CAPITOLO PRIMO

Ovvero breve introduzione sui motivi di queste mie Confessioni, sul famoso castello di Fratta dove passai la mia infanzia, sulla cucina del prelodato castello, nonché sui padroni, sui servitori, sugli ospiti e sui gatti che lo abitavano verso il 1780 – Prima invasione di personaggi; interrotta qua e là da molte savie considerazioni sulla Repubblica Veneta, sugli ordinamenti civili e militari d’allora, e sul significato che si dava in Italia alla parola patria, allo scadere del secolo scorso.

Io nacqui Veneziano ai 18 Ottobre del 1775, giorno del-l’Evangelista San Luca; e morrò per la grazia di Dio Italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo.

Ecco la morale della mia vita. E siccome questa morale non fui io ma i tempi che l’hanno fatta, così mi venne in mente, che descrivere ingenuamente quest’azione dei tempi sopra la vita d’un uomo potesse recare utilità a coloro, che da altri tempi son destinati a sentire le conseguenze meno imperfette di quei primi influssi attuati.

Sono vecchio oramai più che ottuagenario nell’anno che corre dell’era cristiana 1858; e pur giovine di cuore forse meglio che nol’ fossi mai nella combattuta giovinezza, e nella stanchissima virilità. Molto vissi e soffersi; ma non mi vennero meno quei conforti, che, sconosciuti le più volte di mezzo alle tribolazioni che sempre paiono soverchie alla smoderatezza e cascaggine umana, pur sollevano l’anima alla serenità della pace e della speranza quando tornano poi alla memoria quali veramente sono, talismani invincibili contro ogni avversa fortuna. Intendo quegli affetti e quelle opinioni, che anziché prender norma dalle vicende esteriori comandano vittoriosamente ad esse e se ne fanno agone di operose battaglie. La mia indole, l’ingegno, la prima educazione e le operazioni e le sorti progressive furono, come ogni altra cosa umana, miste di bene e di male: e se non fosse sfoggio indiscreto di modestia potrei anco aggiungere, che in punto a merito abbondò piuttosto il male che il bene. Ma in tutto ciò nulla sarebbe di strano o degno da esser narrato, se la mia vita non correva a cavalcione di questi due secoli che resteranno un tempo assai memorabile massime nella storia italiana. Infatti fu in questo mezzo che diedero primo frutto di fecondità reale quelle speculazioni politiche che dal milletrecento al millesettecento traspirarono dalle opere di Dante, di Macchiavello, di Filicaia, di Vico e di tanti altri che non soccorrono ora alla mia mediocre coltura e quasi ignoranza letteraria. La circostanza, altri direbbe la sventura, di aver vissuto in questi anni mi ha dunque indotto nel divisamento di scrivere quanto ho veduto sentito fatto e provato dalla prima infanzia al cominciare della vecchiaia, quando gli acciacchi dell’età, la condiscendenza ai più giovani, la temperanza delle opinioni senili e, diciamolo anche, l’esperienza di molte e molte disgrazie in questi ultimi anni mi ridussero a quella dimora campestre dove aveva assistito all’ultimo e ridicolo atto del gran dramma feudale. Né il mio semplice racconto rispetto alla storia ha diversa importanza di quella che avrebbe una nota apposta da ignota mano contemporanea alle rivelazioni d’un antichissimo codice. L’attività privata d’un uomo che non fu né tanto avara da trincierarsi in se stessa contro le miserie comuni, né tanto stoica da opporsi deliberatamente ad esse, né tanto sapiente o superba da trascurarle disprezzandole, mi pare debba in alcun modo riflettere l’attività comune e nazionale che la assorbe; come il cader d’una goccia rappresenta la direzione della pioggia. Così l’esposizione de’ casi miei sarà quasi un esemplare di quelle innumerevoli sorti individuali che dallo sfasciarsi dei vecchi ordinamenti politici al raffazzonarsi dei presenti composero la gran sorte nazionale italiana. Mi sbaglierò forse, ma meditando dietro essi potranno alcuni giovani sbaldanzirsi dalle pericolose lusinghe, e taluni anche infervorarsi nell’opera lentamente ma durevolmente avviata, e molti poi fermare in non mutabili credenze quelle vaghe aspirazioni che fanno loro tentar cento vie prima di trovare quell’una che li conduca nella vera pratica del ministero civile. Così almeno parve a me in tutti i nove anni nei quali a sbalzi e come suggerivano l’estro e la memoria venni scrivendo queste note. Le quali incominciate con fede pertinace alla sera d’una grande sconfitta e condotte a termine traverso una lunga espiazione in questi anni di rinata operosità, contribuirono alquanto a persuadermi del maggior nerbo e delle più legittime speranze nei presenti, collo spettacolo delle debolezze e delle malvagità passate.

Ed ora, prima di prendere a trascriverle, volli con queste poche righe di proemio definire e sanzionar meglio quel pensiero che a me già vecchio e non letterato cercò forse indarno insegnare la malagevole arte dello scrivere. Ma già la chiarezza delle idee, la semplicità dei sentimenti, e la verità della storia mi saranno scusa e più ancora supplemento alla mancanza di retorica: la simpatia de’ buoni lettori mi terrà vece di gloria.

Al limitare della tomba, già omai solo nel mondo, abbandonato così dagli amici che dai nemici, senza timori e senza speranze che non siano eterne, libero per l’età da quelle passioni che sovente pur troppo deviarono dal retto sentiero i miei giudizii, e dalle caduche lunsighe della mia non temeraria ambizione, un solo frutto raccolsi della mia vita, la pace dell’animo. In questa vivo contento, in questa mi affido; questa io addito ai miei fratelli più giovani come il più invidiabile tesoro, e l’unico scudo per difendersi contro gli adescamenti dei falsi amici, le frodi dei vili e le soperchierie dei potenti. Un’altra asseveranza deggio io fare, alla quale la voce d’un ottuagenario sarà forse per dare alcuna autorità; e questa è, che la vita fu da me sperimentata un bene; ove l’umiltà ci consenta di considerare noi stessi come artefici infinitesimali della vita mondiale, e la rettitudine dell’animo ci avvezzi a riputare il bene di molti altri superiore di gran lunga al bene di noi soli. La mia esistenza temporale, come uomo, tocca omai al suo termine; contento del bene che operai, e sicuro di aver riparato per quanto stette in me al male commesso, non ho altra speranza ed altra fede senonché essa sbocchi e si confonda oggimai nel gran mare dell’essere. La pace di cui godo ora, è come quel golfo misterioso in fondo al quale l’ardito navigatore trova un passaggio per l’oceano infinitamente calmo dell’eternità. Ma il pensiero, prima di tuffarsi in quel tempo che non avrà più differenza di tempi, si slancia ancora una volta nel futuro degli uomini; e ad essi lega fidente le proprie colpe da espiare, le proprie speranze da raccogliere, i proprii voti da compiere.

Io vissi i miei primi anni nel castello di Fratta, il quale adesso è nulla più d’un mucchio di rovine donde i contadini traggono a lor grado sassi e rottami per le fonde dei gelsi; ma l’era a quei tempi un gran caseggiato con torri e torricelle, un gran ponte levatoio scassinato dalla vecchiaia e i più bei finestroni gotici che si potessero vedere tra il Lèmene e il Tagliamento. In tutti i miei viaggi non mi è mai accaduto di veder fabbrica che disegnasse sul terreno una più bizzarra figura; né che avesse spigoli, cantoni, rientrature e sporgenze da far meglio contenti tutti i punti cardinali ed intermedii della rosa dei venti. Gli angoli poi erano combinati con sì ardita fantasia, che non n’avea uno che vantasse il suo compagno; sicché ad architettarli o non s’era adoperata la squadra, o vi si erano stancate tutte quelle che ingombrano lo studio d’un ingegnere. Il castello stava sicuro a meraviglia tra profondissimi fossati dove pascevano le pecore quando non vi cantavano le rane; ma l’edera temporeggiatrice era venuta investendolo per le sue strade coperte; e spunta di qua e inerpica di là, avea finito col fargli addosso tali paramenti d’arabeschi e di festoni che non si discerneva più il colore rossigno delle muraglie di cotto. Nessuno si sognava di por mano in quel manto venerabile dell’antica dimora signorile, e appena le imposte sbattute dalla tramontana s’arrischiavano talvolta di scompigliarne qualche frangia cadente. Un’altra anomalia di quel fabbricato era la moltitudine dei fumaiuoli; i quali alla lontana gli davano l’aspetto d’una scacchiera a mezza partita e certo se gli antichi signori contavano un solo armigero per camino, quello doveva essere il castello meglio guernito della Cristianità. Del resto i cortili dai grandi porticati pieni di fango e di pollerie rispondevano col loro interno disordine alla promessa delle facciate; e perfino il campanile della capella portava schiacciata la pigna1 dai ripetuti saluti del fulmine. Ma la perseveranza va in qualche modo gratificata, e siccome non mugolava mai un temporale senzaché la chioccia campanella del castello non gli desse il benarrivato, così era suo dovere il rendergli cortesia con qualche saetta. Altri davano il merito di queste burlette metereologiche ai pioppi secolari che ombreggiavano la campagna intorno al castello: i villani dicevano che, siccome lo abitava il diavolo, così di tratto in tratto gli veniva qualche visita de’ suoi buoni compagni; i padroni del sito avvezzi a veder colpito solamente il campanile, s’erano accostumati a crederlo una specie di parafulmine, e così volentieri lo abbandonavano all’ira celeste, purché ne andassero salve le tettoie dei granai, e la gran cappa del camino di cucina.

Ma eccoci giunti ad un punto che richiederebbe di per sé un’assai lunga descrizione. Bastivi il dire che per me che non ho veduto né il colosso di Rodi né le piramidi d’Egitto, la cucina di Fratta ed il suo focolare sono i monumenti più solenni che abbiano mai gravato la superficie della terra. Il Duomo di Milano e il tempio di San Pietro son qualche cosa, ma non hanno di gran lunga l’uguale impronta di grandezza e di solidità: un che di simile non mi ricorda averlo veduto altro che nella Mole Adriana; benché mutata in Castel Sant’Angelo la sembri ora di molto impiccolita. La cucina di Fratta era un vasto locale, d’un indefinito numero di lati molto diversi in grandezza, il quale s’alzava verso il cielo come una cupola e si sprofondava dentro terra più d’una voragine: oscuro anzi nero d’una fuliggine secolare, sulla quale splendevano come tanti occhioni diabolici i fondi delle cazzeruole, delle leccarde2 e delle guastade3 appese ai loro chiodi; ingombro per tutti i sensi da enormi credenze, da armadii colossali, da tavole sterminate; e solcato in ogni ora del giorno e della notte da una quantità incognita di gatti bigi e neri, che gli davano figura d’un laboratorio di streghe. – Tuttociò per la cucina – Ma nel canto più buio e profondo di essa apriva le sue fauci un antro acherontico, una caverna ancor più tetra e spaventosa, dove le tenebre erano rotte dal crepitante rosseggiar dei tizzoni, e da due verdastre finestrelle imprigionate da una doppia inferriata. Là un fumo denso e vorticoso, là un eterno gorgoglio di fagiuoli in mostruose pignatte, là sedente in giro sovra panche scricchiolanti e affumicate un sinedrio di figure gravi arcigne e sonnolenti. Quello era il focolare e la curia domestica dei castellani di Fratta. Ma non appena sonava l’Avemaria della sera, ed era cessato il brontolio dell’Angelus Domini, la scena cambiava ad un tratto, e cominciavano per quel piccolo mondo tenebroso le ore della luce. La vecchia cuoca accendeva quattro lampade ad un solo lucignolo; due ne appendeva sotto la cappa del focolare, e due ai lati d’una Madonna di Loreto. Percoteva poi ben bene con un enorme attizzatoio i tizzoni che si erano assopiti nella cenere, e vi buttava sopra una bracciata di rovi e di ginepro. Le lampade si rimandavano l’una all’altra il loro chiarore tranquillo e giallognolo; il foco scoppiettava fumigante e s’ergeva a spire vorticose fino alla spranga trasversale di due alari giganteschi borchiati di ottone, e gli abitanti serali della cucina scoprivano alla luce le loro diverse figure.

