Ho cercato, con passione e cuore, di seguire le indicazioni di Benjamin e imparare a leggere le impronte del narratore, arrivando così a constatare che il già collaudato ed intenso rapporto tra letteratura e audiovisività trova la sua continuità sotto al cappello stesso della narrazione e i suoi molteplici meccanismi. Parrà banale ma, di fronte a certe resistenze, ho voluto intendere che alla base di un film o di una serie TV non c’è semplicemente la letteratura, a cui comunque è strettamente legata, ma il piacere puro del racconto: che sia una poesia, un quadro, un musical o una canzone.
In questa ottica, il narratore, a fronte di quanti lo hanno ritenuto morto, è in realtà vivo e vegeto, capace di stare al passo con le evoluzioni dell’umanità e del suo eterno bisogno di raccontare ed ascoltare storie. Capace di utilizzare tutti i nuovi media, conquistando multidimensionalità infinite, il nostro narratore, se non lo si vuole definire, perché temine troppo freddo, un cyborg che ha sostituito parti del suo corpo organico con nuovi elementi digitali, è di certo un highlander ultra centenario capace di reinventarsi e sopravvivere all’evoluzione della specie.
Con How I Met Your Mother, Carter Bays e Craig Thomas, mettendo in gioco tutte le tecniche possibili del racconto, che qui ho analizzato in gran parte, è come se avessero voluto rinsaldare il rapporto tra narratore e pubblico, offrendoci un racconto solido, utile ed irripetibile.
Su quest’ultimo concetto vorrei nuovamente soffermarmi per chiarirlo meglio: per irripetibile si intende ovviamente un qualcosa che non solo non potrà più ripetersi nuovamente ma nemmeno che è replicabile in serie, nel senso industriale del termine: la storia di Ted è una e una soltanto.
Eppure, la narrazione tutta è piena di esempi di storie le cui trame ripetono canovacci già conosciuti. Lo stesso How I Met Your Mother, per quanto gli sceneggiatori abbiano dichiarato si sviluppi sul loro vissuto, certamente ricorda altre sit-com, la più famosa delle quali, come ho già scritto, è Friends. In che misura questa ripetizione possa comunque risultare irripetibile è comunque definito – se vale l’idea che l’inventio non è altro che capacità retorica di ridisporre ad arte un materiale già alla portata di tutti – dal gioco spesso proficuo della riscrittura e di un citazionismo che non sia pedante o pura parodia. Intorno a Ted vive un mondo di fantasmi provenienti da altre storie, citazioni incastonate solidamente in un racconto che, se anche ricorda qualcos’altro è per il semplice fatto che si è voluto raccontare, per consiglio e utilità, di umanità e sentimenti universalizzabili se non già universali.
Ciò che ho tenuto a ribadire è che il piacere umano di ascoltare storie, fantastiche, reali, riscritte o inventate daccapo, resta un elemento imprescindibile del modo di vivere dell’uomo.
Lo dimostra, a mio modesto pare, un gioco da tavolo come Dixit, prodotto nel 2010 dalle aziende Libellud e Asterion Press, in cui è centrale la figura del narratore: il gioco è caratterizzato da carte illustrare a cui ogni giocatore deve legare una storia. In ogni turno, uno dei giocatori fa da narratore e sceglie una carta dalla propria mano e, attraverso una frase o un suono, cerca di raccontare la storia che ritiene più o meno legata all’immagine raffigurata. Dalla voce all’immagine e viceversa, nella più classica ma ludica ekphrasis! A quel punto ogni avversario deve scegliere una carta tra le proprie che più si avvicini al tema della frase pronunciata dal narratore. Testo e immagine continuano così a rimanere legati, perpetrandone la tradizione.
O ancora, durante una recente esperienza di lezione sulle modalità di scrittura, come esperto dell’associazione culturale musicale illimitarte, agli studenti della Terza “E” del liceo musicale “Rinaldo D’Aquino” di Montella (AV), impegnati a realizzare un musical, per il progetto di alternanza scuola-lavoro, ho avuto modo di appurare che molti dei ragazzi, se non la totalità, dopo aver ideato i personaggi, sulla base delle teorie di Propp, per muovere la narrazione del racconto, avevano pensato ad una voce fuori campo: non importa qui dire se il narratore pensato fosse il protagonista stesso ma invecchiato (come il nostro Ted), uno dei figli, un testimone o cos’altro; resta che, anche tra i più giovani, l’immagine del narratore, benjaminiamente alla “vecchia maniera”, continua a stuzzicare la fantasia anche dei più giovani.
