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La Triennale del 1933, la mancata Biennale e il mancato processo del 1934

Nel 1932 durante l’allestimento della Mostra della Rivoluzione un fatto mi colpì: la difficoltà insormontabile di introdurre nel mio lavoro la pittura. […] E la ragione era questa: la pittura nei termini nei quali mi era stata affidata dall’uso, sarebbe apparsa una stonatura. L’immaginazione “vedeva” dentro un’altra pittura, ma non riusciva a formularne gli elementi, schiava delle vecchie formule. La mostra si aprì senza pittura, nonostante risultasse un gigantesco giuoco pittorico capace di suscitare un infinito gioco emotivo. […] L’anno dopo la V Triennale […] poteva mostrare il salone delle feste coperto di pittura. La “visione” era una realtà.1

Così, nel 1938, Sironi ricostruiva il percorso che dalla “Mostra della Rivoluzione Fascista”, dove non c’erano più quadri da cavalletto, portava alla Triennale del 1933, traboccante di affreschi e di mosaici. Le date però non coincidono. Sironi inizia a progettare le sale della “Mostra della Rivoluzione” solo nel giugno 1932, mentre già in maggio Gio Ponti aveva annunciato su Domus che i migliori artisti italiani si sarebbero misurati «con esperienze grandiose e audaci alla Triennale», cioè con la grande decorazione.2 Sironi dunque aveva deciso almeno in aprile-maggio, se non prima, di approfittare della manifestazione milanese per promuovere il ritorno all’affresco.

Nel 1931 la Triennale era divenuta un ente autonomo e aveva affrontato radicali cambiamenti. Presidente era stato nominato Giulio Barella, mentre il direttorio era formato da Carlo Felice, Gio Ponti e Sironi. La rassegna, come il fondatore del “Novecento” e Margherita Sarfatti avevano voluto con tutte le forze, era stata spostata da Monza a Milano e il 28 ottobre 1932 Muzio aveva posato la prima pietra del palazzo dell’Arte, nel parco Sempione, che l’avrebbe ospitata. La nuova sede, con le vaste pareti bianche del salone d’onore, sembrava fatta per accogliere opere monumentali, secondo i grandiosi intenti sironiani. Nella prima metà del 1932, del resto, l’artista aveva continuato a ristampare il suo articolo-manifesto “Pittura murale”: sull’Arca, su Domus, sul Corriere padano.3

Il Lavoro, affresco (distrutto), V Triennale, Milano 1933,

Sironi stava attraversando un momento dolorosamente felice della sua vita. Dopo aver lasciato Matilde e le bambine e aver abitato qualche tempo in studio, in settembre – come dimostra il contratto d’affitto ancora conservato tra le sue carte4 – era andato a vivere con Mimì in via Plutarco 4: un palazzo in stile Novecento allora alla periferia nord di Milano, non lontano dalla Fiera. Molto tempo dopo, scrivendo a un amico dell’epoca, un certo Ferrari, Sironi ricordava così quegli anni:

È difficile rievocare in un breve saluto tanti ricordi tante cose che sembrano lontane e sommerse e invece sono tutta la nostra vita, la nostra povera vita angosciata e miserabile. Rivedo via Plutarco, i miei anni di lotta, la durezza spietata del mio cammino senza un’ora di luce e di indulgenza se non questo entusiasmo e questa fede di pochi amici che mi ha tanto aiutato a vivere e resistere e che anzi forse sono stati tutto il mio bene tutto quello che ho trovato di franco di buono di semplice di vero in questo mondo di scimmie inferocite e incomprensibili.5

Dalla primavera del 1932, intanto, Sironi inizia a progettare la futura Triennale, di cui è insieme l’ideatore, il coordinatore e il principale artefice. Alla manifestazione, che per la prima volta comprende anche una sezione di architettura, lavora come pittore, scultore, architetto, grafico, designer, spendendo al palazzo dell’Arte tante giornate e, a ridosso dell’inaugurazione, anche tante notti.

