La carovana delle mostre (1929-1930)
Nel gennaio 1929 Sironi e Muzio si recano a Barcellona con Giulio Barella, direttore amministrativo del Popolo d’Italia e responsabile della mostra di Colonia.1 Devono incontrare l’architetto Joaquim Bassegoda e discutere i dettagli della partecipazione italiana all’Esposizione universale che si aprirà nella città catalana e in cui riallestiranno, con alcune modifiche, il padiglione della Stampa di Colonia. Tutti e tre saranno presenti all’inaugurazione che, per i ritardi di Portaluppi nella costruzione del padiglione Italia, non avverrà il 20 maggio con l’intera Expo ma quasi un mese dopo, il 15 giugno, per il solo settore italiano.2 Sironi tornerà nella città catalana anche il 20 settembre, come risulta dalla firma che appone quel giorno sul libro d’onore della Casa degli Italiani.3 Compie dunque tre viaggi in Spagna (finora era noto solo il secondo, grazie a una fotografia in cui appare, un po’ impacciato, con la marsina del vernissage).
Più monumentale nella concezione rispetto al padiglione di Colonia, il padiglione italiano era composto da un salone centrale decorato dai disegni di Sironi per Il Popolo d’Italia, alcuni ingranditi come gigantografie, altri tradotti in rilievi in gesso da Quirino Ruggeri, tutti inquadrati fra altissimi archi ciechi. Stemmi sabaudi, fasci littori e la grande carta geografica dell’Italia completavano l’arredo dell’ambiente. In una delle sale laterali, dedicate ai vari quotidiani, compariva la vetrina del Popolo d’Italia, inquadrata dalle gigantesche colonne delle rotative cilindriche e sormontate da un architrave con il titolo del giornale e un fascio littorio attraversato da una penna tricolore. Simboli e icone del regime, dunque, non mancavano nell’allestimento, ma più di essi, o del volto cubico di Mussolini sovrapposto ieraticamente a quello della patria, era la monumentalità dell’insieme che, nelle intenzioni di Sironi, doveva dare l’idea della fede fascista e della “nuova Italia”. Qualche tempo dopo scrive a Margherita Sarfatti:
Mostra del Popolo d’Italia nel padiglione italiano all’Esposizione internazionale di Barcellona, 1929.
Un visitatore della mostra ha detto che l’odore del fascismo si sentiva lontano un miglio. E questo odore gliel’ho dato io, vincendo tenaci resistenze. Ma perché l’ho fatto? Chi mi ha ringraziato? Chi se ne è accorto?4
Pur nella misura di un allestimento effimero si profila già qui la concezione, che Sironi teorizzerà compiutamente nel Manifesto della pittura murale del 1933, di un’arte che si esprima (ed esprima anche l’ideologia) non attraverso soggetti e contenuti, ma attraverso lo stile: una concezione difficile da comprendere, e che infatti sarà combattuta violentemente all’interno del fascismo stesso.
A Barcellona, tra l’altro, che cosa può aver visto Sironi nei suoi tre viaggi? Con ogni probabilità deve aver notato l’architettura di Gaudí, che però con il suo linguaggio genialmente fantasioso, così lontano dalla sintesi novecentista, non lascia tracce sulla sua sensibilità. All’Esposizione universale vede poi il padiglione di Mies van der Rohe: non sappiamo se gli abbia suscitato un maggior interesse, ma in ogni caso conosce precocemente, in quell’occasione, uno degli esempi più significativi del Razionalismo europeo. In quei mesi, del resto, è anche in contatto con Terragni, che in marzo gli invia le fotografie del suo Novocomum ancora in costruzione:5 un edificio in cui il monumentalismo novecentista si coniuga con un Razionalismo venato di echi del Costruttivismo russo.
Intanto la carovana delle mostre prosegue. Nel dicembre 1928 si era aperta alla Galleria Bellenghi di Firenze la collettiva “Carrà, Funi, Marussig, Salietti, Sironi e Tosi del ’900 milanese”, presentata da Maraini, e Sironi aveva esposto Il contadino: una figura che sembrava modellata nella torba, appoggiata a una vanga dai riverberi d’acciaio. Come Il povero pescatore, anche Il contadino non era un soggetto verista, ma un’immagine primordiale evocata dai territori del mito. È lo stesso soggetto (Composizione. Il vangatore) che espone il 2 marzo 1929 alla “Seconda mostra del Novecento Italiano” alla Permanente, insieme a un Nudo, al Bevitore Sarfatti e, fuori catalogo, al Ciclista.
