Solitudine o condivisone? Rapporto del fruitore col fatto narrato

Nell’introduzione di questo lavoro e, in particolar modo, nel primo capitolo, si è detto di voler tentare un’analisi sulle condizioni fisiche ed emotive del Narratore benjaminiano, quello capace di puntare su di sé l’attenzione di ascoltatori, lettori e (radio)spettatori, e si è mostrato quanto di nuovo gli è stato messo a disposizione dalle nuove tecnologie.

Si è analizzato il rapporto, tra colui che narra (A) e la materia narrata (B), mettendo in luce mediamorfosi e trasformazioni.

Ci si è lambiccati, soprattutto, per provare a capire se è applicabile al nostro Narratore, con buona dose di reinterpretazione, la massima gattopardiana secondo cui bisogna cambiare tutto per non cambiare niente. Probabilmente, però, per scoprirlo fino in fondo, bisogna tornare a volgere ora lo sguardo – come si è già parzialmente fatto nel capitoletto dedicato al terzo incomodo – all’altro partecipante di questo triangolo di relazioni, proprio a colui il quale sono rivolte le storie narrate: il fruitore (C). E non tanto per la sua capacità, di cui si è già abbondantemente parlato, di essere riuscito, nel tempo, ad influenzare la produzione partecipando a tutti gli effetti al fatto creativo, quanto sulla modalità stessa di fruizione.

Ciò che in particolar modo si è evidenziato è che

il consumo delle nuove serie, specie se in streaming, è una faccenda privata, difficilmente condivisibile nell’atto di compiersi. In ciò si distingue dai rituali di visione collettiva tipici dei vecchi telefilm (E.R., House e Sex and the City erano e sono più godibili in compagnia), delle serie di prima e seconda generazione, di alcuni cartoni animati di culto come I Simpsons e derivati, e delle sit-com tuttora in auge presso il pubblico degli adolescenti (da Friends a How I Met Your Mother a The Big Bang Theory)[198],

scrive la Pisanty che sottolinea che le colpe sono da attribuire solo in parte al cambio del canale di trasmissione:

La televisione tradizionale impone i suoi ritmi ai telespettatori che non solo si organizzano per essere puntuali per l’appuntamento con i programmi preferiti, ma contano sulla visione concomitante da parte di altri affezionati fruitori per scambiare con essi le impressioni dell’indomani (“hai visto ieri…?). Viceversa la libertà di costruire il proprio palinsesto bulimico scoraggia la socialità immediata che si gioca sulla compartecipazione simultanea dei contenuti, anche per la serialità continua delle fiction più rinomate che si fonda largamente sul susseguirsi incalzante di plot twists e colpi di scena, ragion per cui lo spettro dello spoiler aleggia su ogni conversazione (“non mi dire niente!”)[199].

In realtà, è questo un problema marginale. La Pisanty stessa evidenzia come l’interazione dei fruitori si sia di fatto spostata dagli avvenimenti della trama a considerazioni generali sulla dipendenza da serie, sulla loro indiscutibile qualità, alla classificazione di quelle preferite, allo scambio di informazioni sui nuovi prodotti, alla condivisione e al commento dei momenti topici – rigorosamente – a fine stagione (che può essere consumata nell’arco di pochi giorni e quindi parlarne a distanza di poco tempo).

Si è già marginalmente citato il saggio Il piacere della lettura, scritto da Proust come introduzione al lavoro di Ruskin, Sesamo e gigli. Qui, la solitudine è condizione sine qua non per apprezzare e interagire con la lettura. È nella propria stanza, in un rapporto diretto con l’opera d’arte, che si consuma il miracolo dell’interazione con essa:

la lettura non può essere assimilata così a una conversazione, foss’anche con il più saggio degli uomini; ciò che differenzia essenzialmente un libro da un amico non è la maggiore o minore saggezza, ma il modo in cui comunichiamo con loro: la lettura infatti, al contrario della conversazione, consiste per ciascuno di noi nel venire a conoscenza del pensiero di un altro senza smettere di essere soli, vale a dire continuando a godere del vigore intellettuale che si ha in solitudine, e che la conversazione dissolve immediatamente, continuando a restare ispirati, in pieno lavorio fecondo della mente su se stessa[200].

Anche in Proust la conclusione di un romanzo è un trauma: «Avremmo tanto voluto che il libro continuasse e avere altri ragguagli su tutti quei personaggi»[201], aggiunge, evidenziando un procedimento tipico per il cultore del seriale, cioè quello di continuare ad essere partecipi di una finzione che si è creduto reale. Un passo molto più dentro al racconto, se paragonato alla celebre frase di Salinger in cui dimostra di tenere ben chiara la distinzione tra fictio e vita reale, tra fatto narrato e il suo creatore:

Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira[202].