Il signor Conte di Fratta era un uomo d’oltre a sessant’anni il quale pareva avesse svestito allor allora l’armatura, tanto si teneva rigido e pettoruto sul suo seggiolone. Ma la parrucca colla borsa, la lunga zimarra color cenere gallonata di scarlatto, e la tabacchiera di bosso che aveva sempre tra mano discordavano un poco da quell’attitudine guerriera. Gli è vero che aveva intralciato fra le gambe un filo di spadino, ma il fodero n’era così rugginoso che si potea scambiarlo per uno schidione; e del resto non potrei assicurare che dentro a quel fodero vi fosse realmente una lama d’acciaio, ed egli stesso forse non s’avea presa mai la briga di sincerarsene. Il signor Conte era sempre sbarbato con tanto scrupolo, da sembrar appena uscito dalle mani del barbiere; portava da mattina a sera sotto l’ascella una pezzuola turchina, e benché poco uscisse a piedi, né mai a cavallo, aveva stivali e speroni da disgradarne un corriere di Federico II. – Era questa una tacita dichiarazione di simpatia al partito prussiano, e benché le guerre di Germania fossero da lungo tempo quietate, egli non avea cessato dal minacciare agli imperiali il disfavore de’ suoi stivali. Quando il signor Conte parlava, tacevano anche le mosche; quando avea finito di parlare, tutti dicevano di sì secondo i propri gusti o colla voce o col capo; quando egli rideva, ognuno si affrettava a ridere; quando sternutiva anche per causa del tabacco, otto o nove voci gridavano a gara: – viva; salute; felicità; Dio conservi il signor Conte! – quando si alzava, tutti si alzavano, e quando partiva dalla cucina, tutti, perfino i gatti, respiravano con ambidue i polmoni, come si fosse lor tolta dal petto una pietra da mulino. Ma più romorosamente d’ogni altro respirava il Cancelliere, se il signor Conte non gli facea cenno di seguirlo e si compiaceva di lasciarlo ai tepidi ozii del focolare. Convien però soggiungere che questo miracolo avveniva di rado. Per solito il Cancelliere era l’ombra incarnata del signor Conte. S’alzava con lui, sedeva con lui, camminava con lui, e le loro gambe s’alternavano con sì giusta misura che pareva rispondessero ad una sonata di tamburo. Nel principiare di queste abitudini le frequenti diserzioni della sua ombra avevano indotto il signor Conte a volgersi ogni tre passi per vedere se era seguitato secondo i suoi desiderii. Sicché il Cancelliere erasi rassegnato al suo destino, e occupava la seconda metà della giornata nel raccogliere la pezzuola del padrone, nell’augurargli salute ad ogni starnuto, nell’approvare le sue osservazioni, e nel dire quello che giudicava dovesse riuscirgli gradito delle faccende giurisdizionali. Per esempio se un contadino accusato di appropriarsi le primizie del verziere padronale, rispondeva alle paterne4 del Cancelliere facendogli le fiche, ovverosia cacciandogli in mano un mezzo ducatone per risparmiarsi la corda, il signor Cancelliere riferiva al giurisdicente che quel tale spaventato dalla severa giustizia di Sua Eccellenza avea domandato mercé, e che era pentito del malfatto e disposto a rimediarvi con qualunque ammenda s’avesse stimato opportuna. Il signor Conte aspirava allora tanta aria quanta sarebbe bastata a tener vivo Golia per una settimana, e rispondeva che la clemenza di Tito deve mescolarsi alla giustizia dei tribunali, e che egli pure avrebbe perdonato a chi veramente si pentiva. Il Cancelliere, forse per modestia, era tanto umile e sdruscito nel suo arnese quanto il principale era splendido e sfarzoso; ma la natura gli consigliava una tale modestia perché un corpicciuolo più meschino e magagnato del suo, non lo si avrebbe trovato così facilmente. Dicono che si mostrasse guercio per vezzo; ma il fatto sta che pochi guerci aveano come lui il diritto di esser creduti tali. Il suo naso aquilino rincagnato, adunco e camuso tutto in una volta, era un nodo gordiano di più nasi abortiti insieme; e la bocca si spalancava sotto così minacciosa, che quel povero naso si tirava alle volte in su quasi per paura di cadervi entro. Le gambe stivalate di bulgaro divergevano ai due lati per dare la massima solidità possibile ad una persona che pareva dovesse crollare ad ogni buffo di vento. Senza voglia di scherzare io credo che, detratti gli stivali la parrucca gli abiti la spada e il telaio delle ossa il peso del Cancelliere di Fratta non oltrepassasse le venti libbre sottili, contando per quattro libbre abbondanti il gozzo che cercava nascondere sotto un immenso collare bianco inamidato. Così com’era egli aveva la felice illusione di credersi tutt’altro che sgradevole; e di nessuna cosa egli ragionava tanto volentieri come di belle donne e di galanterie.

Come fosse contenta madonna Giustizia di trovarsi nelle sue mani io non ve lo saprei dire in coscienza. Mi ricorda peraltro di aver veduto più musi arrovesciati che allegri scendere dalla scaletta scoperta della cancelleria. Così anche si buccinava sotto l’atrio nei giorni d’udienza che chi aveva buoni pugni e voce altamente intonata e zecchini in tasca, facilmente otteneva ragione dinanzi al suo tribunale. Quello che posso dire si è che due volte sole m’accadde veder dare le strappate di corda nel cortile del castello; e tutte e due le volte questa cerimonia toccò a due tristanzuoli che non ne aveano certamente bisogno. Buon per loro che il cavallante incaricato dell’alta e bassa giustizia esecutiva, era un uomo di criterio, e sapeva all’uopo sollevar la corda con tanto garbo che le slogature guarivano alla peggio sul settimo giorno. Perciò Marchetto cognominato il Conciaossi era tanto amato dalla gente minuta quanto era odiato il Cancelliere. Quanto al signor Conte nascosto, come il fato degli antichi, nelle nuvole superiori all’Olimpo, egli sfuggiva del pari all’odio che all’amore dei vassalli. Gli cavavano il cappello come all’immagine d’un santo forestiero con cui avessero poca confidenza; e si tiravano col carro fin giù nel fosso quando lo staffiere dall’alto del suo bombay5 gridava loro di far largo mezzo miglio alla lontana.

Il Conte aveva un fratello che non gli somigliava per nulla ed era canonico onorario della cattedrale di Portogruaro, il canonico più rotondo, liscio, e mellifluo che fosse nella diocesi; un vero uomo di pace che divideva saggiamente il suo tempo fra il breviario e la tavola, senza lasciar travedere la sua maggior predilezione per questa o per quello. Monsignor Orlando non era stato generato dal suo signor padre coll’intenzione di dedicarlo alla Madre Chiesa; testimonio il suo nome di battesimo. L’albero genealogico dei Conti di Fratta vantava una gloria militare ad ogni generazione; così lo si aveva destinato a perpetuare la tradizione di famiglia. L’uomo propone e Dio dispone; questa volta almeno il gran proverbio non ebbe torto. Il futuro generale cominciò la vita col dimostrare un affetto straordinario alla balia, sicché non fu possibile slattarlo prima dei due anni. A quell’età era ancora incerto se l’unica parola ch’egli balbettava fosse pappa o papà. Quando si riescì a farlo stare sulle gambe, cominciarono a mettergli in mano stocchi di legno ed elmi di cartone; ma non appena gli veniva fatto, egli scappava in capella a menar la scopa col sagrestano. Quanto al fargli prender domestichezza colle vere armi, egli aveva un ribrezzo instintivo pei coltelli da tavola e voleva ad ogni costo tagliar la carne col cucchiaio. Suo padre cercava vincere questa maledetta ripugnanza col farlo prendere sulle ginocchia da alcuno de’ suoi buli6; ma il piccolo Orlando se ne sbigottiva tanto, che conveniva passarlo alle ginocchia della cuoca perché non crepasse di paura. La cuoca dopo la balia ebbe il suo secondo amore; onde non se ne chiariva per nulla la sua vocazione. Il Cancelliere d’allora sosteneva che i capitani mangiavano tanto, che il padroncino poteva ben diventare col tempo un famoso capitano. Ma il vecchio Conte non si acquietava a queste speranze; e sospirava, movendo gli occhi dal viso paffutello e smarrito del suo secondogenito ai mostaccioni irti ed arroganti dei vecchi ritratti di famiglia. Egli avea dedicato gli ultimi sforzi della sua facoltà generativa all’ambiziosa lusinga d’inscrivere nei fasti futuri della famiglia un grammaestro di Malta o un ammiraglio della Serenissima; non gli passava pel gozzo di averli sprecati per avere alla sua tavola la bocca spaventosa d’un capitano delle Cernide7. Pertanto raddoppiava di zelo per risvegliare e attizzare gli spiriti bellicosi di Orlando; ma l’effetto non secondava l’idea. Orlando faceva altarini per ogni canto del castello, cantava messa, alta bassa e solenne, colle bimbe del sagrestano; e quando vedeva uno schioppo correva a rimpiattarsi sotto le credenze di cucina. Allora vollero tentare modi più persuasivi; si cominciò a proibirgli di bazzicare in sacristia, e di cantar vespri nel naso, come udiva fare ai coristi della parrochia. Ma sua madre si scandolezzò di tali violenze; e cominciò dal canto suo a prender copertamente le difese del figlio. Orlando ci trovò il suo gusto a far la figura del piccolo martire: e siccome le chicche della madre lo ricompensavano dei paterni rabbuffi, la professione del prete gli parve piucchemai preferibile a quella del soldato. La cuoca e le serve di casa gli annasavano addosso un certo odore di santità; allora egli si diede ad ingrassare di contentezza e a torcer anche il collo per mantenere la divozione delle donne. E finalmente il signor padre colla sua ambizione marziale ebbe contraria l’opinione di tutta la famiglia. Perfino i buli che tenevano dalla parte della cuoca, quando il feudatario non li udiva, gridavano al sacrilegio di ostinarsi a stogliere un San Luigi dalla buona strada. Ma il feudatario era cocciuto, e soltanto dopo dodici anni d’inutile assedio, si piegò a levare il campo e a mettere nella cantera dei sogni svaniti i futuri allori d’Orlando. Costui fu chiamato una bella mattina con imponente solennità dinanzi a suo padre; il quale per quanto ostentasse l’autorevole cipiglio del signore assoluto aveva in fondo il fare vacillante e contrito d’un generale che capitola.

– Figliuol mio, – cominciò egli a dire. – La professione delle armi è una nobile professione.

– Lo credo – rispose il giovinetto con una cera da santo un po’ intorbidata dall’occhiata furbesca volta di soppiatto alla madre.

– Tu porti un nome superbo – riprese sospirando il vecchio Conte. – Orlando, come devi aver appreso dal poema dell’Ariosto che ti ho tanto raccomandato di studiare...

– Io leggo l’Uffizio della Madonna; – disse umilmente il fanciullo.

– Va benissimo; – soggiunse il vecchio tirandosi la parrucca sulla fronte – ma anche l’Ariosto è degno di esser letto. Orlando fu un gran paladino che liberò dai Mori il bel regno di Francia. E di più se avessi scorso la Gerusalemme liberata sapresti che non coll’Uffizio della Madonna ma con grandi fendenti di spada e spuntonate di lancia il buon Goffredo tolse dalle mani dei Saracini il sepolcro di Cristo.

– Sia ringraziato Iddio! – sclamò il giovinetto. – Ora non resta nulla a che fare.

– Come non resta nulla? – gli diede sulla voce il vecchio. – Sappi, o disgraziato, che gli infedeli riconquistarono la Terra Santa e che ora che parliamo un bascià del Sultano governa Gerusalemme, vergogna di tutta Cristianità.

– Pregherò il Signore che cessi una tanta vergogna; – soggiunse Orlando.

– Che pregare! Fare, fare bisogna! – gridò il vecchio Conte.

– Scusate; – s’intromise a dirgli la Contessa. – Non vorrete già pretendere che qui il nostro bimbo faccia da sé solo una crociata.

– Eh via! non è più bimbo! – rispose il Conte. – Compie oggi appunto i dodici anni!

– Compiesse anche il centesimo; – soggiunse la signora – certo non potrebbe mettersi in capo di conquistare la Palestina.

– Non la conquisteremo più finché si avvezza la prole a donneggiare col rosario! – sclamò il vecchio pavonazzo dalla bile.

– Sì! ci voleva anche questa bestemmia! – riprese pazientemente la Contessa. – Poiché il Signore ci ha dato un figliuolo che ha idea di far bene mostriamocene grati collo sconoscere i suoi doni!

– Bei doni, bei doni! – mormorava il Conte. – Un santoccio leccone!... un mezzo volpatto8 e mezzo coniglio! Infine egli non ha detto questa gran bestialità; – soggiunse la signora – ha detto di pregar Iddio perché egli consenta che i luoghi della sua passione e della sua morte tornino alle mani dei Cristiani. È il miglior partito che ci rimanga ora che i Cristiani son occupati a sgozzarsi fra loro, e che la professione del soldato è ridotta una scuola di fratricidii e di carneficine.

– Corpo della Serenissima! – gridò il Conte. – Se Sparta avesse avuto madri simili a voi, Serse passava le Termopili con trecento boccali di vino!

– S’anco la cosa andava a questo modo non ne avrei gran rammarico – riprese la Contessa.

– Come? – urlò il vecchio signore – arrivate perfino a negare l’eroismo di Leonida e la virtù delle madri spartane?

