Dalla Quadriennale di Roma alla “Mostra della Rivoluzione Fascista”
La mostra che Sironi aveva allestito alla Quadriennale nella sala 22, davanti alla vecchia serra – trasformata per l’occasione in giardino – del palazzo delle Esposizioni, non era fatta per piacere, e nemmeno per essere capita. Oppo aveva chiesto ai protagonisti delle sale individuali una dichiarazione di poetica e tutti si erano ingegnati a scriverla: magari, come Casorati, esordendo col dire che non amavano parlare di sé e poi riempiendo due pagine fitte. Sironi invece non aveva mandato nulla. Nel catalogo figurava solo una breve nota biografica, ripresa dalla recente monografia di Scheiwiller e infarcita di errori. L’artista, dunque, non offriva il minimo appiglio a chi avesse voluto comprendere qualcosa in più del suo percorso. Del resto non credeva nelle dichiarazioni programmatiche. «Tradurre il mio dipingere in termini critici? Cotesto è un male tutto italiano» scriverà anni dopo.1 Anche i suoi manifesti sono pagine di estetica più che di poetica, teorie dell’arte più che ragioni dell’artista.
Ma non era questo il punto. Delle ventinove opere esposte, oggi riconoscibili a fatica sotto i consueti titoli neutri, solo alcune appartenevano alla sua stagione classica: il Paesaggio urbano del 1920 (ora logo dell’Associazione Mario Sironi, Milano), L’allieva, La modella dello scultore, L’aratura o L’aratro, il Paesaggio urbano di Ca’ Pesaro, a cui forse si aggiungevano L’architetto e La bella del sestiere.2 Ancora di impianto classico, anche se più recenti, erano La famiglia del pastore (1927-1928) e La famiglia del 1930. Entrambe erano un imponente esercizio di volumetria. Il paesaggio, dove erano aboliti gli elementi lineari e senza peso, sembrava scolpito nella pietra: perfino l’acqua, nella Famiglia del pastore, era trasformata in acquedotto. Entrambe, poi, rappresentavano un’umanità delle origini, un gruppo di famiglia in un esterno senza tempo. Le figure, venate di echi ora masacceschi ora picassiani, sprigionavano un senso di biblica solennità. Sironi si allontanava così dalle petulanti rappresentazioni veriste, dove la donna era immancabilmente ritratta in poltrona, circondata dai figli, e l’uomo appariva dietro di lei in atteggiamento protettivo. Alla quotidianità prosaica sostituiva l’eternità del mito, alla rispettabilità borghese un lirismo georgico e primordiale.
La famiglia del pastore, 1927-1928. Olio su tela, 73 × 97 cm. Galleria d’Arte Moderna di Roma Capitale, Roma.
Fosse stato per opere come queste, l’artista avrebbe potuto concorrere al generoso primo premio della Quadriennale che ammontava a centomila lire: una cifra leggendaria in un’Italia che sognava di avere “mille lire al mese”. Ma accanto ai quadri classici, e a quelli più nervosi di fine decennio come Chiesa, Il pittore o la sconosciuta Tempesta, riaffiorava in Sironi il demone dell’espressionismo, la suggestione rouaultiana che si traduceva in «personaggi deformati e dolorosi che sembrano dipinti con il sangue» come scriveva Costantini.3 Sulla tela, allora, si abbattevano pennellate violente, con getti di biacca e tumefazioni rosseggianti che disfacevano la forma più che comporla.