Infatti, neppure oggi, in un’era che per molti pare volerci allontanare e nascondere nei nostri appartamenti, inghiottiti dalle tecnologie e dai social, possiamo fare a meno di raccontare storie.
Ne è una chiara dimostrazione la possibilità di Facebook, Whatsapp ed Instagram, non solo di poter postare tutto ciò che si vuole, in un vanesio tentativo di fare della propria vita un racconto quotidiano, ma anche di poter fare delle storie attraverso la camera dei propri smartphone. Sempre più utenti utilizzano i social come veri e propri blog tramite cui pubblicare foto, disegni, video e canzoni. Si tratta, per lo più, di pochi secondi ma, tralasciando la questione meramente psicologica dell’abuso di tali dispositivi, ciò che però è interessante è il ponte che questi possono comunque creare tra un singolo e più pubblici.
Ovviamente, le cose sono molto più complesse: molti social, ma in particolar modo Facebook, sono strutturati attraverso degli algoritmi, che potremmo definire, riassumendo ai minimi termini, un sistema di sinapsi digitali, che non sempre permettono al singolo di diffondere al massimo ciò che pubblica. In pratica, l’algoritmo sceglie quale elemento pubblicato possa raggiungere il massimo del trand sul social, in base a particolari parametri non sempre chiari. Per il narratore del futuro, per meglio veicolare il suo racconto, l’utilizzo di questi attrezzi e la danza comunicativa che ne deriva, al passo di algoritmi e medialità, sarà, se non lo è già, la sfida più grande da superare.
È quanto ho potuto appurare anche durante il corso di perfezionamento, Startup Music Lab, ideato dal professore Raffaele Savonardo, presso il dipartimento di “Scienze Sociali” dell’Università di Napoli Federico II, finanziato da Siae e Mibact, nell’ambito del progetto “Sillumina”. Qui ho potuto confrontarmi con alcuni dei più grandi esperti italiani di social management, imparando quali nuovi mezzi un artista è costretto a conoscere se davvero vuole veicolare al meglio i propri lavori.
Nel titolo di questa conclusione ho menzionato il nome di un mio lavoro discografico, Il Gallo Canterino, un lavoro realizzato grazie all’associazione culturale musicale illimitarte, nel 2014.
Per la promozione di questo disco e in generale di tutti i miei lavori, dal romanzo Il ciclo della vita (Statale Undici, 2010) alla raccolta di brevi racconti Mangiando il fegato di Bukowski a Posillipo (La Bottega delle Parole, 2017), passando per i singoli che anticipano l’uscita del prossimo lavoro discografico, pubblicati sempre con illimitarte, L’Ombroso e L’era dei cd invenduti (Essere Normale), ho battuto diverse strade, molte di queste in contemporanea. Dall’uso dei social, studiandone, come ho detto, il più possibile i meccanismi, fino alla pratica del busking, ovvero suonando per strada. Ancora oggi continuo, quando possibile, a partecipare ai maggiori eventi dedicati agli artisti di strada. È questa una possibilità concreta di promozione, garantendo all’artista un contatto vivo e concreto col pubblico che mi ha permesso di appurare che c’è sempre più voglia di nuove storie e che, l’omologato reiterare di vecchi canovacci, senza apportare un minimo di innovazione, alla lunga, stanca.
Ovviamente, le esperienze del sottoscritto fanno riferimento ad una continua e appassionata autopromozione che, se da un lato è fatta con tutte le più grandi intenzioni di essere professionali, dall’altro si scontra col muro delle disponibilità economiche, infinite per la maggiori major. Le possibilità, però, per un artista piccolo e indipendente, per risorse monetarie, non sono comunque scoraggianti.
