La nascita del Novecento Italiano
La galleria del cavalier Lino Pesaro, nell’elegante palazzo settecentesco che ospitava anche il Museo Poldi Pezzoli, non assomigliava in nulla allo scantinato di via Dante. Affacciata su via Manzoni, a due passi dal Teatro alla Scala, con i tre grandi saloni tappezzati di seta che accoglievano il visitatore e le nobili savonarole che invogliavano a una sosta, ispirava un’idea di decoro, di agiatezza, di sicuri e fruttuosi investimenti.
Calabrese ma ormai lombardo d’adozione, di religione ebraica come i Sarfatti, Pesaro aveva fondato la galleria in tempo di guerra, nel 1917, e la prima mostra che aveva organizzato era stata inaugurata da Fradeletto, uno dei vecchi precettori di Margherita. Ora, a quarantatré anni, era nel pieno della sua attività. Nutriva anche lui simpatie per il fascismo: era lontana, inimmaginabile in quel 1922, la tragedia delle leggi razziali. Pesaro non farà in tempo a conoscerla perché si ucciderà nel luglio 1938, oppresso dalla vergogna di aver venduto – involontariamente – un quadro falso.1
È in una sala della galleria di via Manzoni che la Sarfatti e gli artisti a lei più vicini (Sironi, Funi, Bucci, Dudreville, Malerba, Marussig, Oppi) prendono a riunirsi regolarmente nell’autunno 1922. Vogliono fondare un gruppo e, dopo qualche infruttuoso abboccamento con la Bottega di Poesia, si appoggiano al gallerista calabrese, che interviene anche lui agli incontri. Nasce così il Novecento Italiano.
Dudreville, in una testimonianza del 1944-1945, racconta che Sironi «partecipava alle sedute piuttosto svagato e disinteressato».2 Non è difficile credergli, conoscendo l’atteggiamento sempre dubbioso dell’artista. Quel suo iniziale distacco, però, non deve far pensare a una presa di distanza definitiva. Superate le prime perplessità, Sironi sarà una delle anime del movimento, sia con il suo ponderato giudizio su artisti e opere, sia con la sua forza polemica. Ne difenderà risolutamente le ragioni di fronte ai triviali attacchi dei primi anni trenta, come di fronte ai fraintendimenti e ai silenzi, anche più insidiosi, del secondo dopoguerra.
All’inizio Bucci aveva proposto di chiamare il gruppo “Candelabro”, e l’immagine delle sette braccia innalzate su uno stesso piedistallo esprimeva bene quella mescolanza di individualità autonome e fondamenti comuni che caratterizzava i sette artisti. Il nome però venne scartato perché sembrava «troppo da sinagoga»3 e per questo, paradossalmente, era poco gradito a Pesaro e a Margherita Sarfatti.
Bucci pensò allora a “Novecento Italiano”. Per giovani che quasi nessuno conosceva (Sironi aveva ormai trentasette anni, ma per il sistema dell’arte di quei tempi rimaneva ancora un giovane) era un azzardo, e lo stesso Bucci lo considerava una boutade. Per Margherita però, e per molti suoi artisti a cominciare proprio da Sironi, esprimeva un ideale visionario: riportare la nostra pittura alla grandezza del Rinascimento, a quei secoli d’oro che allora venivano chiamati, all’italiana, “Quattrocento” e “Cinquecento”.
Ma qual era la poetica del gruppo? Una poetica, in effetti, si stava delineando tra quei sette pittori che pure erano così diversi per origine e formazione: Funi, ferrarese, veniva dal Futurismo; Bucci, marchigiano, dal Simbolismo e dal Postimpressionismo; Dudreville, veneziano, da un’astrazione a sfondo simbolico e dal realismo; Malerba, milanese, dal Postimpressionismo; Oppi, nato a Bologna ma vicentino d’adozione, dal Primitivismo; Marussig, triestino, dal linearismo mitteleuropeo. Anche se nei tardi anni venti il “Novecento” cercherà di raccogliere senza troppe distinzioni tutta l’arte italiana nata nel dopoguerra, in quel 1922 si ragionava ancora di princìpi da condividere: non di regole stilistiche, alla maniera delle avanguardie, ma di un orizzonte comune nel cui ambito potevano convivere linguaggi diversi.