Certo, alcune opere espressioniste come il monumentale Pescatore, Composizione n. 15 (Uomo e giovane, acquistata dalla Galleria d’Arte Moderna di Torino) o Composizione. San Martino (dove, per la prima volta nella millenaria iconografia del soggetto, il santo era nudo, quasi a significare la sua totale immedesimazione con la nudità del povero) esprimevano una «bellezza terribile», per usare le parole della Sarfatti.4 Altre però, come Composizione n. 2 (Donna e uomo), o Composizione n. 28 (Tre figure), erano soprattutto la testimonianza di una crisi espressiva, di uno Sturm und Drang ancora irrisolto. Il contrasto tra la maestosa Allieva e le barbariche figure recenti era stridente. Sironi, scriveva perplesso Ojetti, «ha fatto molto cammino per allontanarsi da chi vorrebbe capire quello che egli vuol dire…». Ma, in un’Italia poco informata sull’Espressionismo, altri critici erano più sbrigativi: «Pare ch’egli si proponga di riuscire sgradevole; dirò di più, repellente» sentenziava Lancellotti.5
Composizione. San Martino, 1930. Olio su tela, 90 × 80 cm. Collezione privata.
In questo clima il primo premio di pittura venne assegnato a Tosi, che apparteneva al Novecento Italiano ma era considerato soprattutto l’erede di Fontanesi e il continuatore del paesaggio ottocentesco. Sironi non vinse nulla, nemmeno i premi minori. Ojetti, presidente della commissione acquisti, voleva destinare L’allieva alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, ma l’opera era da tempo proprietà del commendator Brustio e il proposito era sfumato. Margherita Sarfatti scrisse allora al famoso critico perché facesse acquistare al museo un altro quadro:
Mi permetto di dirLe che Sironi è stato l’unico espositore titolare di intera sala che non abbia avuto […] dei premi. […] Sironi versa anche in non facili circostanze di famiglia, ed è uomo assai sensibile, che soffre molto di tutto quanto può diminuirlo di fronte a colleghi come per es. Socrate o Ceracchini, considerati secondo la gradazione dei premi, pittori migliori di lui.6
La Galleria Nazionale d’Arte Moderna acquista così, per seimila lire, La famiglia (mentre La famiglia del pastore – oggi alla Galleria d’Arte Moderna di Roma Capitale – è destinata al futuro Museo Mussolini per la ben più consistente cifra di diciottomila lire) e Sironi ringrazia Ojetti con parole in cui la gratitudine non esclude un filo di ironia:
La sua preziosa bontà mi ha un poco meravigliato dati i miei pessimi precedenti e connotati artistici, così unanimemente proclamati. […] La ringrazio pure vivissimamente del delicato riguardo di evitarmi uno dei piccoli premi, mi avrebbe davvero addolorato. Di tutto le esprimo qui la mia profonda riconoscenza.7
Quanto ai riconoscimenti, Sironi ne otterrà uno più modesto di quello della Quadriennale, ma significativo perché internazionale, con I pescatori, che si aggiudicano il secondo premio di mille dollari (circa ventimila lire di allora) alla “30th International Exhibition of Painting”, tenuta in ottobre al Carnegie Institute di Pittsburgh. «Con cuore commosso tua meritata vittoria invioti teneri baci. Mamma tua» gli telegrafa Giulia che, ormai settantenne, non smette di seguire con ansia il percorso artistico del figlio.8 Ma alla rosa del premio non manca qualche spina: Perseo, una polemica rivista milanese diretta da Arturo Francesco Della Porta (vicino a Farinacci nell’avversione alla modernità novecentista), rimarca maliziosamente che della giuria americana faceva parte Oppo, insinuando che il verdetto fosse stato addomesticato.9
Premi o no, anche il 1931 è per Sironi un anno di intenso lavoro. In febbraio tiene alla Galleria Milano una grande personale (la seconda, dopo quella sfortunata del 1919 da Bragaglia), dove documenta tutto il suo percorso dai primi paesaggi urbani agli ultimi nudi. La critica questa volta è generalmente positiva: Giolli, Lamberto Vitali, Carrà e naturalmente l’amica Margherita scrivono pagine intense, mentre a Bonardi, cronista della Sera, si deve una difesa dell’artista fra le più convinte. Sironi, sostiene, dopo gli esiti classici dell’Allieva avrebbe potuto ripetersi comodamente, invece «dal 1925 comincia la tempesta». Nella sua pittura, prosegue Bonardi, c’è «una forza grandeggiante, quasi paurosa […], un alto senso di tragedia […], un supremo disprezzo per le convenzioni e per le cose piccine e vane».10
