Il Viaggiatore Incantato riesce a tenere alta la concentrazione del suo pubblico perché è la sua esperienza ad interessare. Sapere com’è che va a finire la storia, per l’ascoltatore che vuole imparare a prevedere gli infortuni inevitabili dell’esistenza, è fondamentale. Questo perché narrare implica un utile, un vantaggio.
Tale utile può consistere una volta in una morale, un’altra in un’istruzione di carattere pratica, una terza in un proverbio o in una norma di vita: in ogni caso il narratore è persona di “consiglio” per chi lo ascolta[32].
«Il consiglio, incorporato nel tessuto della vita vissuta, è saggezza. L’arte di narrare volge al tramonto perché vien meno il lato epico della verità, la saggezza»[33].
Benjamin ne fa quasi un manifesto ideologico e il tetrafarmaco del buon narratore pare essere così caratterizzato da saggezza, consiglio, utilità e autenticità.
Nel capitolo V, lo scricchiolio, l’elemento di disturbo per l’intero ingranaggio narrativo è segnato dalla nascita del romanzo, agli inizi dell’età moderna, e quindi della stampa.
Ciò che si lascia tramandare oralmente, il patrimonio dell’epica, è di altra natura rispetto a quanto costituisce il fondo del romanzo. Il romanzo si distingue da tutte le altre forme di letteratura in prosa – fiaba, leggenda, e anche dalla novella – per il fatto che non esce da una tradizione orale e non ritorna a confluire in essa[34].
Non solo, dunque, il narratore smette di ascoltare e a sua volta non ha più ascoltatori ma, svestendo i panni del recorder, ormai in disparte, indossa quelli del romanziere:
Il luogo di nascita del romanzo è l’individuo nel suo isolamento, che non è più in grado di esprimersi in forma esemplare sulle questioni di maggior peso e che lo riguardano più da vicino, è egli stesso senza consiglio e non può darne ad altri[35].
La comunità, lo stare insieme, origine e fine del narrare, in un processo lungo secoli, lento ma inevitabile, accelerato qua e là dalle crisi belliche, si sfalda.
«Scrivere un romanzo significa esasperare l’incommensurabile nella rappresentazione della vita umana»[36], afferma Benjamin, aggiungendo che «pur nella ricchezza della vita e nella rappresentazione di questa ricchezza, il romanzo attesta ed esprime il profondo disorientamento del vivente»[37].
E se il primo grande libro del genere, capace di esprimere il profondo disorientamento del vivente, attenendoci al filosofo tedesco, è il Don Chisciotte, le cui magnanimità, audacia e disponibilità ad aiutare sono però prive di consiglio e saggezza, il primo vero e proprio esempio di narratore rimasto senza bussola, incapace di comunicare saggezza, perso nel vano tentativo di riempire la carta di umanità, è Gustave Flaubert, «il fondatore e insieme già il culmine di quella letteratura moderna della solitudine e della privazione»[38]. L’ambizione di Flaubert, come scriveva a Luise Colet, amica e preziosa confidente letteraria, era di scrivere
un libro su niente, un libro senza appigli esteriori, che si tenesse su da solo per la forza intrinseca dello stile, come la terra si regge in aria senza bisogno di sostegno; un libro quasi senza soggetto o almeno il cui soggetto fosse, se possibile, quasi invisibile[39].
La storia di Frédéric Moreau è quella di tutta la sua generazione, fallita su ogni fronte: politico, sentimentale ed intellettuale. Un fallimento durato un lungo tempo invisibile, passato via silenziosamente. Flaubert coglie l’abisso dell’età moderna, lo strappo non più ricucibile tra «esistenza e significato che dovrebbe illuminarla, fra vivere e scrivere»[40].
La sensazione condivisa da gran parte degli intellettuali dell’epoca è che il tempo, quello che Proust avrebbe provato a ritrovare, attraverso la sua Recherche, si sia perduto. E non è un caso che è proprio Proust, nel 1906, nella famosa introduzione a Sesamo e gigli di John Ruskin, a sottolineare proprio la pratica della lettura in solitudine. Il testo, che avrebbe dovuto essere un elogio all’autore e alla sua opera, diventa un brillante ed artistico elaborato volto a stroncarne la metafora della lettura come eterna conversazione con l’autore.
Benjamin, a tal proposito, nel capitolo XIV cita György Lukács:
Il tempo – si dice nella Teoria del Romanzo – può diventare costitutivo solo quando è cessato il rapporto con la patria trascendentale. Solo nel romanzo si separano significato e vita, e quindi l’essenziale e il temporale; e si potrebbe dire che l’intera trama interiore del romanzo non è altro che una lotta contro la potenza del tempo… […] Il dualismo di interiorità e mondo esterno può essere superato qui, per il soggetto “solo” se esso scorge […] La visione che coglie questa unità… è l’intuizione e il presentimento del significato non raggiunto e pertanto inesprimibile della vita[41].
Benjamin traccia una scia a suo piacimento, taglia e incolla, da La teoria del romanzo, ciò che a lui interessa per poter condurre in porto la sua tesi: il tempo si è perduto, il rapporto tra narratori e ascoltatori si è strappato e il romanzo non rappresenta altro che la tensione dello scrittore che prova a ricucirne i lembi: «La tensione che percorre il romanzo è molto simile al tiraggio dell’aria che ravviva la fiamma nel camino e accende il suo gioco»[42].