Come dicevo, l’uso ponderato dei social può permettere a molti progetti editoriali, musicali e non, di poter essere notati ai più. Certo c’è da chiedersi a quanti e, soprattutto, quali di questi più si voglia arrivare: crearsi una fan base che sia partecipe e capace di cogliere le dinamiche e le evoluzioni, sia del fatto artistico sia dell’artista stesso, è un obiettivo da raggiungere al contempo complicato e affascinante per chi, come il sottoscritto, vorrebbe muovere i fili della narrazione in ogni suo campo possibile: ad oggi, mi sono limitato a scrivere poesie, racconti, romanzi, canzoni e testi per videoclip, e tuttavia potrei voler battere altre strade. Non sempre, difatti, il pubblico è in grado di accettare che un solo artista possa avere diversi talenti e, a mia discolpa, ci tengo ad affermare che, in realtà, se di talento si tratta, resta comunque uno soltanto: il raccontare!
La condizione dell’artista oggi è complicata proprio per via delle molteplici strade tramite cui è possibile conquistare la ribalta del grande pubblico che, citando Benjamin, nei tempi dell’alta riproducibilità dell’opera d’arte e dell’alto numero di alfabetizzati, lo rende spesso un invadente collega. Abbiamo visto come, per alcuni autori, il confronto col pubblico è stato fondamentale per la sua stessa crescita e qui non lo si vuole nemmeno mettere in dubbio, tuttavia la storia è piena di censure o autocensure sollecitate dalla paura che il pubblico non potesse capire. Casi recenti come quelli di Charlie Hebdo o, in casa nostra, di Labadessa, dimostrano come il pubblico, al quale si chiede responsabilmente partecipazione e riflessione, non sempre è in grado di rispondere positivamente allo stimolo. In particolar modo, le vignette che avevano come narrazione satirica le vittime del terremoto che ha colpito il centro Italia hanno suscitato l’indignazione dei più. Ora, andando oltre ogni giudizio estetico sulla vignetta, è indubbio che certe immagini possano toccare gli animi più sensibili e, tuttavia, questo è il compito della satira: qui c’è da chiedersi se è davvero ipotizzabile una maggiore comprensione dei pubblici, o se è solo un mirabile e ottimistico auspicio. Di certo, citando Giuseppe Marotta, sono convinto che «i narratori oggi debbono ritrovare il coraggio dei fatti o andarsene al diavolo come ogni altra splendida superfluità»[246], ragion per cui non è l’artista che ha da omologarsi al bel pensiero di chi non conosce né i meccanismi, né il fuoco ardente della creazione del fatto artistico. Al contrario, urge una continuata alfabetizzazione al fatto artistico, a meno che non si voglia continuare ad insistere sull’idea che l’arte non sia per tutti.
L’artista zerbino che non azzarda non solo rischia – se mi è permesso il gioco di parole – di produrre lavori prodotti in fabbrica, ma anche che il pubblico mai verrà svezzato e reso maturo.
Nel mio album già citato, nella canzone Il Motivetto, l’anaforico “si può raccontare”, ripetuto ogni verso, può suonare, al tempo stesso, o come domanda o come un imperativo categorico e, su questo sottilissimo confine, ancora cerco di muovere le mie storie, fatte di grida, calembour e tentativi di porre, in canzone o in prosa, argomenti che possano aprire a riflessioni. Se lungo questo elaborato, fidandomi di Benjamin e di Ted, ho espresso più volte una certa fiducia sulla possibilità che il pubblico possa in futuro partecipare positivamente al fatto artistico, oggi la sfida è ancora aperta ma stimolante.
Oltre ai casi già citati delle riviste satiriche, penso alle polemiche ormai quotidiane che hanno come tema Gomorra, la serie e la relativa influenza che può avere sui più giovani; oppure ai reality musicali e, in generale, a quei programmi in cui gli artisti vengono giudicati da un pubblico eterogeneo non sempre alfabetizzato a capire ciò che hanno di fronte. Nel primo caso, la sospensione del giudizio morale è un tentativo, a mio modesto parere, a grandi linee riuscito, di responsabilizzare il fruitore di fronte al fatto narrato; nel secondo, non vale più la risposta di chi ritiene i reality tv una mera fiera della cultura pop. Sono invece convinto che, se da un lato la pop(ular) ha molto da offrire, senza scadere nel trash, dall’altro è ancora possibile educare il fruitore medio.
