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Un giorno, verso la fine di aprile, trovai un bigliettino nel portapenne. Era infilato tra due matite, dritto come se fosse in piedi.

Lo aprii e lo lessi.

C’era scritto: “Io e te siamo uguali”. Nient’altro.

La grafia era molto sottile, faceva venire in mente le spine di un pesce. Doveva essere stato scritto con un portamine.

Rimisi in fretta il bigliettino nel portapenne e, dopo aver fatto un bel respiro, mi guardai intorno cercando di apparire disinvolto. Era tutto come sempre: i compagni che ridevano e scherzavano ad alta voce, il chiacchiericcio fitto, il solito trambusto che regnava tra una lezione e l’altra. Nel tentativo di recuperare la calma, sistemai per bene il libro e il quaderno sul banco, impilandoli uno sull’altro, e temperai piano piano la matita. Poi, finalmente, suonò la campanella della terza ora. Un rumore di sedie smosse riecheggiò in tutta l’aula, il professore entrò in classe e la lezione ebbe inizio.

Sulle prime pensai che il bigliettino fosse uno scherzo, un tranello, non riuscivo a spiegarmelo in nessun altro modo. Ma perché si prendevano la briga di sprecare così il loro tempo? Possibile che non avessero nient’altro di meglio da fare? Trassi un lungo sospiro silenzioso, mi sentivo molto avvilito. Sempre uguale, ormai andava avanti così da parecchio.

Quel messaggio fu il primo di una lunga serie, l’unico nascosto nel portapenne. Gli altri li trovai attaccati con del nastro adesivo sotto il banco. Arrivavano a raffica, uno dopo l’altro. Ogni volta che infilavo la mano e ne sentivo uno nuovo, mi si accapponava la pelle e mi guardavo intorno con circospezione. Ero convinto che qualcuno mi tenesse d’occhio per sondare la mia reazione e farsi beffe di me. Non sapevo come comportarmi, ero terrorizzato.

I messaggi erano sempre molto brevi e scritti su pezzi di carta rettangolari, grandi suppergiù quanto una cartolina. Spesso consistevano in domande molto generiche, banali: “Che cosa stavi facendo ieri quando è venuto a piovere?”, “Quale paese ti piacerebbe visitare?”. Me li infilavo in tasca, attento a non farmi vedere, e aspettavo di andare in bagno per poterli leggere con meno apprensione. All’inizio avevo pensato di liberarmene subito ma, non sapendo dove gettarli, finii per conservarli dentro la foderina blu del tesserino studentesco.

A eccezione di quei misteriosi bigliettini, non era cambiato niente. Ninomiya e gli altri continuavano a obbligarmi a portare i loro zaini, a riempirmi di calci e schiaffi, a rincorrermi e colpirmi con i loro flauti di plastica. Fatto curioso: i messaggi arrivavano puntuali tutte le volte che venivo bullizzato. Non erano firmati, non contenevano né il mio nome né quello del mittente, nessun riferimento a dati concreti e riconoscibili. Tutto restava vago, ma come spiegare quello strano legame con le prepotenze dei miei compagni di classe? Non poteva essere una semplice coincidenza. A un certo punto cominciai a pensare: e se Ninomiya e la sua banda non c’entrassero niente? Se si trattasse di qualcuno che vuole farmi capire che non sono solo? Ma poi scossi la testa e mi dissi che nessuno sarebbe stato tanto idiota da schierarsi dalla mia parte e che non valeva la pena illudersi. Risultato finale: ero sempre più triste e con il morale a terra.

Al mattino, non appena mettevo piede in classe, guardavo sotto il banco e controllavo se ci fosse qualche nuovo messaggio. Era diventata un’abitudine, non vedevo l’ora di compiere quel gesto. Arrivavo per primo nell’aula deserta e silenziosa, in cui aleggiava un lieve odore di grasso lubrificante che si sprigionava dalle assi di legno del pavimento, e leggere quelle brevi frasi costituiva per me una piccola fonte di gioia. Sia chiaro, continuavo a pensare che si trattasse di una specie di scherzo ed ero tutt’altro che ottimista, eppure quei messaggi mi offrivano un angolo di pace in un mondo pieno di angoscia e tormento.

All’inizio di maggio ne ricevetti uno molto diverso dal solito. Diceva: “Vorrei parlarti. Vediamoci dopo scuola nel giorno e nel luogo sotto indicati, tra le cinque e le sette”.

In basso c’era una data. Sentii il cuore pulsare forte nel petto e nelle orecchie; le parole del messaggio mi si erano impresse a fuoco nella mente, tanto le avevo lette e rilette. Chiudevo gli occhi e le vedevo davanti a me come fossero in rilievo. Accanto alla data c’era una piccola mappa del luogo dell’appuntamento, disegnata a mano in modo approssimativo. Agitatissimo, passai quasi l’intera giornata a chiedermi cosa fare. E continuai a pensarci durante il lungo ponte di festività della prima settimana del mese, fino a farmi venire il mal di testa e a perdere l’appetito. Ero convinto che all’appuntamento avrei trovato ad attendermi Ninomiya e i suoi guardaspalle. Immaginavo già la scena: loro che saltavano fuori dall’ombra e si piegavano in due dalle risate, urlando che ero il solito sfigato e prendendomi a spintoni. Non potevo fare a meno di pensare che facesse tutto parte di un nuovo piano malvagio, escogitato per sottopormi all’ennesima serie di angherie. Al contempo non riuscivo a fare finta di non aver mai ricevuto quel messaggio. Ormai nella mia testa non c’era altro.

 

Quando arrivò il giorno stabilito mi prese un’ansia indescrivibile fin dal risveglio. Andai a scuola scosso da un tremore impercettibile, non riuscivo a fermarlo.

Attento a non farmi scoprire, tenni d’occhio Ninomiya e gli altri per tutta la giornata, ma non notai niente di sospetto. A un certo punto uno di loro, accortosi dei miei sguardi insistenti, si tolse una scarpa e me la lanciò contro. «Che hai da guardare, idiota?» urlò. Dopo di che mi intimò di raccogliere la scarpa e riportargliela. E io, incapace di fare altrimenti, eseguii gli ordini senza fiatare.

Più si avvicinava la fine delle lezioni e più diventavo nervoso. Non mi ero mai sentito così teso e di cattivo umore, mi girava la testa. Strinsi i denti per resistere fino al suono della campanella e tornai a casa quasi correndo. Lungo il tragitto mi chiesi ripetutamente cosa fare, se fosse davvero il caso di andare all’appuntamento. Ma più riflettevo e più mi si confondevano le idee. Non vedevo vie d’uscita, qualsiasi soluzione mi appariva sbagliata. Una sensazione di angoscia e oppressione mi divorava dentro, mi sembrava di impazzire.

Aprii la porta e mia madre, seduta sul divano in soggiorno a guardare la TV, mi salutò con il solito «Ciao, bentornato». «Ciao, mamma» risposi, mentre nella casa silenziosa risuonava solo la voce del conduttore del telegiornale. Regnava la quiete, come sempre.

«Oggi ti ho preparato un sacco di cose buone» mi disse mia madre.

Senza rispondere, presi il succo di pompelmo dal frigorifero, me ne versai un bicchiere e lo bevvi in piedi. «Perché non ti siedi?» mi esortò lei, voltandosi verso di me. Dopo di che mi giunse all’orecchio il ticchettio del tagliaunghie. Chissà se stava tagliando le unghie delle mani o quelle dei piedi.

«Ti riferisci alla cena di stasera?» replicai a scoppio ritardato.

«Sì, non senti che profumino? Ho fatto un roast beef coi fiocchi. È la prima volta che provo questa ricetta, ho legato la carne con lo spago come da manuale».

Significava che mio padre sarebbe rientrato per cena? Forse. Ma preferii astenermi dal domandarglielo.

«Tu vuoi mangiare presto?» mi chiese mia madre.

«No, no… Devo fare un salto in biblioteca per una ricerca. Meglio cenare più tardi».

 

Nel quartiere in cui abitavo c’era un viale alberato lungo alcune centinaia di metri. Per andare a scuola lo percorrevo quasi tutto, da un’estremità all’altra. Il luogo dell’appuntamento era in un piccolo parco sul lato sinistro, grossomodo a metà del viale. Si trattava di un posto trascurato e poco frequentato, tanto da assomigliare a un terreno incolto più che a un giardino pubblico.

Ero uscito di casa alle quattro in punto e quando arrivai non c’era ancora nessuno. Meno male, mi sentii almeno un po’ sollevato. In un angolo spiccavano una specie di panchina fatta con degli pneumatici e una balena di cemento, con nel mezzo una sabbiera di circa due metri per tre, zeppa di vecchie scatole per dolci e buste di plastica semisepolte. Notai anche un escremento di cane o di gatto, completamente essiccato e cosparso di sabbia: faceva pensare a un pezzo di tenpura. E dove c’era un escremento di solito ce n’erano anche altri, perciò immaginai che quella sabbionaia dovesse essere piena di sterco. Di colpo mi balzò alla mente una scena raccapricciante: Ninomiya e i suoi che mi spingevano con la testa nella sabbia e mi costringevano a mangiare la cacca. Mi vennero i conati di vomito, sentii un rigurgito acido fino in gola. Feci un respiro profondo e cercai di allontanare da me quell’immagine stomachevole. Eppure, per quanto espirassi, mi sentivo sempre più fiacco e pesante.

Le fauci spalancate della balena erano abbastanza grandi da accogliere un paio di persone suppergiù della mia altezza. La pittura era talmente scrostata che non si riusciva a distinguere il colore originale. Il dorso e la testa erano costellati di scritte e graffiti tracciati col pennarello nero. Quello spazio sorgeva in prossimità di un vecchio complesso di case popolari; era sporco, pieno di polvere, e la terra umida e nera evocava un senso di cupa disperazione.

Tornai sul ciglio del viale alberato e decisi di aspettare.

Poi andai a sedermi su una panchina di ferro e feci un altro respiro molto lento e profondo. Mi ripetei non so quante volte che sarei dovuto restare a casa. Ma subito dopo pensai che se non mi fossi fatto vivo Ninomiya me l’avrebbe fatta pagare cara. Il problema era che non dipendeva da me: qualunque fosse stata la mia scelta, il risultato non sarebbe cambiato.

