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Gli anni del dopoguerra

Il 25 aprile 1945 Sironi esce dalla casa di via Domenichino con il suo cane, tra gli spari, e prende la strada per Como. A un posto di blocco viene fermato da una brigata partigiana e avrebbe rischiato la vita se Gianni Rodari, il futuro scrittore per l’infanzia che faceva parte del commando, non gli avesse firmato un lasciapassare. Racconta Rodari:

Sironi teneva un cane al guinzaglio, il giorno in cui i partigiani lo fermarono sull’autostrada Milano-Como. Parlo del pittore Mario Sironi e del 25 aprile. Mezz’ora prima ragazzi con fatiscenti moschetti modello 91 si erano buttati contro una colonna di carri armati tedeschi. Li avevano visti balzare dalla scarpata. Poi compare questo signore ambiguo, tutto grigio, con quel cane e un sorriso disperato. “Sironi Mario? – lessi, puntando sull’interrogativo, dalla carta d’identità – il pittore delle periferie?” […] Non so se posso vantarmene: gli firmai il lasciapassare, in nome dell’arte. Non dissi al comandante della brigata quelle tali cosette. Gli avevo appena consegnato John Emery, il supertraditore inglese, figlio di un ministro inglese, addetto alla propaganda nazista. Per un Emery uno si può tenere un Sironi. Non me ne vanto […]. Se ne andò con il suo cane, non importa dove. Aveva perduto qualcuno, non mi interessava chi. Per me la sua pittura era stata una lezione di tragedia. […] Non c’è pittore che valga i suoi quadri.1

La circostanziata testimonianza di Rodari sembra attendibile. Tra l’altro John Emery fu effettivamente catturato dai partigiani a Milano il 25 aprile. Consegnato alle autorità britanniche, viene impiccato per tradimento nel dicembre 1945.

Della vicenda sironiana circola però anche un epilogo. Lo racconta Marco Valsecchi, secondo cui il 25 aprile Sironi, camminando per ore, era giunto fino a Como. La lunga passeggiata (una quarantina di chilometri) sembra meno credibile, anche se a rigore non si può escludere. Oltretutto nella città lariana l’artista non aveva punti di appoggio perché la casa dove era sfollato si trovava a Dongo, distante almeno altri trenta chilometri. L’episodio, riportato in un articolo del novembre 1961 (uscito dunque dopo la morte di Sironi), era stato confidato dieci anni prima a Valsecchi dal pittore stesso, che – scrive il critico – aveva rievocato quei momenti con profondo turbamento.2 Probabilmente Valsecchi aveva frainteso alcuni particolari, confondendo la strada per Como – di cui parla anche Rodari – con un tragitto Milano-Como, forse eccessivo per un sessantenne non in perfetta salute. Il critico comunque aveva censurato il nucleo essenziale del racconto di Sironi (l’arresto, il rischio di morte, il salvacondotto), anche a costo di non far capire le vere ragioni della sua commozione.

Il fatto invece che l’artista fosse sfollato a Dongo ha dato origine all’ipotesi, fantasiosa ma piuttosto diffusa, che stesse per essere fucilato con i gerarchi fascisti e, salvato in extremis da Andrea Cascella, avesse poi eseguito sul posto il disegno dei cadaveri, quasi fossero un bel soggetto da ritrarre en plein air. Le cose devono essere andate diversamente. È possibile che Cascella, che era un comandante partigiano, si fosse unito alla brigata di Rodari a Milano e fosse intervenuto anche lui in favore del pittore, il che spiegherebbe il ricorrere del suo nome nelle testimonianze.

