Ogni singolo episodio, all’interno della sua macrostruttura seriale, diventa elemento importante.
È il mezzo attraverso cui si fruisce l’elaborato artistico preso in considerazione e, soprattutto, i tempi dedicabili, oggi, all’ozio (se così ancora lo si può intendere) che fa della brevità la connessa e altrettanto importante relazione tra micro e macro elementi sintomatici del genere.
Il web è pieno, ad esempio, di siti giornalistici che indicano il tempo di lettura dell’articolo pubblicato, gesto significativo che, se non dimostra una certa refrattarietà alla lettura tutta, di certo dimostra che il tempo a disposizione è minore di prima.
Nella struttura di una serie TV, il singolo episodio può fungere da racconto minimale che, interrotto o meno attraverso la tecnica già citata del cliffhanger, offre uno spaccato narrativo chiuso e finito, garantendo, allo stesso tempo, al fruitore, alfabetizzato rispetto ai linguaggi e allo stile dell’opera, la possibilità di riempire i non-detti con le sue ipotesi, così come, in un certo senso, accade con l’esempio benjaminiano del Re Egizio di Erodoto. E cioè riempire di se stessi e dei propri significati le metafore vuote del racconto, oltre che le attese tra un episodio e l’altro.
Abbiamo più volte fatto elenchi di opere caratterizzati di racconti brevi ma «non danno minimamente conto dell’avventura millenaria della forma breve [...]»[163], e ancora oggi c’è un lungo elenco di scrittori che ha sperimentato e sperimenta la forma breve al punto da farla diventare un canone vero e proprio, e non più un passaggio obbligato, un esercizio di stile, in attesa del Romanzo, il capolavoro della maturità. Carver e Wallace, per esempio, sono probabilmente gli autori che «maggiormente hanno inciso nell’immaginario degli ultimi decenni»[164]. Racconti che spesso sono fotografie, epifanie inquietanti che a volte si celano nel non-detto, come allegorie vuote, tipicamente kafkiane, altre volte esplodono in finali inaspettati.
Si è già fatto presente che
la forma della short story (moderna) è correlata al grande sviluppo nell’Otto-Novecento di periodici, giornali, settimanali, riviste che passano dall’esigenza iniziale di esteso materiale alla forte esigenza di brevità delle little riviews[165].
Sergio Perosa, nel suo contributo a La forma breve del narrare – Novelle, contes, short stories, curato da Loretta Innocenti, ricorda che il racconto breve, per alcuni,
è il culmine della difficoltà e intensità narrativa, richiedendo condensazioni e rigore pari a quelli richiesti dal sonetto in poesia (una correlazione spesso evidenziata dagli autori stessi); per altri, è una forma commerciale, soggetta alle richieste, appunto, del mercato editoriale[166].
Partendo da Edgar Allan Poe, Perosa sembra realizzare un vademecum, un manuale del racconto breve che, stando a quanto scritto dallo scrittore de Il Corvo, praticamente il primo teorico del genere, «si ottiene mirando all’unità di effetto, disegno e response del lettore»[167]. Response che si realiza esercitando la contemplazione di un intero, «l’opera d’arte deve perciò mirare a ottenere una unità o totalità d’effetto»[168].
Paradosso dei paradossi, la narrazione lunga, cioè il romanzo, distruggendo questo effetto di interesse non potendo essere letto in un’unica seduta, stando a sentire Poe, non rappresenterebbe una forma ideale di narrativa:
Il racconto, secondo noi, offre senza discussione il miglior campo per l’esercizio del più elevato talento. [ ] in quasi tutti i generi di composizione, l’unità d’effetto o d’impressione è un punto della massima importanza. È chiaro, inoltre, che questa unità non si può totalmente preservare in produzioni la cui lettura non si concluda in una seduta. [ ] Perciò un poema è un paradosso. […] Il romanzo ordinario va comunque rifiutato, data la sua lunghezza, per ragioni analoghe a quelle che rendono rifiutabile una poesia lunga[169].