Il catalogo dei suoi interventi non è breve. Innanzitutto realizza sei archi (una sequenza di candide semiellissi che mescolano la sintesi novecentista con quella razionalista) nel parco davanti al palazzo e, con Bordoni e Carminati, i tre ingressi monumentali alla mostra. Disegna poi le decorazioni dell’atrio e dello scalone; i portali delle varie sezioni; gli arredi, il soffitto e la vetrata con una Canefora per il salone d’onore. Progetta anche l’allestimento (simile a quello di Barcellona) del padiglione della Stampa di Baldessari e, con Leone Lodi,6 le grandi formelle delle Arti Grafiche sulla facciata dell’edificio e la fontana antistante. Disegna, ancora, il bassorilievo in gesso I pescatori per il vestibolo superiore del palazzo e la fontana dell’impluvium con la severa ma aggraziata Bagnante, scolpiti l’uno da Lodi e Sessa, l’altra dal solo Lodi. Cura infine tutta l’immagine, come diremmo oggi, della mostra, dal manifesto pubblicitario alle medaglie e ai diplomi, dal distintivo ai francobolli commemorativi. Ma, soprattutto, progetta e coordina l’esperimento che gli sta più a cuore, la Galleria della Pittura Murale: una parata di affreschi e mosaici eseguiti da de Chirico, Severini, Campigli, Funi e da lui stesso (Il Lavoro) nel salone d’onore, a cui si aggiungono opere monumentali di Carrà, Casorati, Arturo Martini, Marini, Cagli, Depero e altri, disseminate in vari punti del palazzo. Sironi stimola così i maggiori artisti italiani ad abbandonare la misura piccola (nella Triennale ci sono ben pochi dipinti o sculture “da salotto”) per riprendere la dimensione parietale.7 La Triennale del 1933, insomma, non è una mostra, ma una grande officina in cui operano, spesso a quattro mani, pittori, scultori, architetti, come accadeva nelle antiche botteghe d’arte. Alla moderna produzione di oggetti delle arti decorative il fondatore del “Novecento” affianca un concetto classico di decorazione, strettamente legato all’architettura. È un impegno smisurato, ma anche generosamente idealista perché tutte, o quasi, le opere monumentali della Triennale sono destinate a essere distrutte dopo la chiusura della manifestazione.

Il sogno sironiano della pittura murale genera esiti discontinui, perché molti artisti sono traditi dall’inesperienza tecnica. Per di più l’uso improvvido del silexore, un materiale moderno già adottato da Viollet-le-Duc e magnificato pochi mesi prima dalla rivista Il Politecnico per i suoi costi minimi,8 provoca il precoce deterioramento di parte degli affreschi. La condizione effimera delle pitture, dunque, non è sempre un gran danno, e una delle perdite maggiori della Galleria è proprio l’opera di Sironi, che non solo credeva più di tutti nel far grande, ma era anche fra i pochi a saperlo realizzare.

Nel Lavoro l’artista rinuncia alla prospettiva unitaria, albertiana, e accosta liberamente figure e cose come nelle opere medievali. Anche la vetrata del palazzo delle Corporazioni non aveva un unico punto di fuga, ma l’andamento ascensionale della composizione mimetizzava le forzature prospettiche. Qui invece la meditazione su Masaccio e in parte su Mantegna – l’artificio delle figure sopra l’architrave delle porte richiama la Camera degli Sposi si mescola agli echi di Giotto, di cui Sironi riprende la spazialità policentrica. «Sopra tutto metto Giotto» aveva dichiarato nel 1932.9

Nell’immensa parete – larga undici metri e alta dieci – si alternano creature mitologiche (il centauro, la canefora) e figure quotidiane (il taglialegna, il muratore); frammenti della scena cittadina (la gru, le ciminiere) ed elementi della natura (l’albero, la montagna); motivi architettonici isolati (il capitello, la colonna) e porzioni di edifici (l’arcata, la costruzione a cupola). Il titolo Le opere e i giorni, riportato solo da Pica nel 1955, è con ogni probabilità apocrifo, sia perché Sironi non amava i titoli letterari, sia perché il poema esiodeo non corrispondeva al programma iconografico della Galleria, che doveva rappresentare «l’Italia nelle varie manifestazioni del lavoro, dello sport, dello studio, della vita familiare».10 Appunto il lavoro, nel mito e nella storia, è il vero tema dell’affresco: un tema non descrittivo e non verista, che evoca il fare degli uomini tra fatica e violenza, tra fecondità e distruzione. Per Sironi, del resto, il lavoro non è una condanna biblica, ma un titolo di nobiltà: un’espressione di quel “costruire”, proprio dell’homo faber, in cui si racchiude il senso della vita. All’ideale estetizzante del bel gesto contrappone l’ideale etico della perseveranza; al benedettino ora et labora sostituisce la religiosità laica dell’ora quia laboras, perché il lavoro (la “civiltà del salario” e non “del profitto”, come proclamava la mistica fascista) non ha una dimensione solo economica, ma anche spirituale. Complessivamente la concezione dell’opera è dunque in sintonia con il corporativismo del regime. Non è però arte di propaganda nel senso triviale del termine, e non a caso fascisti intransigenti ed estremisti come Farinacci la attaccarono violentemente, senza scorgervi nessuna opportunità di indottrinamento.

