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Il mattino seguente uscii di casa calcolando i tempi in modo da raggiungere la stazione con un quarto d’ora di anticipo. Dissi a mia madre che dovevo andare in biblioteca, quella grande del quartiere vicino.

Mi misi ad aspettare Kojima accanto alla biglietteria automatica. Ero nervoso, continuavo a voltarmi a destra e a manca. Finalmente, alle nove in punto, la vidi arrivare. Aveva la stessa capigliatura di sempre, le stesse scarpe da ginnastica, una gonna beige a metà polpaccio e una camicia hawaiana. Quest’ultima era talmente sgargiante e variopinta da far passare in secondo piano e l’enorme chioma corvina al vento e la gonna sgualcita. La portava con i lembi annodati all’altezza dell’ombelico, una fantasia tropicale di foglie verdi appuntite e grossi frutti rossicci tipo mango. Era la prima volta che vedevo una camicia hawaiana dal vivo, così come era la prima volta che vedevo qualcuno indossarne una. Kojima mi riconobbe da lontano, sollevò la mano per salutarmi e mi raggiunse a passo spedito. Nell’altra mano stringeva una borsa di tela con stampato il muso di un bel gatto, a metà strada tra un disegno e una fotografia.

«Eccomi!» mi disse con un sorriso dolce e un po’ imbarazzato non appena fu al mio fianco. A dire il vero anch’io ero teso e intimidito, ma mi sforzai di non darlo a vedere.

«Ciao, come stai?» la salutai, cercando di suonare spigliato. Ora che potevo osservarla da vicino notai che aveva fissato la frangia da un lato con un grazioso fermaglio smaltato.

«Mi sono svegliata prestissimo…» mi disse, grattandosi come al solito il sopracciglio sinistro.

«A che ora?».

«Alle quattro».

«Come mai? Ora non hai sonno?».

«In effetti verso le sette stavo per riaddormentarmi, ma ora è tutto okay. E tu? Parli in modo strano, sei sicuro di stare bene?» mi chiese con aria dubbiosa. «Sembra che tu abbia difficoltà ad articolare le parole».

«Niente, mi sono morso la lingua e mi fa un po’ male».

«Quando è successo?» mi chiese ancora, stavolta con un vistoso solco in mezzo alle sopracciglia.

«Ieri».

«Te la sei morsa forte?».

«Fortissimo…».

«Hai sentito molto dolore?» mi domandò aggrottando ancora di più la fronte.

«Sì…».

«E hai pianto?».

«No, per niente!».

«Come mai? Hai appena detto di aver sentito molto dolore… Forse ti sei trattenuto?».

«No, che c’entra? Non è che quando si prova dolore bisogna piangere per forza».

«Tu dici?» ribatté, inclinando la testa da un lato con aria poco convinta, prima di fare un passetto indietro come se un ricordo spiacevole le avesse appena attraversato la mente. Poi mi guardò molto seria e aggiunse, cambiando completamente argomento: «Ora che ci penso, è la prima volta che ti vedo senza la divisa scolastica… Stai bene, sai?».

«Ma no, non è niente di speciale. Dài, non mi guardare così! Tu, piuttosto, sei diversa… Stai benissimo».

«Davvero?» esclamò, chinando la testa per guardarsi. «Forse ho un look un po’… tropicale».

«Eh, puoi ben dirlo!».

«Comunque questi sono i miei abiti migliori».

«In che senso?».

«Nel vero senso della parola!» esclamò Kojima con gli occhi spalancati. «Non ho niente di meglio, tengo molto a questa camicia».

«Ah, certo, è molto carina. E ribadisco che ti sta a meraviglia» le dissi con un sorriso.

«Grazie! Volevo vestirmi carina perché oggi è un giorno speciale. Sono sicura che sarà indimenticabile» disse guardandosi la camicia hawaiana, come se volesse trovare una conferma in quella fantasia vivace e appariscente.

«Ne sono sicuro anch’io. E la tua camicia è perfetta, è così… estiva» replicai fissando quell’indumento con attenzione, come se fossi alla ricerca di nuovi dettagli tra i frutti rossi e la giungla fitta.

«Sì, infatti!» disse ad alta voce Kojima, sollevando la testa con un’espressione raggiante. «Stamattina, quando mi sono svegliata era ancora buio, ma finalmente ho sentito che l’estate era arrivata… Quest’anno l’estate comincia da oggi!».

 

Ci sedemmo su una panchina in attesa del treno. Arrivò presto, con i suoi vagoni verde scuro tutti uguali. Nel frenare emise uno sbuffo che faceva pensare al respiro affannoso di una bestia enorme, dopo di che tutte le porte si aprirono contemporaneamente e salimmo a bordo in fila indiana. Il nostro vagone era pressoché vuoto, ospitava solo un’anziana coppia, un impiegato in giacca e cravatta e una donna con i capelli lunghi e lisci. Il treno si rimise subito in marcia, beccheggiando pian piano a destra e sinistra come fosse in cerca di stabilità, e io e Kojima restammo per un bel po’ in silenzio ad ammirare il panorama fuori dal finestrino. Mi batteva forte il cuore al pensiero che stessimo lasciando la città insieme e che nessun altro ne fosse al corrente.

Dopo poco anche lei iniziò a mostrare chiari segni di euforia. Inutile dire che era molto più allegra di quando eravamo in classe, ma anche più di quando ci eravamo visti in cima alla scala d’emergenza. E lo stesso valeva per me: mentre osservavo il paesaggio e il suo viso sereno, l’ansia di poco prima si dissipò in fretta e fu sostituita da un’ineffabile spensieratezza, che si diffuse in tutto il mio essere e mi riempì il petto di gioia.