– Via! stiamo nel seminato! – disse chetamente la donna – io conosco assai poco Leonida e le madri spartane benché me le venghiate nominando troppo sovente; e tuttavia voglio credere ad occhi chiusi che le fossero la gran brava gente. Ma ricordatevi che abbiamo chiamato dinanzi a noi nostro figlio Orlando per illuminarci sulla sua vera vocazione, e non per litigare in sua presenza sopra queste rancide fole.

– Donne, donne!... nate per educar i polli – borbottava il Conte.

– Marito mio! sono una Badoera9! – disse drizzandosi la Contessa. – Mi consentirete, spero, che i polli nella nostra famiglia non sono più numerosi che nella vostra i capponi. Orlando che da un buon tratto si teneva i fianchi scoppiò in una risata al bel complimento della signora madre; ma si ricompose come un pulcino bagnato all’occhiata severa ch’ella gli volse.

– Vedete? – continuò parlando al marito – finiremo col perdere la capra ed i cavoli. Mettete un po’ da banda i vostri capricci, giacché Iddio vi fa capire che non gli accomodano per nulla; e interrogate invece, come è dicevole a un buon padre di famiglia, l’animo di questo fanciullo.

Il vecchio impenitente si morsicò le labbra e si volse al figliuolo con un visaccio sì brutto ch’egli se ne sgomentì e corse a rifugiarsi col capo sotto il grembiale materno.

– Dunque; – cominciò a dire il Conte senza guardarlo, perché guardandolo si sentiva rigonfiare la bile. – Dunque, figliuol mio, voi non volete fare la vostra comparsa sopra un bel cavallo bardato d’oro e di velluto rosso, con una lunga spada fiammeggiante in mano, e dinanzi a sei reggimenti di Schiavoni10 alti quattro braccia l’uno, i quali per correre a farsi ammazzare dalle scimitarre dei Turchi non aspetteranno altro che un cenno della vostra bocca?

– Voglio cantar messa io! – piagnucolava il fanciullo di sotto al grembiule della Contessa.

Il Conte udendo quella voce piagnolosa soffocata dalle pieghe delle vesti donde usciva, si voltò a vedere cos’era; e mirando il figliuol suo intanato colla testa come un fagiano, non ebbe più ritegno alla stizza, e diventò, rosso più ancor di vergogna che di collera.

– Va’ dunque in Seminario, bastardo! – gridò egli fuggendo fuori della stanza.

Il cattivello si mise allora a singhiozzare e a strapparsi i capelli e a dar del capo nelle gambe della madre, sicuro di non farsi male. Ma costei se lo tolse fra le braccia e lo consolava con bella maniera dicendogli:

– Sì, viscere mie; non temere; ti faremo prete; canterai messa. Oh non sei fatto tu no per versare il sangue de’ tuoi fratelli come Caino!...

– Ih! ih! ih! voglio cantar in coro! voglio farmi santo! – strepitava Orlando.

– Sì... canterai in coro, ti faremo canonico, avrai il sarrocchino, e le belle calze rosse; non piangere tesoro mio. Sono tribolazioni queste che bisogna offerirle al Signore per farsi sempre più degni di lui – gli andava dicendo la mamma.

Il fanciullo si consolò a queste promesse; ed ecco perché il conte Orlando, in onta al nome di battesimo, e a dispetto della contrarietà paterna era divenuto monsignor Orlando. Ma per quanto la Curia fosse disposta a favorire la divota ambizione della Contessa, siccome Orlando non era un’aquila, così non ci vollero meno di dodici anni di seminario e d’altri trenta di postulazione per fargli toccare la meta de’ suoi desiderii; e il Conte ebbe la gloria di morire molti anni prima che i fiocchi rossi gli piovessero sul cappello. Peraltro non si può dire che l’abate perdesse alla lettera tutto quel tempo di aspettativa. Prima di tutto ci avea preso intanto una discreta pratica del Messale; e poi la gorgiera gli si era moltiplicata a segno da poter reggere a paragone col più morbido e fiorito de’ suoi nuovi colleghi.

Un castello che chiudeva fra le sue mura due dignità forensi e clericali come il Cancelliere e monsignor Orlando, non dovea mancare della sua celebrità militare. Il capitano Sandracca voleva essere uno schiavone ad ogni costo, sebbene lo dicessero nato a Ponte di Piave. Certo era l’uomo più lungo della giurisdizione; e le dee della grazia e della bellezza non aveano presieduto alla sua nascita. Ma egli perdeva tuttavia una buona ora ogni giorno a farsi brutto tre volte più che non lo avesse fatto natura; e studiava sempre allo specchio qualche foggia di guardatura e qualche nuovo arricciamento di baffi che gli rendesse il cipiglio più formidabile. A udirlo lui, quando avea vuotato il quarto bicchiere, non era stata guerra dall’assedio di Troia fino a quello di Belgrado dove non avesse combattuto come un leone. Ma sfreddati i fumi del vino, si riduceva colle sue pretese a più oneste proporzioni. S’accontentava di raccontare come avesse toccato dodici ferite alla guerra di Candia; offrendosi ogni volta di calar le brache per farle contare. E Dio sa com’erano queste ferite, poiché ora, ripensandoci sopra, non mi par verosimile che coi cinquant’anni che diceva toccare appena, egli avesse assistito ad una guerra combattutasi sessant’anni prima. Forse la memoria lo tradiva, e gli faceva creder sue le gesta di qualche spaccone udite raccontare dai novellatori di piazza San Marco. Il buon Capitano confondeva assai facilmente le date; ma non dimenticava mai ogni primo del mese di farsi pagar dal fattore venti ducati di salario come comandante delle Cernide. Quel giorno era la sua festa. Mandava fuori all’alba due tamburi i quali fino a mezzogiorno strepitavano ai quattro cantoni della giurisdizione. Poi nel dopopranzo quando la milizia era raccolta nel cortile del castello, usciva dalla sua stanza così brutto così brutto che quasi solamente colla presenza sbaragliava il proprio esercito. Impugnava uno spadone così lungo che bastava a regolar il passo d’un’intera colonna. E siccome al minimo sbaglio egli usava batterlo spietatamente su tutte le pancie della prima fila; così quando appena accennasse di sbassarlo, la prima fila indietreggiava sulla seconda la seconda sulla terza e nasceva una tal confusione che la minore non sarebbe avvenuta all’avvicinarsi dei Turchi. Il Capitano sorrideva di contentezza, e rassicurava la truppa rialzando la spada. Allora quei venti o trenta contadini cenciosi, coi loro schioppi attraversati sulle spalle come badili, riprendevano la marcia a suon di tamburo verso il piazzale della parrochia. Ma siccome il Capitano camminava dinanzi con le gambe più lunghe della compagnia, così per quanto questa si affrettasse egli giungeva sempre solo sul piazzale. Allora si rivolgeva infuriato a tempestare col suo spadone contro quella marmaglia indolente: ma nessuno era così gonzo da aspettarlo. Alcuni se la davano a gambe, altri saltavano i fossati, altri sguisciavano dentro le porte e si ascondevano sui fienili. I tamburi si difendevano coi loro strumenti. E così finiva quasi sempre nella giurisdizione di Fratta la mostra mensile delle Cernide. Il Capitano stendeva un lungo rapporto, il Cancelliere lo passava agli atti, e non se ne parlava più fino al mese seguente.

Leggere al giorno d’oggi di cotali ordinamenti politici e militari che somigliano buffonerie, parrà forse una gran maraviglia. Ma le cose camminavano appunto com’io le racconto. Il Distretto di Portogruaro, cui appartiene il Comune di Teglio colla frazione di Fratta, forma adesso il lembo orientale della provincia di Venezia, la quale occupa tutta la pianura contermine alle lagune, dal basso Adige in Polesine al Tagliamento arginato. A’ tempi di cui narro le cose stavano ancora come le avea fatte natura ed Attila le aveva lasciate. Il Friuli ubbidiva tuttavia a sessanta o settanta famiglie, originarie d’oltralpi e naturate in paese da una secolare dimora, alle quali era affidata nei diversi dominii la giurisdizione con misto e mero imperio; e il loro voti uniti a quelli delle Comunità libere e delle Contadinanze formavano il Parlamento della Patria che una volta l’anno si raccoglieva con voto consultivo allato del Luogotenente mandato ad Udine da Venezia. Io ho pochi peccati d’ommissione sulla coscienza, fra i quali uno de’ più gravi e che più mi rimorde è questo, di non aver assistito ad uno di quei Parlamenti. L’aveva da essere in verità uno spettacolo appetitoso. Pochi dei signori giurisdicenti sapevano di legge; e i deputati del contado non dovevano saperne di più. Che tutti intendessero il toscano io non lo credo; e che nessuno lo parlasse è abbastanza provato dai loro decreti o dalle Parti prese11, nelle quali dopo un piccolo cappello di latino si precipita in un miscuglio d’italiano di friulano e di veneziano che non è senza bellezze per chi volesse ridere. Tutto adunque concorda a stabilire che quando il Magnifico General Parlamento della Patria supplicava da Sua Serenità il Doge la licenza di giudicare intorno ad una data materia, il tenor della legge fosse già concertato minutamente fra Sua Eccellenza il Luogotenente e l’Eccellentissimo Consiglio di Dieci12. Che in quelle conferenze preliminari avessero voce anche i giureconsulti del Foro udinese, io non m’attento di negarlo; massime se quei giureconsulti avevano il buon naso di convenir nei disegni della Signoria. S’intende che da tal consuetudine restava esclusa ogni materia di diritti privati, e feudali; i quali né i castellani avrebbero forse consentito si ponessero in disputa, né la Signoria avrebbe osato di privarneli pei suoi imperscrutabili motivi che si riducevano spesso alla paura. E fatto sta che ottenuto il permesso di proporre sopra un dato argomento, il Magnifico General Parlamento proponeva discuteva ed approvava tutto in un sol giorno, il quale era appunto l’undici d’Agosto. Il perché della fretta e dello aver scelto quel giorno piuttosto che un altro stava in questo, che allora appunto cadeva la fiera di San Lorenzo e offeriva con ciò opportunità a tutte le voci del Parlamento di radunarsi ad Udine. Ma siccome durante la fiera pochi avevano voglia di trasandare i proprii negozi per quelli del pubblico, così a sbrigar questi s’era stimato piucché bastevole il giro di ventiquattr’ore. Il Magnifico General Parlamento implorava poi dalla Serenissima dominante la conferma di quanto aveva discusso, proposto ed approvato; e giunta la conferma, il trombetta in giorno festivo gridava ad universale notizia e per inviolabile esecuzione la Parte presa dal Magnifico General Parlamento. Non viene da ciò, che tutte le leggi per tal modo promulgate fossero ingiuste o ridicole; giacché, come dice l’editore degli Statuti Friulani, esse leggi sono un riassunto di giustizia di maturità e d’esperienza ed hanno sempre di fronte oggetti commendabili e salutari; ma ne scaturisce un formidabile dubbio sul merito che potessero vantarne i Magnifici deputati della Patria. Nel 1672 pare che l’Eccellentissimo Carlo Contarini riferisse al Serenissimo Doge sopra la necessità di alcune riforme delle vecchie costituzioni. Pertanto Dominicus Contareno Dei gratia Dux Venetiarum etc. dopo aver augurato al nobili et sapienti viro Carolo Contareno salutem et dilectionis affectum seguita a dichiarargli i limiti della concessa licenza. Avutosi riflesso non tanto alle istanze di codesta Patria e Parlamento che a quanto esprimete nelle vostre giurate informazioni in proposito etc risolvemo a consolazione degli animi di codesti amati e fedelissimi sudditi di permetterle che possino devenire alla riforma di quei capitoli che conoscessimo necessarii per il loro servizio. E nell’anno susseguente, lette e meditate che ebbe il Serenissimo Doge le fatte riforme, così piacque permetterne la pubblicazione con sue lettere al nobili et sapientissimo viro Hyeronimo Ascanio Justiniano. Venendo rappresentata qualche alterazione in alcuno dei susseguenti capitoli che volemo siano ridotti alla vera essenza loro senz’altra aggiunta etc. etc. dovrà omettersi etc. bastando li Pubblici Decreti in tale proposito. Nel capitolo centoquarantasette con cui si pretende levar li pregiudicii che dalle ville e Comuni sono inferiti ai Giurisdicenti, vi è stata aggiunta una pena di lire cinquanta al giurisdicente: questa non vi era nel latino, doverà pure esser levata e lasciata di stampare. Con tali metodi le permetterete l’esecuzione conforme l’istanze, ordinando però la conservazione de’ vecchi statuti ed altre Costituzioni per tutte quelle insorgenze e ricorsi che potessero esser fatti alla Signoria nostra. Datum in Nostro Ducali Palatio, die 20 Maii Indictione XI 1673. – Dopo tali formalità uscirono finalmente gli Statuti Friulani, i quali seguitarono ad aver corso di legge fino al cominciare del presente secolo; e la ragione del rinnovamento è così espressa dai compilatori in un solenne proemio. Si è determinato di rinnovare le Costituzioni della Patria del Friuli essendo molte per il lungo corso di tempo fatte impraticabili, altre dubbiose, molti i casi sopra i quali non era stato provvisto. Etc. etc. E perché in esse si tratta di effetti di giustizia che non solamente dalli giudici stessi deve esser ben conosciuta, ma da tutti, etc. etc. si è risoluto di scrivere il presente libro di Costituzioni in lingua volgare nella più ampia e facil forma possibile, etc. etc. Per dar poi un principio che sia ben fondamentato a questa profittevole e lodevole opera, comincieremo colla Prima Costituzione. Si scordarono di chiarire il motivo per cui la prima costituzione e non la seconda doveva essere buon fondamento a quella profittevole e lodevole opera. Ma forse sarà stato, perché nella prima si statuiva intorno all’osservanza della religione cristiana, nonché alle pratiche relative ai Giudei ed alle bestemmie. Se anche queste ultime debbano annoverarsi fra gli oggetti commendabili e salutari che, secondo l’editore, stanno sempre di fronte alle leggi, io non potrei crederlo, anche prestando la fede più cieca all’ermeneutica dell’editore suddetto. Continuano poi gli statuti a stabilire le Ferie introdotte in onore di Dio, e quelle introdotte per li necessarii bisogni degli uomini, perché comodamente e senza alcuna distrazione si possa raccogliere quello che la terra produce irrigata dalla mano divina. Seguitano le disposizioni intorno ai nodari, sollecitatori, patrocinatori e avvocati; a proposito dei quali avendo osservato il legislatore che le armi decorano e le lettere armano gli Stati, soggiunge che, essendo l’ufficio loro tanto nobile gli si devono anche applicare gli opportuni rimedii. Pare che l’attribuito di nobile sia qui usato nell’insolito significato d’infermo o pericoloso. Succedono poi molti capitoli di regole processuali nei quali al capitolo del Testimonio falso si nota la savia disposizione che chi sarà convinto tale in causa civile debba cadere nella pena di 200 lire, o sia mutilato della lingua in caso d’insolvibilità. E se la materia fosse criminale gli si applichi la stessa pena che meriterebbe quello contro cui viene introdotto. I contratti, le doti, i testamenti, gli escomii, i livelli13, i sequestri sono argomenti dei paragrafi successivi. Il capitolo centoquarantuno tratta particolarmente degli Assassini, ognuno de’ quali, se capiterà in mano della giustizia (accidente allora rarissimo; il che mitigava l’eccessiva generalità della legge) è condannato ad essere appiccato per la gola, in modo che mora. Dal paragrafo concernente gli assassini, si passa alle confiscazioni, ai regolamenti del pascolo e della caccia, e ad uno statuto di buona economia ne’ quali è inibito ai comuni il condannare i rei più che in soldi otto per ogni eccesso. V’è un capitolo intitolato i Castelli, nel quale si rimanda chi ne cercasse notizia alle leggi sopra i Feudi. E finalmente vi è l’ultimo della locazione delle case, nel quale, con paterna provvidenza per la sicura abitazione dei sudditi, è stabilito che chi ha locazione minore d’anni cinquanta debba avere l’intimazione dello sfratto almeno un mese avanti allo spirar della stessa. Nel quale spazio di tempo egli possa provvedersi per altri cinquant’anni; e che il Signore gli conceda la vita di Matusalem, acciocché possa ripeterne molte di tali locazioni.