Sospirai e alzai la testa. Sui rami degli alberi, fino a poco tempo prima ancora spogli e neri, erano apparse piccole foglie verdi che stormivano piano a ogni soffio di vento. Mi tolsi gli occhiali per stropicciarmi gli occhi e diressi lo sguardo al lungo filare di alberi. Non vedevo altro che la solita immagine piatta e schiacciata, priva di profondità. Come sempre, quel paesaggio mi fece pensare a una scena delimitata da una cornice rettangolare, simile a un teatrino di cartone: ogni volta che battevo le palpebre avevo l’impressione che le scene si succedessero una dopo l’altra e cadessero ai miei piedi.

 

Dopo un po’, senza stare a pensarci troppo, tornai al luogo dell’appuntamento e scorsi una figura seduta di spalle sulla panchina di pneumatici. Era una ragazza con indosso la divisa della scuola media. Che diavolo stava succedendo? Perplesso e confuso, mi guardai intorno alla ricerca di Ninomiya e la sua banda. Ma non c’era anima viva.

Mi avvicinai con molta prudenza fermandomi davanti alla balena di cemento. La ragazza si voltò: era Kojima, una mia compagna di classe! Si alzò, mi guardò negli occhi e abbozzò un cenno d’intesa abbassando piano la testa e incurvando le labbra leggermente all’insù. E io, più per istinto, feci altrettanto.

«I messaggi…» mi disse con un filo di voce, facendomi restare a bocca aperta.

Kojima era una ragazza minuta, scura di carnagione e taciturna. Aveva sempre la camicetta tutta sgualcita e indossava una vecchia divisa logora e consunta. Spesso se ne stava sulle sue, a testa bassa e con la schiena un po’ ingobbita. Aveva una gran massa di capelli corvini pieni di ciuffi ribelli e una sottile peluria scura tra il naso e il labbro superiore, che soprattutto da una certa distanza sembrava sporcizia. Tutti la prendevano in giro per questo, dicendo che era lurida e brutta perché apparteneva a una famiglia povera. Le altre ragazze della classe le davano il tormento, era il loro zimbello.

«Credevo che non saresti venuto» mi disse con un sorriso impacciato. «Ti ho messo in difficoltà? Hai pensato a qualcosa di strano?».

Incapace di trovare le parole per rispondere, mi limitai a scuotere la testa. Restammo in silenzio per diversi secondi.

«Perché non ti siedi?» mi propose, esortandomi con un gesto della mano. Non me lo feci ripetere due volte, ma mi sedetti rigido come un palo, lo sguardo puntato in avanti. Non mi ero mai sentito così a disagio in tutta la mia vita.

«In realtà non ho niente di particolare da dirti, ma avevo voglia di parlare con te» continuò lei, incespicando tra una parola e l’altra. «Finalmente da soli… Ho pensato che ne avessimo bisogno, era da un po’ che aspettavo questo momento».

Mi sembrava tutto così strano, era la prima volta che mi rivolgeva la parola e ascoltavo bene la sua voce. Ed era anche la prima volta che la vedevo così da vicino. La prima volta che parlavo con una ragazza. Avevo le mani umide, grondavo di sudore e non sapevo in che direzione guardare.

«Comunque ti ringrazio per essere venuto» aggiunse. La sua voce non suonava né acuta né grave. Ma era ferma, molto. Quando si diffondeva nell’aria sembrava che fosse dotata di un nucleo solido e vivido, come se fosse in grado di stagliarsi nel vuoto. Annuii più volte, senza dire una parola. Ed ebbi l’impressione che lei fosse molto rassicurata da quel mio gesto silenzioso.

«Sai come si chiamano questi giardini?» mi chiese a bruciapelo.

Feci di no con la testa.

«I giardini della Balena. Perché, come puoi vedere, c’è una grande balena con la bocca spalancata» disse con un sorriso. «In realtà il nome me lo sono inventato, è che io li ho sempre chiamati così».

I giardini della Balena… Ripetei quel nome nella mente, scandendo le parole.

«Te l’ho già detto, avevo voglia di parlare con te da molto tempo. È per questo che ti ho scritto quei messaggi. Sarò sincera, sono molto sorpresa, non riesco a credere che tu sia qui. Ero convinta che non ti saresti fatto vivo… Grazie» sussurrò grattandosi la punta del naso e articolando le parole con una certa rapidità, senza eccessiva timidezza.

Invece io ero ancora impietrito. Annuii di nuovo, come prima.

«Mi piacerebbe che diventassimo amici» disse voltandosi di scatto verso di me. «Se ti va, è ovvio».

Non riuscivo raccapezzarmi, ero stordito, ma feci per l’ennesima volta di sì con la testa. Non avevo mai avuto un vero amico, non conoscevo il significato della parola amicizia. A che cosa serviva essere amici? Come si faceva a diventare amico di qualcuno? All’improvviso una serie di dubbi prese a vorticarmi nella mente. Ma non potevo esprimere i miei pensieri a voce alta e chiedere aiuto a Kojima per schiarirmi le idee. Intanto il sudore mi colava lungo la schiena e avevo la gola secca, non sapevo cosa fare. Per fortuna lei mi sorrideva, sembrava contenta. Di colpo si lasciò sfuggire un sospiro soddisfatto e si alzò, sistemandosi con entrambe le mani il dietro della gonna plissettata. Era vecchia e malconcia, chissà da quanto tempo ce l’aveva: alle pieghe verticali del tessuto se ne sommavano altre oblique e di lunghezze diverse, a creare come una fitta ragnatela di linee grinzose. E le tasche della giacca della divisa, rovinata come tutto il resto, erano gonfie e zeppe di oggetti. Da una delle due spuntava goffamente qualcosa che assomigliava a un fazzoletto di carta stropicciato.

«Ah, sono proprio contentopamina! Che esplosione di dopamina!» esclamò euforica, lasciandosi andare a un nuovo sospiro senza smettere di sorridere. Dopo di che abbassò lo sguardo.

Contentopa… cosa? Esplosione di che? Avrei voluto chiederle di ripetere, ma persi l’attimo e desistetti.

«Posso continuare a scriverti?» mi chiese.

«Sì…» risposi con voce strozzata, come se mi stesse sanguinando la gola. Abbassai gli occhi e sentii le guance avvampare.

«E posso smettere di farlo di nascosto?».

«Sì…».

«Mi risponderai?».

«Sì, va bene» dissi finalmente con voce chiara e sicura, sollevato.

Poi restammo per un po’ in silenzio. In lontananza si udì un corvo gracchiare.

«Perfetto… Grazie!» disse Kojima, fissandomi per un attimo negli occhi, le labbra increspate in un mezzo sorriso.

Sollevò appena la mano in segno di saluto, girò sui tacchi con un movimento brusco e andò via di corsa lungo il viale alberato.

Non si voltò indietro neanche una volta. La sua sagoma di spalle, che mi appariva come un’immagine sdoppiata man mano che si allontanava, rimpiccioliva a vista d’occhio. Mi venne spontaneo chiedermi per quanto tempo fosse lecito restare fermi a guardare una persona mentre andava via, ma, senza darmi una risposta, la seguii con lo sguardo fino a che non scomparve dalla mia vista. L’immagine dell’orlo squadrato della gonna che ondeggiava al vento e le sbatteva contro i polpacci mi si impresse a fuoco nella memoria. Anche dopo che Kojima se ne fu andata, quell’unica immagine mi rimase a lungo nella mente: la gonna che fluttuava con movimenti armoniosi e pesanti allo stesso tempo, infrangendosi con una regolarità impressionante contro le sue gambe.

 

«Dove credi di andare, Occhi storti?!».

Era un pomeriggio dopo le lezioni. Mi voltai già sapendo cosa mi aspettava: uno degli scagnozzi di Ninomiya mi afferrò per il collo e mi riportò di peso in classe. Sempre lo stesso copione, come una scena che si ripeteva all’infinito. Al centro dell’aula, il solito ghigno beffardo stampato in volto, Ninomiya era stravaccato su un banco e mi fissava.

«To’, chi si rivede! Già di ritorno?» mi fece con una risata perfida. Dopo di che aggiunse in tono imperativo: «Ora ficcati due gessetti nel naso e disegna qualcosa di divertente alla lavagna, qualcosa che ci faccia pisciare sotto dalle risate per almeno un minuto!».

I suoi amici scoppiarono a ridere. Uno di loro mi costrinse ad avvicinarmi alla lavagna spingendomi da dietro e gli altri si disposero a semicerchio alle mie spalle.

Ero in classe con Ninomiya anche alle elementari. Lui era già il migliore, il numero uno. Imbattibile in tutti gli sport, voti alti in tutte le materie, lineamenti fini e regolari. L’unico a indossare un pullover di un colore diverso da quello degli altri, capelli lunghi più o meno fino alle spalle. E un fratello di tre anni più grande e molto in gamba, capace di essere al top in tutto ciò che faceva. In poche parole erano due numeri uno nati, famosi in tutta la scuola: i due superbros. Questo permetteva a Ninomiya di essere avvolto da un’aura speciale e circondato da una vasta schiera di studenti che desideravano essere suoi amici. Al primo anno delle medie aveva preso l’abitudine di legarsi i capelli in una coda di cavallo e raccontare frottole e spacconate che facevano divertire le ragazze. Anzi, non solo le ragazze: quando Ninomiya si metteva a fare il gradasso e cominciava a sparare le sue stupidaggini non c’era anima viva che non scoppiasse a ridere. Sempre il migliore in tutte le materie, frequentava un noto e costoso doposcuola privato, così da essere sicuro di non perdere mai quel primato. Tutti lo ammiravano, professori compresi. O almeno questa era l’impressione che dava, come se il ruolo di leader gli fosse stato cucito addosso fin dalla nascita.

«Dobbiamo aspettare ancora molto? Non ti avevo detto di disegnare qualcosa?» mi sollecitò ad alta voce, facendomi trasalire.

Rimasi zitto, a testa bassa come al solito. Pietrificato.

«Non ci siamo proprio… Eppure stiamo facendo tutto il possibile per te, per renderti una persona migliore» insisté in tono di scherno, scuotendo piano il capo e alzando le braccia al cielo. Al che gli altri scoppiarono in una nuova fragorosa risata, come se avessero ascoltato una battuta di irresistibile comicità. In fondo, dietro la massa compatta di fedeli accoliti, notai che era presente anche Momose, in piedi e con le braccia conserte.