Eravamo seduti l’uno accanto all’altra, forse non eravamo mai stati così a stretto contatto e potevo guardarla a distanza ravvicinata. Mi sentivo in imbarazzo, a volte non sapevo dove dirigere lo sguardo ed ero costretto ad abbassare gli occhi. Invece lei non sembrava avere problemi: a parte quando contemplava il panorama, teneva lo sguardo fisso su di me, puntato come sempre in un punto preciso tra le mie sopracciglia, e mi parlava di un mucchio di cose gesticolando e sorridendo a tutto spiano. Alzava la voce senza accorgersene, tanto era entusiasta e contenta, e io non mi sentivo per niente a disagio, anzi mi piaceva vederla così felice. A un certo punto se ne rese conto, fece una smorfia buffa e si portò la mano davanti alla bocca, abbassando di colpo il tono della voce. Ma poi, di nuovo senza farci caso, si rimise a parlare a pieni polmoni e scoppiammo tutti e due in una grande risata.

«Ah, sono propria contentopamina, devo avere la dopamina a mille!» disse esultando.

«Contentopamina… Dopamina… Si può sapere che cosa significa?» le chiesi, stavolta senza imbarazzo.

«La dopamina, non ne hai mai sentito parlare? È un ormone, quando si è felici il cervello ne produce un sacco».

«Ah, non lo sapevo».

«Contentopamina! È bella come parola, suona bene e rende molto l’idea, non trovi? Quando invece sono di malumore a volte mi viene da dire che mi sento “malopamina”…».

«E quando sei triste?».

«Tristopamina, no?» rispose di getto, ridendo come una matta.

 

Kojima rivolse lo sguardo fuori dal finestrino e la nostra conversazione si interruppe per qualche istante. Teneva le mani ferme sulla borsa di tela, a sua volta appoggiata sulle ginocchia. A ben vedere, però, muoveva impercettibilmente la punta dell’indice, come per assicurarsi una volta di più che la borsa fosse lì.

Il treno sfrecciava non lontano dalle case che si succedevano una dopo l’altra, attraversava campi coltivati, procedeva dritto nel mezzo della fragranza inconfondibile di un’estate appena iniziata.

Kojima cominciò a raccontarmi con dovizia di particolari una lunga serie di straordinari aneddoti sul gatto che aveva da bambina, doveva essergli molto affezionata. Mi disse che era un batuffolo nerissimo, dolce e morbido, e che andava d’accordo e giocava spesso con il cane buono e intelligente che avevano in casa nello stesso periodo. Da piccola aveva avuto un sacco di animali e ne conservava un bellissimo ricordo.

«Non abbiamo avuto solo un cane e un gatto» continuò in tono vivace, con gli occhi che le brillavano. «In realtà il mio vero padre amava soprattutto gli animali di piccola taglia, creaturine graziose e guizzanti come pesci rossi, tartarughe verdi, cobiti e così via. Ah, e anche i carassi, ne aveva un sacco».

«Doveva essere bello avere tanti pesci in casa».

«Sì, ma avere un acquario come si deve costa una fortuna. All’epoca eravamo molto poveri, e allora lui aveva recuperato non so dove un’enorme scatola di plastica con una specie di coperchio e l’aveva riempita d’acqua, di pesci e vari accessori. Le pareti erano opache e si poteva guardare solo dall’alto, ma almeno assomigliava a un vero acquario. Aveva fatto tutto da solo, incredibile! Ci aveva messo un ossigenatore che produceva tante bollicine, un ponticello per i pesci rossi e anche una specie di mulino: era fantastico, avevamo comprato insieme un pezzo alla volta, in un negozio vicino casa. Mi incantavo a guardare il nostro acquario per ore e ore, tutti i giorni, e adoravo soprattutto far nuotare le tartarughine. A proposito, tu hai mai avuto degli animali?».

«No… Non credo che i miei abbiano mai considerato l’idea di averne uno».

«Non vi piacciono gli animali?» mi chiese Kojima a occhi sgranati, le sopracciglia che si muovevano come se fossero vive.

«Non è una questione di piacere o non piacere, almeno per quanto mi riguarda. Il fatto è che non sono abituato agli animali, non ne ho mai neanche sfiorato uno».

«Sì, ho capito quello che vuoi dire».

«Però sarebbe bello, l’idea di avere un cucciolo tutto mio non mi dispiacerebbe. Certo che vivere insieme a un animale, che ovviamente non parla, deve essere molto diverso rispetto a vivere con delle persone» dissi, lo sguardo perso lontano.

«In che senso? Secondo te, che cosa sarebbe diverso?».

«Be’, prima di tutto ci sarebbe molto più silenzio».

«Vuoi dire che le persone sono rumorose anche quando stanno zitte?».

«Non lo so, in ogni caso noi pensiamo sempre a qualcosa, la nostra mente non si ferma mai. Da questo punto di vista, gli animali sono molto meno irrequieti».

«Però anche loro abbaiano e si lamentano».

«Sì, ma sono solo versi e nient’altro».

«In effetti non è un problema di decibel e rumore».

«Già…».

«Anche quando dormiamo non ci fermiamo, perché sogniamo, e spesso al risveglio ci mettiamo a riflettere sul significato dei sogni, cosa che può creare stress e agitazione. Secondo te, noi esseri umani siamo capaci di starcene buoni senza pensare a niente?» mi chiese Kojima dubbiosa, il capo inclinato da un lato.

«Forse sì, ma solo per un periodo di tempo molto breve. Poi la mente si rimette in moto da sola, non siamo fatti per non pensare» risposi con una sicurezza che mi lasciò alquanto stupito.

«Per un periodo di tempo molto breve…» ripeté Kojima a fior di labbra, reprimendo uno sbadiglio. «Equivale a dire che non ne siamo capaci. Forse hai ragione, non siamo fatti per non pensare».