Prima di tutto i novecentisti aspiravano a una “moderna classicità”. Volevano tornare alle “idee generali” o “idee maestre” dell’arte, come Margherita amava dire, cioè a una composizione costruita solidamente e secondo proporzioni armoniche, ma sottoposta a quella sintesi di cui avevano discusso tante volte nelle serate del mercoledì. Volevano, ancora, dipingere cose quotidiane sottraen-
dole al corso del tempo, secondo quelle suggestioni platoniche e idealiste che circolavano nell’Europa dell’epoca. In fondo, che cos’erano i paesaggi urbani di Sironi, se non la visione della Milano del dopoguerra, considerata sotto l’aspetto dell’eternità? Non per niente la Sarfatti proprio nel 1922 pensava di pubblicare un saggio sui suoi artisti intitolato Dal moderno all’eterno.4
Il cuore della “moderna classicità”, però, erano i “valori umani”, come li chiamava la scrittrice: tornare a dipingere l’uomo nella sua compiutezza ideale, non come una parvenza provvisoria alla Monet, non scomposto in linee come nel Futurismo e nel Cubismo, non trasformato in statue o manichini come nella Metafisica. La poetica del Novecento Italiano, dunque, era in sintonia con il Ritorno all’ordine.
Come era tipico degli orientamenti classicisti del periodo, i sette non stilano nessun manifesto. Si impegnano però a esporre sempre insieme: chi avesse voluto una mostra personale avrebbe dovuto chiedere il consenso agli altri. La loro prima uscita pubblica avviene alla Galleria Pesaro il 7 dicembre, festa di Sant’Ambrogio: una data dal valore ideale, perché si riallacciava al patrono di Milano, ma anche di portata pratica, perché permetteva di approfittare del vivace mercato natalizio. I sette espongono tutti in una saletta, oltre a presentare un quadro ciascuno, a rotazione, nella vetrina su via Manzoni. Il giorno dopo la Sarfatti annuncia:
Il signor Lino Pesaro […] nella sua bella Galleria di via Manzoni ospita ora il gruppo dei pittori del “Novecento Italiano”. Ne formano parte Sironi, il valoroso disegnatore umorista e satirico del nostro Popolo d’Italia, il quale è pure un delicato e forte pittore; Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Pietro Marussig, Achille Funi, Emilio Malerba, Ubaldo Oppi. […] Dal signor Pesaro avranno un ritrovo simpatico, di affiatamento, una saletta e una vetrina per esporvi a turno le loro migliori opere.5
La scrittrice dunque, infrangendo l’ordine alfabetico e soffermandosi più a lungo su Sironi, gli assegna già ora, implicitamente, il ruolo di caposcuola del gruppo. Non ci dice invece quali opere avesse esposto nella saletta, e non lo sappiamo nemmeno dall’unica recensione della mostra, firmata da Carrà. Sempre in occasione della festa di Sant’Ambrogio, infatti, esce anche il primo numero dell’Ambrosiano, un nuovo giornale dell’attivissimo Notari, destinato a diventare uno dei più autorevoli del tempo. La rubrica d’arte è affidata appunto a Carrà, che già il giorno dopo lancia qualche frecciata a quei sette che pretendono «di rappresentare il secolo nuovo», ma non parla dei loro quadri e di Sironi dice solo che è il «caricaturista del Popolo d’Italia».6
Non poteva essere diversamente, del resto. Nel 1922 il fondatore del “Novecento” aveva pubblicato circa duecentocinquanta tavole sul quotidiano di Mussolini, compresa l’edizione del lunedì: quasi un disegno al giorno, tranne un periodo di sosta fra il 14 ottobre e il 7 novembre, e un altro intervallo durante le feste di Natale. Tutti lo consideravano soprattutto un illustratore: una definizione che doveva suonare un po’ umiliante (fede fascista a parte) per Sironi, che fin da ragazzo aveva inseguito «gli splendidi fantasmi dell’arte classica». La lunga interruzione nella seconda metà di ottobre, peraltro, non era una pausa qualsiasi: l’artista aveva partecipato alla marcia su Roma. È una notizia poco nota, perché Sironi non ne fece mai un vanto durante il Ventennio, ma tra le sue carte rimane ancora un attestato che la comprova.7 Il 30 ottobre, comunque, all’indomani della marcia, Mussolini affida la direzione del giornale al fratello Arnaldo che, nell’arco di una settimana, richiama nuovamente il valido illustratore.
Intanto il 3 novembre, subito dopo la nomina del capo delle camicie nere a capo del governo, Sironi firma con Carrà, Funi, Marinetti e altri artisti un messaggio augurale che, pur non essendo scritto da lui, rivela una delle ragioni del suo fascismo: la convinzione che Mussolini saprà riaffermare il valore dell’arte italiana.