Parrebbe ora affatto miracoloso questo Codice d’un centinaio di pagine che pon ordine a tante materie così disparate; ma i giureconsulti del Magnifico Parlamento ci trovarono tanta agevolezza che ebbero agio qua e là d’inframmettervi leggi e consigli sulle tutele, sulle curatele, sugli incanti, sui percussori ed inquietatori dei pubblici officiali, e di sancire a danno di questi la multa di soldi quarantotto se uomini, e di soldi ventiquattro se sono donne. Vi si contiene di più una tariffa pei periti patentati ed una buona ramanzina pei contadini che osassero carreggiare in giorni festivi. Saviissima poi è la consuetudine seguita in tali Statuti di dar sempre ragione del partito preso; come allorquando dopo stabilito che le citazioni in luogo diverso cadenti nell’egual giorno debbano aver effetto l’una dopo l’altra in ragione d’anzianità, il legislatore soggiunge a motivo di questa sua disposizione: perché una persona non può contemporaneamente in più luoghi essere. I Codici moderni non sono tanto ragionevoli; essi vogliono perché vogliono; ma ciò non toglie che non debba esser lodata la piacevole ingenuità di quelli d’una volta.

Il ministero del legale o del giudice parrebbe dover essere stato assai facile colla comodità di Statuti tanto sommarii. Ma c’era di mezzo un piccolo incaglio. Ove non disponevano le leggi provinciali s’intendeva aver vigore il Diritto veneto; e chi ha conoscenza solo del volume e della confusione di questo, può intender di leggieri come ne fossero intralciate le transazioni forensi. Per giunta v’aveano le consuetudini; ed ultimo capitava a imbrogliar la matassa il Diritto feudale, il quale mescolato colle altre leggi e disposizioni, in un paese ingombro di giurisdizioni e di castelli, finiva col trovar sempre quel posto che ha l’oglio mescolato col vino.

Gl’infiniti dissesti prodotti nell’amministrazione della giustizia dall’arbitrario attraversarsi di tante leggi e di tanti codici, impietosirono gli animi della Serenissima Signoria, la quale s’accinse a ripararvi colla missione in terra-ferma d’un magistrato ambulante composto di tre sindaci inquisitori; i quali toccando con mano le piaghe degli amatissimi sudditi e delle povere contadinanze vi mettessero valido e pronto rimedio. Infatti i tre sindaci con minutissima coscienza cominciarono a passeggiare per lungo e per largo la Patria del Friuli; e primo frutto della loro peregrinazione fu un caldissimo proclama sui dazii pubblici, in calce al quale resta eccitato lo zelo de’ Nobiluomini Luogotenenti ad incalorire le riscossioni, e non ommetter di tempo in tempo qual si sia esecuzione de’ mobili, affitti, entrate e stabili di ragione de’ pubblici renitenti debitori, incamerando e vendendo gli effetti e beni medesimi a vantaggio della pubblica cassa; e ciò sian tenuti a puntualmente eseguire in pena della perdita della carica ed altre, ad arbitrio della giustizia. Di qual giustizia io lo dimanderei loro assai volentieri. Però dopo aver assestato convenevolmente una tale materia con una mezza dozzina di simili proclami, gli Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori Sindaci volsero la mente ad un oggetto di più caro e diretto vantaggio degli amatissimi sudditi; e pubblicarono un altro decreto che incomincia: Noi (a capo). In proposito dei vini d’Istria ed Isola (a capo ancora). Le difficoltà che si frappongono all’esito dei vini di questa fedelissima Patria eccitano l’attenzione dei Magistrati etc. etc., e c’inducono col presente a far pubblicamente sapere (a capo). Che ferme le leggi etc. resti assolutamente proibito il poter introdurre in qualsiasi loco di questa Patria e Provincia del Friuli qualunque sorta di vini provenienti da Sottovento ed Isola, se prima non averanno pagato il Dacio in mano del Custode nel luogo di Muscoli e levata la bolletta. Seguitano le pene per un buon paio di facciate. – Ai Signori Sindaci parve con quel decreto aver sufficientemente operato per l’immediata utilità della fedelissima Patria, laonde tornarono a partorir proclami, In proposito del Dacio Masena14 e Ducato per botte, In proposito dei Prestini, In proposito d’Ogli Sali e Tabacchi, In proposito dei contrabbandi; e non cessarono da questi propositi se non per emanarne un altro affatto paterno e provvidenziale a proposito dei corrotti15; secondo il quale per impedire che non si ecceda in occasione dei corrotti per morte di congionti con aggravio inutile e superfluo che cagiona la rovina della famiglia e arriva a toglier il modo di supplire ai proprii doveri (intendi di pagare le imposte etc.) si statuisce fra le altre, che non si possano portare i Tabarri lunghi altrimenti detti gramaglie, in pena ai trasgressori di Ducati 600 da esser applicati un terzo al Nobiluomo Camerlengo, un terzo alla cassa della Magnifica città, ed un terzo al denunciante. Io suppongo che in seguito a questa disposizione tutti coloro che aveano perduto un parente nell’ultimo decennio si facessero accorciare il tabarro usuale d’un paio di quarte, per non correre il pericolo di pagarne così caro il privilegio.

Ma se fu oculata ed attiva la missione del primo Sindacato, assai più proficui riuscirono i susseguenti. Fra i quali merita speciale encomio quello del 1770 che ebbe ad occuparsi del riordinamento delle Cernide o milizie del contado, levate dalle Comunità e dai Feudatari a tutela dell’ordine nelle singole giurisdizioni. Permettono i Signori Sindaci Inquisitori alle Cernide, Caporali e Capi di Cento16 (il capitano Sandracca era un Capo di Cento, o anche di cinquanta o di venti secondo il buon volere dei subalterni, che si arrogava il titolo di capitano in vista delle sue glorie passate) permettono loro, dico, di portare liberamente il schioppo scarico per le città e terre murate per transito, non mai alle chiese, feste, mercati, né accompagnando cittadini. – Potranno inoltre, così gli Illustrissimi Sindaci, nei casi di Mostre, Mostrini, Mostroni17 e Pattuglie esser armati oltre al fucile, della bajonetta; restando vietato il pugnale, proibito nelle vecchie Parti, e convertito ora nell’uso impudente di coltelli, arma abominevole ad ogni genere di milizia e condannata da tutte le leggi. – Questo paragrafo colpiva piucché le Cernide i prepotenti castellani i quali, reclutando in esse i famosi buli, armavano fino ai denti i più arrischiati e se li tenevano intorno per le consuete soperchierie. Convien però soggiungere a lode dei Conti di Fratta, che i loro buli erano famosi nel territorio per una esemplare mansuetudine, e che, se ne tenevano, gli era più per andazzo che per tracotanza. Il capitano Sandracca, antico eroe di Candia, vedeva con raccapriccio questa genia, diceva egli, di scorribanda irregolare; e tanto erasi adoperato presso il Conte che gli avevano relegati in un camerotto vicino alla stalla, e lo stesso Marchetto cavallante, che all’occorrenza n’era il capo, non poteva entrare in cucina senza depor prima nell’andito le pistole e il coltellaccio. Il Capitano di questo suo raccapriccio adduceva il motivo stesso introdotto dai Signori Sindaci, cioè che cotali armi sono abbominevoli ad ogni genere di milizia. Egli diceva di aver più paura d’un coltello che d’un cannone; e questo poteva esser vero a Fratta dove non s’erano mai veduti cannoni.