Il visionario sforzo di Sironi è premiato infatti con un vespaio di polemiche. L’11 maggio 1933, all’indomani dell’inaugurazione, Sommi Picenardi dalle pagine di Regime Fascista sferra un attacco alla Triennale e al Novecento Italiano che – fra alterni interventi suoi e di Farinacci da un lato, di Margherita Sarfatti, Carrà, Bardi, Maraini dall’altro – si prolunga fino a ottobre.11 È di questo periodo anche un aneddoto riportato da Ojetti, secondo cui Mussolini avrebbe criticato le “manone” e i “piedoni” sironiani, sbottando in un «Mario Sironi è un imbecille».12 L’episodio è però di dubbia attendibilità, soprattutto se lo si confronta con quanto il capo del fascismo racconta a De Begnac:

Ho parlato a lungo, di Sironi, con Ugo Ojetti. Il “conte Ottavio” […] nutre riserve nei confronti dell’opera di questo grande italiano. […] Risente del fascino… del signor Bernard Berenson. Coltivi, costui, le violette più o meno anonime, le Madonnine di difficile attribuzione di scuole toscana o veneta. Io mi tengo il mio Sironi. E vinco la partita.13

La lunga polemica è comunque estenuante per il fondatore del “Novecento”. Quando, a fine maggio, interviene anche lui sul Popolo d’Italia per difendere la “sua” Triennale, le parole sprezzanti che rivolge al «grasso e indorato massone» Sommi Picenardi lasciano trapelare tutta la sua collera.14 Certo, la sua attività infaticabile raccoglie la gratitudine dei suoi compagni di strada, che il 21 giugno organizzano alla Galleria Milano una festa in suo onore. Vi partecipano in tanti, da Carrà a Funi, da Arturo Martini a Campigli, da Marussig a Tosi, tutti concordi nel definirlo «l’artefice di una fatica eccezionalmente complessa», capace «di una fattività tenace e insonne, ammaliata da una grandiosa visione».15 Tuttavia il loro appoggio non basta a cancellare la sua amarezza, se nello stesso periodo scrive a Paolo Buzzi, il vecchio amico futurista:

Bagnante, fontana dell’impluvium alla Triennale del 1933, Milano, palazzo dell’Arte. Pietra di Vicenza, 200 × 175 × 75 cm.

Caro Buzzi,

Fillia dalla Spezia mi manda una copia di Terra dei Vivi con un tuo articolo. Dire che ti ringrazio è poco, poiché mi è caro soprattutto dirti la mia gioia di sentire quelle parole da un vecchio amico oggi che le più antiche amicizie non sono che fronti per le più tetre animosità.16

Per fortuna Sironi non aveva da pensare solo alle polemiche. Nei primi mesi del 1933, mentre stava preparando la Triennale, aveva partecipato a due rassegne d’arte italiana (in gennaio a Monaco, dove aveva inviato La pesca, e in aprile a Vienna) e inoltre aveva disegnato le tenebrose scene e i costumi vagamente alla Velázquez per la Lucrezia Borgia di Donizetti, rappresentata a fine aprile al Maggio Musicale Fiorentino con la regia di Guido Salvini.

Subito dopo la Triennale, invece, deve concentrarsi sui grandi pannelli di Bergamo che fino a quel momento aveva trascurato: due tele di tre metri e mezzo per lato che sono una via di mezzo fra quadro e pittura murale. Per le estese dimensioni non le esegue in studio ma nelle sale del palazzo dell’Arte, dove Aglae, che allora aveva dodici anni, passa spesso a salutarlo tornando da scuola. Il ritardo dei due lavori è però incolmabile. Nonostante il secco sollecito del ministero in giugno, il palazzo delle Poste di Mazzoni viene inaugurato il 28 ottobre 1933 senza i pannelli.