Con la sua teoria, Poe afferma che il racconto va costruito sulla concatenazione dell’intreccio, in cui il plot è l’intelaiatura necessaria che tiene unito l’insieme del racconto. Un plot altamente saldo e compatto che non lascia che sia facilmente determinabile il punto che sostiene l’altro. E perché il racconto sia solido (il corsivo non è casuale), è necessario sia anche utile e irripetibile:
Al racconto è necessario per Poe un minuzioso realismo di superficie, quella che egli chiama minutenes of detail, una minuzia e precisione di dettagli e particolari, e che dà apparenza di realtà tangibile dell’insieme[170].
Abbiamo fin qui usato il termine racconto breve o short story ma, in realtà, come sottolinea lo stesso Perosa, ciò che esercita Edgar Allan Poe è il tale, termine predominante per buona parte dell’Ottocento, e che indica un racconto di una lunghezza tale da essere praticata in un’oretta, mentre Henry James «distingue la short story dalla nouvelle»[171].
Un genere che è «forma deliziosa e difficile [ ] mira a far di più»[172] e che, per la mancanza di un ampio spazio, produce due effetti: quello di un «incidente staccato singolo e secco, netto come un colpo di pistola» e quello di un’impressione «relativamente generalizzata – semplificata, scorciata, ridotta ad una prospettiva particolare – di una complessità o continuità»[173].
Repetita iuvant, ed è perciò necessario far notare come una certa predisposizione allo scorcio e al prospettivismo sia stata influenzata dall’obiettivo del dagherrotipo, prima, e dalla cinepresa, poi, e infine dalla tecnica del montaggio, nel creare l’effetto del colpo secco, come di pistola. Probabilmente, non a caso, Perosa evidenzia analogie tra l’immediatezza del racconto breve e il teatro drammatico, in cui lo scrittore ha da costruire ad ogni costo un’architettura perfetta fatta di gesti e dettagli: «L’analisi psicologica, vale a dire, è negata, limitata o può risultare soltanto implicita nel racconto breve»[174]. Un tipo ti racconto, definito poi behavioriste, comportamentista, un metodo che aprirà le porte a scrittori come Ernest Hemingway e il già citato Raymond Carver. Racconti in cui si omette e si restringe, in cui, per dirla con Hemingway, «la dignità di movimento di un iceberg è dovuta al fatto che solo un ottavo emerge dall’acqua»[175].
Vale per molti il motto carveriano «Get in, get out. Don’t linger. Go on»[176]. Non c’è tempo per la storia, Carver non ne ha, troppi problemi dà la quotidianità per poter dar spazio ad un racconto più lungo del suo necessario. Il significato è tutto «nelle situazioni minime e sospese di pochi personaggi, brevi sequenze di condizioni abnormi, sfuggenti, indecifrabili, epifanie del quotidiano più banale e riduttivo. Piattezza, discontinuità e grigiore»[177].
Dall’analogico al digitale, la questione della nobiltà del racconto breve pare focalizzarsi, nello specifico, sulla dignità dell’episodio come forma espressiva a sé. Nella fattispecie, la globalità di Netflix e la facile disponibilità dei contenuti, l’immediatezza stessa di fruizione, per esempio, hanno fatto sì che, soprattutto negli U.S.A. ci si interrogasse «sulle future conseguenze di un modello che, al di là del numero effettivo di fruitori, sta avendo un notevole impatto mediatico e culturale»[178]. Durante la cosiddetta Golden Age, era in cui la specificità del linguaggio seriale e l’evoluzione dei mezzi di riproducibilità dell’opera d’arte hanno raggiunto il livello più alto della quality tv, la paura per molti è che la sovrabbondanza di produzioni, potesse esaurire ogni possibilità di esplorazione di forme e contenuti ma «parlare di saturazione significa insinuare che non è rimasto quasi niente di nuovo da raccontare»[179].