Momose proveniva da una scuola elementare diversa ed era in classe con noi dalla prima media. Era bravo quasi quanto Ninomiya e frequentava lo stesso doposcuola privato. Non ci eravamo mai scambiati una parola. Stava sempre con Ninomiya, faceva parte della sua combriccola in pianta stabile, ma non era un gran chiacchierone né lo avevo mai visto fare casino insieme agli altri. Insomma, non era un tipo da prima linea. Durante l’ora di ginnastica, non so per quale motivo, se ne stava puntualmente in disparte e si limitava ad assistere. Pur senza eguagliare Ninomiya, apparteneva in ogni caso alla categoria dei belli: erano entrambi ben piantati e alti almeno dieci centimetri più di me. Però Momose era diverso, non riuscivo mai a capire cosa gli passasse per la testa, il suo sguardo era impenetrabile. Quando mi tormentavano se ne stava nelle retrovie, non osava mai sfiorarmi né rivolgermi la parola. Si accontentava di guardare, sempre nella stessa posizione a braccia conserte.

«Sbrigati, non farmi perdere la pazienza. Abbiamo altro da fare» mi incalzò Ninomiya in tono minaccioso. «Se farai fuori i tre gessetti che sono lì davanti a te, ti perdonerò e per oggi la passerai liscia. Ma devi muoverti, altrimenti saranno guai!».

Se farai fuori i tre gessetti… Voleva che me ne infilassi due nelle narici, bene in profondità, e poi che ne prendessi un altro a morsi. Mi si avvicinò, raccolse uno dei gessetti e me lo agitò sotto il naso.

«E mi raccomando, Occhi storti, non dimenticare di ringraziare per il delizioso banchetto che ti stiamo offrendo» aggiunse, sferrandomi un calcio sulle ginocchia.

Calci, pugni, schiaffi: Ninomiya e la sua banda stavano sempre attenti a dosare i colpi in modo da non lasciare segni. Quando tornavo a casa e mi accorgevo di non avere lividi né altro mi chiedevo come diamine facessero. Forse conoscevano tecniche segrete di pestaggio che non lasciavano conseguenze visibili sul corpo?

Dopo una raffica di calci sulle cosce e sulle rotule cominciarono a mollarmi uno spintone dietro l’altro fino a farmi cascare per terra supino. Mi salirono sopra e presero a schiacciarmi l’addome con la suola di gomma delle scarpe da ginnastica, come per testare l’elasticità del corpo e la mia soglia di resistenza al dolore. Poi mi aiutarono a rialzarmi e mi mandarono di nuovo al tappeto svariate volte, in tutti i modi e in tutte le posizioni immaginabili, mi scaraventarono contro il muro, mi strattonarono da una parte e dall’altra, mi fecero sbattere contro i banchi e le sedie con gran fracasso. Non è niente, sta’ tranquillo, è la solita roba, tra poco smetteranno – mi ripetevo in un angolo della mente, nell’attesa che si stufassero e mi lasciassero in pace.

Alla fine mi presero per i capelli, mi fecero piegare la testa all’indietro e mi infilarono due gessetti nelle narici, mentre frantumavano il terzo contro i miei incisivi.

E intanto ridevano, ridevano come matti, le loro risate perfide e infami che mi rimbombavano nel cervello.

Avevo bevuto l’acqua putrida di uno stagno e quella delle latrine, mangiato pesci rossi e rimasugli di verdure prelevate dalla gabbia dei conigli, ma era la prima volta che mi costringevano a ingurgitare gesso. Era inodore, insapore. «Presto, mastica e ingoia!» mi ripeteva Ninomiya con voce rabbiosa. E io masticavo più in fretta possibile a occhi chiusi, cercavo di ridurre il gessetto in frammenti e ingoiavo. Lo sentivo crocchiare tra i denti, la sua estremità aguzza pungermi l’interno delle guance e il palato. Eppure continuavo a masticare più forte che potevo, senza pensare ad altro che a triturare e inghiottire.

Alla fine, dopo che ebbi ingerito anche i due gessetti che inizialmente mi avevano ficcato nel naso, qualcuno si mise a gridare «Calpis! Calpis! Calpis!»1 e portò un bicchiere di plastica imbrattato di pittura, pieno fino all’orlo di acqua sporca. Ancora gesso, stavolta ridotto in polvere e diluito in acqua. Mi spinsero con le spalle al muro, mi tapparono forte il naso per obbligarmi ad aprire la bocca e mi fecero bere quell’intruglio rivoltante d’un fiato, fino all’ultima goccia. Di colpo sentii lo stomaco contrarsi in uno spasmo violento e vomitai tutto. Fluidi e lacrime mi colavano dal naso e dagli occhi, ridotto carponi a tossire e vomitare tutto ciò che avevo in corpo. «Occhi storti, ma che maniere sono queste? Che schifo!» urlarono Ninomiya e compagni tra una sghignazzata e l’altra, fingendosi inorriditi e battendo le mani come ossessi. Poi mi costrinsero faccia a terra e impartirono l’ordine finale: «E ora lecca! Lecca il tuo vomito schifoso senza lasciarne traccia!».

Erano tutti lì intorno a me, i volti distorti in un ghigno soddisfatto. L’eco delle loro risa a trapanarmi il cervello.

 

A partire dal giorno stesso dell’incontro ai giardini della Balena, io e Kojima iniziammo un fitto scambio epistolare.

Era la prima volta che scrivevo delle lettere a qualcuno, non avevo la più pallida idea di cosa dire e come dirlo. Facevo la punta alla matita e scrivevo più o meno ciò che mi passava per la testa, senza rifletterci troppo. Poi cancellavo, ricominciavo da capo e, a forza di tentare e ritentare, alla fine riuscivo a mettere insieme qualcosa. Ma non andavo mai oltre una paginetta: per quanto mi sforzassi, quello era il mio limite invalicabile. Il contenuto era quasi sempre molto banale, ma almeno io e Kojima iniziavamo a conoscerci e comprenderci a vicenda. Al mattino, siccome ero il primo ad arrivare in classe, fissavo le mie lettere sotto il suo banco con il nastro adesivo, in modo che nessuno potesse scoprire la nostra corrispondenza segreta. E il giorno dopo ricevevo puntuale la risposta e andavo a leggerla in bagno. Non avevamo stabilito niente a priori, ma rispettavamo in maniera del tutto spontanea una sorta di tacita regola: non scrivevamo mai dei soprusi che subivamo dai nostri compagni di classe.

Quando finivo di scrivere una lettera mi toglievo gli occhiali, avvicinavo il foglio all’occhio sinistro e rileggevo con la massima attenzione parola per parola. A forza di rileggere, avvertivo delle fitte nella parte posteriore del bulbo oculare e alla tempia sinistra.

Ero affetto fin dalla nascita da una grave forma di strabismo.

Il contorno di ciò che percepiva il mio occhio destro, quello più debole, si sovrapponeva in modo impreciso a ciò che vedeva l’occhio sinistro, come fosse un’immagine sdoppiata sullo schermo del televisore. Di conseguenza tutto mi appariva piatto, senza profondità, e non avevo mai un’idea precisa delle distanze, neanche per le cose molto vicine. Quando dovevo afferrare un oggetto ero sempre insicuro, allungavo la mano e lo toccavo piano prima di stringere la presa, mi restava il dubbio fino all’ultimo.

 

Ciao Kojima,

ho riletto anche oggi più di una volta la tua lettera. Sbaglio o per scrivere usi un portamine? Invece io uso una matita.

Per rispondere alla tua domanda, non saprei dirti quale sia il libro che amo di più né il genere che prediligo, ma penso che la lettura sia il mio hobby preferito.

Grazie e a presto!

 

Hello!

grazie per avermi risposto. Hai visto che pioggia? È stato un vero diluvio, il rumore delle gocce sull’ombrello era assordante. Sembrava un bombardamento, a un certo punto ho pensato che l’ombrello stesse per bucarsi. Sulla via del ritorno da scuola, mentre camminavo sul ciglio della strada, un camioncino è passato a tutta velocità su una grossa pozzanghera e mi ha bagnata dalla testa ai piedi. Cavolo, sembrava la scena di un fumetto! Tu cosa ci metteresti nel balloon in un caso del genere? Comunque, non so se e quanto io sia brava nella scrittura, però posso dirti che scrivere lettere mi piace da morire.

Non vedo l’ora di ricevere una tua risposta. Ciao!

 

Buongiorno,

anche se dovrei dire buonasera, perché in questo momento è già notte. Tira un vento molto forte, da far tremare le finestre.

Continuo a pensare che scrivere non sia per niente facile. Senza dubbio è molto più difficile che parlare. A furia di scrivere riuscirò mai a migliorare? Io ci provo, ce la metto sempre tutta. Ma mi prende un mucchio di tempo… Adesso, per esempio, sono seduto alla scrivania da più di un’ora e ho scritto solo poche righe. Pazienza, per il momento va bene così.

Ciao, alla prossima.

 

Hello!

Grazie per la tua risposta. Sono ancora sotto shock per i risultati dei test di metà quadrimestre: 360 punti risicati, appena sopra la sufficienza! Che delusione… A te come è andata? Non oso chiedertelo, sicuramente te la sei cavata molto meglio di me. Io sono una vera schiappa. A proposito, la tua idea per il balloon mi è piaciuta moltissimo! La prossima volta che pioverà e una macchina mi bagnerà come un pulcino, griderò esattamente quello che hai scritto.

Questa è la seconda lettera che ti scrivo oggi. La prima non mi stava venendo bene e ho lasciato perdere più o meno a metà. Per rilassarmi mi sono messa a ricamare un po’, a punto croce. È facile: si infila l’ago e si formano tante crocette, una dopo l’altra. A dire il vero mi piacerebbe realizzare una bella federa per un cuscino, ma mi manca l’essenziale: il materiale per l’imbottitura. Al momento ho solo la tela per il punto croce e mi sono accontentata di ricamare dei fiorellini. Adoro il ricamo. Scrivere lettere e ricamare: le mie due grandi passioni!

Scrivimi, mi raccomando!

 

Ciao, come va?