Accomodata un po’ all’ingrosso quella difficile materia delle armi, si accinsero i Signori Sindaci a regolare quella non meno importante delle monete; ma la prima stava loro troppo a cuore ed era turbata da troppi disordini, perché non vi dovessero tornar sopra tantosto. Infatti nello stesso anno tornarono a ribadir il chiodo del divieto di portar armi a chi non fosse munito della voluta licenza, estendendolo anche a questi nelle feste sagre o pubbliche solennità, coll’avvertenza, che intorno a tali mancanze si riceveranno denunzie segrete con promessa di segretezza e premio di ducati 20 al denunciante. – Come si vede questa faccenda premeva assaissimo al Maggior Consiglio, per cui autorità i Signori Sindaci buttavano fuori proclami sopra proclami. Ma l’esuberanza appunto era indizio d’effetto mediocre. Infatti non era facile il sindacato delle armi in una provincia divisa e suddivisa da cento diverse giurisdizioni soprapposte e intersecate le une dalle altre; contermine a paesi stranieri come il Tirolo e la Contea di Gorizia; solcata ad ogni passo da torrenti e da fiumane sulle quali scarseggiavano, nonché i ponti, le barche; e fatta dieci volte più vasta che ora non sia da strade distorte, profonde, infamissime, atte più a precipitare che ad aiutare i passeggieri. Da Colloredo a Collalto, che è il tratto di quattro miglia, mi ricorda che fino a vent’anni fa due agili e robusti cavalli sudavano tre ore per trascinare un cocchio tanto ben saldo e compaginato da resistere agli strabalzi delle buche e dei macigni che s’incontravano. Più v’avea un buon miglio pel quale la strada correva in un fosso o torrente; e per sormontare quel passo richiedevasi indispensabile il soccorso d’un paio di buoi. Le vie carozzabili non erano diverse da quelle nel resto della provincia e ognuno si può figurare qual dovesse essere la forza esecutiva delle autorità sopra persone difese d’ogni parte da tanti ostacoli naturali. Fra questi voglio anche tralasciar per ora di metter in conto la pigrizia e la venale complicità dei zaffi, dei cavallanti18 e perfino dei cancellieri; costretti quasi a cotali compromessi per rimediare alla soverchia modicità delle tariffe e alla proverbiale avarizia dei principali. Fra costoro, per esempio, v’avea taluno che, anziché retribuir d’alcuna mercede il proprio cancelliere o nodaro, pretendeva far parte con lui delle tasse percepite, e mi sovviene d’un nodaro costretto a condannar la gente il doppio di quanto avrebbe dovuto, per soddisfare all’ingordigia del giurisdicente e insieme cavarci di che vivere. Un altro castellano, quando era al verde, costumava denunciar egli stesso alla cancelleria un supposto delitto per leccare la sua quota sulla paga dovuta all’officiale pel processo dalla parte condannata. Certo il giurisdicente e il cancelliere di Fratta non erano di tali sentimenti; ma io peraltro non mi ricordo di aver udito mai levar a cielo la loro giustizia. Invece il Cancelliere, quando era sciolto dal suo ministero di ombra, e non si perdeva a ciaramellare di donnicciuole e di tresche, moveva sempre lunghissime lamentazioni sulla strettezza delle tariffe; le quali, secondo lui, proibivano assolutamente l’entrata del Paradiso ad ogni officiale di giustizia che non provasse categoricamente a San Pietro di esser morto di fame. Con quanto diritto egli si dolesse, io non voglio giudicare; so peraltro che l’inquisizione di uno o più rei portava in tariffa la paga di lire una, equivalente a centesimi 50 di franco. Io credo che non si potesse assicurare ai sudditi una giustizia più a buon mercato; ma l’è della giustizia come dell’altra roba, che chi più spende meno spende; ed i proverbi rade volte hanno torto. Così anche avveniva delle lettere, che il porto di una di esse nei confini del Friuli si pagava soldi tre; e l’era una bazza con quella diavoleria di strade. Ma cosa importa se si doveva scriverne dieci per farne arrivar una; ed anco questa non giungeva che per caso, e spesse volte inutile per la tardanza? In fin dei conti, sotto un certo aspetto che m’intendo io, non hanno torto coloro che benedicono San Marco; ma sotto mille aspetti diversi da quell’uno io benedico tutti gli altri santi del paradiso e lascio in tacere il Quarto Evangelista col suo Leone. Son vecchio ma non innamorato della vecchiaia; e dell’antichità venero la lunghezza ma non il colore della barba.

Certo, per coloro che aveano ereditato molti diritti e pochi doveri e intendevano continuare l’usanza, San Marco era un comodissimo patrono. Nessun conservatore più conservatore di lui: neppur Metternich o Chateaubriand. Quale il Friuli gli era stato legato dai Patriarchi d’Aquileia, tale l’avea serbato colle sue giurisdizioni, co’ suoi statuti, co’ suoi parlamenti. Fantasma di vita pubblica che covava forse dapprincipio un germe di vitalità, ma che sotto le ali del Leone finì da ultimo a non altro, che a nascondere una profonda indifferenza anzi una stanca rassegnazione agli ordini invecchiati della Repubblica. Le effimere scorrerie dei Turchi, sul finire del Quattrocento, aveano empiuto quella estrema provincia d’Italia d’una paura sterminata, quasi superstiziosa; sicché la dedizione a Venezia parve una fortuna; come antica trionfatrice che quella era della potenza ottomana. Ma l’astuta negoziatrice conobbe che per mantenersi senz’armi nel nuovo dominio le bisognava il braccio dei castellani, sorti a nuova prepotenza pel bisogno che il contado aveva avuto di loro nelle ultime invasioni turchesche. Da ciò la tolleranza dei vecchi ordinamenti feudali; la quale si perpetuò come tutto si perpetuava in quel corpo già infermo e paludoso della Repubblica. I nobili continuarono lor dimora nei castelli tre secoli dopo che i loro colleghi connazionali s’eran già fatti cittadini; e le virtù d’altri tempi in parte diventarono vizii, quando il mutarsi delle condizioni generali tolse loro l’aria di cui vivevano. Il valore diventò ferocia, l’orgoglio soperchieria; e l’ospitalità cambiossi a poco a poco nella superba e illegale protezione dei peggiori capi da forca. San Marco sonnecchiava; o se vegliava e puniva, la giustizia si faceva al buio; atroce pel mistero, e inutile pel nessun esempio. Intanto il patriziato friulano cominciava a dividersi in due fazioni; l’una paesana, più rozza, più selvatica, e meno propizia alla dominazione dei curiali veneziani; l’altra veneziana, cittadinante, ammollita dal diuturno consorzio coi nobili della dominante. Le antiche memorie famigliari e la vicinanza delle terre dell’Impero attiravano la prima al partito imperiale; la seconda per somiglianza di costumi piegavasi sempre meglio a una pecorile obbedienza dei governanti; ribelle la prima per istinto; impecorita la seconda per nullaggine, ambidue piucché inutili nocive al bene del paese. Così veggiamo parecchi casati magnatizi durare per molte generazioni al servizio della Corte di Vienna, e molti altri invece imparentarsi coi nobiluomini di Canalazzo19 ed esser onorati nella Repubblica da cariche cospicue. Ma i due partiti non s’aveano diviso fra loro le costumanze e i favori per modo che non fosse qualche parte promiscua. Anzi alcuno fra i più petulanti castellani fu veduto talvolta andarne a Venezia per far ammenda dei soprusi commessi, o comperarne dai Senatori la dimenticanza con delle lunghe borse di zecchini. E v’avevano anche dei nobiluzzi, venezievoli in città pei tre mesi d’inverno, che tornati fra i loro merli inferocivano peggio che mai; sebbene tali gradassate somigliassero più spesso truffe che violenze, e sovente anche prima di commetterle se ne fossero assicurati l’impunità. Quanto a giustizia io credo che la cosa stesse fra gatti e cani, cioè che nessuno la pigliasse sul serio, eccettuati i pochi timorati di Dio che anco erano soggetti a pigliar di gran granchi per ignoranza. Ma in generale quello era il regno dei furbi; e soltanto colla furberia il minuto popolo trovava il bandolo di ricattarsi delle sofferte prepotenze. – Nel diritto forense friulano l’astuzia degli amministrati faceva l’uffizio dell’equitas nel diritto romano. L’ingordigia e l’alterezza degli officiali e dei rispettivi padroni segnavano i confini dello strictum jus. – Comunque la sia, se al di qua del Tagliamento predominava fra i castellani il partito veneziano, al quale si vantavano di appartenere da tempo immemorabile i Conti di Fratta; al di là invece la fazione imperiale padroneggiava sfacciatamente, la quale, se cedeva all’emula in popolarità ed in dovizia, le era di gran lunga soprastante per operosità, e per audacia. Tuttavia anche in essa v’avea chi la prendeva calda e chi fredda; chi stava nel tiepido; e questi come sempre erano i dappoco e i peggiori. La giustizia sommaria esercitata spesse volte dal Consiglio di Dieci sopra alcuni imprudenti, accusati di congiurare in favor degli imperiali e a detrimento della Repubblica, non era fatta per incoraggiare le mene dei sediziosi. Sebbene cotali scoppii erano troppo rari perché ne durasse a lungo lo spavento; e le trame continuavano tanto più frivole ed innocue quanto più i tempi si facevano contrarii e il popolo indifferente ad artificiali e non cercate innovazioni.

Al tempo di Maria Teresa tre castellani del Pedemonte, un Franzi, un Tarcentini e un Partistagno furono accusati di fomentare l’inquietudine del paese e di adoperarsi a volger l’animo delle Comunità in favor dell’Imperatrice. Il Consiglio di Dieci li fece spiare diligentemente, e n’ebbe che le accuse fatte non erano false. Più di tutti il Partistagno, posto col suo castello quasi sul confine illirico, parteggiava scopertamente per gli imperiali, diceva beffarsi di San Marco, e trincava in fin di mensa a quel giorno che il signor Luogotenente, ripeto le parole del suo brindisi, e gli altri caca in acqua sarebbero stati cacciati a piedi nel sedere di là del Tagliamento. Tutti ridevano di questi augurii; e la baldanza del feudatario era ammirata e imitata anche, come si poteva meglio, dai vassalli e dai castellani all’intorno. A Venezia si tenne Consiglio Segreto; e fu deciso che i tre turbolenti fossero citati a Venezia per giustificarsi; ognuno sapeva che le giustificazioni erano la scala più infallibile per salire ai piombi20.

Il temuto Messer Grande21 capitò dunque in Friuli con tre lettere sigillate, da disuggellarsi e leggersi cadauna in presenza del rispettivo imputato; nelle quali era contenuta l’ingiunzione di recarsi ipso facto a Venezia per rispondere sopra inchieste dell’Eccellentissimo Consiglio di Dieci. Tali ingiunzioni erano solite obbedirsi alla cieca; tanto ai lontani e agli ignoranti appariva ancora formidabile la forza del Leone, che era stimato inutile il tentar di sfuggirgli. Il Messer Grande adunque fece la sua solenne imbasciata al Franzi e al Tarcentini; ambidue i quali chinarono uno per volta il capo e andarono spontaneamente a porsi nelle segrete degli Inquisitori. Indi passò colla terza lettera al castello del Partistagno, il quale avea già saputo dell’umiltà dei compagni e lo attendeva rispettosamente nella gran sala del pianterreno. Il Messer Grande entrò col suo gran robone rosso che spazzava la polvere, e con atto solenne cavata di petto la lettera ed apertala, ne lesse il contenuto. Egli leggeva con voce nasale, qualmente che, il Nobile ed Eccelso Signore Gherardo di Partistagno fosse invitato entro sette giorni a comparire dinanzi all’Eccellentissimo Consiglio di Dieci, etc. etc. – Il nobile ed eccelso signor Gherardo di Partistagno gli stava dinanzi colla fronte curva sul petto e la persona tremolante, quasi ascoltasse una sentenza di morte. La voce del Messer Grande si faceva sempre più minacciosa nel vedere quell’attitudine di sgomento; e da ultimo quando lesse le sottoscrizioni pareva che tutto il terrore di cui si circondava il Consiglio Inquisitoriale spirasse dalle sue narici. Rispose il Partistagno con voce malsicura che avrebbe incontanente obbedito, e volse ad un servo la mano con cui s’era appoggiato ad una tavola, quasi comandasse il cavallo o la lettiga. Il Messer Grande superbo di aver fulminato secondo il suo solito quell’altero feudatario volse le calcagna, per uscire a capo ritto dalla sala. Ma non avea mosso un passo che sette od otto buli fatti venire il giorno prima da un castello che il Partistagno possedeva nell’Illirico, gli si avventarono addosso: e batti di qua e pesta di là gliene consegnarono tante che il povero Messer Grande non ebbe in breve neppur voce per gridare. Il Partistagno aizzava quei manigoldi dicendo di tratto in tratto:

– Sì, da senno; son pronto ad obbedire! Dagliene, Natale! Giù, giù su quel muso di cartapecora! Venir qui nel mio castello a portarmi cotali imbasciate!... Furbo per diana!... Uh come sei conciato!... Bravi, figliuoli miei! Ora, basta, ora: che gli avanzi fiato da tornare a Venezia a recar mie novelle a quei buoni Signori!

– Ohimé! tradimento! pietà! son morto! – gemeva il Messer Grande dimenandosi sul pavimento e cercando rifarsi ritto della persona.

– No, non sei morto, ninino – gli veniva dicendo il Partistagno. – Vedi?... Ti reggi anche discretamente in piedi, e con qualche rattoppatura nella tua bella vestaglia rossa non ci parrà più un segno del brutto accidente. Or va’ – e così dicendo lo conduceva fuor della porta. – Va’ e significa a’ tuoi padroni che il capo dei Partistagno non riceve ordini da nessuno, e che se essi hanno invitato me, io invito loro a venirmi a trovare nel mio castello di Caporetto sopra Gorizia, ove riceveranno tripla dose di quella droga che hai ricevuto tu.

Con queste parole egli lo avea condotto saltellone fin sulla soglia del castello, ove gli diede uno spintone che lo mandò a ruzzolare fuori dieci passi sul terreno con gran risa degli spettatori. E poi mentre il Messer Grande palpandosi le ossa ed il naso scendeva verso Udine in una barella requisita per istrada, egli co’ suoi buli spiccò un buon volo per Caporetto donde non si fece più vedere sulle terre della Serenissima. I vecchi contavano che de’ suoi due compagni imbucati nelle segrete non si avea più udito parlare.