Nelle recensioni, tra l’altro, compare per la prima volta un ritratto psicologico dell’artista, schizzato da Lamberto Vitali:
Ma cosa si cela sotto l’apparenza sironiana d’uomo brusco, scontroso, accigliato, d’uomo che sembra in lotta con se stesso e con gli altri? Quali moti sconvolgono l’animo suo, chiuso allo sguardo di chi l’accompagna?11
Oltre alla personale milanese Sironi deve far fronte allo stillicidio delle collettive estere: a fine aprile la “Settimana italiana in Grecia”, organizzata da Maraini; a giugno la “Münchner Kunstausstellung” al Glastpalast di Monaco, dove le due opere inviate, Pascolo e Pescatori, vanno distrutte nell’incendio del palazzo; a settembre “Il Novecento Italiano” al Liljevalchs Konsthall di Stoccolma, poi itinerante a Helsinki e Abo Turk, dove espone quattro nervosi Paesaggi, L’abbeveratoio e tre Composizioni con figure, tra cui Donna seduta12 e Contadino con ascia; a novembre “Contemporary Italian Paintings”, organizzata dalla Quadriennale di Roma al museo di Baltimora, dove spedisce Nude, Half Figure of a Man e The Family (La famiglia del pastore).
Sono rassegne che gli interessano poco, perché ormai ha in mente soprattutto la pittura monumentale. Lo dimostrano anche due articoli di suo cognato Costantini, che sulla Sera anticipa le sue tesi sulla grande decorazione come «arte per il popolo».13 Ma ormai non si tratta più di semplici sogni, di progetti sulla carta, di “splendidi fantasmi” classici, e nemmeno della piccola vetrata o degli allestimenti effimeri eseguiti con Muzio. In agosto Marcello Piacentini – il protagonista più attivo dell’architettura del periodo, nominato due anni prima accademico d’Italia – gli annuncia che nel palazzo del ministero delle Corporazioni, che sta costruendo con Vaccaro a Roma, gli verranno affidate una vetrata monumentale (tre pannelli alti dieci metri e larghi complessivamente oltre sette: più di settanta metri quadrati di pittura) e la decorazione in legno di una sala.14 Sempre nel 1931 il giovane architetto Mazzoni, già collaboratore di Piacentini, gli commissiona due grandi tele per il palazzo delle Poste che sta ultimando a Bergamo.
Preso da questi progetti Sironi, che con la fine del 1930 aveva già smesso di collaborare al Popolo d’Italia come illustratore (riprenderà nel 1935, anche se continua a inviare disegni alla Rivista), rinuncia anche alla rubrica di cronaca d’arte. Il suo ultimo articolo è del 7 aprile 1931, poi interviene solo di rado, quasi esclusivamente per contributi teorici o motivi polemici.
Colpevole dell’interruzione viene considerato in genere Farinacci, che nel giugno-luglio 1931 pubblica sul suo giornale Regime Fascista gli attacchi di Sommi Picenardi e di Marinetti contro il Novecento Italiano e le malignità di Lino Pesaro contro Margherita Sarfatti, rincarando lui stesso le loro accuse. In realtà il potente gerarca di Cremona non c’entra. Sironi, è vero, replica alle critiche con un articolo (firmato anche da Funi e Pratelli e apparso sulla rivista milanese L’Arca del suo amico Guglielmo Usellini), in cui si scaglia coraggiosamente contro le “massonerie artistiche”, rivendicando una concezione idealista della pittura: «Costruire perché è necessario. […] Costruire e guardare in alto».15 Tuttavia dal Popolo d’Italia si allontana da solo: per mancanza di tempo, non per motivi di censura. Dal 1932, del resto, la sua vita sarà dominata per un decennio dall’ideale, dal sogno, dalla scommessa della pittura murale, e si dipanerà in un affanno continuo per la realizzazione di disegni, cartoni, bozzetti, pannelli, affreschi, mosaici, vetrate, rilievi, tra la concitazione delle consegne e la preoccupazione dei ritardi, in un lavoro matto e disperatissimo che arriverà anche a minare la sua salute. Lui stesso parla dell’«inferno del lavoro», a cui si sente condannato «come un forzato».16 E non bisogna pensare che siano espressioni retoriche, esasperate dalla sua sensibilità. Anche sua figlia Aglae testimonia che conduceva
“Pittura murale”, pubblicato sul Popolo d’Italia il 1° gennaio 1932.