Il calore tiepido dei raggi del sole si diffondeva piacevolmente sulle nostre nuche. Volsi lo sguardo a Kojima e pensai che doveva avere sonno, dopotutto mi aveva detto che si era svegliata molto presto. Il treno attraversava una risaia dopo l’altra a velocità costante, cullandoci con un ritmo dolce e regolare.

«A volte mi domando come sarebbe se anche noi non fossimo dotati di parola, proprio come gli animali» dissi senza rifletterci troppo.

«In effetti siamo una vera eccezione» osservò Kojima alzando di colpo la voce e voltandosi verso di me. «I cani, le divise, i tavoli, i vasi da fiore e tutto il resto non parlano».

«Sì, rappresentiamo una netta minoranza su questo pianeta».

«Già… E se penso che solo noi esseri umani ci poniamo un sacco di domande e ci scervelliamo alla ricerca di risposte, mettendo in fila miliardi di parole tutti i giorni, mi viene da ridere e non posso fare a meno di concludere che siamo davvero stupidi e ridicoli… Non sei d’accordo?» mi chiese alla fine, abbozzando una risata nasale.

«Assolutamente sì».

Il treno continuava la sua corsa regolare, sempre alla stessa velocità, tanto che ciascuna stazione sembrava equidistante dall’altra. La voce del conducente annunciava ogni volta la fermata successiva con il medesimo tono, e nel medesimo modo gracchiava il microfono ogni volta che terminava la comunicazione.

«Che ridere, è divertente, no?» disse Kojima alla fine di uno di quegli annunci, portandosi la mano davanti alla bocca e ridacchiando.

Le risaie, verdi e uniformi, si susseguivano a ripetizione; piccole case apparivano qua e là d’improvviso, come fosse un gioco di prestigio; e il luccichio intenso sulla punta dell’erba si spegneva non appena il treno andava oltre, sempre alla stessa velocità, creando davanti ai nostri occhi una linea orizzontale di luce continua.

«A proposito, Kojima» le dissi come se d’un tratto mi fossi ricordato di qualcosa, «il Paradiso dove siamo diretti…».

«Paradiso?» ripeté lei perplessa, interrompendomi e scuotendo la testa. «Heaven, vuoi dire?».

«Ah, certo, Heaven…».

«Sì, Heaven, con l’acca davanti».

«Heaven» ripetei ancora una volta, sforzandomi di aspirare bene l’acca.

Finalmente Kojima mi sorrise.

«Scusa, ma non posso dirti ancora niente. Capirai tutto quando arriveremo, stai tranquillo. Per ora ti chiedo di avere un altro po’ di pazienza».

Feci un piccolo cenno di assenso con la testa, e lei fece subito altrettanto, sorridendo contenta. Restammo per un po’ in silenzio, l’attenzione rivolta di nuovo al paesaggio che sfilava rapido fuori dal finestrino. E intanto ci lasciavamo cullare dal movimento del treno senza opporre alcuna resistenza.

«Credo di aver capito cosa intendevi dire prima» proruppe di colpo Kojima. «Un tavolo o un vaso, anche se sono rovinati e graffiati, continuano a stare lì in silenzio e a essere utilizzati come se fossero più o meno integri».

«Vuoi dire che quel tavolo e quel vaso, siccome non parlano e non possono rivelare a nessuno di essere rovinati e graffiati, è come se non lo fossero anche se oggettivamente lo sono? Ho capito bene?» le chiesi.

«Non lo so, forse» rispose sottovoce, dopo di che aggiunse: «Quel tavolo e quel vaso possono essere malridotti e pieni di graffi e ammaccature in superficie, ma non sono mai feriti dentro».

«Sì, è vero» concordai all’istante.

«Mentre noi, all’esatto contrario, possiamo essere terribilmente feriti all’interno e non mostrare niente all’esterno. Spesso le nostre ferite sono invisibili» disse Kojima con voce ancora più flebile di prima.

Poi si ammutolì per un po’. Se ne stava a testa bassa e grattava con una certa frenesia la sua borsa di tela con la punta dell’indice, più o meno al centro del muso del gatto. La vedevo chiaramente, ma preferii non dirle niente. Alla stazione successiva il treno si fermò, le porte si aprirono e diversi passeggeri scesero come per lasciare il posto a quelli che salivano. Poi il convoglio si rimise in marcia e riprese lentamente la sua corsa.

«Se continuiamo così, se lasciamo che gli altri ci facciano tutte quelle cose senza dirlo a nessuno, senza parlare» mi disse tutt’a un tratto Kojima, soppesando le parole una a una, «credi che un giorno potremo diventare anche noi dei semplici oggetti?».

Non sapendo cosa rispondere, mi limitai a tenere lo sguardo fisso per terra. Ero sconvolto. Non mi sarei mai aspettato che Kojima potesse fare un discorso del genere. Nel vagone investito dalla luce del sole che entrava dai finestrini, le sue scarpe da ginnastica erano talmente sudicie e nere che non si vedeva neanche una traccia di bianco.

«In realtà» dissi alla fine, con voce tremante, «non diventeremo né un vaso, né un tavolo, né nient’altro… Non diventeremo mai veri oggetti, ma potremmo fare finta, forse… Perché in effetti noi…».

«Perché in effetti noi…» ripeté Kojima.

«Perché in effetti noi…» dissi ancora una volta io, ma lei mi interruppe di nuovo.

«…Siamo già più o meno delle cose» sussurrò completando la frase, mentre si mordicchiava nervosa il labbro inferiore. E poi aggiunse: «Non diventeremo mai veri oggetti, ma per certi versi lo siamo già».

Infilò la mano destra nella gran massa di capelli corvini e prese a massaggiarseli piano, senza dire niente. Continuava a fissare il gatto stampato sulla sua borsa di tela. Allora diressi anch’io lo sguardo nello stesso punto preciso.

«In fondo per gli altri noi siamo come delle cose» dissi.

«Sì, è vero…».

