Ancora nel 2006 – sottolinea Gianluigi Rossini in Le serie TV – David Lavey lamentava le recensioni “sprezzanti” scritte da giornalisti “increduli” di fronte ai libri accademici su The Sopranos, Buffy the Vampire Slayer o Six Feet Under: “anche se il campo di studi continua a proliferare […] i television studies in generale non ottengono nessun rispetto”[74].
Ad infastidire molti critici, dalla nascita del genere, è il concetto stesso di serialità, «vista come intrattenimento popolare se non esplicitamente come forme degradate»[75].
Il romanzo d’appendice, noto anche col termine francese feuilleton, diffusosi nei primi anni dell’Ottocento,
è una modalità narrativa specifica che nasce con la modernità, il cui tratto distintivo è la pianificazione della suddivisione di unità discrete da pubblicare in intervalli di tempo successivi e regolari[76].
Quanto appena riportato tra le virgolette, sono ancora parole di Rossini tratte dal quinto capitolo di Le Serie TV, nel paragrafo La serie serializzata, come tentativo di risposta alla domanda “Che cos’è un racconto seriale”.
È consolidata ormai l’idea che le serie TV siano la più semplice continuazione di quel genere letterario, almeno dal punto di vista della riproduzione meccanica e commerciale:
possono essere definite dalla pratica di offrire ai consumatori dei testi narrativi in unità isolate, materialmente indipendenti, rese disponibili a intervalli di tempo diverso ma prevedibili[77].
Se la pratica di scrivere romanzi in fascicoli, in funzione di una serializzazione programmata, con l’autore professionalizzatosi e retribuito in base ad una prestazione specializzata, ad una pubblicazione continua e scandita precisamente nel tempo, al di là di ogni elucubrazione, la serialità è probabilmente una caratteristica insita a qualsiasi narrazione.
Si pensi alla serializzazione delle vicende della brigata Boccaccesca o a quelle di Sharazhād che raccontano una storia al giorno per allontanare la morte, o se non altro il pensiero.
«L’autore del Decameron costruisce con una centuria di novelle un libro perfettamente chiuso»[78], e l’inizio è allontanato dalla conclusione, passo dopo passo, dai molteplici racconti, legati tra loro dai motivi narrativi della cornice o, ideologicamente, da rimandi morali contenuti nelle singole giornate. Non si vuole qui asserire che nelle novelle quattrocentesche fosse insita la serializzazione, le storie ancora vivono come racconti a se stanti, da un punto di vista strettamente legato all’intreccio, e ancora mancano tecniche narrative apposite, oltre al fatto che il contesto sociale ancora non lo prevede, piuttosto si vuole sottolineare la necessità atavica, se non del serializzato, del racconto continuato, ovvero, la fidelizzazione del lettore col suo narratore. Se
la produzione, la distribuzione e la ricezione delle serie televisive sono determinate dalla struttura della serialità, che, se affonda le sue radici nelle antiche tradizioni orali e nelle saghe medievali, si sviluppa in senso moderno con i processi di industrializzazione che coinvolgono l’occidente a partir dal diciannovesimo secolo[79],
il novelliere non ha fatto altro che prendere in eredità quanto già fatto in passato dai narratori orali, restaurando un rapporto col lettore destinato ad evolversi nel tempo, senza mai tramontare, nonostante qualche grave ma passeggera crisi.
D’altronde, certe novelle sono riscritture di altre, in una struttura complessa e fitta di rimandi interni «fondata su un sistema capillare di riuso: Boccaccio riprende materiale narrativo già impiegato altrove per costruire sempre nuove storie»[80]. Un fenomeno, quello della riscrittura, che è trasformazione o, per essere più precisi, mediamorfosi, di un contenuto da una forma mediale all’altra, per niente diverso da quanto è accaduto nel cinema e nelle serie TV.
