I paesaggi urbani e la mostra alla Galleria Arte
Nel novembre 1919 Sironi si trasferisce in via Pisacane 37, allora alla periferia di Milano. La strada non è distante dall’elegante corso Venezia, dove vivono Marinetti e i Sarfatti, ma è un quartiere popolare in cui risiedono vari artisti: prima della guerra in via Castel Morrone aveva trovato alloggio Boccioni e in via Eustachi Bonzagni; ora in piazzale Dateo abita Funi, in via Nullo Martini. Il numero 37 è un modesto edificio di tre piani, tipico dell’edilizia economica d’inizio secolo, con lo stretto portone di legno che dà sulla strada e qualche fregio dozzinale che incornicia le finestre. L’appartamento di Sironi è all’ultimo piano, come si deduce da una fotografia: una «sordida pensioncina» lo definirà Matilde senza troppi romanticismi.1
Per guadagnare qualcosa, nel gennaio 1920 l’artista inizia a collaborare alle Industrie Italiane Illustrate, un’altra delle riviste fondate da Notari, l’editore degli ormai cessati Avvenimenti. Nel corso dell’anno disegna in media una tavola alla settimana: un impegno apparentemente poco gravoso, ma che diventa faticosissimo perché deve trovare sempre nuovi soggetti, illustrare idee e situazioni spesso vaghe, sotto il controllo assillante dell’editore.
Ho passato una giornata penosa e angosciata. I disegni di Notari ! […] È Notari che mi sconnette! […] Il buio il vuoto completo e ne ho ben donde! Fare della filosofia in caricatura!! E non avere un principio
si lamenta in una lettera a Matilde; e in un’altra: «Io lavoro lavoro! Mi trapano il cervello».2
Grazie al modesto guadagno di illustratore, però, può finalmente farsi raggiungere dalla moglie. La coppia vive in condizioni difficili. Nel 1920 la crisi economica, con l’aumento vertiginoso del debito pubblico, il crollo della lira e l’inflazione dilagante, tocca il culmine, inasprendo i conflitti sociali che sfociano in una serie di scioperi generali e, in settembre, nell’occupazione delle fabbriche, mentre si acuisce la violenza dello squadrismo. Intanto in giugno Nitti, capo di un governo durato solo dodici mesi, cede il potere a Giolitti.
All’instabilità della situazione politica si aggiunge l’incertezza di quella individuale: Sironi per le sue tavole riceve compensi irrisori e ora non può nemmeno contare sullo stipendio della moglie, che venendo a Milano ha dovuto lasciare l’insegnamento. Qualche tempo dopo Matilde, per poter riottenere una cattedra, si impegnerà a terminare l’università studiando di notte, di nascosto dall’orgoglioso marito che, more italico, non vorrebbe ricorrere al suo aiuto.
Per il momento però non può lavorare e spesso nella casa di via Pisacane si soffre la fame. Mezzo secolo dopo Matilde ricorderà ancora che, quando Sironi aveva dipinto uno dei suoi paesaggi urbani più belli, avevano mangiato in tutta la giornata «un uovo in due».3 Nel 1921 l’artista troverà un lavoro più regolare, anche se sempre malpagato, al Popolo d’Italia e la situazione si allevierà un poco, ma l’economico alimento continuerà a comparire frequentemente sulla tavola della coppia, come dimostra una scherzosa cartolina di Margherita Sarfatti del 1922:
Caro Sironi,
in collerissima con voi! Vi avevo ordinato un sontuoso banchetto per rifarvi delle ova misere misere a cui siete pare condannato e che l’altro giorno avete sdegnosamente rifiutato. […] Venite prima di mercoledì se potete, con la signora e la piccina.4
Nasce agli inizi del 1920 il Paesaggio urbano con camion, l’unica periferia sironiana di cui conosciamo con certezza la data, perché viene esposta alla Galleria Arte in marzo e il mese dopo è pubblicata da Somarè in una recensione della mostra.5 Rispetto alle precedenti visioni di città ora la prospettiva si è disciplinata, nonostante il taglio ripido della casa sulla sinistra che si inerpica lungo la lama del marciapiede. Sironi dipinge con il filo a piombo. Nel quadro non c’è una forma che non sia geometrica, se si esclude lo sbuffo lento della ciminiera e il cauto sfrangiarsi del cielo all’orizzonte. Non c’è nemmeno una linea curva, se si eccettuano le ruote del camion, che però sono così massicce da sembrare cubiche. La quadrettatura regolare, che trasforma il recinto dei casamenti in una scacchiera verticale innalzata contro il cielo, si ritrova anche in alcune illustrazioni sironiane dello stesso 1920 ed è influenzata dall’Ovale delle apparizioni di Carrà, a sua volta ispirato alla Natura morta evangelica di de Chirico. Secondo la poetica novecentista della sintesi, però, la composizione è vigorosamente semplificata e si riduce a un incrocio di lastre e cubature. Oggi, dopo tanta lezione razionalista (ma anche dopo Aldo Rossi che a Sironi, non a caso, ha dichiarato di ispirarsi), siamo abituati a un’architettura così elementare, formata solo da una sequenza di quadrati, ma agli inizi degli anni venti, quando eclettismo e liberty erano ancora gli stili dominanti, quando la Ca’ Brüta (1918-1923) di Muzio veniva chiamata così perché era priva di tutti gli orpelli decorativi del classicismo umbertino, la città sironiana colpiva in modo dirompente per la radicale semplificazione delle forme. Per la sua “sintesi”, appunto.
