18

Gli affanni della pittura monumentale

Il monumentale affresco di Sironi nell’aula magna dell’università di Roma è una delle maggiori perdite dell’arte italiana fra le due guerre. Rovinato da un pesante e accademico restauro degli anni cinquanta, oggi è così poco somigliante all’originale che, per averne un’idea, è meglio osservare alcuni studi preparatori, come la rosea e splendida Vittoria alata.

Nel gigantesco trittico – largo oltre diciotto metri e alto quasi nove nella parte centrale, più di sette nei due pannelli laterali – Sironi rappresenta L’Italia fra le Arti e le Scienze. La dea Italia, tra un corteo di figure allegoriche, è accanto a una donna, simbolo dell’Impero, seduta sulla sfera del mondo: siamo a un passo dalla guerra d’Africa, che inizia nell’ottobre 1935, e nella versione finale dell’affresco il globo terrestre ha impressa la forma della Penisola. In alto, vicino al fascio littorio, un arco trionfale a un solo fornice, semplificato secondo la sintesi novecentista, evoca l’Arco di Tito, che Margherita Sarfatti citava spesso come emblema della grandezza di Roma (Carducci, uno dei suoi poeti più amati, nelle Odi barbare aveva scritto: «Chi le farfalle cerca sotto l’arco di Tito?», intendendo dire che di fronte all’imponenza della Città Eterna non si può volgere l’animo a minuzie). Guardando la composizione – o, meglio, immaginandola al di là della ridipintura – sembra davvero che la nostra Italia sia diventata una patria imperiale. E non per l’imminente vittoria, effimera e illusoria, in Abissinia, quanto per la concezione dell’artista, illusoria anch’essa sul piano della storia ma grandiosa sul piano della pittura. Sironi si sta inoltrando sempre più in un suo cammino visionario. Ne è un sintomo anche il prevalere nelle sue composizioni dell’allegoria sulla realtà: in quest’opera, rispetto alla Carta del Lavoro e al Lavoro, ci viene incontro un Parnaso di simboli e di concetti. Non sono figure concrete, ma miraggi.

Il progetto, comunque, rischia più volte di sfumare. Dopo gli inutili solleciti del 1934, nel gennaio 1935 Piacentini, ormai scoraggiato dai ritardi e dai silenzi dell’artista, gli propone di eseguire solo una carta geografica dell’Italia e in primavera pensa addirittura di rinunciare a ogni decorazione.1

L’Italia fra le Arti e le Scienze, 1935, Roma, aula magna dell’Università Sapienza. Pittura murale, 8,75 × 10,22 m. Stato attuale.

Le dilazioni di Sironi nascono, come al solito, dall’accavallarsi degli incarichi e delle scadenze, oltre che dalla riluttanza a mostrare i propri bozzetti, nel dubbio che non siano capiti. Di personali, è vero, non ne tiene più e nelle collettive grandi e piccole, a cui per contratto non può esimersi dal partecipare, compaiono spesso quadri di qualche anno prima, quasi mai scelti da lui. Lo sappiamo da una lunga memoria inedita del 1937 che l’artista scrive per chiarire la sua posizione all’Ufficio Imposte, ma in cui in realtà si lascia andare a confessioni ben più vaste di un rendiconto economico:

Per rimanere fedele al mio credo artistico […] io ho soppresso ogni altra attività relativa a quadri e alle pitture murali che sono sfruttate dal mercato. Eppure ho avuto richieste numerose e inviti anche perentori da parte di dirigenti di esposizione, inviti da me declinati suscitando grossi malumori e per i quali si è perfino ricorso a esporre mie cose vecchie, raccolte qui e là senza e contro la mia approvazione e per contro con mia grave irritazione. […] Non ho sempre proclamato, contro i decadenti e i pretesi raffinati dell’arte che la pittura può e deve avere una meta morale, e tralasciando le piccole esercitazioni, esprimere un’idea e proclamarla sopra tutte le altre?2