Queste bazzecole succedevano in Friuli or sono cent’anni e le paiono novelle dissotterrate dal Sacchetti. Così è l’indole dei paesi montani che nelle loro creste di granito serbano assai a lungo l’impronte degli antichi tempi; ma siccome il Friuli è un piccolo compendio dell’universo, alpestre piano e lagunoso in sessanta miglia da tramontana a mezzodì, così vi si trovava anche il rovescio della medaglia. Infatti al castello di Fratta durante la mia adolescenza io udiva sempre parlare con raccapriccio dei castellani dell’alta; tanto il venezianismo era entrato nel sangue di quei buoni conti. E son sicuro che questi furono scandolezzati più che gli stessi Inquisitori del rinfresco servito al Messer Grande per opera del Partistagno.

Ma la giustizia alta bassa pubblica privata legislativa ed esecutiva della Patria del Friuli mi ha fatto uscir di mente il grandioso focolare, intorno a cui al lume delle due lucernette e allo scoppiettante fiammeggiar del ginepro io stava ricomponendo le figure che vi solevano sedere i lunghi dopopranzi della vernata al tempo della mia infanzia. Il Conte colla sua ombra, monsignor Orlando, il capitano Sandracca, Marchetto cavallante e ser Andreino il primo Uomo della Comune di Teglio. Questo è un nuovo personaggio di cui non ho ancora fatto parola, ma bisognerebbe discorrerne a lungo per dare un’idea del cosa fosse allora questo ceto mezzano campagnuolo fra la signoria e il contadiname. Cosa fosse davvero, sarebbe un intruglio a volerlo capire; ma cosa volesse sembrare, posso dirlo in due tratti di penna. Voleva sembrare umilissimo servitore nei castelli e confidente del castellano e perciò secondo padrone in paese. Chi aveva buona indole volgeva a bene questa singolare ambizione, e chi era invece taccagno, scroccone o cattivo, ne era tirato da più bassa e doppia malvagità. Ma ser Andreino andava primo fra i primi; poiché se era accorto e chiaccherone, aveva in fondo la miglior pasta del mondo, e non avrebbe cavata l’ala ad una vespa dopo esserne stato beccato. I servitori, gli staffieri, il trombetta, la guattera e la cuoca erano pane e cacio con lui; e quando il Conte non gli era fra i piedi, scherzava con esso loro e aiutava il figliuolo del castaldo a spennar gli uccelletti. Ma appena capitava il Conte, si ricomponeva per badare solamente a lui, quasiché fosse sacrilegio occuparsi d’altro quando si godeva della felicissima presenza d’un giurisdicente. E secondo i probabili desiderii di questo, egli era il primo a ridere, a dir di sì, a dir di no, e perfino anche a disdirsi se aveva sbagliato colla prima imbroccata.

C’era anche un certo Martino, antico cameriere del padre di Sua Eccellenza, che bazzicava sempre per cucina, come un vecchio cane da caccia messo fra gli invalidi: e voleva ficcare il naso nelle credenze e nelle cazzeruole, con gran disperazione della cuoca, brontolando sempre contro i gatti che gli si impigliavano nelle gambe. Ma costui essendo sordo e non piacendosi troppo di ciarlare, non entrava per nulla nella conversazione. Unica sua fatica era quella di grattare il formaggio. Gli è vero che colla flemma naturale tirata ancor più in lungo dall’età, e collo straordinario consumo di minestra che si faceva in quella cucina, una tale fatica lo occupava per molte ore del giorno. Mi par ancora d’udire il romore monotono delle croste menate su e giù per la gratuggia con pochissimo rispetto delle unghie; in premio della qual parsimonia il vecchio Martino aveva sempre rovinate e impiastricciate di ragnateli le punte delle dita. Ma a me non istarebbe il prendermi beffa di lui. Egli fu, si può dire, il mio primo amico; e se io sprecai molto fiato nel volergli scuotere il timpano colle mie parole, n’ebbi anche per tutti gli anni che visse meco una tenera ricompensa d’affetto. Egli era quello che mi veniva a cercare quando qualche impertinenza commessa mi metteva al bando della famiglia; egli mi scusava presso Monsignore, quando invece di servirgli messa scappava nell’orto ad arrampicarmi sui platani in cerca di nidi; egli testimoniava delle mie malattie, quando il Piovano davami la caccia per la lezione di dottrina; e se mi cacciavano a letto, era anche capace di prender l’oglio o la gialappa in mia vece. Insomma fra Martino e me eravamo come il guanto e la mano, e s’anco entrando in cucina non giungeva a discernerlo pel gran buio che vi regnava in tutta la giornata, un interno sentimento mi avvertiva se egli vi era, e mi menava diritto a tirargli la parrucca o a cavalcargli le ginocchia. Se poi Martino non vi era, tutti mi davano la baia perché restava così mogio mogio come un pulcino lontano dalla chioccia; e finiva col darla a gambe indispettito, a menoché una raschiata del signor Conte non mi facesse prendere radici nel pavimento. Allora io stava duro duro che neppur la befana m’avrebbe fatto muovere; e soltanto dopo ch’egli era uscito riprendeva la libertà del pensiero e dei movimenti. Io non seppi mai la ragione di un sì strano effetto prodotto sopra di me da quel vecchio lungo e pettoruto; ma credo che le sue guarnizioni scarlatte mi dessero il guardafisso come ai polli d’India.

Un’altra mia grande amicizia era il cavallante che a volte mi toglieva in groppa e menavami seco nelle sue gite di piacere per l’affissione dei bandi e simili faccende. Io poi non aveva pei coltelli e per le pistole un odio simile a quello del capitano Sandracca; e durante la via frugava sempre per le tasche a Marchetto per rubargli il pugnale e far con esso mille attucci e disfide ai villani che s’incontravano. Una volta fra le altre che s’andava a Ramuscello a recar una citazione al castellano di colà, e il cavallante avea preso seco le pistole, frugandogli per le tasche ad onta delle pestate di mani ch’egli mi avea dato poco prima, feci scattare il grilletto, e n’ebbi un dito rovinato; e lo porto ancora un po’ curvo e monco nell’ultima falange in memoria delle mie escursioni pretoriali. Quel castigo peraltro non mi guarì punto della mia passione per le armi; e Marchetto asseverava che sarei riescito un buon soldato, e diceva peccato che non dimorassi in qualche paese dell’alta ove si avvezzava la gioventù a menar le mani, non a dar la caccia alle villane e a giocar il tresette coi preti e colle vecchie. A Martino peraltro non andavano a sangue quelle mie cavalcate. La gente del paese, benché non fosse rissosa e manesca al pari di quella del pedemonte, aveva muso franco abbastanza per imbeversi spesse volte delle sentenze di Cancelleria, e per dar la berta al cavallante che le intimava. E allora col sangue caldo di Marchetto non si sapeva cosa potesse succedere. Questi assicurava che la mia compagnia gli imponeva dei riguardi e lo impediva dall’uscire dai gangheri; io mi vantava alla mia volta che ad una evenienza gli avrei dato mano ricaricando le pistole, o menando colpi da disperato colla mia ronca; e così bricciola com’era, mi sapeva male che altri ridesse di queste spampanate. Martino crollava il capo; e intendendo ben poco dei nostri ragionamenti seguitava a borbottare che non era prudenza l’esporre un ragazzo alle rappresaglie cui poteva andar incontro un cavallante, andando a levar pegni o ad affiggere bandi di dazii e di confische. Al fatto quei villani stessi che facevano sì trista figura nelle Cernide e tremavano nella cancelleria ad un’occhiata dell’officiale, sapevano poi adoperar per bene il fucile e la mannaia in casa loro o nelle campagne; e per me, se dapprincipio mi faceva meraviglia una tale sconcordanza, mi sembra ora di averne trovato la vera ragione. Noi Italiani ebbimo sempre una naturale antipatia per le burattinate; e ne ridiamo sì, assai volentieri; ma più volentieri anco ridiamo di coloro che vogliono darci ad intendere che le sono miracoli e cose da levarsi il cappello. Ora quelle masnade d’uomini, attruppati come le pecore, messi in fila a suon di bacchetta e animati col piffero, nei quali il valore è regolato da una parola tronca del comandante, le ci parvero sempre una famosa comparsa di burattini; e questo accadde, perché tali comparse furono sempre a nostro discapito e radissime volte a vantaggio. Ma stando così le cose pur troppo, l’idea di entrare in quelle comparse e di farvi la figura del bambolo ci avvilisce a segno che ogni volontà di far bene e ogni sentimento di dignità ci scappa del corpo. Parlo, s’intende, dei tempi andati; ora la coscienza d’un gran fine può averci raccomodato l’indole in questo particolare. Ma anche adesso, filosoficamente non si avrebbe forse torto a pensare come si pensava una volta; e il torto sta in questo, che si ha sempre torto a incaparsi di restar savii e di adoperare secondo le regole di saviezza, allorché tutti gli altri son pazzi ed operano a seconda della loro pazzia. Infatti l’è cosa detta e ridetta le cento volte, provata provatissima, che petto contro petto uno de’ nostri tien fronte e fa voltar le spalle a qualunque fortissimo di ogni altra nazione. Invece pur troppo non v’è nazione dalla quale con più fatica che dalla nostra si possa levare un esercito e renderlo saldo e disciplinato come è richiesto dall’arte militare moderna. Napoleone peraltro insegnò a tutti, una volta per sempre, che non fallisce a ciò il valor nazionale, sibbene la volontà e la costanza dei capi. E del resto, di tal nostra ritrosia ad abdicare dal libero arbitrio, oltre all’indole indipendente e raziocinante abbiamo a scusa la completa mancanza di tradizioni militari. Ma di ciò basta in proposito ai giurisdizionali di Fratta; e quanto al loro tremore nel cospetto delle autorità non è nemmen d’uopo soggiungere che non tanto era effetto di pusillanimità, quanto della secolare reverenza e del timore che dimostra sempre la gente illetterata per chi ne sa di più di lei. Un cancelliere che con tre sgorbi di penna poteva a suo capriccio gettar fuori di casa in compagnia della miseria e della fame due tre o venti famiglie, doveva sembrare a quei poveretti qualche cosa di simile ad uno stregone. Ora che le faccende in generale camminano sopra norme più sicure, anche gli ignoranti guardano la giustizia con miglior occhio, e non ne prendono sgomento come della sorella della forca o dell’oppignorazione.

In compagnia delle persone di casa che ho nominato fin qui, il piovano di Teglio, mio maestro di dottrina e di calligrafia, usava passar qualche ora sotto la cappa del gran camino, rimpetto al signor Conte, facendogli delle gran riverenze ogni volta ch’esso gli volgeva la parola. L’era un bel pretone di montagna poco amico degli abatini d’allora e bucherato dal vaiuolo a segno che le sue guancie mi fecero sempre venir in mente il formaggio stracchino, quando è ben grasso e pieno di occhi, come dicono i dilettanti. Camminava molto adagio; parlava più adagio ancora, non trascurando mai di dividere ogni sua parlata in tre punti; e questa abitudine gli si era ficcata tanto ben addentro nelle ossa che mangiando tossendo o sospirando pareva sempre che mangiasse tossisse e sospirasse in tre punti. Tutti i suoi movimenti apparivano così ponderati, che se gli accadde mai di commettere qualche peccato, ad onta della sua vita generalmente tranquilla ed evangelica, dubito che il Signore siasi indotto a perdonarglielo. Perfino i suoi sguardi non si movevano senza qualche gran motivo; e pareva che stentatamente s’inducessero a traforare due siepaie di sopraccigli che proteggevano i loro agguati. Era desso l’ideale della premeditazione, sceso ad incarnarsi nel grembo d’una montagnola di Clausedo; tonsurato dal vescovo di Porto e vestito del più lungo giubbone di peluzzo che abbia mai combattuto coi polpacci d’un prete. Egli tremolava un pochino nelle mani, difetto che nuoceva alquanto alla sua qualità di calligrafo, ma che non lo impediva dallo appoggiarsi saldamente alla sua canna d’India col pomo di vero corno di bue. Circa le sue facoltà morali, per esser nato nel Settecento lo si potea vantare per un modello d’indipendenza ecclesiastica; giacché le riverenze profondissime che faceva al Conte non lo impedivano dal condursi a proprio talento nella cura d’anime: e forse anco, esse equivalevano a questo modo di dire: Illustrissimo signor Conte, io la venero e la rispetto; ma del resto a casa mia il padrone sono io.