I titoli di Sironi non sono mai descrittivi, ma a identificare le opere esposte (finora era noto solo Il vangatore, riprodotto in alcune recensioni dell’epoca) ci aiuta una lettera di Margherita Sarfatti che il 5 giugno, quando le restituiscono i due quadri prestati alla mostra, scrive a Sironi:
Caro amico,
ho ricevuto i quadri del ’900, sono veramente splendidi, specialmente la grande figura del Bevitore in bianco e nero è, non esito ad affermarlo, con la consapevolezza di compromettermi, e con la certezza di avere ragione, un capolavoro. E il Ciclista dipinto tanti mai anni fa, resiste in modo vittorioso e stupendamente conferma che io avevo ragione comperandolo allora.6
La mostra milanese questa volta non è inaugurata da Mussolini: i malumori contro il Novecento Italiano, che ormai ha occupato la scena nazionale e internazionale, stanno crescendo e al dittatore interessa ottenere il consenso di tutto il mondo dell’arte, non di un solo gruppo. Probabilmente si cura poco anche del telegramma che Sironi e altri esponenti del movimento gli inviano il giorno della vernice, con una frase tra l’enfatico e il romantico: «Pronti a ogni ordine».7
Quanto alla critica, è generalmente favorevole a Sironi, ma questo non significa che capisca davvero la sua pittura. Alle parole penetranti di Margherita Sarfatti, alle annotazioni poetiche di Giolli, all’adesione competente di Carrà fanno da contrappunto le considerazioni di chi ancora lo ritiene soprattutto un illustratore. «La [sua] pittura è qualche volta sopraffatta dall’illustrazione» osserva Oppo, che ormai è apertamente ostile al “Novecento”; «Sironi l’opera completa non ce l’ha ancora data in pittura, nei suoi disegni illustrativi sì» rincara Carpi; «Sironi, che ha un effettivo talento di cartellonista, non ci convince del tutto con una pittura che, pure, non manca di bravura» concede con sufficienza Volta.8 Per molti, insomma, il creatore dei Paesaggi urbani rimane solo un vignettista (anche se nel 1929 disegna appena una cinquantina di tavole, quasi tutte per La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia).
Sironi, peraltro, è poco appagato dalle mostre e non smette di sognare la pittura murale, che non ha bisogno di esposizioni perché è sempre esposta a tutti. Ne parla anche con Giolli, quando lo incontra all’inaugurazione alla Permanente. Racconta il critico qualche tempo dopo:
Sironi ha una grande idea della pittura. Davanti alla Composizione del contadino con la vanga che espose all’ultimo Novecento, mi ripeteva che la pittura deve tornare alla grande tradizione italiana della nobile decorazione, magari dell’affresco.9
Nonostante questi sogni, il sistema dell’arte continua a essere fondato sulle mostre. Sempre in marzo si apre a Nizza l’“Exposition du Novecento Italiano. Peinture Sculpture Décoration”, organizzata da Maraini alla Société des Beaux-Arts, dove Sironi invia un Contadino, due Nudi e un Paesaggio.
Un mese dopo la Galleria Milano ripropone la collettiva “Sette artisti moderni”, quasi uguale a quella dell’anno precedente (manca solo Bernasconi, sostituito da Wildt). Sironi espone La lettrice ora al Museo del Novecento, Le amiche, altre sei Figure e tre Paesi. Tra questi c’è Chiesa e pioppi, 1928: un blocco di case vegliate da due alberi, raccolte intorno a un campanile che ha la severa bellezza delle pievi lombarde dell’anno Mille. Il tema, quasi palazzeschiano, di un paese alla Rio Bo immerso nella natura si traduce qui in un’immagine potente. Non è la grazia idilliaca che interessa a Sironi, ma il senso di forza che si sprigiona dai prismi degli edifici, compatti come le rocce in lontananza. Si avverte nella Chiesa, oltre alle reminiscenze giottesche, un’eco del San Martino di Carrà, esposto alla Galleria Pesaro nel 1926, ma il punto di vista ravvicinato dà all’architettura una dimensione più imponente.
