesso. L’impressione non è la stessa. L’unico sollievo sarebbe lavorare se mi fosse possibile piantare una sedia in piazza del Duomo! Oggi mi hanno parlato di Parigi. Perché non mi sono deciso per Parigi? […] Che cosa può darmi la città commerciante se non il ribrezzo e il bisogno di difesa contro la sua stessa potenza? Certo meglio di Roma che è un bel sogno deplorevole.1
La città, dunque, gli suscita “ribrezzo”, eppure ne avverte tutta la “potenza”. Quella realtà «brutta, ma solida»,2 come la definisce, gli dà un senso di repulsione ma anche un’idea di imponenza. Sono le stesse contrastanti sensazioni di squallore e di forza, di dramma e di monumentalità che genereranno tra breve le sue Periferie. Dalla fine del 1919, infatti, i paesaggi urbani non sono più relegati sullo sfondo della composizione, come accadeva nei lavori del 1916-1918, ma ne diventano l’unico soggetto. Dal trauma della realtà milanese (e di una Milano che non è più la città euforica e interventista del 1915, ma la capitale di un dopoguerra senza pace) nasce una delle pagine più alte della pittura italiana, e non solo italiana, dell’epoca.
Appena arrivato, Sironi trova una sistemazione provvisoria nell’albergo dell’amico di un suo zio, forse lo zio Libero. È un alloggio di fortuna dove non può nemmeno lavorare. Un indizio di tutta la sua frustrazione è un violento diverbio con uno sconosciuto pittore milanese. Poteva essere una delle tante innocue discussioni che allora si accendevano al Savini o negli altri caffè frequentati dagli artisti, e invece Sironi la fa degenerare in una sequela di insulti. Indignato, l’interlocutore lo sfida a duello: lo scontro, a mani nude, avviene di notte in corso Venezia e Sironi ha la meglio. «Sono pugni, pugni. A me non ha sfiorato la pelle» racconta con malinconico orgoglio a Matilde.3
Alla fine di settembre, grazie sempre all’amico dello zio, trova una stanza ammobiliata: centoventi lire al mese più le spese di riscaldamento per un locale in cui si muove a stento, perché quasi tutto lo spazio è occupato da un enorme armadio, un lettino e un minuscolo tavolo di cinquanta centimetri. Non c’è nemmeno la cucina, ma almeno ha la possibilità di lavorare. Un’abitazione che permetta a Matilde di raggiungerlo, però, è ancora un sogno irrealizzabile: «L’unica soluzione sarebbe il nido a due io e te. […] Ma è necessaria la casa. Dove trovarla?».4
Continua intanto a riflettere sulla pittura metafisica che a Milano, in questo periodo, significa esclusivamente Carrà. Mentre de Chirico non espone manichini nella città lombarda prima del 1921, Carrà già nel dicembre 1917 aveva presentato alcune composizioni metafisiche in una personale da Chini. Nel dicembre 1919, poi, pubblica il libro Pittura metafisica dove non fa il minimo cenno a de Chirico, accreditandosi di fatto la paternità della tendenza.
A Sironi le ultime opere di Carrà interessano molto. Ama la casa quadrettata di otto piani e la musa dal lungo peplo dell’Ovale delle apparizioni, la piramide e i poliedri del Figlio del costruttore e del Cavaliere occidentale, che vede su Valori Plastici, e forse va a trovare il loro autore in studio. In questo periodo, comunque, avverte suggestioni contrastanti. Attraverso Marinetti e la cerchia di pittori che gravitano intorno a lui come Funi, Russolo e Notte, è ancora legato alla prospettiva futurista, anzi è ancora un esponente del gruppo. Attraverso Margherita Sarfatti (di cui frequenta assiduamente il salotto dove si riuniscono Dudreville, Marussig, Bucci, Tosi, Arturo Martini, Piatti, oltre agli stessi Funi, Russolo, Notte) avverte le istanze del Ritorno all’ordine, intrise di echi idealisti e platoneggianti. Lo specchio di un tale crogiolo di linguaggi sono i suoi disegni di questo periodo in cui cavalli, automobili, vie cittadine si alternano a figure che hanno dell’automa e del manichino o a stanze disseminate di solidi geometrici.
Ballerina, bozzetto di copertina per Ardita, 1919. Tempera su cartoncino. 51,6 × 39,6. Collezione privata, Roma.