Il cappellano di Fratta invece era un salterello allibito e pusillanime che avrebbe dato la benedizione col mescolo di cucina, nulla nulla che al Conte fosse saltato questo grillo. Non per poca religione, no; ma il poveruomo si smarriva tanto al cospetto della signoria, che non sapeva proprio più cosa si facesse. Per questo quando gli bisognava stare in castello pareva sempre sulle spine; e credo che se ora che è morto gli si volesse dare un vero Purgatorio non occorrerebbe altro che rimetterlo a vivere in corpo d’un maestro di casa. Nessuno più di lui era capace di durare seduto le ore colle ore senza alzar gli occhi o batter becco quando altri lo osservava; ma del pari possedeva un’arte miracolosa di sparir via senza esser veduto, anche in una compagnia di dieci persone. Soltanto quand’egli veniva in coda al piovano di Teglio qualche barlume di dignità sinodale gli rischiarava la fisonomia; ma ben si accorgeva che era uno sforzo per tener dietro al superiore, e in quelle volte era tanto occupato di tener a mente la sua parte che non ascoltava né vedeva più, ed era capace di metter in bocca bragie per nocciuole, come il fattore per iscommessa ne aveva fatto l’esperimento. Il signor Ambrogio Traversini, fattore e perito del castello, era il martello del povero Cappellano. E tra loro due correvano sempre quelle burle quelle farsette, che erano tanto di moda al tempo andato e che nei crocchi di campagna tenevano allora il posto della lettura dei giornali. Il Cappellano, com’era di dovere, pagava sempre le spese di cotali trastulli; e ne veniva rimeritato con qualche invito a pranzo, ricompensa più crudele dello stesso malanno. Senonché il più delle volte la preoccupazione di quegli inviti gli metteva addosso la quartana doppia ed egli così non avea d’uopo di bugie per iscusarsene. Quando poi gli veniva fatto di metter piede di là del ponte levatoio, nessun uomo, credo, si sentiva più felice di lui; ed era questo il compenso de’ suoi martirii. Saltava correva si stropicciava le mani il naso i ginocchi; prendeva tabacco, bisbigliava giaculatorie, passava il bastoncino da un’ascella all’altra, parlava, rideva, gesticolava con tutti, e accarezzava ogni persona che gli capitasse sotto mano, fosse un ragazzo, una vecchia, un cane o una giovenca. Io pel primo ebbi la gloria e la cattiveria di scoprire le strane giubilazioni del Cappellano ad ogni sua scappata dal castello; e fatta ch’io ebbi la scoperta, tutti, quand’egli partiva, si affollavano alle finestre del tinello per goder lo spettacolo. Il fattore giurò che una volta o l’altra per la soverchia consolazione egli sarebbe saltato nella peschiera; ma convien dire a lode del povero prete che questo accidente non gli avvenne mai. Il maggior segno di contentezza che diede fu una volta quello di mettersi coi biricchini a scampanare a festa dinanzi la chiesa. Ma in quel giorno l’avea scappolata bella. C’era in castello un prelato di Porto, chiamato il Canonico di Sant’Andrea, grande teologo e pochissimo tollerante dell’ignoranza altrui, che aveva onorato in addietro e seguitava ad onorar la Contessa del suo patrocinio spirituale. Costui con monsignor Orlando e il Piovano s’era impancato vicino al focolare a dogmatizzar di morale. Il Cappellanello che veniva a domandar conto della digestione del signor Conte, come voleva la prammatica di ogni dopopranzo, era stato lì lì per cascare nel trabocchetto; ma a metà della cucina aveva orecchiato la voce del teologo e protetto dalle tenebre se l’avea data a gambe, ringraziando tutti i santi del calendario. Figuratevi se non avea ragione di scampanar d’allegrezza!

Oltre a questi due preti e ad altri canonici e abati della città che venivano a visitar di sovente monsignore di Fratta, il castello era frequentato da tutti i signorotti e castellani minori del vicinato. Una brigata mista di beoni, di scioperati, di furbi e di capi ameni, che spassavano la loro vita in caccie in contese in amorazzi e in cene senza termine; e lusingavano del loro corteo l’aristocratico sussiego del signor Conte. Quand’essi capitavano era giorno di gazzarra. Si spillava la miglior botte; molti fiaschi di Picolit e di Refosco perdevano il collo; e le giovani aiutanti della cuoca si rifugiavano nello sciacquatoio. La cuoca poi non conosceva più né amici né nemici; correva qua e là, dava dei gomiti nello stomaco a Martino, pestava i piedi a Monsignore, scannava anitre, sbudellava capponi; e il suo affaccendamento non era superato che da quello del girarrosto, il quale strideva e sudava oglio per tutte le carrucole nel dover menar attorno quattro o cinque spedate di lepri e di selvaggina. Si imbandivano mense nella sala e in due o tre camere contigue; e s’accendeva il gran focolare della galleria, il quale era tanto grande che a saziarlo per una volta tanto non si richiedeva meno d’un mezzo passo di legna. Si noti peraltro che dopo la prima vampata la comitiva doveva rifugiarsi dietro le pareti più lontane e nei cantoni per non rimanerne abbrustolita. Lo scalpore più indiavolato era fatto da questi Signori; ma le parti di spirito erano in tali circostanze affidate a qualche dottorino, a qualche abatucolo, a qualche poeta di Portogruaro che non mancava mai di accorrere all’odor della sagra. In fin di tavola si usava improvvisare qualche sonetto, di cui forse il poeta aveva a casa lo scartafaccio e le correzioni. Ma se la memoria gli falliva non mancava mai la solita chiusa di ringraziamenti e di scuse per la libertà che la compagnia s’era permessa, di correre in frotta a bere il vino e a lodar i meriti infiniti del Conte e della Contessa. Quello che più di sovente cascava in questa necessità, era un avvocato lindo e incipriato che nella sua gioventù avea fatto la corte a molte dame veneziane, e viveva allora di memorie e di cavilli in compagnia della massaia. Un altro giovinastro chiamato Giulio Del Ponte che capitava sempre insieme con lui e si piccava di misurar versi più pel sottile, si godeva di fargli perdere la bussola empiendogli troppo sovente il bicchiere. La commedia finiva in cucina con grandi risate alle spalle del dottore, e il giovinotto ch’era stato a Padova se ne intendeva tanto bene che gli restava in grazia meglio di prima. Costui e un giovine pallido e taciturno di Fossalta, il signor Lucilio Vianello, sono i soli che fin d’allora mi rimangono in memoria di quella ciurma semiplebea. Fra i cavalieri, un Partistagno, parente forse di quello del Messer Grande, mi sta ancora dinanzi colla sua grande figura ardita e robusta, e un certo altiero riserbo di modi che assai contrastava coll’avvinazzata licenza dei più. E fin d’allora mi ricorda aver notato fra costui e il Vianello certi sguardi di sbieco che non dinotavano esser fra loro molto buon sangue. E tuttavia erano i due che meglio avrebbero dovuto intendersela fra loro, essendo tutto il resto una egual feccia di spensierati e di furbacchioni.

Quand’io cominciai ad aver ragione di me stesso e a far istizzire i polli nel cortile di Fratta, l’unico figliuolo maschio del Conte era già da un anno a Venezia presso i padri Somaschi ov’era stato educato suo padre: perciò di lui non mi rimane memoria, riguardante quel tempo, se non per qualche scappellotto ch’egli mi avea dato prima di partire, per farmi provare la sua padronanza; e sì che allora io era un bambino che a stento rosicchiava il pane. Il vecchio Martino pigliò fin d’allora le mie difese; e mi sovviene ancora d’una tirata d’orecchie da lui data di soppiatto al padroncino, per la quale questi tirò giù strillando i travi della casa: e Martino n’ebbe dal Conte una buona lavata di capo. Fortuna ch’era sordo!

Quanto alla Contessa ella non compariva mai in cucina se non due volte il giorno nella sua qualità di suprema direttrice delle faccende casalinghe; la prima il mattino a distribuire la farina, il butirro, la carne e gli altri ingredienti bisognevoli al vitto della giornata; la seconda dopo l’ultima portata del pranzo a far la parte della servitù delle vivande rimandate dalla mensa padronale e a riporre il resto in piatti più piccoli per la cena. Ella era una Navagero di Venezia, nobildonna lunga arcigna e di breve discorso, che fiutava tabacco una narice per volta e non si moveva mai senza il sonaglio delle sue chiavi appeso al traversino22. L’aveva sempre in capo una cuffietta di merlo bianco fiochettata di rosa alle tempie come quella d’una sposina; ma io credo non la portasse per vanagloria ma unicamente per abitudine. Una smaniglia di spagnoletto le pendeva dal collo sul fazzoletto nero di seta, e sosteneva una crocetta di brillanti, la quale a dir della cuoca avrebbe fornito la dote a tutte le ragazze del territorio. Sul petto poi, legato in uno spillone d’oro, aveva il ritratto d’un bell’uomo in parrucchino ad ali di piccione, che non era certo il suo signor marito; poiché questo aveva un nasone spropositato e quello invece un nasino da buffetti, un vero ninnoletto da fiutar acqua di rose ed essenze di Napoli. A dirla schietta come l’ho saputa poi, la nobildonna non si era piegata che a malincuore a quel matrimonio con un castellano di terraferma; ché le sembrava di cascare nella mani dei barbari, avvezza com’era alle delicature ed agli spassi delle zitelle veneziane. Ma obbligata a far di necessità virtù, l’aveva cercato rimediare a quella disgrazia col tirare di tempo in tempo suo marito a Venezia; e là si era vendicata del ritiro provinciale cogli sfoggi, colle galanterie, e col farsi corteggiare dai più avvenenti damerini. Il ritratto che portava al petto doveva essere del più avventurato fra questi; ma dicevano che quel tale le fosse morto d’un colpo d’aria buscato di sera andando in gondola con lei; e dopo non ne avea più voluto sapere ed erasi ritirata per sempre a Fratta con grande compiacenza del signor Conte. Quando questo atroce caso avvenne la nobildonna volgeva alla quarantina. Del resto la Contessa passava le lunghe ore sul genuflessorio, e quando mi incontrava o sulla porta della cucina o per le scale mi tirava alcun poco i capelli nella cuticagna, unica gentilezza che mi ricorda aver ricevuto da lei. Un quarto d’ora per giorno lo impiegava nell’assegnar il lavoro alle cameriere, e il restante del suo tempo lo passava in un salotto colla suocera e le figlie, facendo calze e leggendo la Vita del Santo giornaliero.

La vecchia madre del Conte, l’antica dama Badoer, viveva ancora a que’ tempi; ma io non la vidi che quattro o cinque volte, perché la era confitta sopra una seggiola a rotelle dalla vecchiaia e a me era inibito entrare in altra camera che non fosse la mia ove dormiva allora colla seconda cameriera o come la chiamavano colla donna dei ragazzi. La era una vecchia di quasi novant’anni piuttosto pingue e d’una fisionomia dinotante il buon senso e la bontà. La sua voce, soave e tranquilla in onta all’età, aveva per me un tale incanto che spesso arrischiava di buscar qualche schiaffo per andarla ad udire postandomi coll’orecchio alla serratura della sua porta. Una volta che la cameriera aperse la porta mentre io era in quella positura, ella s’accorse di me e mi fe’ cenno di avvicinarmi. Io credo che il mio cuore balzasse fuori del petto per la consolazione, quando essa mi mise la mano sul capo dimandandomi con severità, ma senza nessuna amarezza, cosa io mi facessi dietro l’uscio. Io le risposi ingenuamente ma tremolando per la commozione che mi stava là, contento di udirla parlare, e che la sua voce mi piaceva molto e mi pareva che non dissimile l’avrei desiderata a mia madre.

– Bene, Carlino, – mi rispose ella – io ti parlerò sempre con bontà finché meriterai di essere ben trattato pei tuoi buoni portamenti; ma non istà bene a nessuno e meno che meno ai fanciulli origliare dietro le porte; e quando vuoi parlare con me, devi entrar in camera e sedermiti vicino, ché io ti insegnerò, come posso, a pregar Iddio e a diventare un buon figliuolo.

Nell’udire queste cose a me poveretto venivan giù le lagrime quattro a quattro per le guancie. Era la prima volta che mi parlavano proprio col cuore; era la prima volta che mi si faceva il dono d’uno sguardo affettuoso e d’una carezza! e un tal dono mi veniva da una vecchia che aveva veduto Luigi XIV! Dico veduto, proprio veduto; perché lo sposo della nobildonna Badoera, quel vecchio Conte così ghiotto dei grammaestri e degli ammiragli, pochi mesi dopo il suo matrimonio era andato in Francia ambasciatore della Serenissima e vi aveva condotto la moglie che per due anni era stata la gemma di quella Corte! Quella stessa donna poi tornata a Fratta avea serbato l’eguali grazie dei modi e del parlare, l’egual rettitudine di coscienza, l’eguale altezza e purità di sentimenti, l’uguale spirito di moderazione e di carità, sicché anche perduto il fiore della bellezza avea continuato ad innamorare il cuore dei vassalli e dei terrazzani, come prima aveva innamorato quello dei cortigiani di Versailles. Tanto è vero che la vera grandezza è ammirabile ed ammirata dovunque, e né diventa né si sente mai piccola per cambiar che faccia di sedile. Io piangeva dunque a cald’occhi stringendo e baciando le mani di quella donna venerabile, e promettendomi in cuore di usare sovente della larghezza fattami di salire ad intrattenermi con lei, quando entrò la vera Contessa, quella delle chiavi, e diede un guizzo d’indignazione vedendomi nel salotto contro i suoi precisi ordinamenti. Quella volta la strappata della cuticagna fu più lunga del solito e accompagnata da un rabbuffo solenne e da un divieto eterno di mai più comparire in quelle stanze se non chiamato. Scendendo le scale dietro il muro, e grattandomi la coppa23 e piangendo questa volta più di rabbia che di dolore, udii ancora la voce della vecchiona che sembrava insoavirsi oltre all’usato per intercedere in mio favore, ma una strillata della Contessa e una violentissima sbattuta dell’uscio serratomi dietro mi tolse di capire la fine della scena. E così scesi una gamba dietro l’altra in cucina a farmi consolar da Martino.