Il contadino, 1928. Olio su tela, 78 × 75 cm. Collezione privata.
Chiesa e pioppi (1928), dal catalogo della mostra “Sette artisti moderni”, Galleria Milano, Milano 1929.
Nelle opere degli ultimi mesi, comunque, il linguaggio dell’artista sta cambiando: il disegno è eroso da frequenti sprezzature e la monumentalità della forma si accompagna a dettagli indistinti, cancellati, come se la costruzione tanto teorizzata venisse aggredita all’improvviso. Lo nota Costantini, che registra «figure appena tracciate, toni densi profondi ma lasciati allo stato di abbozzo»; e lo nota anche Giolli, che ricorda:
Davanti a certe sue figure, d’una pittura salda e penetrante, ma, per esempio, con la testa all’ultimo momento cancellata, la gente restava male, disorientata.10
Sironi in realtà si misura con l’espressionismo di Rouault, visto alla Biennale di Venezia del 1928, e la sua pittura sta attraversando una fase di sperimentazione, se non un momento di crisi. Il nome del pittore francese, del resto, circola nella Milano di fine decennio e anche la Sarfatti lo elogia nel suo Storia della pittura moderna del 1930. Sironi medita inoltre sull’espressionismo di Kokoschka, che la stessa Margherita conosceva bene (nel 1928 il maestro austriaco aveva eseguito un suo ritratto).
Donna seduta e paesaggio (1928), dalla monografia di Giovanni Scheiwiller, Milano 1930. In basso, Donna. La bella del sestiere (1925), dalla Rivista Illustrata del Popolo d’Italia, febbraio 1930.
I collezionisti preferiscono però il Sironi “prima maniera”. Così, mentre molte figure “abbozzate” restano invendute, Chiesa e pioppi viene acquistato da Carlo Foà, parente alla lontana della Sarfatti di cui aveva sposato una nipote acquisita, Eloisa Errera. Gussoni e Barbaroux, comunque, con il loro ventaglio di conoscenze procurano a Sironi alcuni collezionisti importanti come Carlo De Angeli Frua, Umberto Brustio, Antonio Boschi. Gussoni stesso è un conoscitore appassionato e si assicura tre capolavori dell’artista: Donna seduta e paesaggio (oggi più nota come Malinconia, secondo una suggestiva interpretazione di Jean Clair,11 e conservata al Museo del Novecento),
Il molo, La bella del sestiere, cui seguiranno La modella e San Martino.
Iniziata probabilmente nei primi anni venti e rielaborata intorno al 1928, la Donna seduta è ferma, pensierosa, tra un cippo alla Poussin – o alla Muzio – e le rovine di un acquedotto, mentre sullo sfondo un ponte si alza a precipizio sul vuoto tra vette vertiginose. La sua posa immobile e il lenzuolo steso sul corpo seminudo fanno pensare a una modella nello studio, ma dietro a lei si spalanca un paesaggio lunare, una terra desolata e inospitale. Un filo sottile lega Donna seduta a Pandora, della quale riprende la fisionomia e il panneggio. È come se il vaso di Zeus, che ora non si vede più, fosse già stato scoperchiato e avesse versato sul mondo la malattia e la follia. Eppure, anche qui, l’ultimo atto del dramma non è la resa. All’arco distrutto in primo piano si contrappongono le arcate del ponte sullo sfondo, segno del passaggio dell’uomo che, nietzschianamente, «imprime la sua mano sui millenni». E anche quando la sua azione verrà cancellata, quando tutto si ridurrà a rovina, la natura esisterà ancora. «Anche se noi non fossimo, la materia sarebbe eterna» scriverà anni dopo Sironi.12 La Donna seduta, dunque, esprime un sentimento di malinconia, ma il paesaggio che la circonda ne esprime uno, uguale e contrario, di grandiosità.