Il 1° maggio, comunque, Sironi ascolta alla radio un comizio di Giuseppe Gorgerino, l’intellettuale cattolico per anni responsabile delle pagine culturali dell’Ambrosiano. Torinese di nascita, ma ormai milanese d’adozione, vicino nel primo dopoguerra a Gobetti, Gorgerino aveva combattuto con i partigiani. L’artista, che lo conosceva da tempo e sapeva di poter contare sulla sua stima, gli scrive una lettera, datata solitamente 1946 ma – alla luce della testimonianza di Rodari – da anticipare al 1945:

Io mi rivolgo ora a te per aiuto […]. La mia vita stessa è stata in questi giorni in pericolo e ho sofferto violenze e ogni sorta di terribili traversie e amarezze. […] La mia modesta forza non ha illusione di trionfi – ne è passato squallidamente il tempo – ma vorrebbe compiere il suo dovere, il dovere che, sulla terra senza pace, forse un Dio le ha assegnato. Spero pure che non vorrai considerare immodeste o non abbastanza umiliate queste mie parole (il mio sentimento è spezzato ed è troppo triste per me, che non posso rimproverarmi un atto o un pensiero malvagio o nemico del bene, vedere quanto povera e fragile è la difesa della mia arte).3

La risposta di Gorgerino è in un biglietto, rimasto sempre tra le carte dell’artista:

Caro Mario, telefonami. Sono sulle spine per te. Vorrei aiutarti e incontrarti. Ma non so come fare. Gorgerino.4

Le violenze a cui Sironi accenna devono riferirsi a un episodio drammatico di cui parla anche Vladimiro Sarno, un giovane avvocato che aveva conosciuto Sironi agli inizi del 1945 ed era divenuto suo collezionista, legale e amico. In una lettera che invia ad Aglae pochi anni prima di morire Sarno afferma, a proposito dell’artista: «Gli ho salvato due volte la vita». Sarno, ricorda sua moglie Graziella, era intervenuto in difesa di Sironi, rimasto vittima di un violento pestaggio per la sua passata appartenenza al regime.5 Non si sa quale sia stato il secondo episodio cui l’avvocato si riferisce. Sempre Sarno, che era amico personale anche di Togliatti, si adopera efficacemente (in quel periodo o poco dopo) per impedire la distruzione dell’Italia corporativa e del bassorilievo per il palazzo del Popolo d’Italia:

Il partito comunista […] voleva abbattere l’opera scultorea che si trova sul frontespizio del palazzo del Popolo d’Italia in Milano e far distruggere quel meraviglioso mosaico […] che trovavasi nell’interno dello stesso palazzo. Io e mio fratello Franz intervenimmo personalmente presso Togliatti in difesa delle opere del Maestro.6

Fu dunque grazie all’intelligenza e alla lungimiranza del Migliore che quei lavori monumentali furono salvaguardati.

Intanto, in quelle drammatiche circostanze, Sironi tenta di riprendere a lavorare, ma le forze gli vengono meno. Scrive a un amico:

Ma quello che è venuto dopo è stato veramente una cosa spettrale. Ho visto cose che tutta la mia amara filosofia non mi avrebbe mai fatto immaginare, ho visto l’atrocità della vita e la bestialità umana. Bene. Ora vorrei trovare la forza di rimettermi lo zaino in spalla e ripartire con il mio nero bagaglio per la mia immensa solitudine.7

Il 1° giugno 1945 firma un contratto con Arturo Bücher, un albergatore di Bellagio appassionato d’arte, impegnandosi a consegnargli due opere al mese, una di dimensioni importanti, ma non riesce a rispettare le consegne. La guerra, del resto, per Sironi è tutt’altro che finita. Il 15 giugno sul foglio milanese Gli Insorti Albano Rossi, collezionista e futuro critico, pubblica La famiglia ora al FAI e chiede risolutamente l’epurazione degli artisti del “Novecento”.8 Sironi viene effettivamente «deferito alla commissione d’epurazione», come informa l’Unità due settimane dopo:

Trafiletto con la notizia del processo di epurazione di Sironi, l’Unità, 28 giugno 1945.

Sulla base delle dichiarazioni scritte di proprio pugno dagli interessati sul foglio personale di iscrizione, il Collegio artistico Belle Arti di Milano ha compilato l’elenco di deferimento alla Commissione di epurazione di 79 pittori e scultori tra cui l’ex Accademico d’Italia Francesco Messina; Mario Sironi e Arnaldo Carpanetti, autori degli affreschi nel palazzo del Popolo d’Italia; Pratelli Esodo, primo segretario del Sindacato; Vellani Marchi, fondatore del fascio di Modena […] e Carlo Carrà.9