Anche questa mia domestichezza con Martino spiaceva alla Contessa ed al fattore che era il suo braccio destro; perché secondo loro il mio pedagogo doveva essere un certo Fulgenzio, mezzo sagrista e mezzo scrivano del Cancelliere, che era nel castello in odore di spia. Ma io non poteva sopportare questo Fulgenzio e gli giocava certi tiri che anche a lui dovevano rendermi poco sopportabile. Una volta, per esempio, ma questo avvenne più tardi, essendo io ai mattutini di Giovedì Santo in coro dietro di lui, colsi il destro del suo raccoglimento per dispiccar dalla canna con cui si accendono le candele il cerino ancor acceso, e glielo attortigliai intorno alla coda. Laonde quando il cerino fu quasi consumato il foco si appiccò alla coda e da essa alla stoppa della perrucca, e Fulgenzio si mise a saltare pel coro, e i ragazzi che tenevano le ribebe24 in mano a corrergli intorno gridando acqua acqua. E in quel parapiglia le ribebe andavano attorno, e ne nacque un tal subbuglio che si dovette tardare d’una mezz’ora la continuazione delle funzioni. Nessuno seppe mai pel suo dritto la ragione di quello scandalo, ed io che ne fui sospettato l’autore ebbi la furberia di far l’indiano; ma con tutto ciò mi toccò la sportula25 d’un giorno di camerino a pane ed acqua, il che non contribuì certo a farmi entrar in grazia Fulgenzio: come l’incendio della parrucca non avea contribuito a render costui più favorevole a me.

Io dissi che la Contessa occupava la maggior parte del suo tempo facendo calze nel salotto in compagnia delle sue figlie. Ma l’ultima di queste, nei primi anni di cui mi ricordo, era bambina affatto, minore di me d’alcuni anni, e la dormiva nella mia stessa camera colla donna dei ragazzi che si chiamava Faustina. La Pisana era una bimba vispa, irrequieta, permalosetta, dai begli occhioni castani e dai lunghissimi capelli, che a tre anni conosceva già certe sue arti da donnetta per invaghire di sé, e avrebbe dato ragione a coloro che sostengono le donne non esser mai bambine, ma nascer donne belle e fatte, col germe in corpo di tutti i vezzi e di tutte le malizie possibili. Non era sera che prima di coricarmi io non mi curvassi sulla culla della fanciulletta per contemplarla lunga pezza; ed ella stava là coi suoi occhioni chiusi e con un braccino sporgente dalle coltri e l’altro arrotondato sopra la fronte come un bel angelino addormentato. Ma mentre io mi deliziava di vederla bella a quel modo, ecco ch’ella socchiudeva gli occhi e balzava a sedere sul letto dandomi dei grandi scappellotti e godendo avermi corbellato col far le viste di dormire. Queste cose avvenivano quando la Faustina voltava l’occhio, o si dimenticava del precetto avuto; poiché del resto la Contessa le aveva raccomandato di tenermi alla debita distanza dalla sua puttina, e di non lasciarmi prender con lei eccessiva confidenza. Per me c’erano i figliuoli di Fulgenzio, i quali mi erano abbominevoli più ancora del padre loro, e non tralasciava mai occasione di far loro dispetti; massime perché essi si affaccendavano di spifferare al fattore che mi aveano veduto dar un bacio alla contessina Pisana, o portarmela in braccio dalla greppia delle pecore fino alla riva della peschiera. Peraltro la fanciulletta non si curava al pari di me delle altrui osservazioni, e seguitava a volermi bene, e cercava farsi servire da me nelle sue piccole occorrenze piuttostoché dalla Faustina o dalla Rosa, che era l’altra cameriera, o la donna di chiave che or si direbbe guardarobbiera. Io era felice e superbo di trovar finalmente una creatura cui poteva credermi utile; e prendeva un certo piglio d’importanza quando diceva a Martino: – Dammi un bel pezzo di spago che debbo portarlo alla Pisana! – Così la chiamava con lui; perché con tutti gli altri non osava nominarla se non chiamandola la Contessina. Queste contentezze peraltro non erano senza tormento poiché pur troppo si verifica così nell’infanzia come nell’altre età il proverbio, che non fiorisce rosa senza spine. Quando capitavano al castello signori del vicinato coi loro ragazzini ben vestiti e azzimati, e con collaretti stoccati e berrettini colla piuma, la Pisana lasciava da un canto me per far con essi la vezzosa; e io prendeva un broncio da non dire a vederla far passettini e torcer il collo come la gru, e incantarli colla sua chiaccolina26 dolce e disinvolta. Correva allora allo specchio della Faustina a farmi bello anch’io; ma ahimè che pur troppo m’accorgeva di non potervi riescire. Aveva la pelle nera e affumicata come quella delle aringhe, le spalle mal composte, il naso pieno di graffiature e di macchie, i capelli scapigliati e irti intorno alle tempie come le spine d’un istrice e la coda scapigliata come quella d’un merlo scappato dalle vischiate. Indarno mi martorizzava il cranio col pettine sporgendo anche la lingua per lo sforzo e lo studio grandissimo che ci metteva; quei capelli petulanti si raddrizzavano tantosto più ruvidi che mai. Una volta mi saltò il ticchio di ungerli come vedeva fare alla Faustina; ma la fatalità volle che sbagliassi boccetta e invece di oglio mi versai sul capo un vasetto d’ammoniaca ch’essa teneva per le convulsioni, e che mi lasciò intorno per tutta la settimana un profumo di letamaio da rivoltar lo stomaco. Insomma nelle mie prime vanità fui ben disgraziato e anziché rendermi aggradevole alla piccina, e stoglierla dal civettare coi nuovi ospiti, porgeva a lei e a costoro materia di riso, ed a me nuovo argomento di arrabbiare e anche quasi d’avvilirmi. Gli è vero che partiti i forestieri la Pisana tornava a compiacersi di farmi da padroncina, ma il malumore di cotali infedeltà tardava a dissiparsi, e senza sapermene liberare, trovava troppo varii i suoi capricci, e un po’ anche dura la sua tirannia. Ella non ci badava, la cattivetta. Avea forse odorato la pasta di cui era fatto, e raddoppiava le angherie ed io la sommissione e l’affetto; poiché in alcuni esseri la devozione a chi li tormenta è anco maggiore della gratitudine per chi li rende felici. Io non so se sian buoni o cattivi, sapienti o minchioni cotali esseri, so che io ne sono un esemplare; e che la mia sorte tal qual è l’ho dovuta trascinare per tutti questi lunghi anni di vita. La mia coscienza non è malcontenta né del modo né degli effetti; e contenta lei contenti tutti; almeno a casa mia. – Devo per altro confessare a onor del vero che per quanto volubile, civettuola e crudele si mostrasse la Pisana fin dai tenerissimi anni, ella non mancò mai d’una certa generosità; qual sarebbe d’una regina che dopo aver schiaffeggiato e avvilito per bene un troppo ardito vagheggino, intercedesse in suo favore presso il re suo marito. A volte mi baciuzzava come il suo cagnolino, ed entrava con me nelle maggiori confidenze, poco dopo mi metteva a far da cavallo percotendo con un vincastro senza riguardo giù per la nuca e traverso alle guancie: ma quando sopraggiungeva la Rosa od il fattore ad interrompere i nostri comuni trastulli che erano, come dissi, contro la volontà della Contessa, ella strepitava, pestava i piedi, gridava che voleva bene a me solo più che a tutti gli altri, che voleva stare con me e via via; finché dimenandosi e strillando fra le braccia di chi la portava, i suoi gridari si ammutivano dinanzi al tavolino della mamma. Quelle smanie, lo confesso, erano il solo premio della mia abnegazione, benché dappoi spesse volte ho pensato che la era più orgoglio ed ostinazione che amore per me. Ma non mescoliamo i giudizii temerarii dell’età provetta colle illusioni purissime dell’infanzia. Il fatto sta che io non sentiva le busse che mi toccavano sovente per quella mia arroganza di volermi accomunar nei giochi alla Contessina, e che contento e beato mi riduceva nella mia cucina a guardar Martino che grattava formaggio.

L’altra figliuola della Contessa, che avea nome Clara, era già zitella27 quando io apersi gli occhi a guardare le cose del mondo. Era dessa la primogenita, una fanciulla bionda, pallida e mesta, come l’eroina d’una ballata o l’Ofelia di Shakespeare; pure ella non avea letto nessuna ballata e non conosceva certo l’Amleto neppur di nome. Pareva che la lunga consuetudine colla nonna inferma avesse riverberato sul suo viso il calmo splendore di quella vecchiaia serena e venerabile. Certo non mai figliuola vegliò la madre con maggior cura di quella ch’essa adoperava nell’indovinare perfin le brame della nonna: e le indovinava sempre perché la continua usanza fra di loro le aveva avvezzate ad intendersi con un sol giro di occhiate. La contessa Clara era bella come lo potrebbe essere un serafino che passasse fra gli uomini senza pur lambire il lezzo della terra e senza comprenderne l’impurità e la sozzura. Ma agli occhi dei più poteva parer fredda, e questa freddezza anche scambiarsi per una tal qual alterigia aristocratica. Eppure non v’aveva anima più candida, più modesta della sua; tantoché le cameriere la citavano per un modello di dolcezza e di bontà; e tutti sanno che negli elogii delle padrone il suffragio di due cameriere equivale di per sé solo ad un volume di testimonianze giurate. Quando la nonna abbisognava d’un caffè, o d’un cioccolatte, e non era alcuno nella stanza, non s’accontentava ella di sonar la campanella, ma scendeva in persona alla cucina per dar gli ordini alla cuoca; e mentre questa approntava il bisognevole, stava pazientemente aspettando coi ginocchi un po’ appoggiati allo scalino del focolare; od anche le dava mano nel ritirar la cocoma dal fuoco. Vedendola starsi a quel modo, la cucina mi pareva allor rischiarata da una luce angelica; e non la mi sembrava più quel luogo triste ed oscuro di tutti i giorni. E qui mi dimanderanno alcuni perché nelle mie descrizioni io torni sempre alla cucina, e perché in essa e non nel tinello o nella sala io abbia introdotti i miei personaggi. Cosa naturalissima e risposta facile a darsi! La cucina, essendo la dimora abituale del mio amico Martino e l’unico luogo nel quale potessi stare senza essere sgridato, (in merito forse del buio che mi sottraeva all’attenzione di tutti) fu il più consueto ricovero della mia infanzia: sicché come il cittadino ripensa con piacere ai passeggi pubblici dov’ebbe i suoi primi trastulli, io invece ho le mie prime memorie contornate dal fumo e dall’oscurità della cucina di Fratta. Là vidi e conobbi i primi uomini; là raccolsi e rimuginai i primi affetti, le prime doglianze, i primi giudizii. Onde avvenne che se la mia vita corse come quella degli altri uomini in varii paesi, in varie stanze, in diverse dimore, i miei sogni invece mi condussero quasi sempre a spaziare nelle cucine. È un ambiente poco poetico; lo so; ma io scrivo per dire la verità, e non per dilettare la gente con fantasie prettamente poetiche. La Pisana aveva tanto orrore di quel sitaccio scuro profondo mal selciato, e dei gatti che lo abitavano, che rade volte vi metteva piede se non per inseguirmi a colpi di bacchetta. Ma la contessina Clara all’incontro non ne mostrava alcun disgusto, e ci veniva quando occorresse senza torcer la bocca o alzar le gonnelle come facevano persino quelle schizzinose delle cameriere. Laonde io gongolava tutto di vederla; e se la chiedeva un bicchier d’acqua era beato di porgerlelo, e di udirmi dire graziosamente: – Grazie Carlino! – Ed io poi mi rintanava in un cantuccio pensando: Oh come sono belle queste due parole: Grazie Carlino! Peccato che la Pisana non me le abbia mai dette con una vocina così buona e carezzevole!