In realtà, come in ogni genere d’arte, ciò che è predominante in qualsiasi narrazione è la forza del ricombinare. Forse sarebbe eccessivo essere interamente d’accordo con Todd Gitlin che
ha sostenuto che la creatività televisiva passasse molto poco per l’invenzione e molto più per processi di imitazione, riutilizzo e riciclo dell’esistente[180]
ma è evidente che strumenti come lo spinoff, la copia e la ricombinazione siano elementi tipici della cultura popolare. Fenomeni di rielaborazioni di opere precedenti, per fini parodistici o di puro riassemblamento di significato e significante, riempiendo spazi di memoria/vuoti, è piena la letteratura:
Il primo problema legato alla questione della riscrittura è che – se la si analizza in prospettiva diacronica – essa risulta aver subito nei secoli un’evoluzione radicale, in conseguenza non soltanto di fattori intraletterari ma anche di fattori extraletterari (politici, storici, economici, culturali)[181],
evidenzia Irene Fantappiè, aggiungendo che questi fattori possono essere immateriali – come il mutare di un’ideologia creativa letteraria – e materiali – come il cambio del supporto.
Gérard Genette, a tal proposito, parla di palinsesti:
Un palinsesto è una pergamena sulla quale ci sono due testi sovrapposti, il più antico dei quali non risulta essere completamente cancellato bensì rimane visibile in trasparenza[182].
Casi simili, nella serialità televisiva, sono evidenti in How I Met Your Mother che se non è riscrittura di Friends, a sua volta figlio di Happy Days, certamente ne trae ispirazione, così come il ciclo dei vinti verghiani trae chiara ispirazione dai romanzi del ciclo dei Rougon-Macquart di Émile Zola. È chiaro che sulla scia di un successo di un’opera questa diventi egemone di una cultura e quindi capofila di tutta una serie di riscritture, ma è d’uopo specificare che riscrittura non significa copia passiva o rapporto di stretta dipendenza tra testo primo e secondo. Verga non è Zola e, tralasciando sintonie e distonie tra verismo e naturalismo, nei suoi personaggi infonde tutto il suo mondo, tutto il suo modo di sentirlo.
Il rapporto tra testo primo e secondo ha subito [...] una radicale evoluzione nel corso della storia. L’idea della superiorità dell’originale sulla traduzione, ad esempio, è un concetto abbastanza recente e del tutto estraneo al panorama della letteratura medievale[183]
e si già scritto del fenomeno antropofago descritto da De Andrade e, nel capitolo dedicato al Cinema, si è battuto molto sulla dignità artistica oltre che creativa di una riproduzione in pellicola di un fatto letterario.
Una serie televisiva come Black Mirror, per esempio, ha in seno elementi di profonda originalità e gli intrecci delle ciniche distopie avrebbero fatto invidia all’Orwell più in forma; tuttavia, è anche qui chiaro che un certo debito nei confronti dello scrittore inglese gli ideatori debbano averlo comunque pagato. Il primo episodio della quarta stagione, Uss Callister, è un magnifico gioco di narrazioni multiple in cui esistenze digitali, create a partire dal DNA umano, inserite in un gioco virtuale – una riproposizione parodiata di Star Trek – e capaci di sentire emozioni vere pur non essendo reali, modificano la narrazione prima, fino a distaccarsene completamente, per inserirsi, finalmente libere dalle catene della vita reale e del videogioco, in un’altra multidimensionale. A nulla serve cercare di manipolarla e tenerla sotto controllo, la narrazione, tentando di inserirla in un unico solco, come accade alla madre del secondo episodio, in cui attraverso un dispositivo digitale, Arkangel, controlla, edulcora e manovra la vita della figlia: inevitabilmente, finisce per ribellarsi e ritorcersi contro.
O ancora, proviamo ad analizzare una serie diventata in breve tempo di culto come Breaking Bad, ideata da Vince Gilligan e trasmessa dall’emittente via cavo statunitense AMC dal 20 gennaio 2008 al 29 settembre 2013.
Riassumendo la trama in poche righe, è la storia di Walter White, un chimico brillante, finito ad insegnare chimica a dei liceali svogliati, per uno stipendio da fame (al punto che, per arrotondare, lavora in un autolavaggio) e che, una mattina, si scopre malato di tumore. La scoperta è deus ex machina di un’escalation inarrestabile di azioni che distruggono pose e posizioni sociali, volte a rivendicare un posto più giusto nel mondo, a costo di bypassare qualsiasi tipo di etica e morale.