Non si hanno altre notizie sul processo di epurazione, ma possiamo dedurre che, non ricoprendo cariche né avendo accumulato «illeciti profitti durante il regime», l’artista ne sia uscito senza condanne. In settembre si tiene invece un analogo processo contro Peppino e Gino Ghiringhelli, accusati di aver denunciato Carpi e provocato la sua deportazione in un lager. Dalla tremenda accusa, risultata subito falsa, vengono totalmente prosciolti e lo stesso Carpi testimonia a loro favore, ma tra gli indizi di collaborazionismo c’è anche l’aver tenuto «durante l’occupazione […] una mostra di Sironi, noto affrescatore fascista».10

Il “noto affrescatore” sta riprendendo nel frattempo a dipingere. «Sto lavorando e la ripresa questa volta è in pieno. I risultati naturalmente tarderanno un poco» scrive a fine ottobre al fratello Ettore.11 Sempre tramite Ettore la galleria romana Il Secolo gli aveva chiesto di partecipare a una collettiva in America e di tenere una personale nella sua sede di via Veneto ma Sironi, equivocando, pensa che entrambe le mostre debbano aver luogo negli Stati Uniti. Leggiamo nella stessa lettera al fratello:

Caro Ettore,

scusa il ritardo della presente perché la vita in questo tempo è stata assai tormentata. […] Come avrai saputo per la mostra in America io dovrei mandare tre quadri. […] Naturalmente una personale in America sarebbe una grande cosa e puoi immaginare quanto mi starebbe a cuore. […] Ti avverto che la campagna contro di me continua subdolamente e continuatamente. Bisogna tenere gli occhi aperti. Non fidarsi di nessuno, e avere una coscienza ferrea del proprio valore.

Ettore gli risponde sollevato («È con un senso di sollievo che ho appreso come tu, con la tua indomabile energia, abbia saputo riprendere la via del lavoro») e chiarisce che la personale si dovrebbe tenere a Roma con Campigli.12 Con il solito ritardo l’artista invia alcuni quadri, tra cui Donna sdraiata o L’eclisse della collezione Pallini:

Caro Ettore,

ho spedito la cassa coi quadri miei e di Campigli. […] Spero di essere arrivato in tempo. […] Sono un po’ inquieto perché non ho avuto riscontro e ignoro come siano andate le cose. Ti raccomando le assicurazioni, specialmente il quadro di Pallini che non è in vendita e preme molto al proprietario che aspetta con sollecitudine l’assicurazione.13

Gli accordi con la galleria sono però difficili e la mostra sfuma, come sappiamo da un’altra lettera a Ettore degli inizi del 1946:

Caro Ettore,

scusa se non ti scrivo. La vita è diventata ancor più dura per me per quelle cose che tu sai e ho lunghi periodi di atroci sconforti nonostante l’arte vada bene. […] Si tratta ora di mettere in chiaro la faccenda del Secolo. […] Ho deciso di ritirarmi. E lo faccio con il massimo entusiasmo.14

In questo periodo si susseguono nella pittura di Sironi alcuni soggetti religiosi. Temi sacri erano presenti nelle sue opere nei primi anni quaranta (Crocifisso sotto le bombe, 1943; L’apologo. Cristo e gli apostoli, 1944) ma ora esprimono soprattutto un sentimento di colpa (La penitente, Confessioni). Sono figure sofferenti, a volte inginocchiate sulla nuda terra, che confidano a qualcuno il loro carico di rimorsi o si chiudono in un silenzio contrito. Un peccato misterioso grava sulla Penitente vestita di sacco, circondata da una curiosità malevola che la rinchiude in un disperato isolamento. Uno stesso senso di colpa opprime la donna senza vesti, mentre cerca chi possa assolverla: la sua nudità non ha un valore sensuale, ma simboleggia una condizione indifesa. Nelle opere dipinte tra il 1946 e il 1947, poi (Fustigazione, Pietà e dolore, I giudici), la figura appare ancora più schiacciata, travolta da una sentenza senza appello. Non vediamo più La penitente che si accusa spontaneamente e spera forse in un perdono, ma il reietto perseguitato dai Giudici, la condannata su cui si accanisce il fustigatore, la supplice che implora invano l’idolo di pietra. Così, in Allegoria, una donna cade in ginocchio sullo sfondo di un orrido teschio e di un fantoccio urlante, che non si capisce se sia vittima o carnefice. E ancora: Susanna non rivela la sua bellezza ai vecchioni, ma si copre impaurita, sotto un cielo nero di tenebre; un Lazzaro senza resurrezione è sepolto in un paesaggio pietroso; un’Adultera grida disperata, ugualmente atterrita dalla colpa e dal castigo. Profani o religiosi, i soggetti sironiani ora esprimono solo lutto e tragedia, e non lasciano nessuno spiraglio alla speranza, né tantomeno alla redenzione. Massi erratici e mura ciclopiche circondano le cose, imprigionano le azioni degli uomini, bloccano in una morsa ogni movimento. La figura monumentale, eretta, eroica, che l’artista aveva dipinto tante volte negli anni venti e trenta, si muta in una figura prostrata, umiliata, priva di spazio.