una vita quasi da monaco, aspra e severa. Il lavoro, da cui non ha quasi mai alzato la testa […] deve averlo inteso sempre come un dovere e una necessità, un compito a cui non si poteva sottrarre.17
Basta un’occhiata alle date e alle opere per rendersene conto. Il 1° gennaio 1932, mentre si festeggia l’anno nuovo, sulla terza pagina del Popolo d’Italia Sironi pubblica “Pittura murale”. La data è poco lusinghiera: per far uscire l’articolo i redattori del quotidiano avevano aspettato un giorno tradizionalmente senza notizie, in cui non avevano nulla di più urgente da riferire. È però una data simbolica: segna l’inizio per l’artista di un decennio dedicato totalmente alla grande decorazione. In due striminzite colonnine, stampate in un corpo più piccolo delle altre, Sironi, che come sempre si firma solo M, sostiene che bisogna abbandonare il quadro e tornare all’affresco, per riallacciarsi alla tradizione italiana e riacquistare un nuovo concetto di spazio, di forma, di contenuto:
Quando si dice pittura murale non si intende dunque soltanto il puro ingrandimento sopra grandi superfici dei quadri che siamo abituati a vedere. […] Si prospettano invece nuovi problemi di spazialità, di forma, di espressione, di contenuto lirico o epico o drammatico. […] L’ambizione degli artisti è stata finora per il quadro. Forma ormai ristretta e insufficiente per le sintesi attuali.18
Sironi, insomma, è stanco delle scene di genere, delle educate nature morte, della piccola cucina di quadri e quadretti. La misura grande eliminerà i soggetti intimisti (non si può dipingere una mela e una pera su una parete di dieci metri), il minuzioso verismo ottocentesco, e affronterà invece temi epici e storici, consoni a «quest’epoca di miti grandiosi e di giganteschi rivolgimenti».19
L’affresco, però, non è solo una questione di stile, di contenuti, di mestiere, ma ha una dimensione sociale. Sulla scacchiera della pittura murale si gioca una partita difficile: la possibilità di un’arte che si incontri per la strada, non nelle case private, e sia destinata a tutti, non solo ai ricchi collezionisti. Sironi sferra un attacco mortale contro il sistema della pittura moderna, impostato su mostre e mercato. È un attacco che gli costerà anche una causa giudiziaria persa in partenza, come vedremo, e che è ispirato alle istanze antiborghesi e populiste del primo fascismo. L’artista, del resto, ha sempre creduto in un fascismo “di sinistra” (per dirla con una formula schematica e non priva di equivoci) o comunque a vocazione sociale. Non per niente Arturo Martini nel 1944 dirà di lui: «Credeva di essere fascista, invece era di animo bolscevico»; e Matilde, trent’anni dopo: «Lo si definisca anarchico! Da parte mia lo definirei, sia pure a posteriori, un comunista».20
Nella pittura murale, dunque, istanza stilistica e utopia sociale, poetica romantica e slancio egualitario giungono a coincidere, in un’aspirazione wagneriana all’opera d’arte totale. Che diventa anche, più pragmaticamente, una grandiosa occasione di lavoro, libera da condizionamenti mercantili. Rivendicherà Sironi nel 1937:
Io e io soltanto ho sostenuto il principio dell’arte murale del quale beneficiano oggi numerosissimi artisti, ridotti prima sull’orlo della più squallida esperienza economica.21
Deriva da questo intreccio di motivi il suo accanimento contro il quadro, oggetto di una requisitoria senza precedenti. Negli anni trenta molti artisti si dedicano all’affresco, ma nessuno esprime un’insofferenza così assoluta nei confronti della pittura da cavalletto, una polemica così violenta non solo contro i cattivi quadri, ma contro tutti i “quadronzoli”, come li definisce. Per lui il collezionismo privato è il «sepolcro di famiglia dell’arte contemporanea» e la pittura «si è dovuta rimpicciolire, materialmente e spiritualmente, per rimanere negli appartamenti».22 È una concezione nobile ma pericolosa, la sua, perché al di là delle utopie il collezionismo privato ha sempre giovato all’arte ben più dello statalismo, come sperimenterà lui stesso nel secondo dopoguerra. Ed è una concezione che ha punti di contatto con la critica all’usura di Pound, contenuta nel Canto XLV, pubblicato nel 1937:
Con l’usura […]
l’arte non è più fatta per durare, per conviverci
ma per vendere e vendere presto […]
Duccio non è nato con l’usura
né Piero della Francesca o Zuan Bellini.
Nei primi mesi del 1932, comunque, Sironi dipinge ancora qualche quadro, da inviare alle tante mostre che glieli richiedono. Per citare solo le principali, alla fine di gennaio la Galleria Milano organizza la consueta collettiva, che questa volta raduna “Otto pittori moderni” (Carrà, de Chirico, de Pisis, Funi, Marussig, Salietti, Sironi, Tosi). In marzo a Parigi la Galerie Georges Bernheim ospita “22 Artistes Modernes”, dedicata a novecentisti e “Italiens de Paris”. In entrambe Sironi espone, tra l’altro, L’uomo e il suo volto, una composizione con due enigmatiche figure maschili che De Angeli Frua dona al Luxembourg ed è oggi al Beaubourg. (Quasi a farle da pendant, a fine anno I mendicanti. Periferia industriale entra nella Galleria Nazionale di Berlino, insieme a varie tele di artisti italiani, in cambio della Figlia di Jorio di Michetti che il museo tedesco restituisce all’Italia.)
In aprile, poi, mentre all’Umělecká beseda, l’attivissimo circolo artistico di Praga, è in corso una mostra di novecentisti che comprende anche lui, a Venezia si apre la XVIII Biennale. Qui Sironi presenta Meriggio, oggi a palazzo Pitti; La famiglia, appartenuta a Piacentini e attualmente al FAI di Milano; Il pastore, acquistato durante la rassegna dal barone Revoltella e ora nell’omonimo museo di Trieste; e poi Cupola, L’incontro, La pesca, Eremo: sette dipinti che, come si vede dalle fotografie dell’epoca, dispone sapientemente sul muro in un gioco di simmetrie, quasi a formare un’unica composizione parietale.
