Per studi, professione, ambizioni e inclinazioni, sono da tempo interessato al meccanismo della narrazione in tutte le sue forme: dal racconto al cinema, passando per il romanzo, il teatro e la canzone.
Senza dimenticare le capacità di chi, a voce, improvvisando o seguendo un canovaccio, riesce a catturare l’attenzione semplicemente raccontando.
Un fascino che, il più delle volte, è ossessione. L’idea che qualcuno abbia qualcosa da raccontare e impegni il suo tempo per trovare la forma migliore per trasmetterlo, come un regalo o un amuleto, è un ingranaggio sociale – qualcuno scriverebbe antropologico – che mi ha sempre ricordato la magia o meglio l’alchimia: trasformare la vita in racconto – realistico oppure no – non è poi molto diverso dal tenace e romantico tentativo di convertire il piombo in oro.
Mi viene da pensare alla leggenda del Vicolo d’Oro, celebre stradina di Praga, situata nel quartiere del Castello. Ufficialmente strada degli orefici, la tradizione popolare – spesso gonfiata qua e là per i turisti – vuole che il Vicolo sia stato abitato, su volere di re Rodolfo II d’Asburgo, da numerosi alchimisti con il compito non solo di trasformare il piombo in oro ma anche di produrre l’elisir di lunga vita e la pietra filosofare.
Al di fuori del mito, consci dell’impossibilità di cavare alcunché dal piombo, se non il saturnismo se troppo esposti, ciò che unisce alchimia e letteratura è il magico processo di falsificazione della realtà. E se ci aggiungiamo la capacità dei Narratori, quelli con la N maiuscola, di perpetrarla in secula seculorum, credere a elisir e simila potrebbe non essere una follia.
D’altronde, non è forse un caso che molti scrittori, tra cui Franz Kafka, abbiano vissuto proprio nelle casine di Vicolo d’Oro.
Uso la parola falsificazione forse con troppa poca cautela ma, per dare maggiore autorità alle mie considerazioni, riporto ciò che scrisse Pirandello:
L’arte libera le cose, gli uomini e le loro azioni da queste contingenze senza valore, da questi particolari comuni, da questi volgari ostacoli, da queste accidentali miserie: in un certo senso, li astrae: cioè, rigetta, senza neppur badarvi, tutto ciò che contraria la concezione dell’artista e aggruppa invece tutto ciò che, in accordo con essa, le dà più forza e più ricchezza. Crea così un’opera che non è, come la natura, senz’ordine (almeno apparente) e irta di contraddizioni, ma quasi un piccolo mondo in cui tutti gli elementi si tendono a vicenda e a vicenda cooperano. In questo senso appunto l’artista idealizza. Non già che egli rappresenti tipi o dipinga idee: semplifica e concentra. L’idea che egli ha dei suoi personaggi, il sentimento che spira da essi evocano le immagini espressive, le aggruppano e le combinano. I particolari inutili spariscono; tutto ciò che è imposto dalla logica vivente del carattere è riunito, concentrato nell’unità d’un essere, diciamo così, meno reale e tuttavia più vero[1].
Narrare significa quindi mettere in piedi un mondo ex novo, sia che si inventino nuovi sistemi, come nel caso di fiabe e fantasy, sia che si rappresenti, più fedelmente possibile, quelli già esistenti. In entrambi i casi, si ottiene un qualcosa che è altro rispetto alla vera realtà.
E se volessimo chiederci cosa si intende per “realtà”, in Una stanza tutta per sé, Virginia Woolf ci risponderebbe:
sembra essere qualcosa di molto vago, di molto inattendibile, che si può trovare ora in una strada polverosa, ora in un pezzo di carta per la strada, ora in un narciso al sole[2].
Si pensi alla tenera e ardita impresa del Naturalismo di voler far coincidere, a tutti i costi, tempo del racconto e tempo della storia, per una ricostruzione più veritiera della realtà. Un po’ come voler chiudere in una bottiglia tutto l’oceano del mondo.
