CAPITOLO TERZO

Confronto fra la cucina del castello di Fratta e il resto del mondo. La seconda parte del Confiteor e il girarrosto. Prime scorrerie colla Pisana, e mia ardita navigazione fino al Bastione di Attila. Prime poesie, primi dolori, prime pazzie amorose, nelle quali prevengo anche la rara precocità di Dante Alighieri.

La prima volta ch’io uscii dalla cucina di Fratta a spaziare nel mondo, questi mi parve bello fuor d’ogni misura. I confronti son sempre odiosi; ma io non potei allora tralasciare di farne, se non col cervello, almeno cogli occhi; e deggio anche confessare che tra la cucina di Fratta ed il mondo, io non esitai un momento nel dar la palma a quest’ultimo. Primo punto, natura vuole che si anteponga la luce alle tenebre, e il sole del cielo a qualunque fiamma di camino; in secondo luogo, in quel mondo d’erba di fiori di salti e di capitomboli dove metteva piede, non c’erano né le formidabili guarnizioni scarlatte del signor Conte, né le ramanzine di Monsignore a proposito del Confiteor; né le persecuzioni di Fulgenzio; né le carezze poco aggradevoli della Contessa; né gli scappellotti delle cameriere. Da ultimo, se nella cucina viveva da suddito, il fuori due passi mi sentiva padrone di respirare a mio grado, ed anco di sternutire e di dirmi: Salute, Eccellenza! e di risponder: Grazie, senzaché nessuno trovasse disdicevoli tante cerimonie. I complimenti ricevuti dal Conte nella fausta occasione de’ suoi sternuti mi erano sempre stati cagione d’invidia fin da piccino; perché mi pareva che una persona a cui si auguravano tante belle cose dovesse essere di grande rilievo e di un merito infinito. Andando poi innanzi nella vita corressi questa mia strana opinione; ma in quello che spetta al sentimento non posso sternutire anche adesso in pace, senzaché non mi brulichi dentro un certo desiderio d’udirmi augurare lunga vita e felicità da una moltitudine di voci. La ragione si fa adulta e vecchia; il cuore resta sempre ragazzo e converrebbe dargli scuola a zaffate col metodo patriarcale del piovano di Teglio. Quanto al mutuo insegnamento che ora è venuto di moda, i cuori ci avrebbero pochissimo da guadagnare e molto da perdere in quello scambio di banconote sentimentali che corrono in vece delle monete genuine e sonanti d’una volta. Sarebbe un mutuo insegnamento di trappolerie e di falsificazioni con nessunissimo vantaggio della buona causa, perché i più tirano sempre i meno, come dice il proverbio. Ma tornando al mondo che mi parve tanto bello a prima giunta, come vi raccontava, vi dirò di più ch’esso non era un Paradiso terrestre. Un ponticello di legno sulla fossa posteriore del castello che dalla corticella della scuderia metteva nell’orto; due pergolati di vigne annose e cariche nell’autunno di bei grappoli d’oro corteggiati da tutte le vespe del vicinato; più in là campagne verdeggianti di rape e di sorgoturco, e finalmente oltre ad un muricciuolo di cinta cedente e frastagliato, delle vaste e ondeggianti praterie piene di rigagnoli argentini, di fiori e di grilli! Ecco il mondo posteriore al castello di Fratta. Quanto a quello che gli si stendeva dinanzi ed ai lati ho dovuto accontentarmi di conoscerlo più tardi; mi tenevano tanto alla catena col loro Fulgenzio, col loro Piovano, col loro spiedo, che perfino nel mondo dell’aria libera e delle piante, perfino nel gran tempio della natura mi toccò entrarvi di sfuggita e per la porta di dietro. Ora una digressione in riguardo allo spiedo; ché da un pezzo ne ho addebitato la coscienza. Nel castello di Fratta tutti facevano ogni giorno il loro dovere, meno il girarrosto che non vi si piegava che nelle circostanze solenni. Per le due pollastre usuali non si stimava conveniente incommodarlo. Ora, quando Sua Eccellenza girarrosto godeva i suoi ozii muti e polverosi, il girarrosto ero io. – La cuoca infilava le pollastre nello spiedo, indi passava la punta di questo in un traforo degli alari e ne affidava a me il manico perché lo girassi con buon metodo e con isocrona costanza fino alla perfetta doratura delle vittime. I figli d’Adamo, forse Adamo stesso aveva fatto così; io, come figlio d’Adamo non aveva alcun diritto di lamentarmi per questa incombenza che m’era affidata. Ma quante cose non si fanno non si dicono e non si pensano senza una giusta ponderazione dei proprii diritti! – A me talvolta pareva financo che, poiché c’era un grandissimo menarrosto sul focolare, si aveva torto marcio a mutar in un menarrosto me. Non era martirio bastevole pei miei denti che di quel benedetto arrosto dovessi poi rodere e leccare le ossa, senza farmi abbrustolir il viso nel voltarlo di qua e di là, di qua e di là con una noia senza fine? – Qualche volta mi toccò girare qualche spedata di uccelletti i quali nel volgersi a gambe in su pencolavano ad ogni giro fin quasi sulle bragie, colle loro testoline scorticate e sanguinose. – La mia testa pencolava in cadenza al pencolar delle loro; e credo che vorrei essere stato uno di quei fringuelli per trar vendetta del mio tormento attraversandomi nella gola di chi avrebbe dovuto mangiarmi. Quando questi pensierucci tristarelli mi raspavano nel cuore, io rideva d’un gusto maligno, e mi metteva a girare lo spiedo più in fretta che mai. Accorreva ciabattando la cuoca, e mi pestava le mani dicendomi: – Adagio, Carlino! gli uccelletti vanno trattati con delicatezza! – Se la stizza e la paura m’avessero permesso di parlare, avrei domandato a quella vecchiaccia unta perché anche Carlino non lo trattava almeno come un fringuello? La Pisana, quando mi sapeva in funzione di menarrosto, vinceva la sua ripugnanza per la cucina, e veniva a godere della mia rabbiosa umiliazione. Uh! quante ne avrei date a quella sfrontatella per ognuno de’ suoi sghigni! Ma mi toccava invece ingozzar bocconi amari, e girar il mio spiedo, mentre un furore quasi malvagio mi gonfiava il cuore e mi faceva scricchiolare la dentatura. Martino alle volte, credo che m’avrebbe sollevato, ma prima la cuoca non voleva, e poi il dabbenuomo avea briga bastevole colle croste di formaggio e la grattugia. Invece alla bollitura della minestra mi capitava l’ultimo conforto di Monsignore, il quale, stizzito di vedermi cogli occhi o lagrimosi o addormentati, mi suggeriva con voce melliflua di non far il gonzo o il cattivo, ma di ripeter invece a memoria l’ultima parte del Confiteor finché me ne capacitassi ben bene. Basta basta di ciò; solo a pensarvi mi sento colar di dosso tutti i sudori di quegli arrosti, e in quanto a Monsignore lo manderei volentier dov’è già andato da un pezzo, se non avessi rispetto alla memoria delle sue quondam calze rosse.