La critica è ormai generalmente elogiativa, anche se non manca qualche nota poco benevola. Dalle osservazioni di Ojetti, per esempio, trapela un certo fastidio: «Sironi lascia sempre il quadro a mezzo, con un piede, una gamba, un braccio ancora deformi».23
La Biennale del 1932 è comunque l’ultima a cui l’artista partecipa, perché ormai la pittura murale occupa tutto il suo tempo. L’impegno più urgente è la vetrata per il palazzo delle Corporazioni di cui aveva esposto uno studio preparatorio in febbraio alla “Terza sindacale lombarda”. Il disegno, in sintonia con l’edificio cui era destinata, aveva per tema la Carta del Lavoro promulgata nel 1927 e mostrava un popolo di lavoratori, sovrastati da un fascio littorio e da una Vittoria armata alla Bourdelle, che procedevano in strisce parallele, quasi come in una nuova Colonna Traiana. Sironi però è insoddisfatto di quell’idea iniziale e lavora febbrilmente ai cartoni ancora per mesi, fra le sollecitazioni sempre più pressanti di Piacentini e le ansie della ditta Chiesa, incaricata di trasporre i disegni su vetro, che si lamenta per il ritardo e minaccia di non consegnare il lavoro in tempo. Ad aiutare la concentrazione dell’artista arriva anche Perseo che, del tutto in malafede, lo accusa addirittura di aver incassato centomila lire per il bozzetto, subappaltando il lavoro ad altri.24
Eppure la scelta di Piacentini, anche se rischiosa («È stata una ben azzardata fantasia quella di far fare a Sironi le grandi vetrate» commenta Oppo)25 non era stata una decisione avventata. Il 30 novembre, come previsto, l’edificio viene inaugurato, con il grande vetro che domina lo scalone dell’atrio e riflette una luce brunita e rosseggiante (“corrusca” era l’aggettivo che si usava allora) nella ventosa mattinata romana.
Cartone preparatorio per La Carta del Lavoro, vetrata per il palazzo delle Corporazioni, Roma, 1931-1932. Foto © Archivio Pedicini.
L’arte del Sironi si rivela ricca di luci impensate, così che fa intendere come lo sgradevole delle sue tele sia essenzialmente voluto e come tale ugualmente condannabile
scriveva un cronista, indeciso tra esaltazione e denigrazione.26 Al di là del giudizio, l’anonimo critico coglieva un dato vero: nella pittura murale Sironi aveva rinunciato all’espressionismo ed era tornato a un linguaggio più classico, potentemente definito. Nelle ali della vetrata due file di colossali lavoratori, alternati a figure allegoriche, scortavano il pannello centrale, dove i campi arati dai contadini erano sovrastati da una città in costruzione, con gru e ciminiere alte come le montagne di fronte a loro. In basso la bianca figura dell’Italia che mostrava la Carta del Lavoro, vicina a un marmoreo fascio littorio, doveva essere il cuore della composizione, ma l’occhio era più attratto dalla scena superiore, dove la geniale invenzione del campo diagonale si legava in uno slancio ascendente alle linee oblique della gru e degli aerei.
Apologia di fascismo? Certo, Sironi credeva veramente nel corporativismo come composizione nazionalistica dei conflitti sociali e tutta l’opera suggeriva l’idea di un’Italia operosa e pacifica, di una nuova pax romana ristabilita dal nuovo Augusto. Tuttavia la sua vena drammatica affiorava anche qui, velando di asprezza e di buio quella che avrebbe dovuto essere l’esaltazione del presente. Non a caso Testori parlerà per Sironi di un «sogno eroico e sgomento» e dirà che bandiere «così fatte (o sfatte) era ben difficile che potessero sventolare».27 Le titaniche figure di lavoratori non esprimevano una felicità immaginaria, un entusiasmo menzognero, un trionfalismo cortigiano, ma un’idea dolorosamente prometeica della vita. Erano eroi, ma eroi sofferenti, un po’ come nel verso di Pound: «La formica è un centauro nel suo mondo di draghi». Del resto proprio un Titano, forse disegnato per la vetrata e oggi perduto, illustrava uno dei principali interventi critici sull’opera.28
Quanto ai ritardi, Sironi ne aveva più di un motivo. Nel corso del 1932, oltre a consegnare entro giugno i bozzetti definitivi per il palazzo dei Sindacati e un primo abbozzo dei pannelli di Bergamo, aveva dovuto realizzare – e questa volta da solo – l’allestimento di una manifestazione ben più cruciale di quelle di Colonia, Barcellona e Monza: la “Mostra della Rivoluzione Fascista” .