«E non possiamo farci granché, per il fatto stesso che in un certo senso siamo delle cose e le cose non possono né muoversi, né parlare, né pensare, o sbaglio?».

Kojima apprezzò la mia ironia e rise a bassa voce; le vibrazioni della sua risatina si propagarono fin dentro la mia anima e mi misi a ridere anch’io. Intanto il treno fece un’ampia curva, le case che si vedevano fuori dal finestrino sembrarono inclinarsi di lato e allontanarsi una dopo l’altra.

«Il problema» disse Kojima dopo aver fatto un lungo sospiro, «è che gli oggetti, quelli veri, li lasciano in pace… Pensa a un orologio appeso al muro, per esempio, che può starsene lì e fregarsene di tutto e tutti». Fece una pausa, volse lo sguardo verso il paesaggio all’esterno e aggiunse, ridendo: «Non tutte le cose del mondo sono uguali, e quelle come noi, purtroppo, sono molto diverse da quelle vere».

Infine si voltò di nuovo nella mia direzione e annunciò: «Siamo quasi arrivati, Heaven ci aspetta!».

 

Uscimmo dalla stazione, ci incamminammo per una via dritta seguendo un vecchio cartello stradale di legno e a un certo punto svoltammo a sinistra. Poi proseguimmo di nuovo dritto per un po’ e giungemmo in vista di un grande edificio bianco.

Era un museo.

Anche all’interno predominava il bianco. Bianche erano le pareti, il pavimento e l’alto soffitto. Ed era già abbastanza pieno di visitatori, nonostante fosse ancora mattina, ciascuno che avanzava col proprio passo guardandosi intorno. Un chiacchiericcio sommesso rimbombava nell’ambiente simile al fruscio di un tessuto e veniva inghiottito a poco a poco dal biancore intenso dell’edificio. Alle lunghe pareti spiccava una gran quantità di quadri di varie dimensioni, ciascuno bene illuminato da appositi faretti a luce calda. Kojima si avvicinò al primo dipinto e si voltò solo per un istante dalla mia parte. Poi assunse un’espressione austera e prese a contemplare il quadro in assoluto silenzio, prima di passare a quello successivo.

La seguivo a una certa distanza, osservavo il quadro e al contempo anche lei mentre ammirava la stessa opera. Dapprima guardava a distanza, poi si avvicinava lentamente di due o tre passi e studiava i dettagli, a labbra serrate, dopo di che si voltava per un attimo verso di me. Osservava i dipinti con la fronte corrugata, come se soffrisse, senza provare gioia o piacere. Infine leggeva con molta attenzione la targhetta con il titolo e le altre informazioni e all’improvviso si allontanava quasi di scatto, come spinta da una sorta di impulso istintivo, emetteva un piccolo sospiro e passava al dipinto successivo, quasi che qualcuno o qualcosa la pressasse.

 

I quadri erano tutti molto strani.

Su uno sfondo in cui predominavano il rosso e il verde, degli animali, una sposa e altre figure danzavano tenendosi per mano; un personaggio che sembrava una capra impugnava un violino; sotto un enorme bouquet in fiamme, un uomo e una donna si abbracciavano. Sembravano rappresentazioni di sogni, immagini sovrapposte senza alcuna coerenza. Ma non erano sogni felici e tranquilli. E, anche quando riuscivo a intravedere un barlume di gioia, si trattava sempre di una gioia violenta, fredda e pervasa di profonda tristezza. Il blu impresso con veemenza sulla tela entrava in collisione con il giallo che vorticava come un tornado; un frenetico numero circense si svolgeva nel mezzo di una folla multicolore che assisteva a bocca aperta. Al di sopra di una cittadina innevata, un uomo con indosso una misera tunica bianca pregava a occhi chiusi. Ciascuna tela evocava l’istante preciso di una distruzione e allo stesso tempo la gioia di una nascita. Diversi mondi erano innestati l’uno nell’altro, concatenati oltre ogni parvenza di razionalità. Persone rinchiuse nel cerchio di un sole che sembrava un mulino a vento. Pesci trascinati a riva dal mare in tempesta. Un cavallo placido e tranquillo con occhi più umani di quelli di un essere umano. Una sposa dalla carnagione incredibilmente pallida.

«Stai guardando con attenzione?».

La voce di Kojima mi riportò alla realtà, mentre ero immerso nella contemplazione di un quadro.

«Sì…» risposi esitante.

«Allora, hai trovato il tuo preferito?» mi chiese a bassa voce, sorridendo.

«Non lo so, non ancora».

Sembrava più rilassata rispetto a prima, il suo sorriso mi rassicurò.

«Quindi Heaven è qui, ti riferivi a questo museo?» provai a chiederle.

«No!» rispose aggrottando le sopracciglia e sbuffando aria dal naso. «Heaven è un quadro, il mio preferito».

«Ma non era un posto?… Heaven è il titolo?».

«Non esattamente…» disse scuotendo la testa. «I quadri di questo pittore sono tutti molto belli, ma i titoli lasciano parecchio a desiderare, li trovo insignificanti. Guarda qui» mi fece indicando la targhetta del dipinto davanti a noi. E in effetti, rispetto al contenuto della tela, il titolo suonava parecchio insulso.

«Bruttino, vero?».

«Sì, hai ragione» risposi ridendo.

«Perciò ho provveduto io stessa a sceglierne uno per il mio quadro preferito… Heaven».

«Quindi vuoi dire che hai dato tu stessa un titolo alternativo al tuo quadro preferito?».

«Esatto!» esultò tutta contenta. «Perché è stupendo e meritava un titolo adeguato, in grado di restare impresso nella memoria. Ritrae una coppia di fidanzati che mangia una deliziosa torta in una stanza. Il tappeto rosso e la tavola sono bellissimi. E poi è evidente che i fidanzati possano allungare il collo a loro piacimento, qualunque cosa facciano e ovunque si trovino, così da potersi vedere e sfiorare in ogni momento. Pratico, no?».