Con l’assunzione del giovane italiano Benito Mussolini al Governo, viene finalmente sfasciata la mediocre mentalità che da tanti anni soffocava la precipua qualità della razza: l’eccellenza dello spirito artistico. […] Noi siamo sicuri di avere in Mussolini l’Uomo che saprà giustamente valutare le forze della nostra Arte dominante sul Mondo.8
Al di là della retorica, già allora intensissima, il breve messaggio era per certi aspetti profetico, perché Mussolini avrebbe effettivamente “valutato” l’arte come un potente strumento di consenso per il regime. In modo uguale e contrario, del resto, Margherita Sarfatti sfrutta subito la relazione sentimentale con lui come un potente strumento di affermazione del “Novecento”.
La prima occasione si presenta nella primavera del 1923. Pesaro mantiene la promessa di dedicare una saletta permanente al gruppo e vuole segnalarla con una mostra. Margherita, sapendo che il capo del governo sarebbe venuto a Milano il 26 marzo per l’avvio dei lavori della Milano-Varese, la prima autostrada italiana, fissa l’inaugurazione lo stesso 26 (un lunedì, giorno inusuale per le vernici), chiedendogli di intervenire.
Quel pomeriggio in galleria, dunque, oltre a svariate autorità si radunano tutti gli artisti del gruppo, tranne Bucci e Dudreville che si trattengono polemicamente al caffè Cova, quasi di fronte alla Pesaro, ostentando la loro assenza. È in quell’occasione che Mussolini dichiara:
È lungi da me l’idea di incoraggiare qualche cosa che possa assomigliare all’arte di Stato. L’arte rientra nella sfera dell’individuo. Lo Stato ha un solo dovere: quello di non sabotarla, di dar condizioni umane agli artisti, di incoraggiarli dal punto di vista artistico e nazionale.9
Effettivamente il rapporto fra il “Novecento” e il fascismo, strettissimo per vincoli di amicizia e per la piena adesione dei suoi maggiori esponenti all’ideologia del regime, non si tradurrà mai in un’arte di Stato. Anche Sironi, che pure nella pittura murale degli anni trenta si proporrà esplicitamente di esprimere “lo spirito della rivoluzione fascista”, non creerà mai un’arte cortigiana, intenta a dimostrare enfaticamente la bontà del dittatore e la felicità del popolo.
Torneremo su questo argomento. Notiamo intanto che anche questa volta i quadri che espone passano inosservati, come del resto quelli degli altri sei. È una lacuna comprensibile (le cronache preferiscono soffermarsi sul discorso del presidente del consiglio e, semmai, sul suo successivo incontro con Medardo Rosso alla Bottega di Poesia), ma purtroppo ci priva di un altro appiglio prezioso per fissare la sempre traballante cronologia delle opere sironiane.
Sicuramente di questo periodo, comunque, è la copertina per la nuova edizione delle Solitarie di Ada Negri. Intima amica di Margherita Sarfatti – a cui il libro era dedicato – e di Umberto Notari, anche lei socialista poi approdata al fascismo, la poetessa aveva pubblicato per la prima volta il fortunato volume da Treves nel 1917. Il libro era composto da quattordici novelle, ognuna sulla vita e sulla psicologia di una diversa figura di donna. Nel gennaio 1923 Mondadori decide di ristamparlo e per la copertina l’autrice si rivolge all’amico Mario, che aveva incontrato nei salotti di Margherita e di Notari e che nel 1916 aveva eseguito il suo ritratto. Gli chiede di disegnare il
cipresso del Soldo fenduto alla cima, dietro il muretto dell’orto. Nessuna illustrazione mi sembra più di questa sintetizzante la solitudine morale delle donne del libro.10
L’artista acconsente, ma trasforma l’immagine esile e lanceolata dell’albero amata dal Simbolismo. Disegna un blocco verde, compatto come una pietra miliare, con un tronco più poderoso che nella realtà e una piccola fenditura che non ne incrina la massa. Il cipresso si eleva altissimo fino a oltrepassare idealmente il margine del foglio, mentre il muretto, ribassato come un gradino, gli dà ancora più imponenza. La composizione, così, comunica il senso di solitudine voluto dalla scrittrice, ma anche un senso di solidità. Non per niente Ada Negri in una lettera ad Aldo Gabrielli, direttore della Mondadori, lo definirà «cipresso monolitico» e, quando nel 1925 uscirà una nuova edizione del libro, cercherà inutilmente di conservare la vecchia copertina con quell’albero che è «così significativo. E poi è Sironi, uno dei nostri grandi pittori».11
Nel febbraio 1923, mentre l’artista sta lavorando al “cipresso monolitico”, il Novecento Italiano è trascinato in una polemica: la prima di infinite altre che dovrà affrontare nel suo percorso. Nella vetrina su via Manzoni dedicata a rotazione ai sette è il turno di Oppi che espone Conca fiorita, un corteo di ninfe dal nudo castissimo e quasi efebico, immerse nel folto del bosco. Nonostante la sua castigatezza l’opera è denunciata per oltraggio al pudore da una certa “Società per la pubblica morale” e sequestrata dalla Questura. Poco dopo, grazie a un intervento di Lino Pesaro, viene riesposta, ma è nuovamente sequestrata. Sironi e compagni, allora, pubblicano una lettera sul Popolo d’Italia, firmata anche da altri intellettuali e artisti, protestando contro chi pretende «di stabilire i confini del lecito e dell’osceno in arte».12
Studio per la copertina delle Solitarie di Ada Negri, 1923. Tempera e matita su carta, 32 × 20 cm.