È impossibile dare un ordine cronologico alle opere di Sironi del 1919, animate da diverse direzioni di ricerca. Agli accenti futuristi prevalenti nei mesi romani subentrano nella prima stagione milanese un predominio di cadenze metafisiche e una più compatta ricostruzione della forma, ma sostanzialmente i due stili coesistono. Nei suoi lavori di quest’epoca possiamo incontrare tanto scomposizioni futuriste venate di enigmaticità metafisica (Notturno, Cavallo, 1919), quanto temi metafisici intrecciati a motivi futuristi (Manichino con tram, 1919). Quando Margherita Sarfatti gli chiede una copertina per Ardita – il supplemento letterario del Popolo d’Italia dove era già uscito il racconto di Bontempelli illustrato da Bombe tricolori su tutte le barbarie – disegna una ballerina del café chantant in forma di manichino, mescolando l’interesse futurista per la vita notturna con l’invenzione dechirichiana.
Certo, Sironi non è un eclettico che abbraccia ecumenicamente tendenze diverse e nella sua pittura si può individuare una linea coerente che evolve dal Futurismo alla Metafisica alla classicità novecentista. Tuttavia la sua ricerca incontentabile lo porta a considerare più soluzioni stilistiche in uno stesso arco di tempo, complicando il tracciato del suo percorso. Lo notava già Margherita Sarfatti in uno dei suoi primi testi su di lui:
Ha in sé una forza così duttile e varia che lo impaccia. Alla sua coscienza, inquieta e diffidente di sé, i problemi si affacciano con troppe diverse possibilità di risolverli.5
Emblematica di questo complesso periodo è La lampada che non era stata esposta in luglio da Bragaglia e mescola Metafisica, platonismo, realismo. Qui in un interno dimesso – un’eco della stanza d’albergo e della camera ammobiliata dove Sironi aveva trovato alloggio – una donna dalle fattezze di manichino accende una lampada per illuminare il tavolo. Il suo corpo è un’armilla geometrica che conserva però qualche traccia di grazia femminile: il nodo dell’ombelico, le calze di seta fino al primo giro della coscia, le scarpette con i tacchi alti, l’acconciatura quadrata (quella pettinatura nata a Parigi nel 1909, ma diffusa soprattutto nel dopoguerra, che a partire dal 1922 verrà chiamata à la garçonne dal romanzo di Margueritte). Realistico è, apparentemente, l’arredo: la sedia Thonet impagliata, il modesto tavolino verniciato, la lampada di cui sono disegnati attentamente il filo a saliscendi, l’anello del gancio, le viti di congiunzione, i bulbi a incandescenza. Solo una cosa è palesemente incongrua: la piramide. Qui non siamo di fronte a un’oscillazione fra corpo e manichino, come nella figura femminile, e nemmeno alla stilizzazione di un oggetto quotidiano. Lo storto poliedro, così ingombrante, non può essere nemmeno un soprammobile, che del resto avrebbe poco senso in un ambiente così spoglio. La piramide è ripresa dal Figlio del costruttore di Carrà, che era stato pubblicato su Valori Plastici nel maggio-giugno 1919 ma che Sironi poteva aver visto nello studio dell’artista. Quella reminiscenza, però, si carica anche dei significati platonici che circolano nel salotto sarfattiano. Prismi e poliedri non sono solamente oggetti stranianti e inspiegabili, come nella poetica dechirichiana, ma «figure belle in sé», come dice il Filebo citato dalla Sarfatti. Sironi, comunque, non si cura di dipingere un tetraedro matematicamente perfetto, ma vuole accentuarne la tridimensionalità. La sua, del resto, è una Metafisica fisicissima, che non vuole oltrepassare la natura (“metafisica”, dal greco metà ta physikà, significa “oltre le cose fisiche”), ma potenziarla. Nelle sue opere tutti gli elementi hanno massa, peso, volume. Per lui, più ancora che per Carrà, il platonismo significa solidità di forme: forme costruite come architetture, sbozzate come sculture, disegnate con la squadra per meglio sottolinearne lo spessore.