Paesaggio urbano con camion, 1920. Olio su tela, 50 × 80 cm. Collezione privata, Milano.
L’artista, comunque, è intimamente convinto del valore delle sue Periferie, che non si riallacciano più ai modi futuristi o metafisici, ma coniugano una firmitas classica con uno stile moderno. Tra gennaio e febbraio confida a Folgore:
Se verrai a Milano avrò il piacere di mostrarti la mia nuova produzione – e vedrai che si è già purificata dalle influenze ed ora è libera e mi dà risultati che mi riempiono di speranza. Se il sogno si avvererà mi sembrerà un miracolo!!6
Intanto mancano pochi mesi all’inaugurazione della Biennale di Venezia e Margherita Sarfatti cerca con tutte le sue forze di farvi invitare i pittori in cui crede: Sironi, prima di tutto, e poi Funi, Russolo, Dudreville, Carrà. Parla con Vittorio Pica, commissario dell’esposizione, ma ottiene solo un educato diniego. Decide allora di sollevare una polemica sui giornali, sollecitando anche il sostegno degli amici. Sironi cerca l’appoggio di Folgore e Longhi a Roma, pur con il consueto disincanto («Io non ci tengo a entrare a Venezia. Ci tengo a rompere il silenzio a fare del baccano che sottolinei tante verità che passano inosservate»); Carrà prova a coinvolgere Soffici, che però non stima il gruppo milanese («Cosa c’entrano con l’arte Sironi e Russolo?» è la sua risposta); lei stessa denuncia sul Popolo d’Italia che l’avanguardia italiana è dimenticata, e il suo intervento è sostenuto animosamente anche da Marinetti, Carrà e Notari.7 In aprile, poi, invia alla presidenza della Biennale una lettera di protesta contro i mancati inviti, firmata anche da vari intellettuali e politici fra cui Mussolini, e la fa pubblicare sul Popolo d’Italia pochi giorni prima dell’inaugurazione della mostra.8 Intanto, aiutata da Notari, fa pressioni su Molmenti, il suo antico precettore, ora sottosegretario alle Belle Arti del governo Nitti.
Tanta indignazione, tanto concerto di voci, tante mosse diplomatiche non approdano a nulla. In maggio, a rassegna ormai inaugurata, sembra che uno spiraglio si apra. Pica propone di esporre le avanguardie in un padiglione a parte, che potrebbe essere curato da Barbantini, Soffici e Ojetti, ma si tratta di una soluzione di ripiego che viene rifiutata sia dagli artisti che dai presunti curatori. Anche la ventilata possibilità di ospitare i giovani a Ca’ Pesaro sfuma, questa volta perché non viene ammesso Casorati: un’inutile lettera di protesta contro l’esclusione è firmata anche da Sironi.9
Se l’ambizioso progetto veneziano fallisce, Margherita era riuscita poco tempo prima a realizzarne uno più circoscritto – ma, alla fine, ugualmente significativo – a Milano. Aveva convinto cioè Amleto Selvatico, un facoltoso industriale suo amico, a destinare a galleria d’arte il seminterrato di un suo negozio in via Dante, nel centro del capoluogo lombardo, e a finanziarne l’attività espositiva.
Nominato cavaliere del lavoro nel 1917, Selvatico possedeva un’industria di apparecchi elettrici e aveva fatto fortuna inventando degli innovativi impianti di riscaldamento, che poi brevetterà in America. Pare, se è vera la testimonianza di Pettoruti, che il consenso definitivo all’iniziativa gli sia stato estorto durante una serata del mercoledì, quando Margherita aveva annunciato di fronte a tutti:
“Il nostro generoso patrono aprirà una galleria d’arte in un suo spazio in via Dante e ha nominato direttore lo scrittore Mario Buggelli.” Scoppiò un applauso entusiastico e l’industriale, imbarazzato, dovette tener fede alla promessa in onore di donna Margherita.10
Lo spazio espositivo viene battezzato Galleria delle Mostre Temporanee o Galleria Arte. Quest’ultimo nome, apparentemente generico, non è casuale. Dire arte, scrive tante volte la Sarfatti, è come dire Italia: per lei, dunque, il nuovo spazio espositivo esprime quella vocazione insieme artistica e nazionalistica che sarà alle origini anche del Novecento Italiano. Quanto a Buggelli, era uno scrittore monzese, figlio di un pastore protestante, amico fin dalla giovinezza di Bucci e Dudreville, con i quali aveva fatto parte agli inizi del secolo del gruppo artistico Coenobium e aveva condiviso un viaggio a Parigi nel 1906.