Intanto, tramite Barella, Sironi chiede un colloquio a Mussolini, che glielo concede il 24 novembre, quando l’artista è a Roma per una seduta del consiglio di amministrazione della Triennale. «Venerdì 24 ore 18 troverommi Palazzo Venezia stop Mio recapito Hotel Savoia stop Ossequi» conferma a Chiavolini, segretario particolare del Duce.17 Di questo incontro è rimasta una traccia nelle conversazioni di Mussolini con De Begnac:

Venne da me, un giorno, Mario Sironi, mio amico, forse il solo grande pittore al quale ho dato la possibilità di interpretare la stagione della mia rivoluzione. E mi disse, egli uomo castigatissimo, alieno da qualsiasi espressione grossolana, che la pittura e la scultura, volute dai politici “in posa”, stavano riempiendo di merda l’Italia, di fantocci le piazze, di maschere le strade consolari. Parlò fuori dei denti. […] Concluse che il 1919 era morto da un pezzo, e avrebbe invece dovuto continuare a vivere in questa Italia di quattordici anni dopo. […] Le parole di Sironi, tribuno dell’arte vera della rivoluzione, avevano il sapore e la consistenza di un pronunciamento. E io dovevo tener conto della carica di verità che le animava. Telefonai ad Arnaldo. Arnaldo mi disse che Sironi aveva ragione.18

Il ricordo di Mussolini è ancora una volta impreciso perché nel 1933 Arnaldo era scomparso da due anni. È difficile però pensare a un precedente colloquio ufficiale, perché non ce n’è traccia nei protocolli. La testimonianza, comunque, dà la misura della schiettezza di Sironi e della sua totale assenza di piaggeria, nell’Italia dei “Duce, tu sei la luce” e del longanesiano “Mussolini ha sempre ragione”. Non per niente il dittatore paragona il suo discorso a un pronunciamento, cioè a una sorta di insurrezione.

Il colloquio non è inutile. Non attenua la retorica denunciata dall’artista, ma probabilmente accelera l’assegnazione di un altro incarico: il monumentale affresco nell’aula magna dell’università di Roma che da oltre un anno Piacentini stava costruendo. Il nome di Sironi, allora discusso (in ottobre erano ricominciate le polemiche contro il “Novecento” e Sommi Picenardi aveva coinvolto anche Ojetti e Maraini sui principali quotidiani)19 era proposto dall’architetto, ma era gradito anche a Mussolini che aveva interesse al consenso degli artisti. Di fatto, appena una settimana dopo il “pronunciamento”, Piacentini telegrafa a Sironi: «Conferito con nota persona – Avrai grande incarico per Roma».20 L’artista ringrazia il Duce con una lettera in cui esprime tutta la sua gratitudine, ma non arretra di un passo dalle sue posizioni:

Quest’opera […] dovrà difendere il concetto e la pratica della nuova pittura murale, appena lanciata in Italia […]. Come già ebbi l’onore di far presente alla E.V. l’arte nostra non ha che un mezzo per risollevarsi, se non per vincere, da tormentose incertezze e da meschine contese, ed è di collocare e indirizzare più alto di quanto non ha fatto prima le sue mete.21

L’arte italiana, dice insomma Sironi, deve passare dal far piccolo al far grande. Negli stessi giorni di dicembre l’artista pubblica sul primo numero della rivista Colonna, diretta da Savinio, il Manifesto della pittura murale, firmato anche da Campigli, Carrà e Funi. A differenza del precedente e quasi omonimo “Pittura murale, qui Sironi lega strettamente la rinascita dell’affresco al fascismo. Per la sua destinazione pubblica, scrive, la pittura murale è «pittura sociale per eccellenza» e per il suo stile epico, non intimista, può esercitare un influsso pedagogico. È dunque la più consona allo Stato fascista, in cui «l’arte viene ad avere una funzione sociale: una funzione educatrice». Dalla pittura murale, conclude Sironi, sorgerà lo «Stile Fascista».22

Lo studio di Sironi in una fotografia degli anni trenta. Archivio Mario Sironi di Romana Sironi.