La bella del sestiere (1925), nota anche come Donna con il fiore, è invece una figura femminile davanti a una muraglia di edifici (il sestiere era una delle sei parti in cui un tempo erano suddivise alcune città italiane). Rappresenta però una variazione e, per certi aspetti, un congedo rispetto alla famiglia di allieve e modelle, ma anche di architetti e costruttori, degli anni precedenti. Non ha in mano un compasso o una squadra, ma un ventaglio, e anche il bocciolo di rosa fra i capelli suggerisce l’abbandono del mondo platonico e pitagorico dell’atelier, in nome di un rapporto più concreto con la vita.
Mentre l’anziano senatore Gussoni colleziona questa e altre opere del “Novecento”, formando una preziosa raccolta che purtroppo andrà dispersa alla sua morte nel 1932, il giovane Barbaroux stringe accordi con le gallerie estere e collabora con Sartoris e Salietti a organizzare la mostra “21 Artistes du Novecento Italien”, che si apre nel giugno 1929 alla Galerie Moos di Ginevra. Sironi invia ancora Chiesa e pioppi e Le amiche, e inoltre un Paesaggio, una Bagnante, Figure e L’allieva. La critica si sofferma soprattutto su quest’ultima, senza capire che è di cinque o sei anni prima.
In settembre la collettiva dei “21 Artistes” si sposta alla Juryfreie Kunstschau di Berlino: una sorta di salon che ospita una sezione dedicata al Novecento Italiano, curata da Gabriele Mucchi. Sironi aggiunge ai quadri ginevrini quattro disegni, tra cui Kinderkopf (Testa infantile). È la prima volta che espone un soggetto così intimista. Del resto ama i bambini, ma non la “pittura d’infanzia”, come confesserà l’anno dopo in uno scritto palesemente autobiografico:
Non che nell’animo degli artisti non palpiti l’amore per l’infanzia; ne conosciamo alcuni che non ebbero mai amore e luce più grande di quella che venne loro da queste adorabili e adorate creature. Ma da questo umano e semplice sentire al fatto artistico la distanza è grande e complessa. Tanto che di fronte a molte di queste figure infantili effigiate, vien fatto di domandarsi se non sarebbe stato forse meglio che il pittore le avesse soltanto amate senza scomodare le proprie pallide muse.13
A Berlino, però, Sironi ha una motivazione più psicologica che stilistica per esporre quel disegno, perché l’8 agosto è nata la sua seconda figlia, Rossana, e il foglio deve essere il suo ritratto.
Anche per questa bambina, che avrà un destino tragico, i genitori scelgono un nome ispirato a un personaggio letterario: questa volta alla donna amata da Cyrano, il protagonista dell’omonima commedia di Rostand che Matilde, con la sua cultura francese, conosceva bene, ma che era divenuta popolare anche in Italia dopo la versione cinematografica di Genina del 1923. (La famosa caramella Rossana della Perugina era stata prodotta nel 1926, l’opera lirica Cyrano de Bergerac di Alfano è composta nel 1935.)
Sironi ritrae più volte la figlia, con il visetto rotondo in cui brillano gli occhi profondi. Rossana sarà una bambina vivace, apparentemente serena anche se segnata precocemente dall’assenza del padre, che si separa da Matilde quando non ha ancora due anni. Dall’artista eredita l’intensa sensibilità, che esprimerà durante l’adolescenza in poesie elegiache e pensose. Tra le carte di Matilde sono rimasti ancora vari disegni suoi e di Aglae, amorevolmente corretti da Sironi stesso.
Ma torniamo al carosello delle mostre. Nel novembre 1929, due mesi dopo la Juryfreie, si apre a Parigi alla Galerie Bonaparte “Art Italien Moderne”, una rassegna curata da Mario Tozzi che muove dal Futurismo e giunge al Novecento Italiano. L’iniziativa, piuttosto frettolosa, non convince la critica e Sironi, che aveva inviato un Étude de nu e un disegno con altri due nudi, non viene quasi notato. Più fortunata è la quasi omonima “Moderne Italiener”, organizzata da Margherita Sarfatti alla Kunsthalle di Basilea nel gennaio 1930, che in marzo si sposta al Kunstmuseum di Berna. Sironi espone Chiesa e pioppi e Le amiche, già inviati a Ginevra e Berlino, due nudi, Composizione e, per la prima volta, Donna. La bella del sestiere.