La sala P della “Mostra della Rivoluzione Fascista”, 1932: in alto il rilievo del pugnale che spezza la catena; in basso Sironi sotto il rilievo dell’aquila.
La rassegna si sarebbe aperta al palazzo delle Esposizioni nel decennale della marcia su Roma, il 29 ottobre. Come era stato concordato in una riunione di artisti e architetti a palazzo Venezia, convocata alla presenza di Mussolini il 10 giugno (un giorno che sarebbe divenuto tristemente fatidico solo pochi anni dopo), a Sironi erano stati assegnati gli allestimenti delle sale più significative, il vero centro della mostra. L’artista progetta così la sala P dedicata alla marcia su Roma, con un gigantesco pugnale che spezza le catene del giolittismo e una grande aquila stilizzata che spicca il volo, fondendo le ali con il tricolore e il fascio littorio; la sala Q sull’“avvento della rivoluzione”, con due “fascisti guerrieri” che rialzano le insegne romane cadute; la sala R, cioè il salone d’onore o sala del Duce, con la ricostruzione del “covo” di via Paolo da Cannobio; e infine la sala S, con la Galleria dei Fasci che inquadrano la colossale statua equestre della Nazione in marcia. In tutti quegli ambienti rilievi, sculture, scritte a lettere cubitali, fotomontaggi (chiamati più classicamente fotomosaici) si accostavano e si sovrapponevano in un pathos traboccante ed eccedente. Mancavano solo i quadri, vedremo perché.
Chi, fra l’ottobre 1932 e l’ottobre 1934 quando fu definitivamente chiusa, avesse visto la mostra – conterà, alla fine, tre milioni e ottocentomila visitatori – difficilmente avrebbe potuto sottrarsi all’enfasi di quelle sale. Pochi del resto, in quegli anni, riuscivano a presagire l’immensa tragedia che si stava preparando. Sironi aveva prestato il suo pathos romantico e wagneriano, la sua vocazione alla grandiosità, il suo “animo abissale”, come dirà Arturo Martini, alla celebrazione non di un’idea politica, ma di un culto religioso, che era insieme culto dei martiri, culto del capo e culto dell’Italia. Con una visionarietà che oggi ci appare una drammatica illusione, aveva dato forma in quegli spazi all’immagine di una “patria immortale” e di un “popolo di eroi”, guidati dal nuovo Cesare. Le bandiere dell’ideologia questa volta non erano affatto «nella polvere», per citare ancora le parole di Testori.29
Concepito come una struttura effimera, l’allestimento non intendeva tanto essere un’opera d’arte, ma, dirà Sironi stesso, generare «emozioni intense come un dramma».30 Un indizio di quanto fosse coinvolgente il suo pathos si coglie anche nelle parole di Margherita Sarfatti che, recensendo la mostra, si lascia andare a paragoni altisonanti e incauti, mai usati prima: l’aquila è «la più bella mai stilizzata da Donatello in poi», la Galleria dei Fasci è «di grandezza romana, degna dei più maestosi artisti nostri del Rinascimento».31
Possiamo immaginare che Sironi, con il suo temperamento sempre insoddisfatto, non si sia crogiolato in quegli elogi esorbitanti. Sappiamo anzi che era in preda allo sconforto, tanto che in quegli stessi giorni Piacentini gli scrive:
Dopo il colloquio che avete avuto con il Capo del Governo e le parole che Egli vi ha detto, dovresti essere un po’ meno pessimista e più tranquillo sul tuo avvenire.32
Il colloquio cui accenna l’architetto doveva essere stato un dialogo informale, forse all’inaugurazione della vetrata, perché nei registri dell’Archivio di Stato non risultano incontri di Sironi con il dittatore prima del 1933. Al di là delle parole di Mussolini e di Margherita, comunque, si era ormai addensato contro il “Novecento” e contro il suo maggior esponente un nugolo di invidie e di critiche. Che attendevano solo l’occasione per manifestarsi.