L’utile, in gergo economico, ha a che fare col guadagno. Quindi, qualcosa che crea guadagno, nell’era capitalistica, è qualcosa che può servire per arrivare ad un bisogno materiale.
Al concetto, Benjamin arriva attraverso varie tappe. In definitiva, stabilito che il narratore è colui che riesce a tessere uno stretto legame con l’ascoltatore, attraverso il ricordo, metà del percorso è stato raggiunto. Ora tocca girare la boa e proseguire verso il traguardo.
Nel capitolo XVI, citando Gor’kij, pseudonimo dello scrittore russo Aleksej Maksimovič Peškov, Benjamin dichiara che «Leskov è lo scrittore più fondamentalmente radicato nel popolo e completamente immune da ogni influsso estraneo»[54]. In pratica, ribadendo il rapporto tra nomadismo e stanzialità del narratore, tramite cui tessere relazioni costanti col proprio territorio oltre che con la materia narrata, la ramificazione identitaria col popolo, ceto contadino, marinaio e cittadino, è tipica se non necessaria del Grande Narratore, per dirla con Benjamin che, in un inciso, afferma:
Per tacere della parte niente affatto trascurabile che hanno i commercianti nell’arte di raccontare; essi non dovettero tanto arricchire il suo contenuto istruttivo quanto affinare le astuzie con cui si capta l’attenzione degli ascoltatori. Essi hanno lasciato un’orma profonda nel ciclo delle Mille e una notte[55].
Il filosofo, profetizzando il grande calo del numero di lettori dei nostri tempi, pare voler dare una risposta implicita a coloro i quali ritengo in-utile la pratica della lettura. Perché leggere? A cosa serve?
Il rapporto commercianti-narratori sembra implicitamente implodere in una logica stringente, apparentemente scontata, immanente all’arte del racconto stesso, eppure così vera; Benjamin ce lo suggerisce, quasi sussurrando:
La favola, che è anche oggi la prima consigliera [il corsivo è mio, N.d.A.] dei bambini, dopo essere stata un tempo quella dell’umanità, continua a vivere clandestinamente nel racconto. Il primo e vero narratore è e rimane quello di fiabe. Dove il consiglio era più difficile, la favola sapeva indicarlo, e dove l’angustia era più grave, il suo aiuto era più vicino[56].
Destinando ad altri contesti argomentazioni favorevoli alla lettura di favole e fiabe (Benjamin sembra utilizzare indistintamente i due termini senza differenziarli) anche in età adulta, è chiaro che il consiglio esistenziale che dà Benjamin sia quello di nutrirsi, fin da piccoli, di storie, per poterne fare uso al fine di «affrontare le potenze del mondo mitico con astuzia e impertinenza»[57], e dunque, si legge perché, semplicemente, serve, è utile, quindi è giusto.
Dovere del narratore è quindi quello di restare aggrappato alla vita umana, come se il suo compito non fosse altro che «proprio quello di lavorare la materia prima delle esperienze altrui e proprie in modo solido, utile e irripetibile»[58].
E d’altronde,
se chiudiamo gli occhi e pensiamo al romanzo nel suo insieme, esso appare come una creazione che in un certo senso rispecchia la vita, benché, naturalmente, attraverso semplificazioni e distorsioni innumerevoli»[59],
scrive la Woolf, nel suo saggio romanzato Una stanza tutta per sé, in cui, poco più avanti, specifica che «ciò che chiamiamo integrità, nel caso del romanziere, è la convinzione che ci comunica di dire la verità»[60].
Narrare è un fatto serio, richiede credibilità, innanzitutto, e professionalità ché «possiamo anzi proseguire e chiederci se il rapporto che il narratore ha con la sua materia, la vita umana, non sia anch’esso un rapporto artigianale»[61].
Cosa significa? Significa che, come qualsiasi altro lavoro, anche quello della scrittura richiede una dedizione, sì fuori dal comune ma soprattutto specifica:
La competenza letteraria non viene più raggiunta attraverso una preparazione specializzata, bensì attraverso quella politecnica, e diventa così dominio pubblico[62].