Sempre in marzo alla Bottega d’Arte di Livorno si apre “Adolfo Wildt scultore. Achille Funi, Mario Sironi, Arturo Tosi pittori”, dove Sironi, insieme alle figure di lavoratori (Scaricatori, Pescatore, Seminatore) e di donne (L’allieva, la cosiddetta Giovane donna in sogno con visione, che intitola più sobriamente Figura), presenta anche un Bevitore. Uomo all’osteria. L’artista aveva dipinto un Bevitore e figure al caffè già in tempo di guerra, poi in un’episodica illustrazione del 1925,14 ma alla fine del decennio riprende il tema frequentemente. Si avverte in questi soggetti, oltre all’influsso di Rouault, un dialogo con Rosai, che Sironi apprezzava profondamente nonostante la diversità dello stile. Quando il pittore di Via Toscanella espone a Milano, nel novembre 1930, il pittore delle Periferie elogia i suoi «fantasmi di grottesca o pietosa umanità» e osserva, con parole che valgono anche per la propria pittura:
Il bevitore (1928, già in collezione Sarfatti), dal catalogo della mostra “Novecento Italiano”, Buenos Aires 1930.
La pittura di Rosai è aspra come la vita degli “omini” che rappresenta. […] Ma Rosai non ne ha colpa. Egli l’ha vissuta così e la sua severità meditativa non è solo dramma, ma verità e poesia.15
Con i Bevitori e i Giocatori Sironi dipinge un’umanità che non è più intenta a un grave compito come L’architetto o i Lavoratori ma, per dirla con Saba, «sbanda a povere mete». I suoi uomini d’osteria non sono però macchiette strapaesane. L’artista tralascia la descrizione dell’ambiente, elimina le annotazioni veristiche e se alcuni esiti, più rouaultiani, lasciano affiorare qualche patetismo, quelli più alti, come Il bevitore Sarfatti o Il bevitore con tazza del Museo del Novecento, rivelano una cupa solennità.
Sempre in questo periodo Sironi cerca un nuovo studio. Lo trova in via Ariberto 15, all’ultimo piano di un vasto palazzo grigio decorato con pesanti fregi, tra la cerchia interna dei Navigli e Porta Genova. È uno studio, come scrive Raffaele Carrieri, immerso in un «paesaggio di periferia, solcato da ciminiere e da tetti rossi, color ruggine come in certe visioni metropolitane del pittore». Sironi, continua Carrieri,
indossa la blusa color sifone dei marinai marsigliesi, ha un gatto d’angora sulle spalle che sembra un grosso piumino da cipria. Sulle pareti, ampie come quelle delle sale d’aspetto delle stazioni, troneggiano dei corpi nodosi di donna. Su dei trespoli di ferro penzolano le padelle di stagno con le spalle bleu delle lampadine d’alta tensione. […] Sironi se ne serve per cercare il sole artificiale nelle sue foreste vergini.16
Lirismi a parte, nel nuovo studio l’artista prepara le opere per la Biennale di Venezia, a cui anche nel 1930 è invitato da Maraini. Ne invia cinque (La pesca, L’uomo, Il pescatore, Paese ora al Museo del Novecento, Pascolo), dominate da un accento espressionista che ancora una volta lascia perplessa la critica. Effettivamente, se in dipinti come La pesca il segno sfatto è sorretto e, per così dire, rafforzato da un impianto monumentale, in altri – come L’uomo – l’andamento molle e liquido sembra ben poco sironiano e non è tra i suoi esiti migliori. Sarà proprio L’uomo uno dei quadri che tre anni dopo Farinacci metterà in ridicolo su Regime Fascista, all’acme delle sue velenose polemiche contro il Novecento Italiano.