Nella lettera precedente non sono riuscito a trovare le parole giuste per esprimere ciò che volevo dire a proposito della tua voce. Me ne sono reso conto solo dopo, e perciò te lo scrivo adesso: la tua voce è come una matita…

In genere utilizzo una 6B perché la mina è solida e non si spezza facilmente. Quando scrivo penso spesso che la tua voce assomigli alla mina di una matita 6B. Ti suona strano come paragone? Non so bene come spiegarlo, ma entrambe sono morbide, dense, e allo stesso tempo molto solide e compatte all’interno. Scusa, forse anche stavolta non sono riuscito a rendere bene l’idea, ma spero tu abbia capito lo stesso. In un primo momento avevo pensato di cancellare queste righe, ma alla fine ho cambiato idea e ora le starai leggendo.

È sera, sono le otto e mezzo. Mi conviene fare i compiti per domani, devo ancora finire la cartina per geografia.

A presto!

 

Hello! Hello!

Buonasera. Anche se sarà mattina quando leggerai questa lettera. Che tempo fa da te? Qui piove. La stagione delle piogge non è ancora iniziata, ma le notti sono già molto umide. Piove a dirotto.

A proposito, non mi hai ancora detto qual è il tuo libro preferito. Eppure te l’ho già chiesto un paio di volte. Non è che per caso ti piace fare il misterioso? Sono solo curiosa, ecco tutto. Anche perché non credo di aver mai letto sul serio un libro… Vediamo, che libri ho letto? Sai che non mi ricordo? Ah, sì, un volume di storie e leggende cinesi o qualcosa del genere, preso dalla biblioteca di classe alle elementari. Mi è venuto in mente adesso. Se non stessi scrivendo questa lettera, credo che non me ne sarei mai ricordata, non avrei mai pensato al passato.

Cosa ci trovi di interessante e piacevole nei libri? Mi piacerebbe tanto saperlo… È davvero così bello leggere? Io trovo pesante dover leggere i libri che ci assegnano a scuola, mi costa molta fatica, ma se tu ne conosci altri più belli, ti prego di dirmelo. Sbaglio o una volta mi hai scritto che spesso quando sei a casa ti annoi perché non hai niente di interessante da fare? Vale esattamente lo stesso anche per me. E quando non ho niente da fare ho la strana sensazione di combattere contro qualcosa di invisibile. Combatto senza sosta, mentre me ne sto ferma e immobile a letto, o anche mentre cammino o faccio altro. Non smetto mai di pensarci… Durerà ancora molto? Quanto a lungo dovrò combattere? Ancora un anno e mezzo prima di finire le medie, e poi, se tutto andrà bene, tre anni di liceo. La strada è ancora molto lunga… Ce la farò ad arrivare fino in fondo? Non so come la pensi tu, ma per me tutto questo è terribile.

Chissà come sarà quel momento, quando non dovremo più andare a scuola. Ogni tanto ci penso. E chissà se quel giorno arriverà mai, visto che molti dicono che nel 1999 ci sarà la fine del mondo. Ma sai che ti dico? Secondo me, anche se non verrà la fine del mondo e saremo ancora vivi, non credo che le cose cambieranno granché. In fondo tutto sarà più o meno uguale a prima.

Prima che me ne dimentichi vorrei farti una proposta. Ma se non ti va devi dirmelo, okay? Mi viene il batticuore già solo a pensarci, ma te lo scrivo lo stesso: il mese prossimo, non il primo ma il secondo mercoledì, ti andrebbe di rivederci? Era mercoledì anche la prima volta che ci siamo incontrati, ai giardini della Balena. Ho pensato di scegliere lo stesso giorno della settimana di modo che sia come una ricorrenza speciale. Non mi dire che non sei d’accordo: è vietato rifiutare! Ma no, sto scherzando, è ovvio che puoi rifiutare, se non ti va.

Non vedo l’ora di leggere la tua risposta. Ciao!

 

Buongiorno,

oggi sembrava piena estate. Siamo già a fine maggio, le vacanze non sono lontane.

Prima di tutto, grazie per la carta da lettere, è molto carina. Non appena avrò finito i fogli che sto utilizzando adesso userò sicuramente i tuoi.

Grazie anche per aver accettato la mia controproposta di incontrarci alla scala d’emergenza. Scusami, non so dirti bene il perché, ma credo che come posto sia molto più comodo e tranquillo. Tra l’altro non c’è mai nessuno, è silenzioso e tira sempre un bel venticello fresco. Devi prendere l’ascensore fino all’ultimo piano: a destra troverai una porta, aprila e vedrai la scala davanti a te. È facilissimo, non puoi sbagliare. Io ti aspetterò in cima alla scala. Mancano ancora due settimane, ma non sto già più nella pelle.

A presto!

 

Da quando avevamo iniziato a scriverci vedevo Kojima sotto tutt’altra luce. Non eravamo più due semplici estranei. E, anche se ne ero al corrente già prima, mi risultava sempre più straziante assistere ai maltrattamenti che subiva dalle altre ragazze della classe. Così come non riuscivo a sopportare il pensiero che lei assistesse ai maltrattamenti che subivo io a opera di Ninomiya e la sua banda. Non avrei voluto vedere né sentire niente, ma era impossibile, perché eravamo compagni di classe. Purtroppo vedevamo e sentivamo quasi tutto.

Mi prendevano in giro e mi chiamavano di continuo Occhi storti, mi obbligavano a fare un mucchio di cose stupide, mi facevano lo sgambetto e finivo quasi sempre per terra, mi imponevano di correre a più non posso lungo la pista di atletica durante l’intervallo e mi sottoponevano a mille altre torture. E loro, Ninomiya e compagni, guardavano come se stessero assistendo a uno spettacolo comico, gridando e ridendo a crepapelle. La stessa sorte toccava anche a Kojima, tutti i giorni: le affibbiavano nomignoli offensivi, le dicevano che puzzava come una fogna e che dava il voltastomaco, la costringevano ad andare a comprare varie cose trattandola come una serva. E spesso la picchiavano per puro divertimento: calci, schiaffi e tirate di capelli. Le si avvicinavano tappandosi il naso e le urlavano dietro: «Perché non ti lavi?!». Una volta due compagne di classe l’avevano sorpresa a guardare i pesci dell’acquario che avevamo a scuola e le avevano detto: «Vuoi vederli più da vicino?». Al che, senza neanche lasciarle il tempo di voltarsi, l’avevano messa con la testa sott’acqua per più di dieci secondi.

Nelle sue lettere, Kojima era quasi sempre allegra e vivace, sembrava un’altra persona rispetto alla ragazza schiva e taciturna che incrociavo tutti i giorni a scuola. Soffrivo, stavo male al vederla presa di mira da tutta la classe. Eppure non facevo niente, soffrivo e basta. Anzi distoglievo il più possibile lo sguardo, immaginando che non le facesse piacere che la guardassi mentre la tormentavano. In altre parole a scuola fingevo che non esistesse, perché tra quelle pareti c’era solo sofferenza e ormai il nostro mondo era un altro.

 

Come tutti gli anni, presso la nostra scuola si teneva un importante concorso di canto corale e le normali attività curriculari subivano continue modifiche in vista dei preparativi. Riunioni, prove e quant’altro si susseguivano a ritmo frenetico. Alcune lezioni venivano addirittura sospese per consacrare più tempo al concorso. Il che però dava adito a Ninomiya e la sua banda di agire indisturbati e perseguitarmi ancora più del solito. Dopo le lezioni, nei corridoi e in cortile regnava un gran fermento, tutti erano euforici e indaffarati, ma io non potevo fare altro che sottostare agli ordini di Ninomiya e dei suoi amici e subire le loro violenze senza fiatare. Durante l’intervallo del pranzo, per esempio, mi spedivano a comprare dolcetti e focaccine e se li facevano servire come fossero i miei padroni. Dopo di che mi lasciavano mangiare tutto solo in un angolino. Inutile dire che la medesima sorte toccava anche a Kojima: pure lei tutta sola in un altro angolino.

«I tuoi occhi fanno paura, sembri un mostro. Perciò meriti una bella punizione!» mi redarguì un sabato Ninomiya, col solito ghigno stampato in volto e mollandomi un colpo secco sulla testa con la riga di plastica trasparente. Le lezioni della giornata erano terminate da poco. In genere, il sabato, gli studenti che non erano coinvolti in attività sportive o ricreative tornavano subito a casa. Tuttavia quel sabato pomeriggio erano in programma importanti prove in vista del concorso e, nell’attesa, a tutti fu consentito di restare a scuola più a lungo del solito. Dopo quel primo insulto Ninomiya rincarò la dose e mi ordinò di chiudermi nell’armadietto delle scope in fondo all’aula e restarci fino a che non mi avesse dato il permesso di uscire.

«Fai schifo solo a guardarti, Occhi storti!» disse con astio profondo, seduto su un banco, mentre si legava i capelli con un elastico nero. Poi si rivolse a un gruppetto di ragazze poco appariscenti, cui non dava mai confidenza, e aggiunse: «Siete d’accordo con me? Ho esagerato forse?».

Le nostre tre o quattro compagne di classe, per il solo fatto che Ninomiya aveva rivolto loro la parola, arrossirono all’istante e annuirono, guardandosi l’un l’altra con risolini imbarazzati.

«Vedi, Occhi storti, la tua sola presenza ci mette a disagio e ci deprime» continuò Ninomiya. «Perciò è meglio che per un po’ ti togli dai piedi!».

Fece un cenno ai suoi guardaspalle e loro mi legarono le mani dietro la schiena con la corda per saltare, mi infilarono uno strofinaccio in bocca e mi costrinsero a entrare nel mobiletto.

«Tieni lo strofinaccio stretto tra i denti e non farlo cadere» concluse in tono più che mai minaccioso Ninomiya. «Se non ci riuscirai saranno guai, ti chiuderemo lì dentro tutti i giorni, per una settimana intera!».

Uno dei suoi amici mi spinse all’interno dell’armadietto e chiuse la porta di ferro sbattendola forte.

Non era la prima volta che mi rinchiudevano nell’armadietto delle scope. Quel buio e quell’odore di polvere mi erano familiari, ci ero abituato. Fermo, immobile, non pensavo a niente e mi mettevo a contare. E quando arrivavo a cento ricominciavo subito da capo, in automatico. Non riflettevo né sul tempo che passava, né su quante volte avevo contato da uno a cento. Non pensavo a niente di niente, vuoto totale, non sentivo niente, non provavo niente, continuavo solo a contare nella mia mente, sempre le stesse cifre, da uno a cento, una nenia infinita. Uno, due, tre, quattro… novantanove, cento. Uno, due, tre, quattro… novantanove, cento. La voce nella mia mente, la mia voce che ripeteva un numero dopo l’altro e diventava via via più alta, fino a coprire tutto il resto, il chiacchiericcio e le risate degli altri studenti, le prove del coro e qualsiasi altro suono e rumore. Uno, due, tre, quattro… novantanove, cento. Uno, due, tre, quattro… novantanove, cento.