I dati confermano le affermazioni di Sironi: nel gennaio 1935, alla mostra con de Pisis e Funi alla galleria Il Faro di Torino, organizzata da Barbaroux, le sue opere sono del 1928-1930; in maggio, alla prestigiosa “Art Italien des XIX et XX siècles”, curata da Dezarrois e Maraini al Jeu de Paume di Parigi, vengono inviati un vecchio Nudo e La Famiglia, già presentata alla Biennale di Venezia del 1932. Per contro in febbraio, alla II Quadriennale di Roma, non può essere che sironiana l’idea di esporre solo uno studio preparatorio per la vetrata del palazzo delle Corporazioni di tre anni prima: una scelta perfino provocatoria per una rassegna fondata sull’attualità.3

Se non ama le mostre, non ama nemmeno i concorsi. Il 19 febbraio 1935, rispondendo a Mazzoni che gli aveva inviato un bando (con ogni probabilità quello per la decorazione della palazzina Reale di Santa Maria Novella, pubblicato il mese prima), osserva:

Siamo sempre ai concorsi con i soliti inconvenienti, che immagino si riprodurranno questa volta come è legge inevitabile e come è sempre successo. Mi si dice che gli appetiti questa volta sono già enormi. Dovrei fare anch’io la comparsa in così bella festa? Proprio non me la sento, e me ne rincresce profondamente.4

Ma, al di là di mostre e concorsi, altri lavori lo incalzano. Fra la fine del 1934 e gli inizi del 1935 è incaricato di realizzare per la Triennale del 1936 un grande mosaico dedicato all’Italia e comincia a elaborarne il disegno. L’opera prenderà vari nomi, ma diventerà nota come L’Italia corporativa.

È la prima volta che Sironi si misura con la tecnica musiva e l’occasione lo spinge a ripensare all’arte bizantina, a cui dedica l’articolo “Racemi d’oro, che esce nel marzo 1935 sulla Rivista Illustrata del Popolo d’Italia. In febbraio intanto il ministero degli Esteri gli aveva chiesto ansiosamente rassicurazioni «circa l’esecuzione dei due affreschi nel refettorio della colonia marina dei Fasci all’Estero», oggi Acquario civico, costruita da Busiri Vici a Cattolica nel 1934. Le due opere, di cui non si hanno altre notizie, dovrebbero essere pronte per la fine di maggio, ma Sironi non le realizzerà mai, anche se probabilmente si riferisce a quel progetto una vasta composizione con una vela, una nave e un faro che emergono tra muri e architetture.5 Sempre in questo periodo esegue invece la scenografia di Madonna Imperia di Franco Alfano: disegna la stanza di un palazzo tardogotico in cui inserisce, anche lì, una pittura murale. Lo spettacolo – di cui finora non si conoscevano le date di esecuzione – va in scena il 7 aprile al teatro del casinò di Sanremo e sarà replicato il 26 aprile 1937 alla Scala di Milano, alla presenza del re.6

Ma non basta. Sironi allestisce anche il salone d’onore per la “Mostra Nazionale dello Sport”, che si apre il 12 maggio 1935 al palazzo dell’Arte: una serie di fotomontaggi accostati in strisce ortogonali, con uno stile vicino all’Astrattismo e al Razionalismo architettonico. Sono gli anni, del resto, in cui sta nascendo l’Astrattismo italiano intorno alla galleria del Milione. Pochi mesi prima, nell’ottobre 1934, la galleria milanese aveva esposto le ordinate geometrie di Vordemberge-Gildewart, un esponente del Bauhaus, e anche Sironi risente, a suo modo, della composizione “ad angoli retti”.

In giugno comunque, superati gli equivoci con Piacentini, l’artista consegna i primi bozzetti per l’aula magna. Poco dopo si trasferisce a Roma e inizia a dipingere l’immenso affresco. Alloggia con Mimì in una palazzina in via Antonio Musa 12A, un’abitazione che gli ha trovato Margherita Sarfatti, vicinissima alla sua casa di via dei Villini.