Anche questa volta, comunque, l’artista è in ritardo con le consegne e nessuna sua opera è riprodotta nel catalogo della mostra. Del resto i suoi ritmi di lavoro sono sempre concitati. L’11 maggio, una settimana dopo l’apertura della Biennale, si apre la Triennale, per cui ha allestito con Muzio la Galleria delle Arti Grafiche: uno spazio rarefatto e metafisico, abitato da prismi e poliedri, sfere e coni, tra nidi di ombre e accensioni di luce irradiate da insoliti capitelli di vetro. Un senso di classicità surreale aleggia nelle sale, segnate dall’incongrua sintassi dei motivi decorativi. E lo stesso sentimento si avverte, in forme più drammatiche, nella vetrata che Sironi disegna per la Galleria: una figura caduta a terra, sullo sfondo di mura e archi sfalsati, con una prospettiva sgrammaticata, accanto a una sfera improbabilmente posta in primo piano. A Monza, insomma, l’artista non adotta l’espressionismo dei suoi ultimi dipinti; tuttavia l’ideale classico tanto vagheggiato si rivela contraddittorio, forse irraggiungibile.
La Galleria delle Arti Grafiche alla IV Triennale di Monza 1930.
A fine maggio, conclusi finalmente i lavori per la Biennale e la Triennale, Sironi potrebbe concedersi un po’ di riposo, ma proprio in quel periodo gli giunge una proposta espositiva prestigiosa: una sala personale alla I Quadriennale di Roma.
Fondata nel 1927 per promuovere l’arte italiana, lasciando alla Biennale di Venezia una dimensione più internazionale, la rassegna romana, che si sarebbe tenuta per la prima volta nel gennaio 1931, era diretta da Cipriano Efisio Oppo, che conosceva Sironi fin dagli anni di via Ripetta, ma ora prediligeva un realismo e un pittoricismo lontanissimi dal “Novecento”. Alla Biennale di Venezia del 1928 si era battuto per impedire che al movimento sarfattiano fosse assegnata una sala e ora mirava a eliminarlo, facendo diventare la Quadriennale il nuovo punto di raccordo dell’arte italiana contemporanea.
Per Sironi Oppo nutre però ammirazione, anche se non gli lesina critiche, e comunque, con una giunta esecutiva (come allora si chiamava il comitato scientifico incaricato di invitare gli artisti) in cui c’erano Carrà e Margherita Sarfatti, oltre a Dazzi, Soffici, Amato, il presidente San Martino e lui stesso, deve cedere a qualche compromesso. Accetta così di destinare tre delle dodici mostre individuali previste nella rassegna ai principali componenti del comitato direttivo del “Novecento”: Tosi, Wildt e, appunto, Sironi. La sera del 28 maggio, poche ore dopo la riunione che aveva ratificato gli inviti, la Sarfatti scrive emozionata all’amico Mario:
In strettissima confidenza, e con preghiera di non parlarne: ho il piacere di annunciarvi che ieri abbiamo con molto entusiasmo votato per voi una sala (delle 12) di Esposizione personale per Roma. Sono molto contenta di ciò, e mi rallegro assai caramente e cordialmente con voi, di questa offerta, la quale è venuta spontaneamente da Oppo, ed è stata caldeggiata massime da tutti. Dunque, beninteso, voi dovete accettare. Anzi, io mi sono già impegnata per voi, pensando che potrete anche esporre: a) le vostre tele di qualche anno fa, b) i disegni, in parte, specialmente colorati, degli Avvenimenti, e poi molti altri, per es. quelli originali del Popolo, in albums ecc., c) le vostre tempere, che sono notevolissime e sconosciute, d) le opere nuove, che voi farete e avete fatte, o che vi mancano di ultimare. Insomma, caro amico, con questa mostra certo vi collocate più che mai in primissima, anzi in primississima linea nella pittura italiana. E di ciò molto mi rallegro con cuore di italiana, di artista e di amica.17