Da quanto tempo ero rinchiuso lì dentro? Non ne avevo la più pallida idea. Nell’attimo in cui smisi di contare e mi posi la domanda mi resi conto che tutt’intorno c’era solo silenzio. Avevo un bisogno urgente di andare al bagno, stavo per esplodere e mi si accapponò la pelle. Provai a trattenere il fiato per diversi secondi, nella speranza di captare qualcosa, una voce, un rumore, ma non si sentiva assolutamente niente. Dovevo essere in quell’armadietto da almeno un’ora, ma forse anche da due o tre, se non addirittura di più. Non avevo nessuna certezza.

Intanto i dolori addominali erano diventati insopportabili, dovevo fare qualcosa. Ma, se fossi uscito dall’armadietto senza permesso, Ninomiya non me l’avrebbe fatta passare liscia. Per un attimo fui sfiorato dall’idea di farmela addosso, ma ci ripensai e, sperando che Ninomiya e i suoi fossero andati via, provai a spingere la porta con la punta del piede, piano piano. Poi diedi un colpo più deciso e finalmente la porta si aprì, emettendo un cigolio metallico molto acuto. La luce forte mi abbagliò la vista e fui costretto a tenere gli occhi socchiusi per un bel po’. L’aula era vuota, non c’era nessuno. Avanzai in punta di piedi fino al corridoio, mi avvicinai alla finestra e diedi un’occhiata in basso: alcuni miei compagni di classe, ragazzi e ragazze che prima erano in aula a ridere e scherzare, erano in un angolo del campo sportivo e si divertivano a giocare con un pallone. Provai a guardare meglio per capire se ci fossero anche Ninomiya e la sua banda, ma non sembravano essere da quelle parti. Chissà dov’erano. Il solo pensiero che potessero cogliermi in flagrante mi terrorizzava.

Riuscii a liberarmi della corda che mi teneva legati i polsi, percorsi a passo veloce il corridoio deserto e raggiunsi le toilette. Mi infilai subito in una delle cabine e svuotai la vescica provando un sollievo enorme. Poi rimasi immobile a pensare. Che cosa mi sarebbe successo se si fossero accorti che ero uscito dall’armadietto? A quale altra tortura mi avrebbero sottoposto? Una serie di immagini raccapriccianti mi attraversò la mente a velocità inaudita, frammenti di ricordi brutali delle mille sevizie subite. Non ne potevo più, ero esausto, disperato. Nel tentativo di fronteggiare quella sofferenza mentale alla quale non mi sarei mai abituato, mi aggrappavo alla speranza che Ninomiya chiudesse un occhio riconoscendo che non potevo fare a meno di andare al bagno, o, meglio ancora, sognavo che si fosse dimenticato di me e avesse già fatto ritorno a casa.

A un certo punto, per scacciare i brutti pensieri, provai a concentrarmi sull’appuntamento con Kojima. Aspettavo quel giorno con incredibile impazienza, ne mancavano ancora una decina prima del secondo mercoledì del mese. Tirai fuori dalla tasca le sue lettere e le rilessi. Non tutte, ma solo quelle che amavo di più e portavo sempre con me, nascoste nella foderina del tesserino studentesco. Le altre le conservavo in camera mia, nella custodia del dizionario che tenevo su un ripiano della libreria. Le rileggevo spesso, tutte, anche le ultime.

Quando mi avevano rinchiuso nell’armadietto delle scope non avevo fatto caso se in classe ci fosse anche Kojima, ma speravo che fosse rientrata a casa senza problemi. Di colpo mi balzarono alla mente il suo viso e la capigliatura folta e crespa. E subito dopo ricordai una volta in cui le altre ragazze le avevano attaccato una grossa striscia di nastro adesivo sulla bocca dicendo che le puzzava l’alito. Sentii una stretta al cuore, soffrivo da morire quando la maltrattavano. Mi sembrò di rivivere il momento esatto in cui la più terribile delle nostre compagne di classe, una ragazza alta e robusta, l’aveva presa per le spalle e aveva cominciato a strattonarla a più non posso, sghignazzando, staccandole brutalmente il nastro adesivo dalla bocca e urlandole in faccia: «Ecco, così ti strappiamo via un po’ di puzza e di sporco!». Feci un sospiro profondo e rimisi le lettere al loro posto. Chissà se Kojima provava le stesse cose che provavo io quando Ninomiya e compagni mi tormentavano. Il pensiero che si angosciasse per me mi faceva molto male.

Tutt’a un tratto sentii delle voci che si avvicinavano e capii che qualcuno stava entrando in bagno. D’istinto trattenni il fiato e rimasi più immobile che potevo. Dopo una breve esitazione tolsi il lucchetto per evitare che dall’esterno si notasse l’indicatore rosso che segnalava “occupato” e bloccai la porta solo con la mano. Poi rimasi di nuovo fermo come una statua, senza muovermi di un solo millimetro e in completa apnea.

Erano voci maschili. Due. All’inizio non avevo capito a chi appartenessero, ma presto mi resi conto che una delle due era quella di Ninomiya, nonostante il tono e il modo di parlare leggermente diversi dal solito. Il cuore prese a battermi con una violenza tale che temetti si potesse sentire a dieci metri di distanza. Strinsi forte i denti. Una miriade di immagini mi vorticava nella testa a velocità impressionante, mi pulsavano le tempie e non riuscivo a respirare.

Ninomiya era al di là della porta, a pochi metri da me, insieme a un altro studente.

L’altro parlava a voce molto bassa, lì per lì non riuscii a capire chi fosse. Ninomiya rideva sommessamente e diceva: «Devi farlo meglio, capito? Così non va bene, non è il massimo». Chissà a cosa si riferiva, non era chiaro e non riuscivo ad afferrare tutte le parole. In ogni caso dovevano essersi rintanati in bagno apposta per parlare, visto che li sentivo confabulare in modo fitto e non si sentivano né rumori di porte che si aprivano e chiudevano, né di acqua o di urina. «Non va proprio, hai ancora parecchio da imparare» disse a un certo punto Ninomiya. Era una conversazione strana, criptica, a tratti il tono di voce di Ninomiya suonava un po’ melenso e persino stucchevole, ma al contempo sembrava anche arrogante e canzonatorio. Il suo interlocutore rispondeva punto per punto, ma era impossibile comprendere ciò che diceva, perché parlava a voce troppo bassa. Tutt’a un tratto mi giunse all’orecchio un rumore d’acqua: evidentemente uno dei due aveva aperto il rubinetto per lavarsi le mani. Poi sentii Ninomiya ridacchiare per l’ennesima volta. Dopo di che più niente, silenzio assoluto. Che cosa stava succedendo? Provai a tendere l’orecchio e di nuovo, dopo una decina di secondi, udii la risata inconfondibile di Ninomiya. Terrorizzato, con la mano tesa contro la porta, chiusi gli occhi e cominciai a ripetermi in mente: io non sono qui, là fuori non c’è nessuno. Calma, calma, va tutto bene… Quasi che la mia preghiera fosse stata esaudita, sentii le due voci allontanarsi. Erano andati via, per fortuna. Rimasi ancora per qualche attimo immobile, fino a che non fui sicuro che non ci fosse più nessuno. Dopo di che tornai di corsa verso l’aula e, una volta accertatomi che Ninomiya non ci fosse, entrai, presi lo zaino e scappai.

 

La prima settimana di giugno si concluse e finalmente arrivò il tanto atteso secondo mercoledì del mese. Vidi Kojima in cima alla scala d’emergenza, così come avevamo stabilito per lettera. Non appena mi notò sollevò la mano in segno di saluto e io feci subito altrettanto. Avevo immaginato che sarei stato molto teso e imbarazzato, e invece non fu affatto così, ero tranquillo, rilassato, come se ci fossimo visti poco prima. Forse era grazie alle lettere, che ci avevano uniti a nostra insaputa, ma non riuscivo a esserne sicuro. In ogni caso la forza di quelle missive era formidabile, avevano qualcosa di magico.

«Vieni spesso qui?» mi chiese Kojima.

«Uhm, ogni tanto» le risposi.

Il vento forte che soffiava lassù sembrava renderla spensierata e leggera, sorrideva con aria felice. Aveva le guance chiazzate da un velo di sporco e la divisa scolastica spiegazzata. In apparenza era la solita Kojima che incrociavo tutti i giorni, con i capelli così ispidi e dritti da sembrare vivi, le sopracciglia all’ingiù e gli occhi neri e luminosi che mi fissavano con gioia. Affacciati alla ringhiera, ci mettemmo a guardare la città in basso, e intanto un’altra folata di vento accarezzò il suo viso sudicio facendola ridere sottovoce. Il rumore del vento e la risata sommessa e cristallina di Kojima si sovrapposero alla perfezione e risuonarono a lungo nelle mie orecchie.

Ci sedemmo su due gradini differenti della scala di cemento e chiacchierammo in totale scioltezza, come se ci conoscessimo da sempre. Stavamo bene, sembrava che esistessimo solo noi e che potessimo continuare a parlare per ore, per giorni. Discutevamo del più e del meno, ci raccontavamo piccole storie del nostro quotidiano col sorriso sulle labbra, elettrizzati. Ero contento, e anche Kojima aveva un’aria distesa e briosa.

Su sua richiesta, avevo portato con me il quaderno di giapponese.

«È tutto disordinato, non scrivo molto bene» biascicai a mezza voce.

«Non preoccuparti. Dài, fa’ vedere» mi disse, allungando la mano.

«È un quaderno come tutti gli altri, non ha niente di speciale. E se vuoi guardare la mia grafia è uguale a quella delle lettere».

Kojima scosse piano la testa e disse che voleva guardare come scrivevo in verticale. Mi strappò quasi di mano il quaderno e mi diede il suo, appoggiandomelo sulle ginocchia.

«Facciamo a cambio» disse con voce vispa.

Il suo quaderno presentava la stessa grafia delle lettere, minuta e sottile. Usava sempre il portamine e scriveva un sacco, le pagine erano fitte di caratteri. Aprì il mio quaderno e se lo avvicinò agli occhi per guardare meglio. Lo osservò con molta attenzione per un po’, sfogliando le pagine, dopo di che cominciò ad annuire e inarcò le sopracciglia in modo esagerato.