Più Walter White lotta contro il tumore e questo regredisce, più la sua sete di potere – che è anche voglia di rivalsa – diventa inarrestabile. La malattia lo incattivisce, il countdown che piano piano lo avvicina alla morte, per quanto rallentata dalla chemioterapia, è spietato.
Ci sono troppi rimpianti nel suo passato per non provare a rimettere le cose a posto. La malattia gli ha tolto ogni inibizione, lo ha liberato dalle catene della società. A mano a mano, tutto è concesso e, più le cure fanno effetto, più la sua metanfetamina blu, simbolo e amuleto da brandire per raggiungere il successo personale, si fa largo nel mercato dei narcotrafficanti di tutto il mondo.
Scavando nei ricordi, nella piccola biblioteca memoriale di cui ognuno è in possesso, un confronto, per nulla pindarico, con un classico, Il ritratto di Dorian Gray, sembra adatto per i ragionamenti fin qui espressi, considerando che, forse, nessun altro scrittore è stato così bravo a rappresentare la corruzione dell’anima come Oscar Wilde.
Dorian è troppo simile a Walt per la comune paura del tempo che passa. Troppo simile il narcisistico amore per se stessi e la loro opera d’arte migliore: da un lato, per Dorian, la propria bellezza, dall’altro sì la metanfetamina blu di Walter ma, forse, anche quel Jesse, un tossico incapace, diventato suo socio e, così, in poco tempo, anche il secondo miglior produttore di met in circolazione.
E pure c’è una certa morale vittoriana in Breaking Bad, spesse volte semplificatrice rispetto ai problemi del quotidiano e per la quale Walt, più di una volta, ha provato uno strano rigurgito: violento fino all’inverosimile, eppure tanto reale.
Il meraviglioso quadro di Basil Hallward, allo stesso modo, rappresentazione eterna della giovane bellezza di Dorian, si imbruttisce così come imbruttisce l’ideale familiare di Walt. La corruzione è un tumore che non ha limiti. Più si sconfigge il male fisico, più la bruttezza morale si impossessa delle sue idee, della sua immaginazione, del suo corpo, fino a traboccare nella realtà.
L’unica soluzione è distruggere il quadro, sgozzare il mostro, restituirsi alla vita e, infine, tornare di nuovo – in un certo senso – nella retta via.
Di fatto, offrendo l’anima al diavolo/diodenaro (nel caso di Walt, più che i soldi è quel gusto del saperci fare e di vincere sulle ingiustizie che ha dovuto patire) – chi per ottenere in cambio bellezza ed eterna giovinezza, chi invece saggezza e/o rivendicare ai tortuosi eventi della vita ciò che gli è stato tolto – entrambi sembrano una rewriting del Faust, per certi versi archetipo del genere, dal quale pare sia sempre possibile partire, riscrivendo soggetto, modificando qua e là qualcosa dello sfondo, rimodulando i leitmotiv.
In casi come questi, in una prospettiva di trasformazione sincronica, il testo si costruisce «come mosaico di citazioni, ogni testo è assorbimento e trasformazione di un altro testo»[184] e, citando Barthes, l’opera non va più vista come prodotto finito ma come
produzione in corso, connessa ad altri testi, altri codici (è l’intertestualità), collegata alla società, alla Storia, non in modo determinista, ma citazionale[185].
Ogni testo è, di fatto, matriosca infinito di altre matriosche di testi al punto che autori come Boitani hanno potuto asserire che dopo l’Iliade tutto è direttamente o indirettamente riscrittura.
Genette parla di transtestualità per definire tutto ciò che mette un testo in relazione, diretta o in diretta, ad altri testi, definendone ben cinque tipologie principali:
intertestualità, ovvero la presenza effettiva di un testo in un altro;
paratestualità, e cioè la relazione tra il testo e la materia di cui è caratterizzato: titolo, prefazione, note, postfazione, commenti, eccetera.
l’architestualità indica il rapporto tra categorie generali e trascendenti cui è legato ogni testo: modi d’enunciazione, generi letterari, tipi di discorso;
ipertestualità, cioè la relazione tra un testo B, definito ipertesto, a un testo precedente A, definito ipotesto.