Oltre i buoni propositi e i limitati brillanti esperimenti, vale ciò che scrisse Maupassant: «Raccontare tutto sarebbe impossibile, perché ci vorrebbe allora un volume per ogni giorno».
E allora, ecco il coro dell’Assommoir e dei Malavoglia, forse spartiacque per un percorso narrativo volto ad una lingua di comunicazione vicina «ai toni della lingua media»[3]; e ancora, l’indiretto libero e la massima riduzione del sommario, trucchi e invenzioni per cercare di estrarre l’oro dell’esistenza dal piombo dell’inchiostro.
È per questo innamoramento verso l’arte del racconto, unito all’incontro quanto mai decisivo con il filosofo tedesco, Walter Benjamin, che ho voluto, in un’era di trasformazioni e ri-codificazioni del messaggio narrativo, indagare sullo stato di salute attuale della narrazione e sulle sue evoluzioni.
E se uno dei rapporti più intimi e significativi[4] che la narrazione ha intrattenuto, nell’ultimo secolo, per esempio, è quello col cinema:
[…] il punto di contatto più forte con il discorso letterario è sicuramente dato dalla constatazione che il cinema, diversamente dalle altre arti, condivide con la letteratura, e nello specifico il romanzo, il procedimento stesso della narrazione[5];
cionondimeno, al mondo comunicativo cosiddetto filmico, appartiene anche la Serie Tv:
Nel sistema elaborato da Gaudrault i modi narrativi sono tre: lo scritturale, che usa la scrittura come veicolo semiotico ed è basato sulla narrazione; lo scenico, che coincide in sostanza con il teatro, basato invece sulla mostrazione; e il filmico, appunto che combina narrazione e mostrazione sintetizzando una nuova forma di narratività[6].
L’espediente narrativo dell’incespicamento di Ted, nella comedy televisiva How I Met Your Mother, mette a nudo il gioco tra parola scritta-letta e quella pronunciata-ascoltata su cui poggia gran parte dei sostegni architettonici del racconto seriale filmico. Il ricordare, anche male, come sono andati gli eventi, riaccartocciarli e renderli credibili per il suo pubblico, tutto poggia su una serie di details preziosissimi utili per tenere stretti, in maniera coerente, episodi e stagioni.
Il Narratore mediamorfizzato trova genesi e conferma nel reiterato ripetersi di topoi e isotopie, parallelismi che fungono da marcatori chimici, fari nel buio, che tengono vivo il gioco narrativo con lo spettatore: parole-chiave, battute, sketch, modi di dire, oggetti. Elementi che, se per Propp sono di rito per arrivare all’happy-end della favola, nel racconto seriale diventa il passaggio obbligato, non più tanto segreto, per tenere unite, dentro «lo scialo di triti fatti» del quotidiano, le stanze del racconto moderno.
Come con le distanze che Kemal ne Il museo dell’innocenza di Pamuk cerca di accorciare, il quotidiano diventa non solo l’unico contenuto possibile ma anche struttura, forma che trova la sua paradossale totalità nei frammenti. Il tempo narrativo è quello del giorno per giorno. Procede ciclicamente e per accumulo. Le cose, e il quotidiano in cui sono immerse, nel loro ritornare ed essere nodi, acquistano una persistenza che travalica la ciclicità dei giorni, giungendo a una sorta di recupero di «quell’aura descritta da Benjamin che congiunge vicinanza e lontananza, familiarità ed estraneità», per dirla con Bodei.
E se il racconto sopravvive sulla carta, si rigenera nella “pellicola” e si fa eterno col ricordo – attraverso la ritualizzazione dell’oggetto e la multidimensionalizzazione del quotidiano narrato – ciò che voglio raccontarvi io è questa meravigliosa lotta alla sopravvivenza.
Buona Lettura