All’aula magna Sironi lavora senza interruzioni fino alla fine di ottobre. «Dall’inferno del lavoro contemplo ancora una volta, ancora una estate, i miraggi lieti che la sua lettera mi ha fatto apparire» scrive in luglio a Carlo Foà, che lo invita vanamente nella sua casa di villeggiatura.7

Sironi ora ha cinquant’anni e da tempo, assediato dalle scadenze, trascura la sua salute. «C’è un bel divieto per me di fare qualunque cosa per risanarmi e rattopparmi un poco» scrive nella stessa lettera a Foà. Eppure inizia a risentire non solo della fatica fisica di dipingere sulle impalcature ore e ore, ma anche della tensione psicologica che gli provocano le forche caudine della committenza. Il 3 agosto Cesare Maria De Vecchi, ministro dell’Educazione Nazionale, gli chiede le foto dei cartoni dell’aula magna, che mostra a Mussolini. In attesa del responso Sironi, che teme la «ciclopica incompetenza»8 dell’anziano generale, vive giorni di malumore e di ansia, anche se il ritmo frenetico del lavoro non gli consente di distrarsi. Il 14 agosto, tra l’altro, dirama (probabilmente senza tornare a Milano, anche se la città lombarda figura nell’intestazione delle lettere) i primi inviti agli artisti per il «programma di decorazioni murali» della Triennale del 1936.9 Tre giorni dopo, finalmente, è convocato a palazzo Venezia da Osvaldo Sebastiani, il nuovo segretario particolare del capo del governo, che gli restituisce i bozzetti «invitandolo a nome del Duce ad addolcirli e ad ammorbidirli».10

Non sappiamo in che modo Sironi abbia seguito l’antiespressionistico consiglio («Il Duce mi fece dire di stare attento a non fare i piedi troppo lunghi e se ne trovò [?] giustamento» scrive in un appunto),11 ma di fatto l’affresco romano, per quanto si può giudicare ora, è la più “addolcita”, la meno espressionista appunto, delle sue opere monumentali. Il 31 ottobre, comunque, quando l’aula magna viene inaugurata, il lavoro è compiuto.

A questo punto, dopo tanti mesi di incessante fatica, Sironi si concede una breve vacanza. Visita Pompei, dove incontra inaspettatamente Amedeo Sarfatti, che è ad Amalfi in viaggio di nozze. Ricorda il figlio di Margherita:

Quando si trattava di pittura, la sua umiltà – non di fronte agli uomini, che giudicava avversi, ma di fronte all’arte – e la sincerità che improntava ogni suo atteggiamento, l’entusiasmo con cui studiava e ricercava erano assoluti e completi. Ancor oggi, se penso a Sironi, rivivo un giorno dell’autunno 1935. Ero in viaggio di nozze, e con mia moglie capitammo a Pompei da Amalfi, dove soggiornavamo. Previdentemente, avevamo portato un cestino con provviste, perché sapevamo che dentro il recinto degli scavi non si trovava nulla. Alla Villa dei Misteri […] trovammo Sironi con Mimì, assorto nello studio e nella contemplazione degli affreschi […]. Così assorto, che si era dimenticato dell’ora, della colazione e dell’appetito non solo suo, ma anche di Mimì. E mentre dividevamo con loro il nostro pasto, apprezzavamo con lui il magico appello di quegli affreschi, rivelazione di un’arte pittorica raffinata e grandiosa. […] L’influenza pompeiana sull’arte di Sironi fu importante, tanto da far credere che essa gli fosse pervenuta attraverso Picasso e il suo periodo “pompeiano”. Posso invece testimoniare, per quella giornata trascorsa insieme alla Villa dei Misteri, che egli la sentì direttamente, da quegli affreschi accostati e studiati con profondo amore e umiltà di artista.12

Al ritorno dal viaggio, però, Sironi è risospinto nel vortice delle scadenze. Deve urgentemente consegnare i cartoni per L’Italia corporativa, ma è anche contattato dalla Ca’ Foscari di Venezia che, sull’esempio dell’università di Roma, vuole anch’essa un affresco per l’aula magna del proprio ateneo. Per di più, a fine anno, l’artista attraversa una crisi depressiva che quasi gli impedisce di lavorare.13 Non consegna nemmeno la nuova copertina di Gerarchia: nel 1936 verrà riutilizzata quella del 1935. Un riflesso del suo stato d’animo si coglie nella lettera di auguri che invia alle figlie con i regali di Natale:

Vi ho mandato quel poco. Assai poco per il mio desiderio che ogni giorno di più sente più amaro il peso del destino inumano. […] Alla fine quasi della mia vita non ho che queste cosucce da mandarvi e il mio desolato e spesso terribile sconforto.14

Alle sue parole sconsolate fanno eco quelle di Margherita Sarfatti, che inviandogli gli auguri di Capodanno – lo abbiamo già ricordato – gli confessa: «Se sapeste come per i vostri amici è doloroso sapervi così».15

Le scadenze, d’altra parte, non gli danno tregua. Nel gennaio 1936 Sironi riceve un nuovo incarico: eseguire due affreschi per il sacrario della Casa Madre dei Mutilati di guerra a Roma, costruita da Piacentini. Sempre nel 1936 inizia a collaborare con la FIAT. Ne allestisce la sala alla “Mostra Nazionale del Cartellone”, aperta in febbraio al palazzo delle Esposizioni: grandi pannelli fotografici alle pareti rappresentano le macchine dell’azienda torinese (la Littorina, la Topolino, la motonave Vulcanici, il motore-record del capitano Agello), la sua produzione bellica per la campagna d’Etiopia e «la visita del Duce al Lingotto nereggiante di masse operaie, serrate intorno all’incudine dinanzi alla quale Egli parlava» come scrive in tono oracolare un cronista dell’epoca.16 Per la FIAT, con cui avrà una lunga collaborazione, Sironi progetta poi una réclame della Cinquecento e, ancora, il padiglione della XVII Fiera Campionaria, che si tiene a Milano dal 12 al 27 aprile. Qui il suo antico gusto parolibero riaffiora nelle lettere cubitali AO (Africa orientale) che dominano la stele concava dell’ingresso.

Il 24 maggio si apre invece la Triennale. Sembrano passati secoli da quella del 1933: la restrizione di fondi provocata dalla crisi economica dopo le sanzioni e vari contrasti con la presidenza hanno limitato il programma e il raggio di azione di Sironi, spingendolo addirittura a dimettersi dal direttorio. Per la rassegna progetta comunque, oltre alla copertina del catalogo, alla medaglia e al diploma d’onore, la sala da pranzo per Santo Aimetti, viceamministratore del Popolo d’Italia: un ambiente suggestivo sia per i mobili, divisi fra Razionalismo e “Novecento”, sia per le decorazioni parietali dove file di segni arcaici e misteriosi si alternano a composizioni policentriche e a inserti quasi astratti. Dell’Italia corporativa, invece, fa in tempo a realizzare solo la parte centrale, Il trionfo d’Italia, con la figura della patria in trono che sprigiona una primordiale ieraticità.

Una settimana dopo la Triennale si inaugura la Biennale. Sironi non partecipa, ma ai primi di giugno17 è anche lui a Venezia per seguire l’esecuzione delle restanti parti del mosaico, affidata alla ditta Salviati. Dovrebbe anche affrontare l’affresco di Ca’ Foscari, mentre da Roma gli sollecitano i bozzetti per il sacrario dei Mutilati. In laguna lavora intensamente ma la fatica, il caldo, la tensione per l’affollarsi degli impegni hanno ragione della sua fibra, se non della sua volontà, ed è costretto a tornare a Milano e a fermarsi per quasi un mese. Parte del periodo di malattia lo trascorre nella più fresca Falcade, tra i monti Agordini: un ritorno nelle Dolomiti (da ragazzo era stato con la madre e i fratelli a Fiè) che amerà sempre molto.

Alla fine di luglio, non ancora guarito, riprende comunque il lavoro. «Avrete forse saputo che sono stato ammalato per molto tempo e non mi rimetto punto come vorrei. Il lavoro in queste condizioni è un assassinio» scrive all’amica Margherita; e a Barella:

Nonostante le mie attrazioni assolute per questa città, il soggiorno qui nella temperatura soffocante, nella estrema stanchezza che mi tormenta ormai da vario tempo senza che mi sia dato di mettervi riparo, mi è assai penoso. Ma pazienza. L’essenziale è che il lavoro vada in fondo.18

E ancora:

Sono da Salviati dalla mattina alla sera e faccio ogni sforzo per accelerare al massimo il lavoro. Ma è un lavoro immane, una massa spaventosa che sembra crescere sotto gli occhi. Una sola figura conta più di 42.000 tessere. Con questo caldo e nelle mie condizioni di salute questo lavoro mi ha dato il tracollo. Ho passato giorni orribili.19

Ormai, però, Sironi non riesce più a rispettare le scadenze. In settembre, a Milano, finisce i cartoni per il sacrario e in ottobre, a Roma, inizia a trasporli sulla parete, ma non fa in tempo a concluderli per il 4 novembre, quando la Casa Madre dei Mutilati di guerra viene inaugurata.

Nello stesso periodo dovrebbe aprirsi l’anno accademico a Ca’ Foscari, ma l’affresco Venezia, l’Italia e gli studi è ancora, è il caso di dire, in alto mare. In novembre, comunque, Sironi torna nella città veneta e, lavorando soprattutto di notte (di giorno sovrintende al mosaico dell’Italia corporativa nei laboratori della ditta Salviati), riesce a completarlo. Per affrettare i tempi esegue molte parti a tempera – una tecnica più rapida, e anche più economica, dell’affresco – ma solo nel gennaio 1937 l’opera è conclusa: viene inaugurata insieme all’anno accademico, che si apre in ritardo di due mesi rispetto al normale inizio dei corsi. Qualcosa di concitato, però, sembra rimanere anche nella composizione, dove le figure che negli studi preparatori si allineavano ordinatamente – uno studente, le allegorie della scienza, della tecnica, di Venezia in trono e dell’Italia – nella versione finale si incuneano in una spazialità frammentata, caotica.

Circa due mesi dopo Sironi – mentre rinuncia, per contrasti con il regista Ebert, a eseguire scene e costumi per la Luisa Miller di Verdi, che gli erano stati chiesti per il Maggio Musicale Fiorentino – termina finalmente anche L’Italia corporativa. L’opera, quasi cento metri quadrati di pittura, ha richiesto uno sforzo immenso. Per di più la ditta Salviati, che aveva trasposto i cartoni in mosaico, minaccia ora di fargli causa, rivendicando addirittura la paternità del lavoro. Enorme è lo sdegno dell’artista:

Dio sa cosa mi è costato di amarezze, di fatiche e di denaro quel tremendo lavoro. […] Che oltre a ciò si debba anche dire che lo ha fatto un altro mi sembra che si chieda troppo. […] Il bravo Salviati evidentemente mi ha scambiato per un disegnatore di ditte in stoffe o un figurinista.20

L’Italia corporativa, 1936-1937, Mosaico, 800 × 1280 cm. Milano, palazzo dell’Informazione. © Foto Scala, Firenze.

Che cosa rappresenta L’Italia corporativa? Come scrive Sironi stesso in una lettera, il monumentale mosaico intende

illustrare la grandezza della vita nazionale, come è sempre avvenuto nei tempi maggiori dell’arte, nel caso attuale esaltando il lavoro, la vita dell’Italia Romana e Fascista, simboleggiata dalla figura centrale, intorno alla quale si muovono le figure del costruttore, degli agricoltori, della madre, della casa ospitale, e dall’altro lato, dalle figure simboliche della legge e della giustizia fascista, di Roma vittoriosa e del soldato italiano. In alto, la giovinezza, l’aquila, la colonna eterna dell’Impero di Roma.21

È anche troppo facile, oggi, sottolineare la distanza che separa la visione fascista e romanticamente nazionalista di Sironi dalla dura realtà dei fatti, la Grande Italia dei suoi sogni dall’Italietta della storia. Per fortuna la forma ha più contenuti del contenuto, e anche qui l’enigmatica ieraticità della composizione è ben lontana dalla triviale immediatezza della propaganda. Bisogna infatti distinguere la monumentalità dell’arte sironiana dal monumentalismo della retorica, come ammoniva Pica: «Chi ha accusato Sironi di retorica non si è accorto [di] confondere i fantocci di cartapesta dei cialtroni […] con la grandezza».22 Sironi stesso, del resto, aveva scritto:

La parola monumentale genera nelle menti di certuni un senso di imponenza, ma gonfia, vuota, rimbombante […]. Non è questa tutta la monumentalità. C’è ben altro. Ad essa non guardiamo mai.23

L’Italia corporativa, su invito di Maraini, viene esposta il 24 maggio 1937 nel padiglione italiano dell’Expo di Parigi, dove quell’anno è presente anche Guernica di Picasso. Sironi, nonostante la salute ancora malferma («Quei malanni […] cagionati dalla fatica di questa vita infernale mi riprendono a tratti violentissimi» aveva scritto in marzo)24 si reca nella capitale francese dove cura l’allestimento della sala dedicata all’Italia d’oltremare, cioè alle colonie. Suoi sono i disegni del pavimento con animali stilizzati e di due grandi bassorilievi in gesso: L’impero italiano d’Etiopia (una carta geografica dell’Africa orientale) e L’Italia colonizzatrice, distrutto dopo la mostra. Nella sala colloca anche un pannello già eseguito per la FIAT, mentre nel padiglione dell’azienda torinese un suo disegno dell’idrovolante di Agello è tradotto in rilievo da Stefano Borelli, uno scultore oggi dimenticato.25

Ma, ci si potrebbe chiedere, tutta questa “vita infernale” ha dato almeno a Sironi dei vantaggi materiali? Questo disperato esercizio della pittura murale, questa utopia alla Fitzcarraldo che, pur non diventando mai un’arte di Stato, lo porta a esprimere la sua fede politica come nei quadri non aveva mai fatto, ma anche a essere combattuto come non era mai successo (generando così un paradosso: Sironi è l’artista che più di ogni altro, nel secondo dopoguerra, è stato identificato con il regime – ben più di compagni di fede come Terragni, Rosai o Soffici che non erano meno fascisti di lui – ma è anche l’artista che più di ogni altro durante il ventennio è stato combattuto da frange del fascismo, spesso in nome del fascismo stesso); questa faticosa stagione, insomma, che a volte ha ostacolato un’autentica comprensione di tutta la sua arte appiattendola sul solo “far grande”, ha avuto, se non altro, qualche ricompensa concreta?

Per nulla. La pittura murale non si vendeva se non allo Stato. Che pagava, ma non di rado male e in ritardo. Quando nel novembre 1937 Margherita Sarfatti annuncia a Sironi la possibilità di un premio-acquisto straniero all’Expo di Parigi, si sente rispondere:

Non vi nascondo che orso e belva come sono questi premi mi farebbero comodo per vedere di sistemare questi lavori, posto che dopo molte lotte del bassorilievo e del mosaico ho ricavato in tutto L. 5000, dalle quali vanno tolte più di L. 10000 di spese.26

Nel dicembre 1936, tra l’altro, l’Ufficio Imposte gli aveva raddoppiato l’imponibile, portandolo da diciottomila a trentacinquemila lire, e negli anni successivi lo tassa erroneamente anche per i compensi destinati ai collaboratori, generando quella che l’artista chiamava con amara ironia «la tragedia delle tasse».27 Non è dunque una recita, anche se l’esasperazione lo induce a forzare i toni, quella che lo porta, pressappoco nello stesso periodo, a scrivere a Matilde:

Con la fine degli introiti della Triennale […] io non ho nessun altro cespite oltre il mio lavoro e lavoro non ce n’è […]. Se non avessi un esiguo fondo messo da parte e qualche piccolo lavoro io non avrei modo di vivere. Sono alla più stretta economia in ogni senso.28

Anche quando nel 1937 scrive agli agenti delle tasse la già citata memoria difensiva l’artista, nonostante le argomentazioni ad usum delphini, non sembra alterare i dati, che del resto erano facilmente controllabili:

Per la pittura della Triennale V di ben quattro anni fa, fu concesso un semplice rimborso spesa a prezzo di stabilitura [intonaco N.d.R.]… La vetrata del palazzo delle Corporazioni si è risolta per me in un modo disastroso. Anche in quel caso le gelosie e le polemiche artistiche tagliarono più di due terzi del previsto.29

Il sogno della pittura murale, insomma, aveva costi altissimi. E non solo dal punto di vista economico.