Piuttosto, c’è da chiedersi se c’è differenza tra culto e dipendenza se, come ha notato Ugo Volli, l’atteggiamento del cultore seriale sembra feticisticamente «miope e selettivo»[203].

La Pisanty ritiene la rilettura un test rivelatore:

Per il consumatore coatto l’interesse si esaurisce con la visione di un episodio che stimola il bisogno irrefrenabile di cliccare su quello successivo, e così via fino al prosciugamento delle risorse[204],

atteggiamento che potrebbe anche coincidere con quello del lettore o ascoltatore classico, curioso di sapere com’è che va a finire. Si ri-legga, a tal proposito, quanto già scritto sugli ascoltatori della storia narrata dal protagonista de Il viaggore incantato di Leskov.

Motivo per cui, sono tanti gli spettatori che temono lo spoiler, ovvero che qualcuno anticipi loro parti importanti della storia, se non proprio il finale: questo perché il singolo fruitore vuole immedesimarsi, con i propri mezzi a disposizione – occhi, anima, vissuto e capacità interpretative – nel racconto per intero, non solo perché vuole restare, fino all’ultimo, sospeso e curioso, ma anche perché vuole arrivarci senza il filtro di chi lo ha già visto (a suo modo), a dimostrazione che il pubblico, nell’era dei nuovi mezzi di diffusione dell’opera d’arte, ha ancora voglia di bei racconti e non vuole farseli rovinare da nessun Messere boccaccesco.

In questo caso, la lettura dipende anche dal fascino dell’intreccio accelerato e

al contrario, il cultore si sente a casa nel mondo della sua fiction di elezione e ci ritorna più e più volte per familiarizzarsi con ogni rifinitura e ogni intercapedine di un ambiente che ama in modo assoluto ed esclusivo[205],

con casi di fruitori che rifiutano di seguirne sequel di qualsiasi tipo.

Altro particolare atteggiamento del dipendente seriale è la complessa interazione che si viene a creare con i personaggi della serie TV, soprattutto per quei personaggi ritenuti particolarmente diseducativi.

«Si tratta di extraordinary people in extraordinary situations con cui a rigor di logica dovrebbe essere difficile identificarsi».

L’antieroe, infatti, è un elemento caratteristico soprattutto della Golden Age:

Si tratta di un protagonista privo delle caratteristiche più tradizionali dell’eroe in tutto e per tutto positivo che viene ad essere in un certo senso sporcato da caratterizzazioni negative, per intenderci quelle che siamo abituati a vedere attribuite alla figura di un tradizionale antagonista[206].

Se volessimo stare alla Morfologia della fiaba, di Propp, in ogni racconto, l’antagonista è semplicemente colui che, indifferentemente se è un orso o una strega cattiva, a prescindere quindi dalle sue caratteristiche fisiche, muove un’azione contraria a quella dell’eroe-protagonista, rallentandone le azioni attraverso tutta una serie di escamotage. In un’ottica di questo tipo, è normale prendere le parti di chi è destinato a raggiungere la bella principessa rinchiusa in un castello incantato e quindi rivolgere tutte le proprie antipatie verso chi prova a mettergli i bastoni tra le ruote. E tuttavia,

il concetto di antieroe è infatti molto più complesso e articolato, e presenta molteplici ambiguità e sfumature. Il termine è stato utilizzato per la prima volta da Dostoevskij in Memorie dal sottosuolo nel 1864 per identificare il carattere del protagonista, alla ricerca dell’umiliazione e dell’autodistruzione in un estremo tentativo di ribellione alla realtà che lo circonda[207].

Ciò che accade nelle serie TV di quella che viene definita terza era della Golden Age, è una “sfoltatina” ai rigorosi parametri delineati da Propp, se non un effettivo accostamento dei generi:

Riprendendo la celebre distinzione di Edward M. Forster da lui impiegata per distinguere le diverse modalità di costruzione del personaggio, piatto vs. tondo (flat vs. round character), possiamo dire che i due poli assoluti, da un lato quello dell’eroe piatto, “senza macchia e senza paura”, e dall’altro del villain altrettanto piatto (totalmente cattivo senza sfumatura alcuna), si avvicinano e si mescolano permettendo la costruzione di un personaggio più complesso e articolato, di fatto tondo (un round character)[208].

Si è di fronte alla rottura degli schemi, al tentativo di raccontare una storia senza opposizioni tra bianco e nero, ma alla Commedia dell’Arte, alle maschere, subentra la vita dei personaggi con tutte le loro sfumature positive e negative. È la ribellione di White alle ingiustizie della sua vita. È il disperato tentativo di Ted, in How I Met Your Mother, di uscire fuori da una vita altrimenti ordinaria, attraverso il disperato abbraccio di vita e morte, bellezza e brutture.