La narrazione, come fiorisce nell’ambito del mestiere – contadino, marittimo e poi cittadino – è anch’essa una forma in qualche modo artigianale di comunicazione. Essa non mira a trasmettere il puro in sé dell’accaduto, come un’informazione o un rapporto; ma cala il fatto nella vita del relatore, e ritorna ad attingerlo da essa. Così il racconto reca il segno del narratore come una tazza quella del vasaio[63].
Scrivere un libro è un mestiere impegnativo tanto quanto quello di un falegname, «c’entrano l’utilità, i desideri della gente, il valore del denaro, e una certa bellezza»[64], per dirla attraverso Baricco. Il gesto dell’artigiano è un gesto che coniuga pazienza, lunghezza, perfezionismo, indifferente al tempo che passa. Viene qui in mente quanto racconta Beatty, capo degli incendiari del comando dei vigili del fuoco, nell’universo distopico inventato da Ray Bradbury in Fahrenheit 451:
Immagina tu stesso: l’uomo del diciannovesimo secolo coi suoi cavalli, i suoi cani, carri, carrozze, dal moto generale lento. Poi, nel ventesimo secolo, il moto si accelera notevolmente. I libri si fanno più brevi e sbrigativi. Riassunti. Scelte. Digesti. Giornali tutti titoli e notizie, le notizie praticamente riassunte nei titoli. Tutto viene ridotto a pastone, a trovata sensazionale, a finale esplosivo[65].
Ciò che colpisce di queste poche righe, pubblicate nel 1953, è che sembrano riverbero di quanto già detto, vent’anni prima, dal filosofo tedesco che, già al VI capitolo del suo Narratore, aveva condannato la nascita dell’informazione, rea di aver dato, dopo il romanzo, la seconda spallata alla narrazione. Ancora oggi, la tendenza di un certo giornalismo a ridurre la notizia a poche righe, il più delle volte riassunte malamente in un titolo sensazionalistico, aggiungendo, sui siti, prima dell’articolo stesso, il tempo di lettura del racconto, per rincuorare il lettore sulla sua breve lunghezza, pare voler dare ragione a Benjamin.
È la nascita del tutto e subito, sintetizzabile col drammatico naufragio del Titanic il 15 Aprile 1914. Ad ammazzare i passeggeri del Titanic non fu l’iceberg, ma la fretta con cui il capitano decise di voler rispettare la tabella di marcia.
Non a caso, Stephen Kern, nel suo Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, fantastico saggio sulle implicazioni della velocità impressa alle società contemporanee dalle nuove tecnologie, usa il Titanic come metafora unificante di tutta la sua dissertazione.
A perdersi è la tolleranza al tempo che scorre lentamente, l’attesa diviene un insanabile senso di colpa. A tal proposito, Benjamin cita Paul Valéry, un totem, al pari di Leskov, i cui pensieri vengono rimescolati, a suo uso e consumo, per ricondurli alla sua logica stringente: «è come se il venir meno dell’idea di eternità coincidesse con la crescente avversione per i lavori lunghi e pazienti»[66]. Chiaro e o-scuro al contempo. La vita, rinchiusa tra velocità e morte, dissipatasi l’idea di una terra promessa radicata in fantasie di eternità, vede rinfacciarsi, dalla morte, la sua stessa caducità:
Se quell’idea sparisce, possiamo inferirne una trasformazione nell’aspetto della morte. E risulta che questa trasformazione è la stessa che ha ridotto la comunicabilità dell’esperienza nella misura in cui l’arte di narrare si avvia al tramonto[67].
Secondo Walter Benjamin, il XIX secolo ha visto una progressiva eliminazione del pensiero ossessivo della morte, cacciandola negli ospedali, nei cimiteri extra moenia, nell’inconscio,nascondendola ai propri occhi:
[…] la società borghese, con istituti igienici e sociali, pubblici e privati, ha ottenuto un effetto secondario che è stato forse il suo principale scopo inconscio: quello di permettere agli uomini di evitare la vista dei morenti[68].