Se da un lato, le serie TV ci stanno quasi riuscendo, dall’altro, nella musica ancora c’è da fare.
È vero anche che negli ultimi anni c’è stata una forte sottovalutazione della canzone come produzione artistica e che, in generale, ci si è talmente abituati a consumarne tanta di musica, gratuitamente e in ogni luogo/non-luogo (dalle pubblicità agli effetti sonori cinematografici), che quasi pare non le si dia più un peso specifico, ma è pur vero che i grandi temi politici e sociali degli ultimi trent’anni sono passati e continuano a passare attraverso la struttura canzone.
Ne è un esempio Caparezza, nome d’arte del cantante molfettese Michele Salvemini, su cui tanto andrebbe scritto che non basterebbero altri due libri ma, per l’importanza che dà al testo e al piacere stesso della scrittura, valeva la pena citare alcuni titoli di canzoni in cui, tema centrale, è proprio la scrittura: Abiura di me e China Town su tutte ma, in una canzone che parla di diversità, Io vengo dalla luna, nello special dice:
Scaldati in casa davanti al tuo televisore. La verità della tua mentalità è che la fiction sia meglio della vita reale. Qui invece è imprevedibile, qui non è frutto di qualcosa già scritto. Su un libro che hai già letto tutto[247].
Chiaro che, per un artista che fa della fiction una componente importane del suo essere, a partire dal nome d’arte fino ai mondi da lui stesso creati dentro cui far muovere i personaggi, realtà e verità stanno ad indicare non la mera fotografia del reale quanto la loro creativa analisi, che per un artista dovrebbe essere l’obiettivo principe, anche quando, come scriveva Charles Bukowski, «quello che importa è grattarsi sotto le ascelle»[248]; anche quando, cioè, non si ha l’ambizione di voler moralizzare: “mi credi il messia? Sono problemi tuoi”, canta in Abiura di Me, l’artista di Molfetta.
Caparezza ha dimostrato che ancora oggi è possibile fare della canzone una cellula narrativa per un racconto più ampio. È il caso dei concept album: Dimensioni del mio caos (2008), in cui il cantante immagina, dopo aver distrutto una Fender Stratocaster, di ritrovarsi in un futuro distopico; Il sogno eretico (2011) e 709 (2017) in cuii concepts sono tematici e affrontano, rispettivamente, l’eresia e la prigionia; in Museica (2014), invece, musica e dipinti si fondono in un itinerario lungo il quale l’artista, in giro per musei di tutto il mondo, trae un brano da ognuno dei dipinti che più ama, dando vita, in tal modo, ad alcune delle più originali ekphrasis, per il connubio stretto tra audio, scrittura e opere visive. E d’altronde, a proposito di rappresentazioni audiovisive sempre più vive, ancora in Abiura di me, cantava: “Vado ad un livello successivo, voglio dare vita a ciò che scrivo, sono paranoico ed ossessivo, fino all’abiura di me”. Una dichiarazione di auto-eliminazione che non fa altro che esaltare la figura stessa del narratore.
Per quanto riguarda il sottoscritto, la scelta di questo argomento, come ho anticipato nell’introduzione, è dovuta al molto tempo passato a sporcarsi le mani, l’anima e gli occhi con questo tema.
Ancora oggi, a distanza di anni, nonostante le abbia sentite centinaia di volte, godo letteralmente nel sentire mio nonno raccontare di quando è uscito illeso dall’esplosione della bomba, o di quando, in tempi di fame nera, mentre andava a piedi, da Piazza Municipio a Fuorigrotta, per andare a ritirare il pane, lui ed il fratello trovarono tanti soldi a terra da consentire loro e a tutta la famiglia di mangiare per mesi; o ancora, della cattiveria di Zio Gennarino, delle fughe nei sottopassaggi per scampare alle mitragliate dei tedeschi, del padre, nato a Bitonto, uomo ricco e nobile che niente ha potuto dare ai figli ché, per altre storie bellissime che non ho il tempo di raccontarvi, ha dilapidato tutto il suo patrimonio. Quando ci ritroviamo in famiglia, tutti insieme, sono storie che vengono a trovarci intorno al tavolo, come fantasmi che ogni volta vogliono farci compagnia. Come i defunti di Coco, film d’animazione firmato Pixar, in cui musica e ricordo sono temi intrecciati tra loro, dimostrando quanto ancora sia importante l’esercizio della memoria attraverso il piacere della narrazione.