La questione dell’empatia e della fidelizzazione col personaggio negativo è spesso al centro del dibattito degli ultimi anni. Il problema è di tipo etico e, a rigor di logica, considerate le premesse di questo scritto, ciò che si sta realizzando in questa nuova stagione della serialità sembrerebbe uscire fuori dal solco dell’utile.

La fine delle grandi narrazioni nella postmodernità porta con sé la fine delle grandi prospettive etiche unitarie, o quantomeno la difficoltà rappresentata dalla loro difficile convivenza[209].

Viene qui in mente lo scrupolo etico-religioso di Tasso e la riscrittura della Gerusalemme o, più vicino a noi, quanto detto su autori sporchi nel loro sadico cinismo come Bukowski e Céline, per citarne un paio.

Ciò che si realizza tra fatto narrato e fruitore è una sospensione del senso di immoralità, «vale a dire una sospensione e relativo distacco da parte dello spettatore dal senso della consueta concezione etica relativa ad eventi reali»[210], un meccanismo tipico delle strutture retorico-discorsive che rientrano nelle logiche del patto finzionale.

Volendo tenere in considerazione la classificazione dei registri narrativi aristotelici, al di là delle due categorie usate per distinguere comedity e drama, in un certo senso, stando ai lucidi ragionamenti di Bernardelli, accanto a questi andrebbe considerata quella della tragedia:

Il villain tragico shakespeariano è caratterizzato proprio da un tipo di costruzione del personaggio che non cerca assolutamente alcuna complicità o coinvolgimento emotivo, né tantomeno etico, con lo spettatore. Quella che si ottiene nei casi menzionati è una presa di distanza dall’eroe tracio negativo, che suscita pietà e orrore, ma non certo empatia (provare le stesse emozioni) né simpatia (condividere lo stato d’animo del personaggio). Nella tragedia shakespeariana non esiste tentativo di giustificazione agli atti del personaggio negativo, il suo passato non viene in soccorso del personaggio; l’unica sua possibile redenzione consiste nella morte[211].

E tuttavia, se da un lato l’etica shakespeariana, basata anche su pose e posizioni classicamente proppiane dei personaggi, usa la morte dell’antagonista per giungere all’agnizione dell’intreccio, si pensi anche al finale di stagione di Breaking Bread e alla morte del giovane eterno, Dorian, per ricorrere a un parallelismo già usato nel precedente paragrafo.

Durante tutta la narrazione, il passato è continuamente richiamato per giustificare le azioni immorali dei protagonisti, eppure pare che certe azioni non possano che portare alla morte, spesso cruenta, dell’antieroe.

Black Mirror torna nuovamente in aiuto: nel terzo episodio della quarta stagione, Crocodile, il topos dell’omicidio stradale occultato che ritorna dal passato, dopo anni trascorsi tra rimorsi e tentativi di dimenticarlo, è deus ex machina di una lunga serie di omicidi a catena compiuti dalla protagonista. L’antieroina è costretta ad indossare i panni della morte, arrivando ad uccidere anche un neonato, perché una specie di macchina della verità che analizza i ricordi rende chiunque testimone anche involontario di un determinato crimine. Ad inchiodarla, saranno i ricordi di un criceto che non aveva visto, a dimostrazione che la morte è ancora punizione per i cattivi e che una certa morale è sempre presente nelle narrazioni contemporanee. Ancora in Black Mirror, parlando di topoi narrativi, nell’episodio già citato della quarta stagione, Uss Callister, quello del ragazzo bullizzato, verso il quale si è solitamente solidali, viene rovesciato: dopo un primo approccio empatico col protagonista, è lui stesso a diventare bullo, seviziando a piacimento i suoi prigionieri, riproposizioni virtuali ma senzienti di chi, nella quotidianità, non si era ben comportato con lui.

Paradossalmente, è in una tragedia antica come la Fedra di Seneca che c’è una maggiore partecipazione alle emozioni dell’antieroina. La sentenza è chiara, è la stessa protagonista ad autoflagellarsi per colpe ben chiare anche al lettore, e tuttavia è spontanea l’empatia con uno dei protagonisti più discussi dalla critica letteraria.

A proposito del meccanismo della catarsi Warshow sottolinea come la figura del gangster ci porti ad una sorta di duplice soddisfazione: da un lato partecipiamo della ferocia e del sadismo del gangster (l’atto di ribellione alla società), ma per vedere in seguito tale violenza rivoltarsi contro lo stesso personaggio (nella vendetta per la sua ribellione[212],

come a voler svegliare il fruitore dalla sospensione morale e sollevarlo da qualsiasi partecipazione ai piaceri meschini del villano.