Unire così strettamente dimensione artistica e politica era un abbraccio mortale. E parlare di uno “Stile Fascista” era un pericoloso equivoco, perché non esiste l’arte fascista, socialista, monarchica, repubblicana: esiste (quando esiste) l’arte. Se ne rendevano conto i firmatari del manifesto? Se ne rendeva conto Savinio che l’aveva pubblicato con grande evidenza sulla sua rivista? Non si stava andando verso quell’arte di Stato che lo stesso Mussolini dieci anni prima aveva escluso, inaugurando la mostra del “Novecento”? Bisogna dire però che Sironi – come Campigli, Carrà e Funi – non aveva nessuna intenzione di riempire gli edifici pubblici di fasci littori, di icone mussoliniane, di giovani in camicia nera che salutano romanamente, oppure di folle entusiaste che ascoltano i discorsi del Duce, come avverrà per il premio Cremona. Nella sua concezione la forza della pittura murale non derivava affatto dai contenuti propagandistici, ma dalla grandiosità della forma, dalle dimensioni (ideali, prima che fisiche) della composizione, dal ritmo delle figure. Derivava dall’arte, insomma, non dall’ideologia. La funzione educatrice dell’affresco coincideva più con un foscoliano accendere l’animo «a egregie cose», che con un triviale indottrinamento o una pubblicitaria ostentazione del consenso.

Più che mediante il soggetto (concezione comunista), è mediante la suggestione dell’ambiente, mediante lo stile che l’arte riuscirà a dare una impronta nuova all’anima popolare.23

Certo, si può accusare Sironi di aver dipinto una patria eroica e un “uomo nuovo” (utopia ricorrente di tutto il Novecento) che non esistevano e non sono mai esistiti, come la storia avrebbe tragicamente dimostrato pochi anni dopo. E non è una piccola parte della tragedia, nella più generale tragedia dell’Italia, che uno dei maggiori artisti del secolo abbia legato il suo genio a una tale illusione.

E siamo al 1934. Un mese dopo la pubblicazione del manifesto, Sironi termina finalmente i pannelli per le Poste. «I quadri di Bergamo sono quasi pronti. Desidererei che li vedesse prima di collocarli. Può venire qui?» scrive a Mazzoni verso gli inizi di gennaio.24 Anche queste due grandi tele intrecciano mito e realtà, ma tornano a una superba classicità novecentista, lontana da sbozzature espressioniste e prospettive primitiviste. La prima, dove un contadino è immerso in un austero paesaggio accanto a una canefora, a una madre con il suo bambino e altre figure, rappresenta Il lavoro nei campi; la seconda, dove la marmorea dea dell’architettura appare fra un progettista e un muratore, tra i solidi platonici e il secchio della malta, raffigura Il lavoro in città. I due pannelli giungono nel palazzo delle Poste il 19 gennaio 1934, portati in treno da Barbaroux. Qualche tempo dopo Sironi scrive a Mazzoni, chiedendogli fra l’altro di affrettare il pagamento, del quale confessa di avere «per ragioni troppo complicate […] un gran bisogno»:

Caro Mazzoni,

come saprai i pannelli per Bergamo sono in opera. Avrai pure letto che oltre ad articoli favorevoli essi sono stati onorati di un pezzetto di poche righe del solito giornale specializzato in critiche diffidenti e biliose. Un torroncino senza zucchero ma con poco sale.25

La stroncatura doveva essere uscita a Cremona su Regime Fascista, come fa pensare l’accenno al “torroncino”. La morsa del lavoro, nel frattempo, non si allenta. Il 28 febbraio Sironi inaugura alla Galleria Milano una mostra con Arturo Martini, voluta più dai suoi mercanti che da lui. Espone solo venticinque opere, fra quadri e disegni. Otto giorni dopo, l’8 marzo, gli arriva una lettera di Piacentini che si lamenta per la mancata consegna dei bozzetti per l’aula magna romana.26 Sironi dovrebbe mandargli almeno un primo schizzo del grande affresco. L’artista in effetti è in grave ritardo. Eppure, tra gli assilli delle scadenze, trova il tempo di collaborare come critico alla Rivista Illustrata del Popolo d’Italia. Nello stesso marzo esce il suo primo articolo, “Arte ignota” (non “Arte ignorata”, come è erroneamente citato), sugli affreschi di Giotto, cui seguiranno vari interventi quasi esclusivamente dedicati alla grande decorazione del passato. È un impegno che poteva evitare, ma è anche un modo per continuare la sua battaglia.