Benjamin pare dire, in un sillogismo al limite tra la spiazzante impertinenza e il saggio consiglio, che escludendo la morte dai circuiti della quotidianità, e quindi dalla vita stessa, materia da cui trarre le storie, viene meno l’origine del narrato:
Ma sta di fatto che non solo il sapere o la saggezza dell’uomo, ma soprattutto la sua vita vissuta – che è la materia da cui nascono le storie – assume forma tramandabile solo nel morente. Come, allo spirare della vita, si mette in moto, all’interno dell’uomo, una serie di immagini – le vedute della propria persona in cui ha incontrato se stesso senza accorgersene –, così l’indimenticabile affiora d’un tratto nelle sue espressioni e nei suoi sguardi e conferisce a tutto ciò che lo riguardava l’autorità che anche l’ultimo tapino possiede, morendo, per i vivi che lo circondano. Questa autorità è l’origine del narrato[69].
Riassumendo quanto detto finora, Benjamin era convinto che doni del narratore fossero la capacità di fare esperienza, la volontà di diffonderla sotto forma di consiglio e la realizzazione epica della verità. A distogliere l’attenzione dalla figura del narratore, invece, tre fenomeni: la nascita del romanzo, l’informazione, la fine del mondo artigiano.
Benjamin ci torna più volte, facendo man bassa dei pensieri di Paul Valéry, quasi come avesse avuto difficoltà a trovare parole più adatte:
L’osservazione artistica – scrive a proposito di un artista la cui opera consiste in figure ricamate in seta – può toccare una profondità quasi mistica. Gli oggetti che essa investe perdono i loro nomi. Ombre e luci formano sistemi e presentano problemi affatto speciali, che non rilevano di nessuna scienza, né procedono da nessuna prassi, ma acquistano tutta la loro esistenza e il loro valore da certi accordi singolari fra l’anima, l’occhio e la mano di chi è nato per coglierli in sé e per produrli a se stesso[70].
Anima, occhio e mano, scrive Valéry; solido, utile e irripetibile, risponde Benjamin, non in contrapposizione ma in un gioco armonico e melodico fatto di contrappunti precisi, controcanti e riverberi:
Questa antica connessione di anima, occhio e mano, che affiora nelle parole di Valéry, è quella artigianale, che ritroviamo dove è di casa l’arte di narrare[71].
Una triade che richiama all’idea i concetti di ispirazione, manualità e perfezione. L’occhio osserva, cerca il dettaglio, scruta l’infinito su cui la mano deve imprimergli l’impronta, quella irripetibile e unica, come a dire che le capacità di precisione dell’artigiano sono necessarie ma, senza l’irripetibilità, il senso di unicità, l’anima, infine, non resta che un utile vaso.
L’arte del narrare si lega ancora una volta a quella degli alchimisti ma, a differenza di questi, il narratore, quello benjaminiano – una sorta di figura unica, leggendaria, come a capo di tutta l’esistenza dello scibile e dello scrivere – riesce nell’incredibile trasformazione del piombo in oro e se l’anfora contiene magia preziosa, il prodigio riesce:
I teorici tedeschi hanno spesso affermato che la novella è caratterizzata da una tensione fra due opposti: particolare/generale, straordinario/ordinario, prodigioso/quotidiano, soggettivo/oggettivo, ecc. Basti ricordare due fra le definizioni più celebri, quella di Goethe: la novella è “un avvenimento inaudito e che ha avuto luogo”, e quella di Tieck: la novella narra un avvenimento che sembra “prodigioso” benché accada in modo del tutto naturale[72].
Fino allo sfinimento, Benjamin ce lo ripete più volte: rendere unica l’umanità tutta, attraverso il suo occhio, la sua mano e la sua anima, questo è il compito del narratore.Si ritorna così al punto di partenza di questa dissertazione: il narratore è la figura in cui il giusto incontra se stesso.
In un’epoca che cerca di appiattire le individualità, in una universalizzazione dei sentimenti eccessivamente uniformati, in un insano integralismo anti-romantico alla figura del genio, rileggere Benjamin serve anche per ricollocare, al centro dell’universo narrativo, responsabilizzandolo, l’uomo narrante.