Dall’altro lato, l’utilità, secondo Bernardelli, piuttosto che mostrare una moralizzazione spicciola e scolastica, del tipo “A è il buono, ciò che non è A è cattivo”, starebbe nell’offrire allo spettatore, ormai alfabetizzato e avvezzo alle maschere chiuse, la possibilità di analizzare nel dettaglio e con più consapevolezza atteggiamenti, azioni e conseguenze morali di ogni protagonista. È, in pratica, la responsabilità di partecipazione garantita al fruitore – quella tanto bramata da Benjamin – di andare oltre il punto indicato dall’artista e scoprire, autonomamente, ciò che si cela nella psiche dei protagonisti, quel non-detto, di cui si è già scritto, intuito/inventato da Montaigne nei racconti di Erodoto.

D’altronde, il perché male, morte e sangue caratterizzino le narrazioni contemporanee, è stato lo stesso Benjamin a suggerircelo, circa un secolo prima, in una nota alla versione D:

Il cinema è la forma d’arte che corrisponde al pericolo sempre maggiore di perdere la vita, pericolo di cui i contemporanei sono costretti a tener conto. Il bisogno di esporsi ad effetti di choc è un tentativo di adeguazione dell’uomo ai pericoli che lo minacciano. Il cinema risponde a profonde modificazioni del complesso appercettivo – modificazioni che nell’ambito dell’esistenza privata sono subite da ogni passante immerso nel traffico cittadino, e nell’ambito storico da ogni cittadino dei nostri giorni[213].

E quindi, se nel suo Narratore asseriva che il graduale allontanamento della morte dalle strade, dagli occhi e dalla consapevolezza dell’uomo, l’eccessiva igienizzazione della vita, significava la fine di una particolare narrazione, ecco che il Cinema, o meglio le narrazioni visuali, serie TV comprese, rappresentano la chiave di volta, la spinta per far chiudere il cerchio, offrendo il rimedio per il ritorno ad una visione della vita più ampia e profonda.

E a proposito di figure eroiche non perfettamente conformi al politicaly correct, The end of the fuck*** world, serie TV originale Netflix, è il caso più eclatante degli ultimi mesi. I protagonisti sono due adolescenti, un ragazzo ed una ragazza, affetti da evidenti disturbi mentali che commettono vari crimini e che, però, riscuotono quasi da subito la simpatia dei telespettatori. Una versione rivisitata di Bonni e Clyde che sfrutta l’utilizzo di due narrazioni in prima persona ma con tempi storici differenti, per esporre, di fatto, la stessa trama (se non con leggere inclinazioni di prospettive diverse): imperfetto per il ragazzo, presente storico per la ragazza. Una via per far sì che il telespettatore non resti al di fuori della narrazione, semplice osservatore dei fatti, ma entri lungo la loro strada, più specificamente nella loro testa, dietro le pupille, per vedere attraverso i loro occhi.

Interessante, però, è anche la prospettiva della Pisanty, secondo cui l’identificazione con certi personaggi, al punto da trasfigurarsi nei loro avatar testuali, avvenga maggiormente

non tanto nei confronti dei protagonisti, troppo idiosincratici perché ci si possa veramente riconoscere in essi, quanto dei loro più abbordabili amici del cuore[214].

L’autrice riporta, come esempio, Watson di Sherlock Homes, ma potremmo ricordare Jessie di Breaking Bad, Barney in How I Met Your Mother o anche Pacey Witter, che in una delle serie TV per adolescenti più famose dell’ultimo ventennio, Dawson’s Creek, ha conquistato la simpatia di tanti telespettatori, più dell’omonimo protagonista.

Nulla di nuovo, si potrebbe obiettare. La letteratura è piena di personaggi secondari (dal Marlowe di Conrad a Nick Carraway di Fitzgerald) che focalizzano le imprese di protagonisti larger than life. Non fosse altro che, rispetto ai romanzi, la serie di ultima generazione introducono un importante elemento di discontinuità: l’alta percentuale dei decessi di protagonisti e comprimari in corso d’opera, cioè non nella fase dello scioglimento, bensì nel bel mezzo dell’azione narrativa. […] è risaputo che da qualche anno gli spettatori sono sottoposti a frequenti traumi di separazione[215].

Traumi che possono indurre laureandi a scrivere addirittura un lavoro di tesi sul rapporto ancora stretto tra il narratore, che vuole raccontare storie nuove, irripetibili e solide, e il fruitore che non vede l’ora di ascoltarle, pur di non accettare la separazione. E si arriva, così, all’ultimo capitolo di questo lavoro.