La scogliera, 1947. Olio su tela, 60 × 70 cm. Collezione privata.

Accade insomma un mutamento radicale nella pittura di Sironi. Nella sua stagione novecentista aveva rappresentato un’immagine dell’uomo grave, ma potente; una famiglia di architetti, costruttori, lavoratori dediti a un compito faticoso, ma solenne; una geografia di città dolorose, ma imponenti, animate da una dimessa grandiosità. Invece dalla metà degli anni quaranta dipinge uomini murati nella pietra, sipari di rocce impenetrabili, sagome immobilizzate. Al volitivo “tu devi”, l’imperativo categorico cui obbedivano le figure precedenti, si sostituisce un amaro “tu non puoi”.

L’uomo, sembra dire Sironi, non ha una vera possibilità di decisione. Il suo raggio d’azione è limitato e non può cambiare il mondo. Un copione già scritto attende da millenni di essere recitato, e nessuno può modificare la propria parte. Le donne (1944) incastonate nel sasso; i cavalieri e i cavalli sigillati in una tarsia; i paesaggi in cui anche l’immensità del mare urta contro una parete di rocce (La scogliera, 1947); le composizioni in cui ogni forma è imprigionata in un riquadro di pietra, esprimono l’immutabilità del destino. Sironi ora non dipinge più lavoratori o uomini d’azione. L’ultima volta che aveva esposto un Operaio era nel 1940; il suo ultimo Eroe è del 1944. Al mondo del fare, dell’adempiere a una missione, subentra ora il mondo del limite e dell’impossibilità. Non c’è più modo di costruire un novus ordo: come Nietzsche, ma anche come Schopenhauer, Melville, Tolstoj, Sironi pensa ora che il destino sia ineludibile e non lasci spazio alla costruzione individuale. Le figure che compaiono nei suoi quadri sono un popolo di vinti, di condannati, di proscritti.

Lui stesso, del resto, è messo ai margini del mondo dell’arte. Le bibliografie e le esposizioni solitamente elencate nelle sue monografie inducono, senza volerlo, a un errore di prospettiva. Sironi, secondo questi repertori, avrebbe tenuto una personale a Milano già nell’aprile 1946 all’Annunciata e di lui si sarebbero occupati, in importanti saggi complessivi, Ragghianti nello stesso 1946, Venturi, Repaci e Barbaro nel 1948, Marchiori e Vitali nel 1950. Le cose non stanno così. La “personale” all’Annunciata (una galleria che pure sarà vicina all’artista) è in realtà una collettiva che ospita una sola opera sironiana, e i saggi prima citati non menzionano Sironi nemmeno per sbaglio, tranne Ragghianti e Repaci che lo nominano di sfuggita, in un passaggio irrilevante dei loro ponderosi volumi. Sono dettagli, certo, ma l’imprecisione filologica può far pensare a una continuità di consensi critici e di attività espositiva che invece non esiste. Nel giro di pochi anni, anzi, Sironi passa dall’essere uno degli artisti più rappresentativi e operosi della sua epoca all’essere uno dei più discussi, se non trascurati, dall’ufficialità.