Nell’Ottocento, con la diffusione della stampa e l’aumento dell’alfabetizzazione, accanto al romanzo popolare, emergeva il grande romanzo realista, pubblicato a puntate sui giornali. La distribuzione seriale della narrativa garantì un rinnovato successo al racconto scritto. L’ipertrofia dell’intreccio, interrotto nel momento topico dai margini dello spazio concesso al racconto, accentuava la curiosità del lettore, portato a sottoscrivere abbonamenti duraturi ai settimanali.
La verità è che il feuilleton, per sua stessa natura, deve plasmare una storia che acchiappa, provoca e s’allunga nel fantasticare dell’attesa di chi legge. E poiché l’esito dell’ingranaggio è intramontabile, anche la nostra epoca lo reinventa, lanciandolo in nuovi strumenti e formati, e dettandone la renaissance nelle tecnologie del Duemila[81],
scrive Leonetta Bentivoglio in un articolo su “La Repubblica”, dal titolo Il ritorno del feuilleton. Da Balzac alle serie televisive. Il fascino dei sogni a puntate.
La forza della feuilleton stava nella capacità di soddisfare molteplici esigenze del fruitore: brevità, suspense, affezione e shock.
Prendendo ad esempio Charles Dickens, riportiamo qui le parole di Emanuela Piga, scritte sulla rivista “Between”:
Charles Dickens era un grande comunicatore e divulgatore della sua opera, le sue letture pubbliche erano dei veri e propri eventi di massa. Si può dire che in un certo senso lo scrittore sia stato un precursore del worldwide broadcasting[82].
Una relazione tra lettore e scrittore che iniziava, forse proprio con Dickens, a diventare imprescindibile per la progressione narrativa del romanzo a puntate. Un esempio è il caso raccontato da Stefano Bronzini, in merito al capitolo IX del David Copperfiled:
Prima del Copperfield, Dickens aveva scritto Dombey and son. Era la storia di un uomo che perde la moglie e poi assiste al lento consumarsi della vita dell’esile figlioletto, oggetto dei suoi sogni per il futuro. […] Quando si spense, accasciandosi sul braccio della sorella, i lettori non gradirono la dipartita e disertarono l’acquisto dei successivi fascicoli di Dombey and son[83].
Nel progetto del racconto, il protagonista sarebbe dovuto essere il padre, non il figlio, Paul, che «nasce solo per morire»[84], tuttavia può capitare che «chi sia destinato al ruolo della comparsa possa guadagnare la prima pagina a furor di popolo»[85]. Dickens, accorgendosi dell’interesse del pubblico nei confronti di Paul, cercò di tenerlo in vita, almeno qualche altra puntata, ma il destino – è il caso di dirlo – era già stato scritto. Per recuperare il legame coi lettori – Dickens dichiarò di «aver perso la stella polare e di procedere a vista[86]» – l’autore, prima di inviare il progetto del Copperfield al suo editore, fece esercizio di scrittura, reintrecciando i fili laddove si erano sciolti:
In tre puntate si va dalla nascita di David alla morte della mamma, cioè alla fine dell’infanzia del ragazzo, Dickens pone il “fermarsi” della signora Copperfield prudentemente fuori scena e affida il breve racconto ad una voce altra che mette a tacere il narratore David[87].
Pare che il finale sia lo stesso, che si muoia «sempre alla stessa maniera»[88], tuttavia, cambiando la prospettiva, sovrapponendo gli sguardi, portando in profondità ciò che era restato in superficie, Dickens riesce nel suo tentativo di rappacificazione col suo pubblico: «La verità è che il feuilleton, per sua stessa natura, deve plasmare una storia che acchiappa, provoca e s’allunga nel fantasticare dell’attesa di chi legge»[89].