«Sì, decisamente».

«E la stanza non è una stanza come le altre…» aggiunse Kojima con una risata un po’ impertinente. «Nel senso che se la si guarda così, senza andare oltre le apparenze, può sembrare anche una stanza normale, di una casa normale. Ma in realtà è… Heaven!».

«Vuoi dire che si tratterebbe del paradiso?».

«No, Heaven!» replicò alzando la voce e fissandomi con uno sguardo di rimprovero.

«Nel senso che secondo te i due fidanzati sono morti e si trovano nell’aldilà?» chiesi ancora.

«No! A quei due giovani è successo qualcosa di terribile, una cosa tristissima e molto dolorosa» rispose Kojima guardandomi dritto negli occhi, con una voce che sembrava venire dal profondo dell’anima. «Ma alla fine sono riusciti a superarla insieme, restando uniti, e per questo vivono nella felicità più grande che esista. Si sono lasciati alle spalle la tristezza e la sfortuna e sono arrivati lì, in quella stanza che all’apparenza non ha niente di speciale, ma che in realtà per loro è puro Heaven». Si interruppe, emise un sospiro e si stropicciò gli occhi. Dopo di che aggiunse: «Heaven… L’ho cercato e guardato così spesso nei libri d’arte. Ho passato tanto di quel tempo a guardarlo e riguardarlo».

«Sì…» assentii sottovoce.

«Ma a forza di guardare quei libri per inseguire il mio Heaven, a un certo punto i quadri originali hanno cominciato ad apparirmi anche un po’ innaturali… Guarda» mi esortò, puntando il dito verso il quadro successivo, «mungono il latte dalla guancia del cavallo. E il cavallo porta una collana».

«I colori sono molto belli» osservai. Quei colori esprimevano un calore vivido e intenso, ma in effetti il quadro era davvero strano e surreale. Grandi facce, grandi colori…

Restammo per un po’ in silenzio a osservare quel dipinto.

«E poi» aggiunse Kojima serafica, «l’uomo verde e gli occhi del cavallo sono collegati da una sottile linea bianca».

Non so perché, ma avvertii come un rumore sordo provenire dal petto quando Kojima pronunciò la parola “occhi”. Se ne stava immobile e continuava a fissare il quadro in silenzio. Alle sue spalle, un bambino che doveva avere poco più di un anno e si reggeva a stento in piedi lasciò di colpo la mano della madre e si mise a correre traballando. Finì per sbattere contro la gamba di Kojima, crollò al suolo e scoppiò a piangere. Al che lei ebbe un sussulto e si voltò con un’espressione rigida, senza sapere cosa fare. Per fortuna la madre del bambino si avvicinò all’istante, riprese il figlio per mano e chiese scusa con ripetuti inchini. Allora Kojima, ancora intontita, non riuscì a fare altro che imitarla e inchinarsi più o meno allo stesso modo. La donna e il bambino si allontanarono e lei li seguì con lo sguardo, poi sospirò ancora e si voltò verso di me senza cambiare espressione. In quel momento nei suoi occhi albergavano una tristezza e un dolore immensi, ma prima che avessi modo di chiederle il perché, si avvicinò di nuovo al quadro e la seguii senza aprire bocca.

«Ma qual è di preciso Heaven?» le chiesi dopo un po’. «È ancora lontano?».

Nell’attimo in cui si voltò verso di me, per un breve istante ebbi l’impressione di vedere me stesso, come se stessi guardando la mia faccia riflessa nello specchio.

«Sì, è l’ultimo in fondo» mi disse in tutta calma. «Ci vuole ancora un po’… Se non ti dispiace, vorrei fare una pausa, sono stanca».

 

Uscimmo all’aperto e Kojima andò subito a sedersi su una panchina, immobile, senza dire una parola.

Le chiesi se volesse qualcosa da bere, ma fece di no con la testa e disse che non aveva sete. Al che mi avvicinai al distributore automatico e presi una bibita solo per me. Il sole splendeva ormai alto nel cielo e cominciava a fare molto caldo. Non appena presi posto sulla panchina sentii il sudore colarmi sotto le ascelle e sulla nuca. Minute gocce di sudore imperlavano la pelle scura di Kojima tra il naso e il labbro superiore, brillando come fossero dotate di luce propria. Dal posto in cui ci trovavamo si vedeva un ampio prato leggermente in pendenza, dove famiglie, coppie di fidanzati e piccoli gruppi mangiavano e chiacchieravano in allegria seduti su coloratissimi teli da picnic. Altre persone giocavano con un pallone, altre ancora se ne stavano distese a torso nudo e prendevano il sole. C’era anche un grande albero, sotto la cui ombra, con la schiena appoggiata al tronco, qualcuno leggeva un libro. Era una magnifica scena estiva, il cielo blu sembrava estendersi all’infinito riversando sulla gente il suo colore intenso. Intanto Kojima continuava a starsene ferma e in silenzio, stringendo con entrambe le mani la borsa con il gatto che teneva appoggiata come al solito sulle ginocchia. Mandai giù un sorso della mia bibita e solo allora mi accorsi che neanch’io avevo molta sete.

«Non ti senti bene?» provai a chiederle alla fine, dopo aver titubato per un po’. Lei fece più volte di no con la testa, molto lentamente, e poi ripeté lo stesso gesto ancora una volta, come per darsene definitiva conferma. Mi limitai ad assentire con un sorriso e ripresi a osservare la gente sul prato. Sembrava un quadro. Poi alcune persone, uomini e donne, passarono davanti alla nostra panchina. E senza pensare mi tersi più volte il sudore dalla fronte con il dorso della mano.