«In linea di massima credo di aver capito» mormorò con un sorriso.

«Eh? Cosa avresti capito?» chiesi perplesso.

«Non posso dirtelo, è un segreto».

Si alzò di scatto in piedi e si lasciò scappare uno sbadiglio senza coprirsi la bocca. Le si vedevano la lingua e il palato rosso, al che istintivamente distolsi lo sguardo. Un tuono riecheggiò in lontananza, come per sottolineare il silenzio.

«Un tuono…» sussurrò Kojima con un filo di voce, il mento appoggiato alla ringhiera e gli occhi al cielo.

Poi si voltò verso di me come al rallentatore.

«Sì, un tuono…» risposi anch’io a bassa voce.

«A proposito, ti ricordi della tenda e del libro tascabile?» mi chiese di colpo. «E anche del fatto della cordicella del cassino e tutto il resto?».

«Sì…» risposi d’istinto. Ma cosa c’entrava?

 

Verso la fine di aprile si era verificata una serie di strani episodi: alcuni oggetti, accessori e arredi della nostra aula o appartenenti a nostri compagni di classe erano stati tagliuzzati e danneggiati, e naturalmente questo aveva causato una grande agitazione. A me sembravano eventi già lontani nel tempo, ma in effetti erano abbastanza recenti, dopotutto risalivano a meno di due mesi prima. Tutto era iniziato una mattina in cui avevamo trovato l’orlo della tenda tagliato. Poi era stata la volta della sacca sportiva di una nostra compagna, della copertina di un tascabile, della cordicella del cassino e delle setole di una scopa. Ogni volta che qualcuno scopriva un nuovo misfatto in classe si scatenava il panico. Non erano mai danni eclatanti, ma solo piccoli tagli effettuati con la punta delle forbici, sempre uguali e di un paio di centimetri al massimo. Tutti si erano trasformati in detective a caccia del colpevole, ma, in mancanza di indizi, lo zelo investigativo si era dissipato piuttosto in fretta, nel giro di pochi giorni. E dopo due settimane, visto che il misterioso tagliatore seriale non era più entrato in azione, il caso era stato archiviato. In quei giorni ero molto preoccupato, avevo paura che qualcuno potesse puntarmi il dito contro e trascinarmi sul banco degli imputati, anche se non c’entravo niente. Poi, per fortuna, tutto era passato e non ci avevo più pensato. Ma ecco che quel mercoledì di giugno Kojima aveva tirato di nuovo in ballo l’argomento, di punto in bianco, facendo riaffiorare in superficie l’angoscia che avevo provato a fine aprile.

«Sono stata io…».

«Davvero?» replicai, cercando di non mostrarmi troppo sorpreso. «Ma non ti hanno scoperta, giusto?».

Kojima rimase in silenzio per qualche secondo. Poi, guardandosi la punta delle scarpe da ginnastica, mi disse: «Non mi chiedi perché l’ho fatto?».

«Perché lo hai fatto?».

«Ehi, non pensare che abbia voluto costringerti a domandarmelo» ci tenne a precisare, rivolgendomi un sorriso molto dolce. «Del resto non l’ho fatto per una ragione precisa… Non so come dire, ma tagliare qualcosa con le forbici – non una cosa qualsiasi, sia chiaro – mi dà un po’ la sensazione di essere finalmente capace di fare qualcosa di… normale».

«Qualcosa di normale?».

«Sì».

«Nel senso che ti dà sollievo, conforto?».

«Direi piuttosto il contrario…».

«Il contrario? Quindi un senso di ansia e di angoscia? Per te questo è normale?».

«Ma no, è ovvio…» rispose Kojima, battendo un paio di volte i talloni per terra. «Io vivo nell’angoscia tutti i giorni. Sono in uno stato di ansia perenne, sia a scuola che a casa. Ogni tanto mi capitano anche momenti piacevoli, per esempio quando scrivo o leggo una lettera, o quando parlo con te, come adesso. Per me si tratta di eventi rari, che per fortuna bastano a darmi un minimo di sollievo e un po’ di sicurezza. Non so come spiegarmi, ma questo senso di sicurezza corrisponde alla mia felicità. Tuttavia nessuno dei due sentimenti che provo, né l’angoscia abituale né questa sicurezza che sento di tanto in tanto, sono sentimenti normali… Perché sono legati a eventi straordinari, che non rientrano nella quotidianità… Insomma, i momenti in cui mi sento un po’ sollevata e felice sono sporadici e durano sempre troppo poco, e d’altra parte non ho nessuna voglia di considerare l’ansia e l’angoscia come il mio stato normale, solo perché fanno parte della vita… Mi rendo conto che è un discorso un po’ astratto, ma spero che tu riesca a seguirmi lo stesso. In poche parole, vorrei che esistesse una via di mezzo, qualcosa che non fosse né bene né male. Qualcosa che non fosse né angoscia né sollievo assoluto, e vorrei che quello fosse il mio stato normale».

Kojima si ammutolì e mi guardò per un attimo negli occhi, come in cerca di aiuto.

«Il tuo stato normale?» ripetei a bassa voce.

«Sì… Desidero trovare la mia normalità, averne piena coscienza, perché solo allora potrò iniziare a essere me stessa e dire: ecco, questo è il mio stato normale, questa sono io. Finché non ci sarò riuscita non troverò mai un equilibrio e andrà sempre tutto male».

«Quindi la tua normalità, il tuo stato normale si manifesta quando tagli qualcosa con le forbici?».

«Sì, più o meno… Quando le forbici tagliano e fanno zac-zac-zac è come se pensassi: sto facendo qualcosa di veramente normale… E in quel breve istante, mentre taglio e quel fruscio metallico mi risuona nella testa, non provo né angoscia né sollievo assoluto. È come se la normalità fosse sospesa sulla punta delle forbici…».

Mentre parlava, Kojima si lasciava sfuggire continui risolini, forse consapevole dell’astrusa vaghezza del discorso.

«Eppure a un certo punto ti sei fermata» le dissi.

L’agitazione causata dalla sua ricerca di normalità era durata solo pochi giorni, dopo di che le sue forbici avevano smesso di tagliare.

«Sì, ho smesso perché mi sono resa conto che non era una buona idea farlo a scuola» replicò con un sospiro. «In fondo è qualcosa di molto intimo e personale, e non è giusto servirsi di oggetti che appartengono ad altre persone e che tutti possono vedere».

Mi limitai ad assentire con un cenno del capo, in attesa che continuasse.

«A casa mia non c’è niente di interessante, la solita roba, e allora non faccio altro che tagliare carta. Ma ciò non contempla alcun rischio, nessuno avrà mai niente da ridire se tagli solo carta inutile. Quando hai finito non devi fare altro che raccogliere tutto e gettarlo nell’immondizia. Invece con altri oggetti è diverso, perché tagliare qualcosa che non è concepito per essere tagliato ti dà una sensazione vera, intensa… Lo so, è difficile da capire, ma solo tagliando qualcosa di insolito puoi andare oltre e sondare le tue capacità, individuare il confine tra ciò che è normale e ciò che non lo è… Ecco perché c’è bisogno di qualcosa che non sia semplice carta e non si possa gettare con tanta facilità… Non so come spiegare, ma per sentire appieno l’atto di tagliare e il suo significato occorre agire su qualcosa che abbia un minimo di importanza, qualcosa che, ripeto, non si tagli tutti i giorni… Non so bene nemmeno io quello che voglio dire, sto provando a dare forma ai miei pensieri, ora, in questo preciso momento…».

Mentre ascoltavo mi sforzavo di riflettere. Non era facile cogliere il senso di quelle parole.

«Tagliare cosa, per esempio?» provai a chiedere.

«Non lo so, te l’ho detto» mormorò tra i denti Kojima, grattandosi con insistenza il sopracciglio sinistro. «È molto complicato, non ho ancora soluzioni concrete».

«E le unghie? Sono abbastanza importanti e ce ne sono un sacco, no?».

«Sì, ma non sarebbe interessante» rispose con aria afflitta. «Il punto non è tagliare la prima cosa che ti viene in mente e in un modo qualsiasi. Bisogna scegliere e tagliare solo un po’, con un certo criterio. Cerca di ricordare, concentrati… A scuola, se hai notato, ho tagliato solo l’estremità degli oggetti, sempre nella stessa maniera, con assoluta regolarità e non più di un paio di centimetri. Se tagli come viene, in modo approssimativo, non serve a niente, fai solo un danno. Lo scopo, per farti capire, non è privare gli oggetti della loro funzione essenziale».

«Privare gli oggetti della loro funzione essenziale? Scusa, ma non credo di capire…».

«Per esempio, nel caso di una tenda, il taglio deve essere fatto in modo da non impedirle di svolgere la sua funzione di tenda. Il taglio si deve vedere, un po’, altrimenti non avrebbe alcun senso farlo, ma il suo significato acquisisce un valore concreto e assoluto proprio perché quella tenda continua a essere una tenda… Invece con le unghie è diverso: prima di tutto ricrescono, e quindi la parte tagliata, rigenerandosi, le riporta allo stato iniziale rendendo il taglio insignificante. Inoltre, se le tagli male, ad esempio oltre il dovuto, rischiano di incarnirsi e fare infezione, il che può essere molto pericoloso. Mio nonno e mia nonna, tanto per dirtene una, avevano delle microlesioni intorno alle unghie e avevano commesso l’errore di trascurarle. A poco a poco i batteri hanno cominciato a proliferare, le lesioni si sono infettate di brutto e il problema si è diffuso in tutto il corpo. In poche parole si sono beccati il tetano, è stato terribile, i batteri sono arrivati al cervello e gliel’hanno come prosciugato. Alla fine si sono ridotti a uno stato vegetativo e avevano sempre la bava alla bocca, perché il cervello continuava a seccarsi e attorcigliarsi su se stesso. Sono morti rinsecchiti come due mummie, poverini».

«Hai detto che il cervello continuava a seccarsi? Com’è possibile? Non credo di aver mai sentito una cosa simile».

«Ma come? Non ci posso credere, succede spesso. È tipo come con la rabbia e il cimurro, ma negli esseri umani quando il cervello si secca si determinano anche una grave atrofia cerebrale, lacerazioni profonde e una specie di attorcigliamento del cervello. È una cosa tremenda, roba da film dell’orrore».