Il punto di forza del romanzo serializzato è la brevità delle singole parti pubblicate, l’essere frammentato in “racconti brevi” poi incastrati in un intreccio le cui singole scene seguono un itinerario preciso e tutto diretto alla conclusione. Nel caso sopracitato di Dickens, per esempio, l’inserimento di un breve racconto ha contribuito alla ripartenza dell’ingranaggio narrativo oltre che al riallacciamento dei rapporti con il lettore. Ciò che si viene a realizzare è un insieme di racconti brevi, relativamente fatti e finiti, come si suol dire, accomunati da un’unica finalità: la logica controllata del romanzo:
[…] La forma seriale della distribuzione incide sul finale della puntata, che si chiude con un effetto di suspense, generando nel lettore un sentimento di attesa della risoluzione dello snodo narrativo[90].
È ciò che accade nelle serie TV, non solo tra un episodio e l’altro ma anche all’interno dello stesso episodio.
Nel primo caso, la logica delle interruzioni della narrazione, a ridosso del momento topico, non è per nulla diverso da quanto accadeva già nel feuilleton, dove,
a dominare il ritmo dell’intreccio è l’iterazione della suspense, che chiude e governa il finale di molte puntate, esattamente come succede oggi nei cliffhanger dei moderni serial TV[91].
Nel secondo caso, i tagli all’interno dell’episodio possono essere legati ad esigenze commerciali, interrompendo la narrazione nel bel mezzo di un climax, per il lancio degli spot pubblicitari.
Lo scenario dunque si fa più fitto: ad intervenire sulla materia narrata, non è più soltanto il lettore/spettatore, ma il business, l’interesse commerciale del venditore di ammorbidente, per esempio, che ha investito in uno spazio pubblicitario e pretende di trovarne giovamento: è «l’instaurarsi di nuovi equilibri tra produzione e consumo, capaci di incidere in maniera sostanziale nel rapporto tra prodotti e pubblici, nonché tra storie e narrazioni»[92].
Tardando di qualche pagina un breve e incomodo ma necessario inciso sul concetto di audience e le relative influenze sul processo narrativo, percorrendo il confine che unisce e divide letteratura e serialità televisiva, torniamo al cliffhanger. Diversi finali di puntata, tagliati in maniere diverse, sono caratteristici di due forme di plot e, quindi, due diverse tipologie di racconto seriale: anthology plot e running plot:
La prima è caratterizzata da un episodio a una trama conclusiva, che conferisce al testo un’autonomia rispetto alla sequenza narrativa seriale. Lo spettatore occasionale in questo caso, può apprezzare un singolo episodio, pur non conoscendo le vicende di tutta la narrazione. È il caso de I Simpsons.
Nel secondo caso, l’evoluzione cronologica delle vicende e dei personaggi fa sì che la storia si rivolga ad uno spettatore abituale, in grado di conoscere e percepire le trasformazioni dell’arco narrativo dei personaggi. È il caso di serie TV come Breaking Bad.
A diverse esigenze narrative corrispondono altrettante diverse modalità di montaggio delle singole scene. Esigenze pedagogiche, commerciali, qualitative. Dov’è qui il “nostro” narratore, quello benjanamente utile, solido e irripetibile? Se è vero che
la forma seriale che conosciamo oggi sia il risultato di un processo evolutivo che si è svolto per prove ed errori, una complessa negoziazione tra apparato industriale, pubblico e normativa[93].
E se, come abbiamo detto, in un contesto simile, in cui il pubblico tende a volgere la propria attenzione allo schermo più che ad un foglio, il narratore – in qualche modo – si adatta, la necessità di raccontare storie resta salda.
Difatti, esistono narrazioni e narrazioni: non tutto è piagato al Dio denaro e, anche tra i pollici di uno schermo, è possibile assistere ad un lavoro di alta qualità, ché la serialità diventa un vero e proprio genere, un’espressione d’arte consolidatasi nel tempo grazie al romanzo ottocentesco.