La Galleria Arte si inaugura il 20 marzo 1920. Nella collettiva di apertura espone tutto il gruppo sarfattiano, da Sironi a Funi, Bucci, Dudreville, Marussig, Arturo Martini, cui si aggiungono Carrà, de Chirico, Carpi, Penagini, Pettoruti, Zanini e altri artisti. Il curioso spazio attira l’attenzione. Vincenzo Bucci, critico del Corriere della Sera, lo ribattezza aulicamente “Galleria degli ipogei” e de Chirico tre mesi dopo scrive:
La Galleria “Arte” è un luogo amenissimo, diremmo quasi un piccolo eden sotterraneo; […] le mostre che periodicamente vi si organizzano sono certamente fra le più interessanti e curiose.11
In realtà lo scantinato di via Dante all’angolo con via Giulini, a cui si accedeva solo passando per il negozio di apparecchi elettrici di Selvatico affacciato sulla strada, era tutt’altro che un eden. Le sue salette sapevano di muffa, vernice, segatura ed erano affollate solo le sere delle inaugurazioni, poi rimanevano sempre vuote.12 La galleria, gestita direttamente dagli artisti, si proponeva di destinare gli eventuali utili a giovani pittori e scultori e non c’è bisogno di aggiungere, date queste premesse, che chiude nel giro di un anno. Eppure in quel breve arco di tempo riesce a organizzare alcune esposizioni importanti, come le prime personali milanesi di Arturo Martini e de Chirico e la prima mostra di Funi. Ne è in programma una anche di Sironi, che però non si farà in tempo a realizzare.
Nella collettiva inaugurale il futuro fondatore del “Novecento” espone per la prima volta i Paesaggi urbani, uno dei vertici della sua arte. Ne presenta tre, che chiama semplicemente Paesaggi. Non sono luoghi ridenti: non hanno aiuole, vene d’acqua, viali alberati, luci, vetrine e sono immersi in un colore che è quello della terra e della pietra. La loro durezza è una metafora dell’esistenza, perché non è la periferia a essere dura, ma la vita. Il loro significato ultimo è però propositivo: case e fabbriche sembrano cattedrali laiche e danno un’idea di imponenza, di solidità, di durata. La loro saldezza ha qualcosa di eterno che fa da contrappunto alla drammaticità dell’immagine.
Chi, in quel marzo 1920, fosse entrato nella Galleria Arte e, abituato alle città sfarfalleggianti degli impressionisti (se non a quelle frenetiche dei futuristi e a quelle enigmatiche ma luminose della Metafisica), avesse visto i Paesaggi di Sironi, li avrebbe sicuramente trovati tristi. Capita anche adesso, a distanza di un secolo. Occorre invece non equivocare sulla loro asprezza. Può aiutarci, allora, analizzare come li descriveva la Sarfatti in quegli stessi giorni, perché la sua lettura non nasceva solo dal suo intuito critico, ma anche dalla conoscenza dell’artista e dalle discussioni che si accendevano nel suo salotto. Ed è una lettura in cui il pittore si riconosceva, vista la continuità e l’intensità del loro sodalizio intellettuale. Sironi, scrive dunque Margherita nel cataloghino della collettiva, riporta «gli aspetti tumultuari e confusi della vita moderna […] verso l’ordine e l’armonia».13 Sironi, osserva ancora,
Paesaggio urbano con taxi, 1920. Olio su cartone riportato su tela, 70,8 × 50,7 cm. Collezione Elena e Claudio Cerasi.