Questi elementi, ricollegandoci al precedente capitoletto, garantiscono alle nuove narrazioni una multidimensionalità tutta nuova, quell’essere racconto finito e inconcluso ben oltre il singolo episodio o al loro intrecciarsi. Rifacendoci nuovamente all’evoluzione del racconto seriale e la relativa rielaborazione analogica, «l’abbuffata seriale e i suoi effetti sulla percezione del racconto sono considerati da alcuni un vero e proprio nuovo genere o persino una nuova forma d’arte»[186].
Premessa: i racconti seriali possono essere differenziati in unitari e plurali, «sulla base del fatto che i primi sono concepiti, prodotti e distribuiti in un’unica unità testuale, i secondi in unità distinte, distribuite in successione»[187]. Tra i racconti plurali Rossini distingue il serial dalla serie. I primi sono caratterizzati da uno «stiramento sintagmatico»[188] del racconto, le cui unità non sono autosufficienti e sono rigorosamente ordinati in base ad una sequenza precisa. I secondi sono invece episodi autosufficienti che possono essere fruiti in qualsiasi ordine e non presuppongono una particolare conservazione della memoria.
Questi vanno differenziati tra la serie antologica, in cui gli episodi sono legati da un tema, per esempio, come nel caso già citato di Black Mirror, e la serie episodica, in cui sono presenti più costanti, come protagonista e ambientazione, dotata di un canovaccio, ripetibile all’infinito, come nei casi dei classici polizieschi. In questi casi, il racconto risulta aperto all’infinito ché, non prevedendo una progressione, di conseguenza, non ha neanche un finale, ma di fatto godibile a partire da qualsiasi punto, a differenza del serial.
Questo andamento ricorda la struttura sinusoidale che Umberto Eco vede ne I misteri di Parigi di Sue: se le opere narrative a curva costante addensano eventi accrescendo la tensione fino alla rottura che porta poi alla risoluzione conclusiva, I misteri, invece, è sinusoidale in quanto successione continua di tensione, scioglimento, nuova tensione, nuovo scioglimento e così via[189].
E tuttavia, Alan Sepinwall, uno dei critici americani più autorevoli, per esempio, scrive in difesa dell’episodio singolo come entità narrativa a se stante, autosufficiente, che oltrepassa il semplice progredire della trama:
Lo storytelling seriale richiede, per Sepinwall, un equilibrio tra narrazione orizzontale e spinte verticali interne all’episodio, mentre nelle serie originali Netflix, in particolare quelle in cui l’azione ha un ruolo dominante, […] il critico scorge il rischio di una successione di episodi finalizzata alla progressione di un unico plot principale, che dimentica l’arte della costruzione dell’episodio[190].
Ciò che lamenta Sepinwall è che il fenomeno del binge-watching, «oggi annoverato tra le nuove forme di dipendenza tecnologica insieme alla ludopatia da videogiochi, al sesso in rete e alla sindrome del cellulare fantasma»[191], declassi in una posizione subordinata, per dignità e qualità, l’episodio nei confronti della trama. Per il critico, l’arte della costruzione dell’episodio
si identificherebbe specialmente con quegli episodi che, pur facendo parte di una trama più complessa e che copre l’arco stagionale, si distinguono anche per la costruzione drammaturgica interna, per la coerenza di un plot non necessariamente autoconclusivo, ma che dia un necessario senso di chiusura, in altre parole per una godibilità a sé stante[192].
Lo streaming, garantendo l’offerta illimitata di stagioni complete, fa sì che la Grande serialità si consumi tutta d’un fiato. Cardini, in questa peculiarità, riscontra
proprio quella espansione narrativa che porta i limiti temporali di visione troppo ristretti del film ad un’esperienza estremamente appagante: avere la sensazione che non finisca mai, che non si debba aspettare per incontrare quell’universo narrativo ma anzi sa possibile immergersi dentro per giorni, senza fare altro e senza smettere mai[193].