Il romanzo è quindi il tentativo estremo che ha l’uomo di cogliere il senso della vita, di trovare la cruna attraverso cui far passare ago e cotone e riunire così individuo e mondo ma «la ricerca di questo significato non è che l’espressione immediata dello smarrimento con cui il lettore si vede inserito in questa vita indeterminata»[43].
La critica al romanzo è critica alla dimenticanza: è tautologico ma è chiaro che, nel momento in cui la funzione fàtica del linguaggio del racconto, secondo il modello di Jakobson, cambia il canale attraverso cui passa il messaggio, cioè dalle bocche dei narratori alle pagine del libro, «si perde la facoltà di ascoltare, e svanisce la comunità degli ascoltatori»[44].
Leggere richiede silenzio e isolamento. La praticità del formato libro e la lettura a mente sono tra i motivi dell’allontanamento del pubblico dal narratore:
Chi ascolta una storia è in compagnia del narratore; anche chi legge partecipa a questa società. Ma il lettore di un romanzo è solo. Egli è più solo di ogni altro lettore. (Poiché anche chi legge una poesia è pronto a dare una voce alle parole per chi si trova in ascolto)[45].
L’inevitabile conseguenza è che, fissando le storie sulla carta, facilmente consultabile, rileggibile ipoteticamente all’infinito, la necessità stessa di un narratore, di un nonno che racconta della guerra in Crimea o di un amico che ci racconta, a suo modo e con le inevitabili sfumature, una storiella scherzosa, insomma, la necessità stessa dell’ascolto svanisce: «Il rapporto ingenuo dell’ascoltatore con il narratore è dominato dall’interesse di conservare ciò che è narrato»[46].
E a venire meno è il senso del ricordo giacché «l’arte di narrare storie è sempre quella di saperle rinarrare ad altri, ed essa si perde se le storie non sono più ricordate».
Il tempo perduto è quindi il tempo della memoria, il desiderio-inconscio di immagazzinare nella mente, tra una medeleine e una passeggiata tra i fiori di Combray: «Il ricordo fonda la catena della tradizione che tramanda l’accaduto di generazione in generazione. È l’elemento musale dell’epica in senso lato»[47].
Ascoltare, ricordare e trasmettere: l’Abc del buon narratore.
L’attacco rivolto al romanzo è attacco all’analisi psicologica che pare sottrarre storie alla memoria: «Non c’è nulla che assicuri più efficacemente le storie alla memoria di quella casta concisione che le sottrae all’analisi psicologica»[48].
L’abilità degli scrittori ottocenteschi, una delle novità fondamentali introdotte dal romanzo – in particolare ricordiamo, con due diversi atteggiamenti, Maupassant e Bourget – è proprio la capacità di scavare nelle profondità dei personaggi.
Benjamin, al contrario, dicevamo, pare quasi ricalcare quanto ebbe scritto Voltaire nel suo Dictionnaire philosophique:
I libri più utili sono quelli in cui i lettori fanno essi stessi metà del lavoro: penetrano i pensieri che sono presentati loro in germe, correggono ciò che appare loro difettoso, e rafforzano con le loro riflessioni quello che sembra loro debole[49].
Questo non significa, tuttavia, lavorare superficialmente: nel capitolo IX de Il Narratore, Benjamin cita direttamente una lettera del suo Leskov: «La scrittura non è per me un’arte libera, ma un mestiere»[50].
Voltaire, col suo racconto filosofico voleva sollecitare il «senso critico del lettore, chiamato a supplire all’implicitezza che la brevità comporta»[51].
L’incompiutezza del racconto, la possibilità che l’ascoltatore o il lettore possa intervenire nel gioco della narrazione, ascoltando, ricordando, interpretando, riproducendo, tra tagli o aggiunte, sono sottolineate da Walter Benjamin nel celebre esempio del quattordicesimo capitolo del terzo capitolo delle Storie di Erodoto, il primo narratore greco: il re persiano Cambise, sconfitto il collega egizio Psammenito, gli impose di passare lungo la strada dove si sarebbe svolta la cerimonia trionfale dei Persiani. Da qui, il Psammenito, oltre all’umiliante processione, sarebbe stato costretto a vedere la figlia ridotta in schiavitù e il figlio mandato al patibolo ma, mentre il suo popolo gridava lamentandosi dello spettacolo indegno, lui arriva a mostrare la sua profonda tristezza solo quando vede, tra i prigionieri, uno dei suoi servitori.
Da questa storia si vede di che natura sia il vero [il corsivo è mio, N.d.A.] racconto. L’informazione si consuma nell’istante della sua novità. Vive solo in quest’attimo, a quest’attimo deve interamente consegnarsi e spiegarsi senza perder tempo. Non così il racconto: questo non si esaurisce. Esso conserva la propria forza raccolta e sa dispiegarsi anche dopo lungo tempo. Così Montaigne è tornato sul racconto del re egizio e si è domandato: perché si lamenta solo alla vista del servitore?[52]
Il lettore è costretto così a partecipare al gioco della metafora vuota, a riempire lo spazio bianco di una domanda senza risposta, interpretando – è chiaro – a suo piacimento l’insolito comportamento del re.
Quello di Benjamin è un pretesto per avallare la sua tesi. In realtà, Erodoto continua il racconto, risponde anzitempo alle domande di Montaigne. Tuttavia, ci basti ripetere ad alta voce una riflessione nata da quanto detto finora: importante per la narrazione è la capacità di partecipazione del ricevente. Non solo, un racconto capace di non esaurirsi e che «a distanza di anni è ancora in grado di scatenare meraviglia e riflessioni»[53], è un racconto che esercita la memoria, la spinge al ricordo e quindi – infine – produce un utile.