In ottobre, intanto, Sironi si avvicina al fascismo, alle cui convinzioni rimarrà fedele fino alla fine. Marinetti lo incontra il 5 ottobre a una riunione del Fascio milanese: «Riunione del comitato centrale dei Fasci di Combattimento. Vedo Settimelli Vecchi Mazza Sironi».6
Che cosa spinge l’artista, che qualche mese prima non aveva aderito al Partito politico futurista, a seguire ora il nuovo raggruppamento? Al di là dell’influenza di Marinetti e delle insoddisfazioni contingenti (forse non dissimili da quelle di Arturo Martini, che dichiarerà: «Siccome morivo di fame con il giolittismo, ho creduto a questo movimento, cioè al fascismo»),7 possiamo ipotizzare che sia stato mosso – come tanti – da uno slancio nazionalistico. Tre mesi prima, il 28 giugno, il trattato di pace di Versailles aveva disatteso le richieste dell’Italia, negandole la Dalmazia e Fiume. Il grido lanciato da D’Annunzio alla vigilia della battaglia finale di Vittorio Veneto (“Vittoria nostra, non sarai mutilata” aveva scritto sul Corriere della Sera il 24 ottobre 1918) era stato contraddetto e anche per Sironi la delusione e la collera per la “vittoria tradita” dovevano essere alla radice del suo coinvolgimento politico. Il fascismo sembrava dare una risposta all’idea – o al sogno – che Sironi aveva dell’Italia. Nel settembre 1919, mentre l’artista giungeva a Milano, D’Annunzio aveva marciato su Fiume dove aveva instaurato un governo rivoluzionario deciso a riaffermare l’annessione all’Italia del Carnaro, rifiutata da Versailles. Mussolini mostrava di appoggiare l’azione del Vate, che il governo Nitti aveva invece disconosciuto.
Proprio in questo periodo, attraverso Marinetti, Sironi conosce il futuro Duce. Lo incontra al “covo”, la prima sede del Popolo d’Italia in via Paolo da Cannobio 35, non lontano dal duomo. Racconta Mussolini a De Begnac:
Marinetti mi aveva detto, presentandomi Sironi: “Non ti tradirà mai”. La parole risuonarono alte nello studiolo di via Paolo da Cannobio. Sironi mi guardava. Non parlava. Il volto mi rivelava malinconia che non era tristezza, ma già sapienza delle cose del mondo. Io ammiravo i disegni contenuti in una grande cartella. […] Disse che li aveva portati tutti per me, grandi com’erano, alti quanto la sua persona. Ne scelsi uno, uno soltanto. […] Non dimenticherò mai quel disegno a unico personaggio. Un solo personaggio campeggiava su una parete di roccia. Sembrava ritagliato, a tutto tondo, nella pietra.8
La testimonianza di Mussolini è del 1942 (accenna infatti alla nuova sede del Popolo d’Italia, terminata quell’anno da Muzio) e anche questa volta è imprecisa nei dettagli perché è difficile che nel 1919 Sironi gli abbia mostrato figure di proporzioni monumentali. Le sue illustrazioni e i suoi disegni dell’epoca hanno dimensioni ridotte, anche se la potenza dello stile infonde loro una grandiosità che, nel ricordo, avrebbe potuto confondersi con una grandezza fisica. È plausibile invece che sia stato Marinetti a presentare l’artista a Mussolini. Certo, i due avrebbero potuto conoscersi anche nel salotto di Margherita Sarfatti, ma quell’ottobre il fondatore del fascismo e il fondatore del Futurismo operavano fianco a fianco, in vista delle imminenti elezioni. A Mussolini, comunque, Sironi si lega presto di amicizia, come ricorderà molti anni dopo Matilde:
Era amico di Mussolini […]. Lo conobbe credo nel 1919 a Milano. Ecco, direi che mio marito era un “mussoliniano”, in quanto certe sue idee collimavano (nel 1919, si badi bene) con quelle dell’allora [dell’ex, N.d.R.] giornalista dell’Avanti!9
Il 16 novembre si tengono le elezioni, le prime con il sistema proporzionale, che vedono la vittoria del Partito socialista e una buona affermazione del neonato Partito popolare di don Sturzo. Il movimento fascista invece, che si presenta solo a Milano con una lista guidata da Mussolini e Marinetti, esce duramente sconfitto dalla consultazione. (E non è difficile immaginare che uno dei circa cinquemila voti ottenuti – nemmeno il due per cento del totale – sia stato quello di Sironi.)
Se il pittore delle Periferie è vicino politicamente a Marinetti, non lo è altrettanto artisticamente. Probabilmente di questo periodo è Il camion giallo, in cui inserisce un nuovo omaggio al poeta: un ritaglio di collage con la scritta Zang tumb tumb, il suo libro più famoso. Quando però, il 15 dicembre, Marinetti gli chiede di rispondere a un questionario sulle possibili correnti del Futurismo (pittura pura, dinamismo plastico, decorativismo dinamico astratto, stato d’animo colorato), Sironi esita, ritarda, rimanda. Quelle formule gli sembrano inadatte alla sua pittura e, forse, a ogni pittura. Su Roma futurista usciranno le risposte di Gino Galli, non le sue. «Modo migliore di manifestare la mia non adesione» commenta con Folgore.10
In realtà il clima artistico sta rapidamente cambiando alla fine del 1919 e le ricerche degli anni precedenti appaiono all’improvviso superate. De Chirico nel novembre-dicembre dipinge opere ormai lontane dalla Metafisica. Nell’Autoritratto con statua si ritrae in studio con una fisionomia rinascimentale, davanti a una scultura greca che è il simbolo della copia dall’antico e con il pennello in mano che è l’emblema del mestiere. Nel Ritorno del figliol prodigo evoca attraverso la parabola evangelica il ritorno alla pittura classica. Analogamente Carrà, sempre in novembre, termina Le figlie di Loth, un dipinto intriso di reminiscenze giottesche, etrusche ed egizie dove i manichini lasciano il posto a figure neotrecentesche.