Dopo un bel pezzo chiesi a Kojima se non fosse il caso di tornare a casa. Ma lei non aprì bocca e scosse solo la testa, proprio come aveva fatto prima.

«Sei… tristopamina?» mi sforzai di chiederle, cercando di suonare allegro. Niente, nessuna reazione, non funzionò neanche quello. Mi pentii subito di aver pronunciato quella strana parola e decisi di restare seduto in silenzio.

Dopo un po’ mi accorsi che stava piangendo. Senza fare il minimo rumore, dandomi la schiena, si asciugò gli occhi con le mani. Strinsi tra le dita la lattina di bibita ormai tiepida e abbassai lo sguardo. Avrei voluto dirle qualcosa, lei continuava a piangere in silenzio accanto a me, le sue esili spalle scosse da lievi sussulti, eppure non riuscii ad aprire bocca.

«Lo sapevo…» disse da un momento all’altro, con un filo di voce appena udibile. «Era troppo bello per essere vero…». Poi, dopo essersi massaggiata le guance con il palmo delle mani, si voltò verso di me e mormorò: «Scusa».

Intanto non smetteva di singhiozzare e mi guardava sforzandosi di sorridere. Forse voleva dissimulare il pianto, ma non ci riusciva, era impossibile. Aveva gli occhi arrossati e del muco vischioso e trasparente che colava e risaliva dalle narici al ritmo della respirazione. Il fermaglio che teneva ferma da un lato la frangia spessa e crespa stava per caderle dalla fronte e a ben guardare, sulla guancia destra, si distingueva una zona più chiara di forma ellittica, una specie di chiazza, come se si fosse abrasa la pelle solo in quel punto. La Kojima che vedevo in quel momento, e che non avevo mai avuto occasione di vedere così da vicino, appariva estremamente fragile. Faceva pensare a un animaletto debole e indifeso, pervaso solo da un tenue soffio di vita e in attesa di essere portato chissà dove. In fondo eravamo due ragazzini, più o meno deboli e indifesi come tutti i nostri coetanei, ma lei, seduta su quella panchina, mi pareva la creatura più fragile della Terra, la più debole che avessi mai visto in vita mia. Persino più debole e indifesa della Kojima che ero abituato a vedere tutti i giorni a scuola. Quella scena mi rese molto triste. E alla fine, quando mi resi conto che non ero capace di fare altro che guardarla senza fare alcunché, mi sentii fragile e debole almeno quanto lei.

Non sapevo perché si fosse messa a piangere, così continuammo a restare lì in silenzio, noi due da soli, isolati dal resto del mondo. Grattava con insistenza maniacale il muso del gatto stampato sulla sua borsa, come aveva già fatto in treno. Non si fermava più, sembrava un moto perpetuo. Poi finalmente, come se di colpo si fosse liberata dalla tensione, levò gli occhi al cielo e disse: «Oggi il tempo è bellissimo… Con tutto questo sole viene voglia di restare fermi qui e non muoversi più».

Il cielo terso e sereno di luglio sembrava aver assorbito la pura essenza dell’estate e gravava sulle nostre teste, perfettamente immobile.

«Non hai la sensazione di essere rinchiuso dentro qualcosa?» mi chiese Kojima subito dopo.

«Sì, sembra come se ci fosse un grande coperchio» risposi.

Kojima infilò la mano nella borsa e tirò fuori un pacchetto di fazzoletti. Me ne mostrò uno e chiese: «Ti dispiace, posso?».

«Prego, fa’ pure» risposi senza esitare. Al che si soffiò forte il naso, facendo un rumore tremendo.

«Meno male che ho portato i fazzoletti, adesso va molto meglio» disse, tirando su col naso per assicurarsi che fosse ben libero.

«Bene».

«Di solito non li porto mai».

«Ah…».

«Ma oggi ho fatto proprio bene, mi sono serviti».

«Sì».

«Vuoi soffiarti anche tu il naso? Ne vuoi uno?».

«Non ora, grazie. Invece io non porto niente con me quando esco» dissi tastandomi le tasche. «Niente a parte il portafoglio, è ovvio».

«Neanche la tua matita preferita? Non te la porti sempre dietro?».

«No… A cosa servirebbe una matita senza un quaderno o qualcosa per scriverci su?».

«Ah, forse è per questo che tutti hanno sempre un’agenda a portata di mano» disse Kojima ridacchiando.

«Un’agenda sarebbe troppo grande, non ci starebbe nella tasca dei pantaloni. E anche una di quelle piccole darebbe fastidio» dissi gettando uno sguardo alle tasche davanti dei miei jeans.

«Io comunque non ho quasi niente» fece lei mostrandomi l’interno della borsa. «Il borsellino, il pacchetto di fazzoletti e le forbici».

«Le forbici?» le chiesi stupefatto.

Kojima abbassò lo sguardo e assentì con aria impacciata. Poi alzò gli occhi di colpo e, parlando a raffica, disse: «No, non è come credi, non ho tagliato niente, sta’ tranquillo».

«Ma figurati, non ci sono problemi… Per me sei libera di tagliare quello che vuoi, se ti fa stare meglio. Sono rimasto solo un po’ sorpreso, perché non pensavo che te le portassi dietro anche per andare al museo».

«Infatti non le porto per andare al museo…» replicò molto imbarazzata. «Nel senso che le ho sempre con me, non le lascio mai a scuola. Non mi servono a niente, le tengo in borsa e basta. E non so nemmeno il motivo, non lo faccio perché mi danno sicurezza o qualcosa del genere… Boh?».

Chiuse la borsa, la ripiegò su se stessa e se la rimise come al solito sulle ginocchia.

«Scusa, mi dispiace…» disse senza una ragione apparente, portandosi le mani davanti alla bocca e mettendosi a ridere timidamente.