da questo squallore meccanico della città odierna ha saputo trarre […] gli elementi e lo stile di una bellezza e di una grandiosità nuove. È lui l’artista che ci insegna a scorgere, nelle tetre periferie urbane, il senso sospirato dal poeta “luxe, ordre et beauté”. Le ha glorificate […] con una comprensione contenuta e semplice […] dei loro elementi tragici.14
La scrittrice individua dunque nei Paesaggi urbani, oltre agli “elementi tragici” che notano tutti, qualcosa di più difficile da cogliere: quella che chiama, con espressione nietzschiana e dannunziana, la glorificazione. Sironi, intende dire, infonde nelle sue dolorose periferie un senso di forza e di armonia. La città sironiana, del resto, è anche la metafora della volontà di costruire, intesa come un imperativo categorico e un compito etico, costi quello che costi. Il vero soggetto dei Paesaggi urbani è l’architettura stessa, non perché essi rappresentino degli edifici ma perché edificano delle forme. Tutta l’Europa avverte in questi anni un desiderio di costruzione e di ricostruzione, in senso ideale non meno che concreto. E anche Sironi, come tutti gli artisti dell’epoca, vuole “costruire”. Non per niente Bontempelli, in un racconto pubblicato sulle Industrie Italiane Illustrate nello stesso 1920, scrive:
Ogni tanto bisogna rifornirsi di sostantivi e di aggettivi. Prima della guerra c’erano le parole “sensibilità”, “dinamico”, “musicale”; oggi invece le pietre basilari del vocabolario critico sono “costruito”, “corposo”, “architettura”.15
E anche Margherita Sarfatti, sempre nel 1920, osserva:
Costruire: una paroletta da nulla a dirla così: ma… per enunciarla come un programma, ci voleva del coraggio […]. Che cosa si propone ora il manipolo dei pittori di avanguardia italiani? Costruire, essi vi rispondono.16
Costruire, dunque. Ma che cosa? Sironi riprende dalla sua stagione futurista l’idea di una città totalmente contemporanea. La sua metropoli non ha centro storico, monumenti antichi, tracce del passato remoto o prossimo. È composta solo dalla testuggine delle case, dalla trama delle strade e delle rotaie, dagli inarcamenti dei cavalcavia e, poi, dai segni del lavoro industriale: gli obelischi delle ciminiere, le basse fabbriche dai tetti a triangolo, le gru a trave mobile, i tralicci, le cisterne. Dalla stagione metafisica, invece, riprende l’atmosfera sospesa, carica di presagi, gravata da una misteriosa immobilità. Biciclette, macchine, tram, treni, camion appaiono bloccati e i pochi uomini che si scorgono restano fermi sulle vie deserte. La città non è il luogo della comunità, ma della solitudine.
Non bisogna credere, comunque, che i Paesaggi urbani abbiano suscitato a Milano chissà quale interesse. Oltre alla Sarfatti e a Somarè (che però non risparmia loro qualche critica), Vincenzo Bucci, Giacconi e Giolli scrivono brevemente della mostra, ma di quelle solitarie periferie non si accorgono nemmeno.17
Paradossalmente in questo periodo il nome di Sironi è più citato in Spagna. In aprile viene diffuso anche nel paese iberico il manifesto Contro tutti i ritorni in pittura e il poeta Guillermo de Torre, l’allora diciannovenne traduttore di Marinetti, ne parla con ammirazione. «Los pintores futuristas Dudreville, Funi, Russolo y Sironi combaten ciertos intentos regresivos del cubismo francés» osserva in luglio sulla rivista d’avanguardia Grecia. Gli fa eco un altro poeta, il madrileno Mauricio Bacarisse, che sempre in luglio elogia il «dolce e nascosto ripensamento» del Futurismo analitico compiuto da Sironi e compagni, e appoggia la loro attuale ricerca di sintesi. Qualche mese dopo Guillermo de Torre nomina nuovamente il manifesto sulla neonata Reflector e ancora più a lungo (almeno stando a quanto riferisce compiaciuta la futurista Testa di Ferro) lo commentano La Publicidad di Barcellona e il prestigioso Heraldo de Madrid.18
Possiamo immaginare che Sironi non sia rimasto troppo lusingato da quelle citazioni perché l’anno prima, per un caso analogo, aveva confidato alla moglie:
Il mio Ciclista è stato riprodotto in prima pagina nella più grande illustrazione del… Messico. Così mi ha detto Marinetti, gli ho fatto capire che questi tributi di ammirazione della patria degli Aztechi non mi riempivano anzi mi rompevano le tasche.19
Intanto continua a guadagnarsi da vivere lavorando per Notari e, a dicembre, anche per il figlio dell’editore, Massimo, che seguendo giovanissimo l’esempio paterno aveva fondato nel 1919 La fiamma verde. Per quel mensile, destinato agli studenti, Sironi disegna due illustrazioni. Potrebbe diventare una collaborazione significativa, ma la vita decide altrimenti. Massimo scompare tragicamente tre mesi dopo, a diciannove anni, mentre si sta recando a Praga per rappresentare l’Italia al Congresso studentesco internazionale. Sironi, che lo aveva conosciuto adolescente, non lo dimenticherà e nel 1930, vedendo alla Galleria Bardi un suo ritratto da bambino scolpito da Küfferle, scriverà:
Caro indimenticabile Massimo Notari: un amore di bimbo, ancora ignaro del suo grande talento e del suo doloroso destino.20