Al di là del comprensibile entusiasmo, nella lettera Margherita si preoccupa di una possibile defezione di Sironi. E non tanto dalla Quadriennale, quanto da un’altra occasione espositiva: la “Mostra del Novecento Italiano”, già fissata per il settembre 1930 al Centro Amigos de l’Arte di Buenos Aires. Non è poco quanto deve chiedere all’artista: preparare la sala personale per la rassegna romana ma anche, entro agosto, dieci quadri per quella argentina e, in più, visitare i novecentisti di Milano e Torino per scegliere le opere da inviare in Sudamerica. «Ditemi prima, onestamente e sinceramente, se vi impegnate di aiutarmi fino in fondo. Se no è meglio per tutti che io rinunci subito» insiste Margherita, ma la posizione di Sironi non deve essere quella sperata se in agosto, mentre sta per imbarcarsi per l’America, gli scrive ancora:
Mi dispiace molto che non abbiate fede nella mostra americana. Perché dite questo, e proprio a me, e proprio mentre sto per partire. Non è bello di scoraggiarmi. Bisogna sempre avere fede in quello che si fa.18
Nonostante lo scetticismo manifestato, l’artista manda in Argentina quindici opere (La modella, sette Paesaggi – tra cui Il ponte e Alberi –, Interno di osteria, Il bevitore Sarfatti, Nudo, Contadini, Composizione, Figura), alcune delle quali eseguite per l’occasione. Non è uno sforzo da poco perché sempre in questo periodo, oltre a preparare la sala per la Quadriennale, consegna i primi disegni preparatori per i rilievi marmorei della Casa dei Sindacati Fascisti che i giovani Bordoni, Caneva e Carminati stanno costruendo a Milano: due gruppi plastici, ognuno con tre figure monumentali, destinati al coronamento dell’edificio. Come se non bastasse, progetta anche le scene per L’isola meravigliosa di Ugo Betti, che andrà in scena al teatro Manzoni la prima settimana di ottobre. Qui ambienta lo spettacolo fra rocce millenarie e mura ciclopiche: all’Oriente immaginato da Betti sostituisce un paesaggio mitico dove ci si aspetterebbe di incontrare Prometeo e i Titani, non Maidune e il re Nadir. Non per niente Scheiwiller, che in giugno aveva pubblicato la prima monografia su Sironi, aveva definito la sua pittura un’«arte eroica», segnata da un «lirismo terrestre». Sironi, sosteneva tra l’altro Scheiwiller, è un artista tragico non perché rappresenta «la tragicità della vita», ma perché è destinato all’incomprensione.19 Parole profetiche, e non solo per ragioni stilistiche.
Poco tempo dopo la messa in scena dell’Isola meravigliosa l’artista (fra il 1930 e il 1931, come precisa lui stesso in una memoria inedita al suo avvocato) abbandona la casa coniugale e va a vivere nello studio di via Ariberto.20 Il rapporto con Matilde, lo abbiamo visto, aveva attraversato vari momenti di tensione, ma non si era mai allentato, come testimonia la nascita di Rossana nel 1929. Le cose però precipitano quando Sironi conosce Maria Alessandra Costa a cui, tra alterne vicende, rimarrà legato tutta la vita.
Mimì, come era chiamata con soprannome pucciniano, era nata a Modena da Emilio Costa e Margherita Maranesi il 31 marzo 1910. Aveva dunque venticinque anni meno dell’artista. Alla nascita era stata denunciata come figlia di ignoti. I genitori si erano sposati nel 1918 e solo allora la bambina era stata riconosciuta: una circostanza che, data l’amicizia della madre con Mussolini, darà adito a qualche dubbio sull’identità del suo vero padre.21
L’epoca del suo incontro con Sironi non è chiara. Poco prima di morire Mimì ha dichiarato di averlo conosciuto nel 1930, grazie ad Arnaldo Mussolini.22 Romana Sironi, figlia di Ettore, ricorda invece di averle più volte sentito dire che l’aveva incontrato a diciotto anni, dunque nel 1928, e che a presentarli era stato il dittatore in persona.
Mimì in una foto degli anni quaranta. Archivio Mario Sironi di Romana Sironi.
In una litografia probabilmente del 1930 l’artista la ritrae con un volto malinconico incorniciato dai capelli scuri e solcato da grandi occhi a mandorla (verdi, ma nell’incisione non si vede); in un foglio del 1932 la disegna con l’acconciatura ondulata alla Jean Harlow che usava allora.
Possiamo intuire che, per un temperamento leale come quello di Sironi (il «non ti tradirà mai», che Marinetti aveva detto di lui, non si riferiva solo a Mussolini), l’allontanamento da casa, con l’abbandono delle figlie ancora piccole, non sia stato una scelta facile. È però irreversibile e nel 1931 Matilde chiede la separazione.