Dal prato giungevano le voci allegre di uomini e donne che si fondevano in un unico suono festante. Di tanto in tanto una o più biciclette ci passavano davanti e si allontanavano in fretta. A un certo punto una luce abbagliante simile a un flash improvviso ci costrinse a chiudere gli occhi. Li riaprimmo pian piano e ci accorgemmo che il bagliore accecante proveniva dal lato opposto del prato: qualcuno stava stendendo per terra un telo da picnic argentato e la luce forte del sole si era riflessa in un sol colpo su di noi.

«Kojima, mi mostreresti le tue forbici?» le chiesi, dopo averci riflettuto qualche attimo. D’istinto si strinse la borsa al petto e sollevò moltissimo le folte sopracciglia. Che strana reazione.

«Perché?» mi chiese a sua volta, guardandomi con aria allarmata.

«Niente, voglio solo vederle».

«Sì, ma perché?» mi domandò di nuovo, una miriade di minuscole pieghe tra le sopracciglia.

«Non c’è un motivo… Voglio solo vederle, te l’ho detto» risposi ridendo.

«Perché ridi?» mi fece con un’espressione contrariata, come se non capisse cosa stesse succedendo. «Smettila di ridere, non c’è niente di divertente».

«Va bene, scusa! Ma non volevo prenderti in giro».

«E allora perché ridi?» insisté, il viso sconvolto.

«Ma non sto ridendo!».

«E invece sì!».

«Perché non vuoi mostrarmi le forbici?».

«Non ho detto che non voglio mostrartele. Ti ho solo chiesto perché vuoi vederle, ma tu non rispondi…».

Si interruppe e non aggiunse altro.

Restammo in silenzio, immobili, con lo sguardo rivolto alla punta delle scarpe. I miei piedi erano grandi quasi il doppio dei suoi. I piedi hanno proprio una forma strana, avevo sempre pensato che fossero una delle parti più buffe del corpo umano. Mentre mi perdevo nei miei pensieri Kojima mi mollò un calcetto sul bordo della scarpa e io feci altrettanto. Ripetemmo la stessa azione più volte, fino a che non rimase con la scarpa incollata alla mia e disse: «Wow, hai un piedone enorme!». «Be’, è normale» replicai ridendo, «sono un ragazzo». Dopo di che annuì, mi lanciò uno sguardo fugace e ci chiudemmo di nuovo nel silenzio.

«Se ti va» le proposi dopo un po’, «puoi tagliarmi i capelli… Ricordo molto bene il tuo discorso sulla normalità, sulla ricerca di uno “stato normale” e l’azione di tagliare le cose, e vorrei poterti aiutare… Se i miei capelli ti vanno bene, fa’ pure».

«I tuoi capelli?» ribatté Kojima, dopo avermi fissato interdetta per un lungo istante. «Perché?».

«Non lo so… Ho pensato che i capelli potessero essere abbastanza importanti e corrispondessero a ciò che cercavi».

«I capelli… Dove? In che punto e come dovrei tagliarli?».

«Dove e come vuoi. L’importante è che non combini un disastro… Come hai detto tu stessa, dovresti tagliarli in modo che non perdano la loro funzione: il taglio si deve vedere, altrimenti non avrebbe senso, ma i capelli devono continuare a essere capelli e non qualcosa di informe. Così mi andrebbe bene, e spero possa andare bene anche a te».

Kojima rimase ad ascoltarmi con attenzione, poi si grattò il dorso della mano sinistra e schiuse per un attimo le labbra come per dire qualcosa, ma forse ci ripensò e restò in silenzio.

«Quando ti senti triste e inquieta, o anche quando ti senti troppo tranquilla» continuai allora io, «potresti prendere le forbici e… zac! Tagliarmi una piccola ciocca di capelli. Invece di tagliare qualcosa di nascosto o volantini pubblicitari, potresti avere a disposizione i miei capelli. Che ne pensi?».

Kojima mi guardava a bocca aperta, gli occhi stralunati. Aveva il viso completamente imperlato di sudore, una minuscola goccia per ogni singolo poro, tanto che la pelle sembrava gonfia. E sembrava anche che la temperatura dell’aria avesse fretta di aumentare e raggiungere un certo livello prima di mezzogiorno. In cielo non si vedeva una nuvola, né c’era un solo spicchio d’ombra intorno alla nostra panchina. Di tanto in tanto, forse solo quando ne aveva voglia, un venticello mite veniva ad accarezzarci. Alla fine, stanca e senza smettere di guardarmi, Kojima mi fece piano di sì con la testa.

A occhi bassi, con gesti molto lenti, aprì la borsa e prese le forbici con la mano destra. La folta capigliatura le nascondeva il viso quasi per intero e non riuscivo a scorgere la sua espressione. Mi sembrava solo che fissasse le forbici come se non esistesse nient’altro al mondo. Si trattava di un paio di forbicine da carta con la punta leggermente arrotondata e l’impugnatura di plastica gialla. Erano un po’ sporche di pittura e la parte in plastica appariva scolorita: si intuiva al volo che non erano nuove ed erano state usate parecchio.

«Le ho dal primo anno» disse Kojima con un filo di voce, tenendole nel palmo della mano e continuando a fissarle.

«Quindi dall’anno scorso?» le chiesi.

«No, dal primo anno delle elementari!».

«Incredibile, da quasi otto anni2» dissi un po’ sorpreso.

«Sei sicuro? Posso?» mi chiese con voce calma. «Posso tagliarti sul serio i capelli?».

«Sì, certo».

Impugnò bene le forbici con la mano destra, l’altra mano stretta intorno all’estremità delle lame argentate, e rimase a guardarle immobile per un lungo momento, come se avesse un’ultima cosa su cui riflettere.

«Dài, cos’aspetti? Non è difficile!» la esortai in tono scherzoso, dopo di che mi girai di spalle e raddrizzai bene la schiena, i palmi delle mani sulle ginocchia.