In realtà, oggi, il panorama delle serie TV appare molto variegato e stimolante e anzi, per dirla con Giorgio Grignaffini (che ha ben analizzato le strutture della serialità televisiva americana, che di fatto è quella che sta riscuotendo maggiori consensi) il sistema della serialità americana consiste nel:
recupero di generi non frequentati da tempo,
colonizzazione di territori appannaggio di altri media come cinema, letteratura o fumetto,
nascita della serialità d’autore
ibridazione e contaminazione tra generi diversi[194].
Ciò che si cerca di realizzare, concentrando il massimo rigore nella narrazione del singolo episodio, è un’opera che abbia una sua dignità a prescindere dalla trama stessa che, spesso, vive di espedienti sistematici e ripetitivi per tenere a sé il fruitore. Escamotage che, in effetti, rischiano di incespicare in quelli che Kafka chiamava controvoce, ovvero un compromesso:
Il testo ha finito con l’apparirmi […] una sorta di compromesso, un luogo dove forze contrastanti (un piano razionale e una rete di pulsioni legate alla storia di chi scrive e alla congiuntura, al qui e ora, di chi scrive) raggiungono un punto di mediazione. Basta, per trovare conferme, la più semplice delle esperienze di scrittura: davanti al bianco (poco importa se del foglio o dello schermo) siamo letteralmente assediati da una serie di stimoli, di tensioni, di tentazioni, dal rischio di non dire quel che volevamo dire, dalle emergenze e magari dalle seduzioni di quella che Kafka chiamava una controvoce sempre pronta a conquistarsi – sia pure in modo intermittente – la parola. […] La nostra mano è alla lettera circondata, minacciata da ogni parte[195].
Spesso, anche per darsi un’impronta editoriale non generalista, aziende come Netflix o Amazon affidano interi progetti a registi, sceneggiatori e attori, più o meno già conosciuti nel settore cinematografico che, a loro volta, dimostrano di aver colto non solo l’importanza del mezzo, come possibilità creative, ma anche di poter intavolare un discorso tutto puntato sulla qualità. La differenza tra Cinema e televisione va sempre più assottigliandosi al punto che parlare di TV sarebbe riduttivo.
Non a caso, una serie antologica come quella già citata di Black Mirror, nel 2017, con l’episodio San Junipero della terza stagione vince un significativo Emmy Award come “miglior film per la televisione”.
A parte la prima stagione, in cui gli episodi sfiorano i sessanta minuti, a partire dalla seconda, quelli prodotti da Charlie Brooker per la Endemol, sono dei veri e propri film.
È chiaro e tautologico, come sottolinea intelligentemente Chiara Checcaglini, che paragoni di questo tipo, volti a legittimare un genere o una forma d’arte, attraverso il paragone con altri, siano atteggiamenti non casuali e comunque tipici di una letteratura comparata: è capitato con la fotografia, attraverso la pittura, oppure con cinema e teatro.
E questa prassi continua, in questa sede, attraverso continui rimbalzi tra cinema, letteratura e serie TV. D’altronde, proprio questo reiterato confronto tra le parti ha permesso, grazie anche al consolidamento delle reti cable e degli specifici studi di settore, alla quality (o complex television secondo la proposta di Mittel, tenendo come criterio quello della valorizzazione e non un mero giudizio di valore) di diventare un vero e proprio supergenere, facendo sì che strutture, temi, motivi e topoi dell’una confluissero negli altri.
La corsa alla differenziazione costante, l’idea di produrre opere per un determinato pubblico indottrinato alla serializzazione di qualità, con personalità ed identità chiare, ha spinto la concorrenza a fare altrettanto. Pilota e punto di riferimento continuo – va ricordato – è la Narrazione, ed è lungo questa traiettoria che i topoi narrativi proseguono, secolarmente, ogni volta, a comporsi, scomporsi e rigenerarsi, se non altro perché proprio
la storia della serializzazione del prodotto culturale è in primo luogo la ricostruzione del meccanismo, delle dinamiche e delle ragioni storiche mediante le quali un racconto si modella, segmentandosi, sulla forma del supporto che lo contiene[196],
scrive la Cardini che, implicitamente ma consapevolmente, cita Benjamin, dimostrando, infine, che la serialità dimostra, sulla base della ripetitività «su cui si può esercitare via via il proprio potere di trasgressione»[197], grammatiche e dinamiche narrative costanti.