Il nonno racconta, scrive e riscrive, aggiunge; è quasi certo che i soldi ritrovati per terra non furono tanti da tenerli sfamati per così tanto tempo, eppure nella fantasia rievocata dal nonno, attraverso un bit musicalissimo pieno di senonché, ti dico a te e comunque che tengono unito il parlato, è tutto più che credibile.
Mi piace ascoltare parlare il nonno, che spesso non ha peli sulla lingua e se ha qualcosa da dirti, tra dubbi e poche timidezze del cuore, lo fa senza problemi, restando vero, come pochi.
Alla nonna piace la precisione, centellinare date, occasioni e il colore del vestivo che indossava; parla spesso sottovoce, la nonna, come se ti dicesse qualcosa in confidenza, come se ti stesse donando ciò che di più prezioso ha. Anche quando i ricordi fanno male e parlano di chi non c’è più. Ed io me le tengo care care queste ricchezze e a portata di mano, poiché possono sempre tornare utili.
Ho superato ormai i trent’anni, di cui dodici, cioè da quando ho preso piena consapevolezza della mia passione, passati a scrivere e a leggere e studiare mattamente e disperatamente. Molti credono che per essere un artista di successo si debba passare per i grandi numeri ma, pur provandoci ché anche gli artisti devono pagare le bollette, il vero successo risiede nel fare, con lucida consapevolezza, il percorso che si è scelto più giusto per sé. Oggi, se da un lato i mezzi di diffusione sono davvero tanti, è pur vero che questi vanno intasandosi di un numero sempre più elevato di scrittori, sceneggiatori, cantanti, parolieri, fotografi e videomaker. O presunti tali.Spesso, ciò che pare manchi, a chi si avvicina all’arte, è un approccio critico. Un tempo, i critici – quelli colti, preparati ed equilibrati, anche quando troppo severi – avevano almeno il merito di insinuare, nell’artista negativamente criticato, un minimo di dubbio. Sacrosanto per chiunque, figuriamoci per un creativo. Avere dubbio non significa insicurezza. Creare è un proiettile, un lampo che non può permettersi tentennamenti. Eppure, il critico poteva, in un gioco di botte e risposte, sollecitare al gioco stesso della creazione. Oggi, invece, sempre più vittime – ma spesso anche seviziatori/creatori del sadico meccanismo – della virilità a tutti i costi, inseguono il like facile, speculando sulla band popolare del momento che si ritrovano, come unico interlocutore, i loro stessi fan. Il rischio è che se non c’è, nell’artista, giudizio critico immanente, non ci sarà crescita, né speranza che il pubblico stesso maturi nel suo gusto.
È mia convinzione, fondata su giudizio critico e sul mio percorso personale, che un artista non possa mai permettersi di smettere di esercitare il massimo delle sue capacità intellettuali, e per senso creativo, e per senso morale, nei confronti del fatto artistico stesso. Di questi tempi, poi, l’artista è chiamato ad assumersi responsabilità sociali importanti: anche se disimpegna, politicamente, il racconto ben fatto – e attraverso questo – anche distraendo, può educare al bello.
Credo in questo strumento, credo nel racconto, credo nelle parole, credo nella condivisione e nel dialogo, credo nelle diversità, credo nella bellezza, credo nell’ignoranza che, dotata però di curiosità e passione, può incentivare al movimento, alla voglia di ascoltare, crescere e raccontare. Io, nella mia di ignoranza, voglio lavorare affinché la luce illumini il mio percorso, quello che, anche attraverso questo lavoro di ricerca, ho capito appartenermi, se non altro perché, come mi ha insegnato Ted, bisogna credere fino in fondo in ciò che si vuole.