Kojima restò per alcuni istanti dietro di me senza fare niente, poi di colpo sentii la sua mano tra i capelli. Lasciò scivolare le dita sopra l’orecchio e afferrò stretto una ciocca tra l’indice e il medio, poi appoggiò l’altra mano, quella in cui impugnava le forbici, contro la parte posteriore della mia testa, infilò la ciocca di capelli tra le due lame e… zac! Un colpo secco e deciso. Mi venne la pelle d’oca e al contempo sentii un piccolo sospiro sfuggire dalle labbra di Kojima.

Mi voltai piano e vidi che stringeva un ciuffetto di capelli nella mano sinistra e le forbici nella destra, le lame un po’ aperte. Teneva gli occhi bassi e non diceva una parola. Aveva tagliato i capelli piuttosto vicino alla radice, ovvero per una lunghezza di oltre dieci centimetri e una larghezza di due. Restammo in quella posizione per diversi secondi, senza muoverci di una virgola, come paralizzati.

Kojima mi allungò la ciocca di capelli sotto il naso e voltò la testa da un lato per non farsi guardare.

«E no, così non vale! Non voglio vedere solo la tua mano» le dissi ridendo.

Come se le mie parole avessero fatto scattare una molla, Kojima alzò la testa all’istante e mi mostrò il viso timido e imporporato, ma al contempo raggiante di felicità, gli occhi velati di lacrime.

«Scusa, ma…» mormorò a bassa voce, tanto per dire qualcosa, guardandomi ancora tutta rossa in viso. Poi distolse lo sguardo per qualche istante e lo diresse di nuovo su di me, cercando di non muoversi neanche di un millimetro. Teneva ancora la mano con i capelli appena tagliati vicino alla mia bocca, al che feci finta di addentarli come fossero un ciuffo d’erba. Lei scoppiò a ridere ad alta voce, finalmente sollevata, e io la imitai all’istante.

«Per fortuna ne ho ancora parecchi» dissi passandomi la mano tra i capelli, intorno alla zona dove li aveva tagliati, «se vuoi, puoi continuare».

Naturalmente non avvertivo alcuna differenza tra prima e dopo, eccetto per il fatto che Kojima stringeva in pugno una ciocca dei miei capelli. D’un tratto prese un fazzoletto di carta, vi avvolse dentro i capelli e fece per riporlo in borsa.

«Che cosa ne fai delle cose che tagli?» le domandai.

«Di solito le butto» rispose, la mano con il fazzoletto e i capelli sospesa a mezz’aria.

«Be’, allora devi gettare anche i miei capelli».

«No… stavolta non è come le altre volte…».

«Ma sì che lo è, sono solo capelli».

«No, stavolta è diverso, non voglio che sia come sempre…».

Non doveva esserne convinta appieno, visto che continuava a fissare il fazzoletto in cui erano racchiusi i miei capelli.

«Dài, buttali» provai a insistere.

«No!».

«Ma sì, dài. Puoi tagliarmene altri, tutte le volte che vuoi».

Nel frattempo aveva stretto forte in pugno il fazzoletto con i capelli, quasi temesse che volessi sottrarglielo.

«No… non posso».

«Ma certo che puoi!».

Kojima se ne stava immobile come una statua, i muscoli del corpo contratti, e sembrava molto nervosa, ma continuai a parlarle e da un momento all’altro, come per riflesso, aprì la mano. Sembrò quasi una piccola esplosione, accompagnata dal gridolino che Kojima si lasciò sfuggire nel vedere i capelli disperdersi nell’aria e svolazzare prima di ricadere dolcemente al suolo.

Rinunciammo a continuare la visita del museo e andammo via.

 

 

Nel treno del ritorno ci mettemmo a giocare a shiritori. Kojima riacquistò un po’ alla volta il buonumore mentre io facevo del mio meglio per risollevarle il morale, lasciandomi andare a battute e innocenti prese in giro. Non avevamo mangiato niente, i nostri stomaci sembravano fare a gara a quale brontolasse più forte. Sembrava un piccolo concerto, una serie di buffe scale musicali: ogni volta che un brontolio si diffondeva dai nostri corpi, ci guardavamo negli occhi e scoppiavamo a ridere. Poi, man mano che la nostra stazione si avvicinava, la conversazione cominciò a languire. Tenevamo lo sguardo rivolto distrattamente fuori dal finestrino, il paesaggio non ci interessava più come all’andata, e ben presto restammo in silenzio lasciandoci cullare dai movimenti del treno.

 

Quando arrivammo alla stazione tutto era disperatamente uguale a prima. La sera si avvicinava e le nostre ombre si allungavano sbiadite sull’asfalto. Niente sembrava avere senso. L’estate di poco prima, quando eravamo seduti sulla panchina fuori dal museo, e quella che ci aspettava nel nostro quartiere e nelle nostre case sembravano del tutto diverse, come se non fossero composte dagli stessi elementi. Il sudore tra la pelle e gli indumenti si era asciugato, quasi che volesse passare inosservato, e i nostri corpi avevano cominciato a irrigidirsi. Non ci eravamo scambiati una parola, ma sia io sia Kojima sapevamo fin troppo bene come stavano le cose e che la giornata era già finita.

Kojima mi disse “ciao” agitando la mano, e io feci subito lo stesso. Mi guardò fisso negli occhi per un ultimo istante prima di mettersi in marcia, poi svoltò l’angolo e scomparve.

Rimasi fermo per qualche istante, lì impalato a guardarmi intorno. Era l’inizio dell’estate e mi trovavo accanto ai varchi automatici della stazione vicino casa. Stentavo a credere che fosse lo stesso posto dove al mattino mi ero dato appuntamento con Kojima. Era tutto così irreale.

 

 

 

2 Il sistema scolastico giapponese prevede sei anni di elementari, tre di medie inferiori e altrettanti di medie superiori.