Anche Sironi condivide l’aspirazione a una nuova classicità che in quell’epoca anima tutti i maggiori artisti europei, da Picasso a Derain, da Miró a Dalí, da Grosz a Dix. Tuttavia non approva, in un quadro, la trama troppo evidente delle reminiscenze. Pensa, come Margherita Sarfatti, che per essere veramente classica un’opera debba essere anche moderna. È una concezione contraddittoria perché o si è classici o si è moderni, ma per entrambi una composizione è moderna quando è disegnata in forme sintetiche, puriste, senza inutili particolari. La via della copia precisa, percorsa da de Chirico e Carrà e predicata da Valori Plastici, non è la loro.
Agli inizi dell’anno nuovo Sironi decide così di firmare, pur con qualche scetticismo («Ora sento di aderire a un manifesto ma mi domando in questa Italietta barbara a che mi serva aderire ad un manifesto futurista»),11 il testo di Russolo Contro tutti i ritorni in pittura, sottoscritto anche da Funi e Dudreville: una dichiarazione programmatica che critica l’imitazione dell’antico compiuta da Carrà, ma anche lo stile analitico e frammentario. «Si sente il bisogno di una […] sintetica visione plastica» sostiene il manifesto.12
Sono le stesse idee di sintesi su cui si ragiona nel salotto di Margherita Sarfatti. Abbiamo, in proposito, una testimonianza del figlio Amedeo, che ricorda una serata del 1920 a cui erano presenti Sironi, Russolo, Funi, Tosi e altri artisti. Si era accesa, ricorda Amedeo, una discussione sulle tendenze dell’epoca e tutti convenivano sulla necessità di uno stile sintetico. Improvvisamente però il pittore Ugo Piatti, che di solito era sempre silenzioso, aveva esclamato che era inutile parlare di sintesi, perché l’arte moderna è frammentaria.
Vi fu un momento di silenzio e di stupore; e poi la reazione fu violenta ed aggressiva. Ma come, dicevano gli altri, da un’ora cerchiamo di definire le vie della sintesi, che partendo dall’analisi degli impressionisti e dei divisionisti e dalla scomposizione dei cubisti deve riportarci più oltre, a una nuova e armoniosa composizione, e tu ci dici che tutto questo è inutile. Non ci fu verso di smuoverlo e di convincerlo […] e “Piatti il frammentario” egli fu chiamato da quella sera, quasi a scorno e derisione.13
Ma come si svolgevano le riunioni del mercoledì, cui abbiamo già più volte accennato? Quello di Margherita, ci informa sempre Amedeo
era strettamente un salon ou l’on cause e vi si discuteva di tutto, ma specialmente d’arte e più particolarmente di pittura, giacché di pittori era formata la maggioranza. Fino al 1915 vi aveva dominato Boccioni […]. Dopo la guerra, gli assidui erano soprattutto Sironi, Tosi, Funi, Salietti e Marussig.14
Gli ospiti arrivavano alla spicciolata nella casa di corso Venezia 93, di fronte ai giardini pubblici. L’appuntamento era intorno alle venti e i discorsi, stimolati dalla scrittrice, si animavano subito e si protraevano per ore. Leggiamo una testimonianza poco nota di Emilio Pettoruti, un pittore argentino allora in Italia:
Margherita era sui quarant’anni e nel pieno della sua bellezza. Sapeva bene come tener viva la serata e far sentire a proprio agio gli ospiti. […] Verso mezzanotte un cameriere ci veniva a dire (eravamo sempre una decina) che donna Margherita ci invitava a fermarci per la cena. Non si poteva mai andar via da casa Sarfatti prima delle tre del mattino.15
In quel salotto dove “aveva dominato Boccioni”, dove tanti pittori si definivano futuristi e firmavano manifesti futuristi, stava nascendo un movimento che futurista non era più. Era il Novecento Italiano.