Quando gli arriva il sollecito di Piacentini, tra l’altro, mancano solo due mesi all’apertura della Biennale di Venezia, cui Sironi non partecipa. La sua assenza è stata anch’essa attribuita a un intervento di Farinacci, ma le cose non stanno così. Sironi era stato regolarmente invitato alla rassegna, ma la data di notifica delle opere era già scaduta e ancora non aveva dato la sua adesione. Ai primi di marzo, allora, il segretario Maraini – di passaggio a Milano – decide di scegliere alcuni quadri in mostra da Barbaroux, infrangendo il regolamento veneziano che pretendeva opere «mai esposte in Italia». L’artista a questo punto, non contento della decisione, gli scrive che intende presentare dipinti nuovi. Il segretario accetta e con un telegramma del 12 marzo si dice «lieto avere opere inedite».27

Dovrà subito pentirsi dell’assenso: per tutto aprile manda a Sironi messaggi sempre più affannosi chiedendogli, fra supplica e intimazione, di spedire le opere o almeno di precisarne le misure. Sironi assicura la sua presenza, ma i quadri non arrivano. Il 3 maggio, a otto giorni dalla vernice, Maraini deve arrendersi:

Atteso invano tue opere oltre qualunque dilazione concessa agli artisti non ricevendo neppure risposta reiterati telegrammi sono costretto da necessità improrogabili ordinamento et catalogo disporre spazio finora serbatoti stop dolente.28

I ritardi di Sironi non erano, nemmeno questa volta, capricci. Certo, la sua insofferenza verso le mostre era forte e alla Biennale non parteciperà più per tutta la sua vita. È possibile, inoltre, che l’avesse colpito una delle sue crisi depressive sempre in agguato. Tuttavia, oltre a lavorare al progetto per Piacentini, stava anche allestendo la sala della Grande Guerra, impostata intorno al grande biplano di Baracca, per la “Mostra dell’Aeronautica” che si sarebbe aperta il 16 giugno al palazzo della Triennale. Doveva poi progettare la rotonda del Sacrario dei Martiri e le decorazioni per il palazzo del Littorio, l’edificio ideato da Terragni e Lingeri, rimasto irrealizzato (i disegni saranno esposti a Roma in settembre).29 Aveva anche impegni minori, come le scene per la Tosca di Puccini, che viene rappresentata nella stagione 1934-1935 ad Amsterdam e all’Aia.

Tutte queste ragioni non sono comunque sufficienti a placare non tanto Maraini, quanto Barbaroux, per il quale l’assenza del più noto dei suoi artisti dalla Biennale e da altre mostre e la mancata consegna di quadri nuovi non sono una questione teorica ma una perdita economica. Sironi, ormai, vorrebbe dedicarsi solo alla pittura murale, ma non può. Stanco delle sue defezioni il gallerista lo denuncia in tribunale pochi giorni dopo l’inaugurazione di Venezia, il 23 maggio.

Sironi affida idealmente la sua risposta a un Manifesto, firmato da una quarantina di artisti ma elaborato in gran parte da lui: un progetto radicale di riforma del sistema moderno dell’arte, contro mostre, scuole, concorsi, premi, gallerie, critica. Lo scritto compare sull’Ambrosiano il 26 luglio, illustrato da un suo Studio per composizione murale:

L’istituzione “mostra” è oggi un mezzo inadeguato, in quanto la sbandierata importanza che le si vorrebbe attribuire è meschina e sproporzionata alle ben più vaste aspirazioni degli artisti

si legge tra l’altro nel Manifesto.30 Sono solo parole perché, intanto, la causa in tribunale è sempre pendente. Il contenzioso si comporrà solo il 5 novembre 1934 con una scrittura privata: Sironi, per far ritirare la denuncia, è costretto a versare a Barbaroux un risarcimento di mille lire, ma soprattutto deve impegnarsi a consegnargli sei quadri entro il 30 giugno 1935 e a partecipare ad almeno quattro mostre nei tre anni successivi.31 Il mercato, che l’autore di “Pittura murale aveva voluto combattere e superare, si prende le sue rivincite.

Manifesto, pubblicato sull’Ambrosiano il 26 luglio 1934.