In aprile, soffocato alla meglio lo scandalo, i sette iniziano a progettare una mostra alla Pesaro che si dovrebbe aprire in novembre, ma una notizia improvvisa scompiglia i loro programmi. Vittorio Pica, sollecitato dal gallerista (ma desideroso anche di scongiurare gli attacchi che l’avevano colpito quattro anni prima e che ora avrebbero l’appoggio del capo del governo), ha deciso di invitarli come Novecento Italiano alla Biennale del 1924. Nell’euforia generale, che forse – chissà – contagia anche Sironi, si alza una nota stonata: Oppi confessa che, infrangendo le regole del gruppo, ha già accettato la proposta di Ojetti di partecipare alla rassegna con una sala individuale.
La defezione, opportunistica anche se obiettivamente comprensibile (una personale a Venezia valeva bene la violazione di una legge non scritta), indigna gli altri, soprattutto l’intransigente Dudreville. Scoppiano forti contrasti, finché in giugno Oppi rassegna le dimissioni dal gruppo.
Mentre è ancora viva l’irritazione per quel “tradimento”, Sironi aggrava di un altro carico la sua già consistente mole di lavoro. In luglio nasce La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia, supplemento culturale del quotidiano, e l’artista accetta di illustrarne i racconti. Al foglio, che esce ogni due mesi ma dal 1924 diventa mensile, Sironi collaborerà sempre, spesso con più disegni, fino alla chiusura nel luglio 1943. Se si calcola che nel 1923 pubblica duecentosessanta tavole tra Il Popolo, Il lunedì, La Rivista, la copertina di Gerarchia e, inoltre, le illustrazioni per Storia di un micio bigio, di un gatto nero e di una marmottina prigioniera (un libro per ragazzi di Pina Gonzales, la “dolce Pina” ricordata da Boccioni nella sua ultima cartolina a Margherita Sarfatti), si può comprendere perché si definisse «sempre tormentato dal lavoro».13
Ma non è solo l’impegno assillante dei disegni a opprimerlo. In questo periodo Matilde si reca a Roma per dirimere alcune questioni ereditarie, sorte dopo la morte di sua madre. Profonda è l’angoscia dell’artista:
Ti dico vieni vieni e vorrei che sentissi con quanto affetto con quanto desiderio con quale angoscia te lo dico. Quando ti dico che è un incubo un incubo maledetto una orribile malattia. Io non vivo più campo alla meglio tra un sussulto e un altro. […] Come sei lontana Matilde! Lontana ed estranea da me!!14
Sono parole che fanno pensare a un lungo distacco e, più ancora, a una colpevole freddezza della giovane destinataria, ma sono invece un riflesso della sensibilità tormentata e vulnerabile di Sironi. Matilde, contrariamente a quanto riportano alcuni studi, non si ferma a Roma a insegnare, ma ritorna appena le è possibile a Milano, continuando a vivere accanto al marito. La convivenza comunque non è facile, come testimoniano in questi anni le parole di Giulia, che ogni tanto è ospite della coppia. Leggiamo in una sua lettera del 1924:
Da Mario i primi quindici giorni li ho passati assai male, per una gran lite avvenuta tra loro, e per la quale due volte nello stesso giorno Mario è venuto a piangere da me; non c’era mai più tornata calma completa, e si passavano i giorni in silenzi glaciali con Mario fremente.15
In questo clima, storicamente e psicologicamente tutt’altro che sereno, nascono opere come Giovane con palla rossa (1922-1923), L’architetto (1922-1923) e L’allieva (1923-1924), emblemi del clima classicista e platoneggiante dell’epoca.