Difatti, «esistono anche finali non imperniati sulla logica dell’interruzione strategica»[94]: Emanuela Piga mette, ad esempio, sullo stesso piano, le scelte strutturali delle narrazioni di capolavori del romanzo realista, come Madame Bovary di Flaubert o Grandi Speranze di Dickens, con il serial Mad Men, di Matthew Weiner, in cui,
se andiamo a guardare la struttura dell’opera, possiamo osservare come la narrazione non sia dominata da un andamento dilatatorio che va a interrompersi, nel momento di massima tensione, con la chiusura della puntata[95].
Sono meccanismi che vanno reiterandosi nel tempo e, per dirla alla maniera di Leonetta Bentivoglio,
poiché l’esito dell’ingranaggio è intramontabile, anche la nostra epoca lo reinventa, lanciandolo in nuovi strumenti e formati, e dettandone la renaissance nelle tecnologie del Duemila[96].
Il romanzo di formazione ottocentesco, che ha dominato il secolo d’oro della narrativa occidentale, per aver espresso al massimo la forma della modernità, «ponendo al centro simbolicamente la gioventù [ ], alla ricerca di un senso nel futuro anziché nel passato»[97], mostra particolari movimenti narrativi, rintracciabili nelle forme seriali contemporanee:
Il romanzo di formazione ottocentesco rifletteva i grandi mutamenti storici, come la Rivoluzione francese, la restaurazione post napoleonica o l’apoteosi del capitalismo nelle metropoli. […] Alle soglie del nuovo millennio e attraverso l’immagine in movimento della televisione, Mad Men mette in scena i principali eventi storici dell’America che vanno dai Fifties ai Seventies[98].
Nel rumoroso muovere delle azioni quotidiane, s’insinua, silenziosamente, la storia reale in cui è incastrata la finzione narrativa, «in una saldatura tra macrostoria e microstorie che era già presente nel romanzo ottocentesco»[99]. Come si è avuto modo già di scrivere, la serie TV
più di ogni feuilleton è dominato dalla norma ineluttabile del colpo di scena. Perché è evidente che, quando si sceglie di proporre una fetta di plot ogni settimana, di volta in volta il lettore va condizionato da uno scarto o un guizzo che lo inducano a ritornare sul luogo del delitto[100].
Un meccanismo che molti hanno snobbato ritenendolo un subdolo escamotage per accalappiare il più sempliciotto dei lettori, motivo per cui il feuilleton è stato spesso ghettizzato e sparato a distanza dall’orbita nobile dell’olimpo letterale.
Ma il confine tra “colto” e “popolare” si assottiglia molto, o svanisce del tutto, quando si considera che, durante l’Ottocento, secolo dello sviluppo della letteratura di massa, Balzac consegnò a questo tipo di pubblicazione la sua Commedia Umana, Dickens fece uscire a fascicoli mensili il suo capolavoro Grandi speranze, I tre moschettieri apparvero a puntate su Le Sièclee, Jules Verne, padre della letteratura fantascientifica, firmò leggendari feuilleton[101].
In pratica, il benestare di alcuni dei più grandi esponenti della letteratura ha permesso che il genere si svincolasse da (quasi) ogni sorta di pregiudizio,
ma siccome al feuilleton si richiede un meccanismo che agguanti il lettore, il quale va “fidelizzato”, esattamente come succede in tivù con le soap (che equivalgono ai feuilleton più radicati nell’immaginario dei nostri anni), è accaduto che il “seriale” sia stato immesso in stereotipi troppo prevedibili[102]:
quello che ha da fare il narratore contemporaneo, su una scia benjanamente utile, solida e irripetibile, come per San Cinematografo, è riprendere il filo, appropriarsi di un nuovo mezzo di comunicazione, farlo suo, riempirlo di storie da raccontare e rivestirlo di fatto artistico.
Ciò per dire che il feuilleton è un contenitore aperto, e non va preso di sguincio o sottogamba. Perché, come tutti i piaceri necessari, non ha alcuna intenzione di avviarsi al declino; e perché nella sua gloriosa storia plurisecolare ci siamo un po’ tutti noi, col nostro modo di sentire e sognare[103].