«I tuoi nonni sono veramente morti così?» le chiesi trattenendo una risata, incerto se credere o meno alle sue parole.

«Sì, te lo giuro, non racconto mica cavolate!» replicò assumendo un’aria molto seria e fissando un punto preciso della mia fronte, in mezzo alle sopracciglia. «Ecco perché le unghie non vanno bene, bisogna trovare qualcos’altro…».

Dopo parlammo di un sacco di altre cose. Le macchie delle coccinelle, l’altezza giusta del sellino per andare bene in bicicletta, le palle di vetro con la neve, il perché non basta stampare altre banconote quando servono soldi e così via. Discutemmo anche delle cattive condizioni del pianeta, dello scarso rispetto dell’uomo nei confronti dell’ambiente e della fine del mondo. Non ero mai stato così bene, mi sembrava di poter continuare all’infinito, ma intanto il tempo passava veloce e si stava facendo tardi. A un certo punto ci mettemmo a guardare il cielo in silenzio, a ovest cominciava a tingersi dei colori del crepuscolo. Il giorno stava per cedere il passo alla notte. I corvi gracchiavano a più non posso, come se inseguissero qualcosa. Avrei voluto restare ancora a lungo insieme a Kojima, chiederle di rivederci, ma non ne ebbi il coraggio. Era così dolce e allegra, andandosene mi faceva lentamente “ciao” con la mano e si nascondeva a metà dietro la scala. Ripeté quel gesto più di una volta, facendomi morire dal ridere. Poi sollevò la mano in alto, l’agitò con maggiore decisione e andò via.

 

Incontrai per la prima volta la mia seconda madre quando avevo sei anni. Era inverno.

Fino ad allora avevo vissuto solo con mio padre e sua madre, mia nonna. Poi, poco dopo la morte della nonna, lei si trasferì a casa nostra. Per me fu uno shock. Mio padre non mi disse niente, neanche una parola, che so?, del tipo: «Ecco, lei è la tua nuova mamma» o «D’ora in poi lei abiterà con noi e si prenderà cura di te». Arrivò all’improvviso, da un giorno all’altro. E, come se fosse la cosa più normale del mondo, si mise fin da subito a cucinare, fare le pulizie e mangiare con noi.

Era passato ormai un anno quando mi disse per la prima volta, con aria un po’ imbarazzata: «Bene, ora siamo una famiglia. Spero che andremo sempre d’accordo…». Eravamo seduti l’uno di fronte all’altra e stavamo mangiando un pesce molto tenero e dolciastro; in televisione, decine di bellissimi canguri saltavano veloci verso un grande sole rosso calante. Dopo un paio di secondi che mi parvero durare un’eternità dischiusi piano le labbra e mormorai a stento: «Sì, lo spero anch’io, grazie…». Poi ripresi a mangiare in assoluto silenzio, lo sguardo basso.

Da quel lontano giorno erano trascorsi circa sette anni e mia madre sembrava sempre uguale, non cambiava mai. Stessa identica acconciatura, né dimagrita né ingrassata, gonne simili l’una all’altra, calzettoni di cotone risvoltati con una precisione maniacale fino a poco sopra la caviglia.

«Tutto bene? Qualcosa non va?» mi chiese un giorno, dopo la scuola, alzando gli occhi nella mia direzione senza smettere di riavvolgere il filo dell’aspirapolvere.

«Tutto bene» risposi. Dopo di che aggiunsi che avevamo ripreso ad andare in piscina e che erano iniziate le verifiche di fine quadrimestre.

«E come sta andando?» mi chiese ancora lei, con una voce piatta che rivelava scarso coinvolgimento.

«La piscina o le verifiche?».

«Be’, le verifiche, no?».

«Non male, credo. Più o meno come al solito».

«Sono molto difficili?».

«Qualcuna sì, dipende dalla materia».

«Ah, ho capito».

Poi mi diede le spalle e si chinò, intenta a fare non so che, e aggiunse ridacchiando: «Comunque, secondo me, il peggio del peggio è prendere venti su cento o giù di lì. A quel punto è molto meglio prendere zero, no? Almeno è qualcosa di netto e inequivocabile».

«Uhm, però non è mica facile prendere zero… Ho sentito che in alcune materie ti possono mettere zero se per esempio dimentichi di scrivere il nome sul foglio, ma dipende soprattutto dall’insegnante».

«Di queste cose non me ne intendo, lo sai, ma tu continua a studiare, mi raccomando» disse mia madre rimettendosi dritta, l’aspirapolvere in mano. «Dopo le verifiche inizieranno le vacanze estive, no?».

«Sì, certo».

«A proposito, c’è una cosa che non ho mai capito» disse cambiando tono, voltandosi di scatto verso di me. «Sul filo dell’aspirapolvere, verso la fine, c’è un segno rosso che indica il punto oltre il quale non bisogna tirare il cavo. Ma poco prima ce n’è anche uno giallo: a cosa diamine serve? Non basta quello rosso?».

Mentre parlava mi guardava con un’aria veramente perplessa, come se si trattasse di una questione di vitale importanza.

«In effetti hai ragione» risposi, senza sapere cos’altro dire. «Chissà a cosa serve il segno giallo…».

Non aggiunse altro e si avviò in cucina scuotendo la testa.

 

Seconda metà di giugno: si susseguivano giornate di pioggia intensa e caldo umido. Spalancare le finestre per far cambiare aria serviva a poco o niente, finiva per entrare soprattutto una cappa di umidità densa e opprimente. Si sudava anche da fermi, a casa, a scuola e in qualunque altro posto.

Un giorno, durante l’ora di disegno, Ninomiya mi aveva puntato con il solito ghigno e aveva impartito uno dei suoi ordini: «Oggi costruiremo una bella “strada ferrata”…». Dopo di che, mentre i suoi scagnozzi mi tenevano fermo e mi costringevano a tenere le mani aperte, aveva impugnato la pinzatrice e mi aveva piantato una serie di punti metallici dall’estremità delle dita fino al polso, come fosse un binario ferroviario in miniatura. Avevo sentito un dolore atroce, non so nemmeno io come avessi fatto a non urlare. Ormai avevo imparato a soffrire in silenzio. Erano passati diversi giorni e le sottili cicatrici rossastre mi facevano ancora molto male. E intanto le nuvole scure fluttuavano a bassa quota nel cielo plumbeo dal mattino alla sera, un odore perenne di pioggia nell’aria.

Per fortuna proseguiva senza sosta anche lo scambio epistolare con Kojima. Era il mio unico svago, il solo motivo per cui riaprivo gli occhi al mattino con una certa voglia di vivere. Mi impegnavo al massimo per risponderle, ora scrivevo con molta più disinvoltura, utilizzando la carta da lettere che mi aveva regalato. La custodia del mio dizionario era zeppa di sue missive. A tarda sera, disteso a letto, quando non riuscivo a prendere sonno a causa della troppa ansia e il pensiero della scuola e del futuro mi faceva sprofondare in un abisso di disperazione, volgevo lo sguardo a quella piccola scatola di cartone e restavo a fissarla a lungo. Lì dentro dimoravano centinaia e migliaia di parole che Kojima aveva scritto apposta per me. Quel piccolo parallelepipedo dai contorni sfumati si stagliava nel buio e sembrava emettere un bagliore caldo ed evanescente nella mia direzione. E mi bastava allungare il braccio per toccare quella luce e percepirne il calore avvolgente. In quei momenti speravo con tutto me stesso che anche le mie lettere avessero il medesimo effetto su Kojima, dandole conforto quando era triste e un tepore dolce e rassicurante ogniqualvolta il suo cuore ne avesse bisogno.

 

Buongiorno,

come va? Incredibile, è già luglio e finalmente le verifiche di fine quadrimestre stanno per finire. Non ne posso più, voglio ricominciare a respirare.

L’altro giorno mi sono messa a contare le lettere che ci siamo scambiati in questi due mesi, sono tantissime. Secondo te quante sono di preciso? Prova a contarle anche tu, rimarrai sorpreso.

La cosa più strana delle lettere è che se per caso ti viene voglia di rileggere quelle che hai scritto non puoi farlo, a meno che tu non chieda al destinatario di fartele rivedere. Una volta che ne scrivi una e te ne separi è come dirle addio per sempre. Non ci avevi mai pensato? È buffo, no? In ogni caso, sappi che conservo tutte le tue lettere in un posto sicuro, come fossero un vero tesoro, nel caso in cui un giorno, in futuro, dovesse venirti voglia di rileggere le lettere che scrivevi quando avevi quattordici anni. A proposito, mi è appena venuta un’idea… Non so dove saremo e cosa faremo in quel momento, ma che ne dici se ci promettessimo di rivederci nel 1999, il secondo mercoledì di luglio, portandoci dietro le nostre vecchie lettere? Non è un’idea fantastica? Che ne pensi? E dove potremmo vederci? Dài, fammi sapere, non vedo l’ora di leggere la tua risposta.

 

Buongiorno,

qualche giorno fa, in libreria, ho visto il libro delle profezie di Nostradamus. Quello di cui mi avevi parlato, con le fotografie di quello strano sole rettangolare e della statua della Vergine Maria che piange lacrime di sangue. A essere onesto, non ho ben capito quale rapporto possa esserci tra immagini del genere e la fine del mondo. Comunque, devo dire che evocava qualcosa di molto macabro. Chissà cosa ci riserverà il futuro, nessuno può dirlo. Ma quel che è certo è che verso la fine di ciascun secolo nel mondo si diffonde una certa agitazione. Figuriamoci poi a fine millennio… Scusa, non volevo metterti ansia. Ma se nel 1999 verrà la fine del mondo, chissà se potremo tener fede al nostro appuntamento. A presto!

 

Hello!

Chissà come sarai a ventidue anni. Che tipo di persona diventerai? Cosa penserai? Me lo chiedo spesso, ormai da un po’. Sarebbe meraviglioso se continuassimo a scriverci fino ad allora…

Oggi ti scrivo soprattutto per chiederti una cosa, anzi per farti una proposta. Dopo la fine del quadrimestre mi piacerebbe mostrarti un posto. Dobbiamo approfittare di queste vacanze estive, altrimenti potrebbe essere troppo tardi.

È un posto meraviglioso, Heaven…

Pensaci, mi raccomando, sono sicura che ti piacerà. Spero non mi dirai di no. A presto!