Nel primo un giovane è seduto davanti a un tavolo, dove si dispongono ordinatamente una scodella, un cubo, una palla. A prima vista l’interno sembra un normale ambiente domestico con un vassoio per la colazione in primo piano, ma la scena, considerata in una prospettiva realistica, è palesemente assurda. Il cubo non è una stoviglia o un contenitore che possa stare accanto a una tazza e nemmeno la palla ha una vera giustificazione in quel luogo. Inservibili in qualunque cucina, sfera e cubo (come, a ben vedere, la stessa semisfera della scodella) sono in realtà archetipi platonici che a fatica si mimetizzano nell’ambiente quotidiano e su cui il giovane medita come davanti a un enigma. Non a caso nel disegno preparatorio la scodella era sostituita da un tetraedro.
L’architetto affronta invece il tema dell’artista nello studio, uno dei soggetti più diffusi negli anni del Ritorno all’ordine. Mentre impressionisti e postimpressionisti amavano ritrarsi sur le motif, all’aria aperta, i protagonisti del classicismo moderno vogliono sottolineare il valore del mestiere. Dipingono così l’archetipo del magister artium (l’architetto, il pittore, lo scultore, l’ingegnere) in mezzo ai suoi strumenti di lavoro: il cavalletto, la tela, la tavolozza, i pennelli, le matite, la squadra, il compasso, i fogli da disegno, i tubetti dei colori, i calchi in gesso, oltre all’eventuale modella in posa. Anche Sironi rappresenta una figura ideale di progettista, circondato da esempi di solidità costruttiva: il capitello corinzio, semplificato secondo la sintesi novecentista; il vaso duramente sbozzato, che esibisce i suoi spigoli; il pilastro paradigmatico sullo sfondo; la porta, di cui è messo in evidenza lo spessore. La volontà di costruire è ribadita dalla figura stessa dell’architetto, che ha il volto intagliato come nel legno, la veste scolpita come nel marmo, le mani trasformate in blocchi recisi di netto che stringono la lama del compasso. Un senso nietzschiano della gravità del compito trapela però dallo sguardo assorto dell’uomo, che non guarda i fogli davanti a sé, ma fissa un orizzonte più lontano, più vasto. A differenza di composizioni analoghe, come per esempio il contemporaneo Architetto Chiattone di Funi ritratto fra il tavolo di lavoro e il cantiere, qui la figura diventa anche la metafora dell’uomo politico, del principe (o del dittatore) nell’accezione machiavelliana del termine. È l’immagine non solo di ogni arte, ma anche di ogni edificazione, a cominciare da quella dello Stato.
Giovane con palla rossa, 1922-1923. Olio su tela, 90 × 70 cm. Collezione privata, Milano.
Nell’Allieva, infine, Sironi si ispira idealmente alla Gioconda. Mentre però la figura leonardesca appare sullo sfondo di un paesaggio che evoca il ciclo perenne delle acque, la figura sironiana abita in un teatro di geometrie che adombra l’esercizio perenne dell’arte. La squadra si riallaccia ancora al mondo metafisico di Carrà e de Chirico ma, con la statua e il vaso, richiama anche le parole del Filebo: «qualche cosa di diritto e di curvo, e le figure formate per mezzo del tornio… e quelle formate per mezzo del piombino e della squadra».
Studio per Giovane con palla rossa, 1922-1923.
Pablo Picasso, Testa di donna, dal volume di Margherita Sarfatti, Segni colori e luci, Bologna 1925.
Nella sua fisionomia antinaturalistica e nella resa vagamente asimmetrica degli occhi, poi, agisce anche la suggestione della Testa di donna di Picasso, esposta alla II Biennale Romana nel novembre 1923. Il quadro aveva suscitato un profondo interesse, anzi un vero entusiasmo nella cerchia sarfattiana. La scrittrice gli dedica un lungo elzeviro, insolito anche nella sua attività critica perché quasi tutto dedicato a una sola opera, che esce sul Popolo d’Italia il 7 marzo 1924, dunque nel periodo in cui Sironi aveva appena ultimato L’allieva, inviata alla Biennale di Venezia di quell’anno. Scrive la Sarfatti:
Vasta, larga, maestosa, una Testa di donna del pittore Pablo Picasso domina la mostra della sezione francese alla esposizione internazionale di Roma [e risale] alla linea-prototipo della bellezza ideale purissima, a quella che Raffaello chiamava “seguire, nel dipingere, una certa idea che ho nella testa”. È l’idea-tipo della bellezza classica.16
Non è un caso, allora, che Sironi si sia ispirato a quel dipinto. Anche se, da artista autentico, non crea una copia, ma un’opera totalmente autonoma per inventio compositiva e valore pittorico.