Certo, qualche piccola iniziativa non manca. Nel dicembre 1945 le affollate collettive natalizie al Milione e alla Bergamini includono anche qualche suo quadro. Nel febbraio 1946, al di là della abortita proposta del Secolo, Cardazzo gli organizza a Venezia un’esposizione di quindici tempere: una mostra precoce, anche se in un clima meno scosso dalle tragedie della guerra civile rispetto all’ambiente milanese. Anche in due collettive del marzo-aprile 1946 da Ciliberti e all’Annunciata compare qualche sua opera. In aprile, però, si tiene a Londra alla Redfern Gallery una rassegna ben più importante: “Pittura Italiana Contemporanea”, organizzata dall’Ambasciata italiana e itinerante in giugno a Varsavia. Sironi non è invitato. Nel catalogo Lionello Venturi avvia quella lettura del “Novecento” come arte retorica e di Stato che graverà pesantemente sulla comprensione dell’opera sironiana:

Ogni dittatura ha bisogno di un’arte neoclassica […] per generare la falsa retorica necessaria a ogni tirannia. Fino al 1930 […] l’arte italiana, sotto l’etichetta del “Novecento” […] decadde a un basso livello.15

L’equivoco era forse inevitabile in quel contesto storico. Sono gli anni in cui il Novecento Italiano non solo viene identificato con il fascismo, ma si trova a sopportare quasi da solo il peso di una così ingombrante identificazione. Nel dopoguerra infatti entra definitivamente in crisi quel dialogo con l’antico, quel rapporto con la tradizione, quella classicità moderna a cui il “Novecento” (come tanta arte europea fra le due guerre) aveva aspirato. L’ideale classico viene ormai frainteso e combattuto e l’impropria equazione fra classicismo, mito della romanità e fascismo fa sì che la condanna della dittatura coinvolga molto più Sironi e il movimento sarfattiano che altri artisti, fascisti ma non classicisti, come per esempio Terragni o Rosai.

Con il suo scetticismo verso la critica, comunque, il fondatore del “Novecento” non deve aver provato troppa amarezza per l’ingeneroso giudizio di Venturi. Sono altre le sofferenze che lo affliggono, a cominciare dalla nostalgia della pittura murale, il suo grande sogno ormai impossibile. Due mesi dopo la mostra londinese Mario Lepore, cronista del Corriere lombardo, va a trovarlo in studio e raccoglie le sue confidenze:

Bisogna affrontare il problema della pittura murale. Io ci sono dentro da anni, e da anni costituisce la mia ossessione. Per questo polemizzo con i miei colleghi e con gli architetti. Dobbiamo tornare alla pittura murale, alla decorazione. […] Dipingo adesso soprattutto a tempera. È il tipo di pittura che si presta meglio alle mie intenzioni. L’ideale sarebbe l’affresco, ma la tempera ci si avvicina e mi rassegno. Anche quando lo spazio è poco cerco di andare libero come se ne avessi molto.16

Gio Ponti sembra assecondare la sua nostalgia. Lo stesso giugno pubblica sulla sua rivista, Stile, un articolo che rivaluta l’arte monumentale in Europa e comprende anche alcune riproduzioni (le prime nel dopoguerra, e per anni le uniche) dell’Italia corporativa, che compare senza simboli fascisti, con il titolo neutro di Mosaico.17

Sironi, intanto, lavora accanitamente al cavalletto. «Lavoro indifferentemente di giorno e di notte. Certe volte fino alle cinque del mattino» confessa ancora a Lepore.18 Molta della sua pittura recente confluisce in una mostra che si apre nel novembre 1946 al Camino, una nuova galleria diretta da Romeo Toninelli in società con il Milione. È la sua prima personale milanese del dopoguerra e, nel clima violentemente antinovecentista del periodo, non è certo una rassegna di routine. Sironi espone, tra l’altro, Angoscia e Due tempi, oltre a due «cariatidi giganti» all’ingresso.19 Le critiche sono numerose ma prevalentemente negative, spesso insofferenti se non sprezzanti.