 

Buongiorno,

non so perché, ma qualcosa mi dice che non mi anticiperai molto su questo “posto meraviglioso”. Chissà dov’è, sono curioso, ma proverò a non chiederti niente finché non mi ci porterai. Così sarà come una grande sorpresa.

A proposito, stai ripassando per le ultime verifiche? Tutto sommato per matematica la vedo meno dura del previsto, visto che gli argomenti non sono poi così tanti. Ma scienze è un disastro, non so nemmeno da dove cominciare. Speriamo di cavarcela e di ottenere almeno il punteggio minimo. Altrimenti ci toccherà seguire i corsi di recupero e ci rovineremo l’estate. Dài, diamoci sotto! A presto!

 

Ciau, ciau,

ormai resta solo inglese. Chissà come è andata finora, ti giuro che non ne ho la più pallida idea. So solo che mi tremano le gambe.

A proposito, che ne dici se in quel posto ci andassimo il primo giorno di vacanze? Meglio, no?, così potrai goderti presto la sorpresa.

Vediamoci alla stazione, davanti ai varchi automatici alle nove del mattino. Ti aspetto!

 

Da quando io e Kojima avevamo stabilito di vederci il primo giorno delle vacanze estive mi sentivo irrequieto. Non stavo più nella pelle, non vedevo l’ora di aprire gli occhi e scoprire che quella mattina era finalmente arrivata.

Mi domandavo di continuo cosa e dove fosse il posto in cui voleva condurmi: Heaven, suonava così misterioso. Ma più del posto in sé, per me contava soprattutto il fatto di andare da qualche parte con lei. Cosa dovevo portare? Come dovevo vestirmi? Di quanti soldi c’era bisogno? Ero su di giri e in ansia allo stesso tempo, in particolare riguardo all’abbigliamento. Prima di tutto perché fino a quel momento era stata sempre mia madre a scegliere i vestiti per me. Non avevo mai espresso preferenze particolari, lei comprava e io indossavo, punto. Ma stavolta era diverso e, dopo averci riflettuto, ero giunto alla conclusione che fosse meglio non mettere roba con troppi colori e disegni. Non era un’impresa facile, perché avevo soprattutto indumenti di quel tipo, piuttosto infantili, e dovetti scavare non poco nel guardaroba e nei cassetti per trovare qualcosa di decente. Dopo di che impiegai un altro paio d’ore per decidere gli abbinamenti, cambiai idea non so quante volte, accostando e riaccostando i pochi capi che avevo tirato fuori e ammassato sul letto. Alla fine optai per una T-shirt blu scuro, i soliti jeans vecchi di un anno e le Converse All Star Hi che non mettevo mai per andare a scuola. Una volta sistemato il look, andava affrontata la questione soldi. Tra regali per le festività e ricorrenze varie e risparmi sulla paghetta mensile, avevo accantonato un gruzzoletto di circa diecimila yen: non era moltissimo, ma poteva bastare. Misi tutto nel portafoglio, nella tasca posteriore dei pantaloni, e provai una certa soddisfazione. Mi sentivo abbastanza sicuro, pronto a far fronte a qualsiasi imprevisto. In fondo era dal vestiario che scaturivano i tormenti maggiori, ci pensavo giorno e notte, non ero affatto convinto.

L’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze andai come al solito in bagno per leggere la nuova lettera di Kojima e metterla al sicuro nella foderina blu del tesserino studentesco. Mentre tornavo in classe, camminando a testa bassa rasente al muro del corridoio, sentii le voci e le risate di Ninomiya e compagni. Tanto per cambiare, lui era seduto spavaldo su un banco al centro dell’aula, circondato dagli altri come fosse un re. La loro conversazione, che volente o nolente mi giungeva all’orecchio, riguardava i corsi estivi del doposcuola. Non avendo alcuna voglia di entrare in contatto né con i loro discorsi né tantomeno con i loro sguardi, andai a sedermi al mio posto cercando di non fare rumore, trattenendo il respiro. Dopo di che, senza mai alzare gli occhi, infilai le mani sotto il banco, dove l’aria era appena un po’ più fresca.

Finalmente il trillo della campanella decretò la fine dell’ultima ora di lezione e i miei compagni si alzarono di scatto, pronti a sciamare fuori dall’aula schiamazzando a più non posso. Con la coda dell’occhio vidi una ragazza del gruppetto delle terribili mollare un calcio contro la sedia di Kojima, che come di consueto restava seduta fino all’ultimo momento. Ebbe un sussulto, dopo di che rimase immobile, in attesa che le sue aguzzine andassero via. Quando fu sicura che non ci fosse più pericolo si alzò, raccattò in fretta le sue cose e uscì anche lei dall’aula, con lo zaino gonfio e pesante in spalla.

La seguii con lo sguardo fino a che non ebbe oltrepassato la porta, tirando un sospiro di sollievo e sperando che non le capitasse niente di brutto. L’attimo successivo, mentre infilavo nello zaino i fogli che tenevo sul banco, uno degli amici di Ninomiya mi si avvicinò da dietro e mi mollò uno scapaccione sulla nuca. Involontariamente, mi morsi la lingua così forte che sentii come uno scricchiolio. Subito dopo una fitta violenta mi si propagò in tutta la bocca, tanto che non riuscivo a tenerla chiusa, e in breve il sapore di sangue misto a saliva prese il sopravvento su ogni altra sensazione. Avevo la lingua completamente intorpidita. Sentivo le tempie che pulsavano, un dolore lancinante che rimbalzava da un lato all’altro del cranio, e la sola cosa che potevo fare era ingoiare il sangue e la saliva che mi riempivano la bocca a ogni spasmo.

Presto rimasi solo, incapace di muovermi, seduto sulla mia sedia nell’aula deserta. Tutt’a un tratto sentii un flebile fischiettio provenire dal corridoio. Si faceva via via più vicino, qualcuno stava per entrare in classe. Preso dal panico, pensai di nascondermi sotto il banco, ma non feci in tempo. Era Momose. Come mai era tornato in aula? Di nuovo immobile, come paralizzato, mi limitai ad abbassare gli occhi. Inutile dire che in quel momento avrei voluto sparire. Dopo un paio di secondi sollevai piano la testa per guardarlo, ma lui non mi degnò della minima attenzione, quasi fossi invisibile. Continuava a fischiettare una certa melodia, le mani nelle tasche dei pantaloni, mentre si dirigeva al suo posto con passo elegante e leggero. Si sedette dandomi la schiena e prese a battere il tempo col piede per accompagnare il fischiettio. Sembrava molto allegro, tutto assorto nel suo mondo: possibile che non si fosse accorto della mia presenza? Tirò fuori un quaderno dallo zaino e si mise a scrivere qualcosa. Di tanto in tanto alzava la testa, annuiva tra sé e sé e ricominciava a far correre la matita sul foglio. Guardavo la sua schiena e il gomito muoversi e cambiare posizione, e ascoltavo distratto la canzone che continuava a fischiettare. Non conoscevo quella melodia, ma la modulava con eccezionale sicurezza, una nota dopo l’altra, era bravissimo. Avrei potuto alzarmi e andare via, ma non lo feci, non so nemmeno io il perché.

Di colpo una voce chiamò Momose e mi voltai verso la porta: era una ragazza. La frangia tagliata dritta le scendeva folta fino a sfiorare le sopracciglia, sopra due grandi occhi neri puntati in direzione del mio compagno di classe. Nell’insieme sembrava poco più che una bambina, minuta di statura e nei lineamenti del viso, ma la divisa della nostra scuola media non lasciava adito a dubbi. Non l’avevo mai vista, chissà in che sezione era. Di certo non aveva niente in comune con le ragazze della nostra classe: era bellissima, dolce, da non riuscire a staccarle gli occhi di dosso. Era diversa da tutte le ragazze che avevo visto fino a quel momento e, curioso particolare, assomigliava tantissimo a Momose. Lui l’aveva notata, si era voltato per un attimo dalla sua parte quando aveva sentito chiamare il proprio nome, ma non le aveva dato retta continuando a scrivere chissà cosa. Neanche la ragazza sembrava essersi accorta della mia presenza, o comunque per lei era come se non esistessi, non mi rivolse nemmeno uno sguardo di sfuggita. Si avvicinò a Momose, appoggiò le mani sul banco e diede un’occhiata al quaderno. Lo fissava mentre scriveva e dondolava la testa al ritmo del suo melodioso fischiettio, i lunghi capelli che oscillando gli lambivano il braccio. Poi si accovacciò e lo guardò dritto negli occhi. L’istante successivo, Momose lasciò la matita sul banco e si alzò, e anche la ragazza si rimise subito in piedi in silenzio. Faccia a faccia, si fissarono per un lungo attimo senza dire una parola, dopo di che lei infilò la mano sotto il braccio di lui e uscirono insieme dall’aula. Momose non smise di fischiare neanche per un attimo, quella melodia continuò a risuonarmi nella testa molto a lungo.

Rimasi fermo al mio posto, sbalordito, indeciso se fosse stato solo un sogno a occhi aperti. Momose era stato veramente lì fino a pochi istanti prima? Quella ragazza sconosciuta era arrivata sul serio ed erano andati via insieme? O era tutto frutto della mia immaginazione? In quello stato d’animo così strano e incerto, non riuscivo più a ricordare la splendida melodia fischiettata da Momose, né tantomeno il viso minuto e incantevole della ragazza.

Nell’attimo in cui finalmente mi alzai dalla sedia, Ninomiya entrò in classe. Incassai la testa nelle spalle, pronto a subire l’ennesima violenza, ma per fortuna sembrava avere fretta: diede un’occhiata rapida e, una volta accertatosi che non ci fosse nessuno a parte me, fece subito dietrofront. Tempo due o tre secondi lo vidi riapparire sotto l’arco della porta: «Per caso hai visto Momose?» mi chiese. Scossi la testa e lui andò via definitivamente, il rumore dei suoi passi che si allontanavano rapidi lungo il corridoio.

 

 

 

1 Bevanda giapponese analcolica che prende il nome dalla ditta produttrice, la cui versione originaria è composta da acqua, latte in polvere e acido lattico. Ha colore bianchiccio, un vago sapore di latte e yogurt alla vaniglia ed è molto dissetante. Lanciata sul mercato nei primi decenni del XX secolo, conta oggi diverse varietà al gusto di frutta e una versione gassata. [Tutte le note sono del Traduttore.]