In questi stessi mesi esce da Hoepli, nella collana diretta da Scheiwiller, una monografia sull’artista firmata da Sartoris. In un testo verboso e confuso, che evita qualsiasi accenno al “Novecento”, l’architetto sottolinea i caratteri di innovazione della pittura sironiana, segnalandone la ricerca di spazialità e gli «elementi non figurativi».20 Accredita insomma l’immagine di un Sironi quasi astratto: un’immagine in parte giustificata, ma che non va capziosamente disgiunta dalla poetica complessiva dell’artista. Il modesto scritto di Sartoris è comunque l’unico saggio di questi anni su di lui.

Poco tempo dopo, il 26 febbraio 1947, alla Scala si rappresenta il Tristano e Isotta di Wagner, diretto da Victor de Sabata, con la regia di Hans Zimmermann. Sironi ne ha curato scene e costumi disegnando ambienti maestosi, immersi nel cupo splendore del nero, un po’ come nel Dottor Faust. Pochi mesi dopo, in ottobre, è chiamato da Antonio Ghiringhelli, commissario straordinario, a far parte del consiglio artistico della Scala, con Pizzetti, Umberto Giordano e Renato Simoni.21 Il teatro, per inciso, è l’unica forma di committenza su cui in questi anni può contare, oltre a qualche sporadico lavoro illustrativo.

In questo periodo esegue infatti una serie di tavole per un capolavoro della letteratura religiosa come le Laude di Jacopone da Todi, che esce nell’agosto 1947 in una raffinata edizione curata da Giampiero Giani. A Sironi interessa però il tema politico, non quello sacro. Jacopone, scomunicato e gettato per anni in prigione da Bonifacio VIII (che il frate di Todi considerava un anticristo, salito illegittimamente al soglio pontificio) diventa una personificazione dell’artista stesso: la sua fedeltà a Celestino V, ormai privo di potere, diventa una metafora della fedeltà di lui, Sironi, al dissolto regime. Il frate umbro, dunque, non le sue Laude a Dio, è il vero protagonista delle illustrazioni. Lo vediamo piegato e stravolto, eppure ancora battagliero, davanti alla marmorea maestà di Bonifacio VIII; poi caduto a terra, davanti a una grottesca triade di persecutori; infine in un duro carcere, consolato solo dalla presenza divina. Sironi rappresenta anche un popolo di murati vivi, un corteo di scheletri (cui non è estraneo l’influsso di Rouault) incastonati nella roccia: segni dell’assenza di libero arbitrio, dell’impotenza dell’uomo di fronte alla storia e al destino.

Negli ultimi mesi del 1947 va a trovarlo Bellonzi, il futuro segretario della Quadriennale di Roma. Ricorda il critico:

Sironi, che non ammetteva visite e quasi non usciva di casa, mi ricevette – nell’autunno del 1947 – nel suo appartamento e studio, a Milano, al n. 7 di via Domenichino, quando le macerie ingombravano ancora il cortile del palazzo bombardato, poi demolito, e l’ascensore stava fermo tra una rampa e l’altra delle scale ripide. La faccia di Sironi, sofferente e incupita, mi ricordò subito quella di F.T. Marinetti […] e quella apparentemente serena, ma forse più accorata, di Giovanni Gentile […] alla vigilia di andare a morire a Firenze. Tre volti diversamente espressivi della medesima pena, che nasceva dalla vista delle rovine del paese; dall’interrogazione del corso della storia, fino a poco innanzi quasi impreveduto; dall’esame di coscienza, se e quanto dovesse ciascuno di loro condannarsi colpevole; dalla constatazione della fine di un mondo in cui avevano creduto […]. L’argomento con Sironi non fu la pittura, ma la condizione dell’Italia.22

Tavola per le Laude di Jacopone da Todi, 1947.

Di pittura Sironi parla invece il 22 dicembre 1947 quando tiene, con Carrà, una conferenza su Boccioni al “Circolo delle Grazie”, un circolo culturale che aveva sede presso il Milione, animato da studiosi e critici come Baroni, Pacchioni, D’Ancona, Valsecchi, Scheiwiller, e da collezionisti e appassionati d’arte come Mattioli e Pallini.

Fu l’uomo delle strade delle grandi città moderne, delle periferie per pittori poveri, dell’asfalto e dei tralicci neri unti di grasso e di benzina, delle stazioni

scrive più tardi Sironi dell’amico della giovinezza.23 Forse, più che di Boccioni, sta parlando di sé.