Il mondo adunque aveva per me quest’ultimo rilevantissimo vantaggio sulla cucina di Fratta, che non vi era confitto al martirio dello spiedo. Se era solo, saltava, cantava, parlava con me stesso; rideva della consolazione di sentirmi libero e andava studiando qualche bel garbo sul taglio di quelli della Pisana per farmene poi l’aggraziato dinanzi a lei. Quando poi riusciva a tirare con me per solchi e boschetti questa mia incantatrice, allora mi pareva di essere tutto quello che voleva io o che ella avrebbe desiderato. Non v’era cosa che non credessi mia e che io non mi tenessi capace di ottenere per contentarla; com’ella era padrona e signora in castello, così là nella campagna mi sentiva padrone io; e le ne faceva gli onori come d’un mio feudo. Di tanto in tanto, per rificcarmi ne’ miei stracci, ella diceva con un cipiglietto serio serio: – Questi campi sono miei, e questo prato è mio! – Ma di cotali attucci da feudataria io non prendeva nessuna soggezione; sapeva e sentiva che sulla natura io aveva una padronanza non concessa a lei; la padronanza dell’amore. La indifferenza di Lucilio per le alte occhiate del Partistagno e per le burlate dei fanciulli, io la sentiva per quei tiri principeschi della Pisana. E lontano dai merli signorili e dall’odore della Cancelleria, mi ripullulava nel cuore quel sentimento d’uguaglianza che ad un animo sincero e valoroso fa guardar ben dall’alto perfin le teste dei re. Era il pesce rimesso nell’acqua, l’uccello fuggito di gabbia, l’esule tornato in patria. Aveva tanta ricchezza di felicità che cercava intorno cui distribuirne; e in difetto d’amici ne avrei fatto presente anche agli sconosciuti o a chi mi voleva male. Fulgenzio, la cuoca, e perfin la Contessa avrebbero avuto la loro parte d’aria di sole se fossero venuti a domandarmela con bella maniera e senza battermi le mani o strapparmi la coda. La Pisana mi seguiva volentieri nelle mie scorrerie campereccie, quando non trovava in castello il suo minuto popolo da cui farsi obbedire. In questo caso la doveva accontentarsi di me, e siccome nell’Ariosto della Clara ella si avea fatto mostrar mille volte le figurine, così non le dispiaceva di essere o Angelica seguita da Rinaldo, o Marfisa, l’invitta donzella, od anche Alcina che innamora e muta in ciondoli quanti paladini le capitano nell’isola. Per me io m’aveva scelto il personaggio di Rinaldo con bastevole rassegnazione; e faceva le grandi battaglie contro filari di pioppi affigurati per draghi, o le fughe disperate da qualche mago traditore, trascinandomi dietro la mia bella come se l’avessi in groppa del cavallo. Talvolta immaginavamo di intraprendere un qualche lungo viaggio pel Regno del Catajo o per la Repubblica di Samarcanda; ma si frapponevano terribili ostacoli da superare: qualche siepaia che dovea essere una foresta; qualche arginello che figurava una montagna; alcuni rigagnoli che tenevano le veci di fiumi e di torrenti. Allora ci davamo conforto a vicenda con gesti di coraggio, o si prendeva consiglio sottovoce con occhio prudente e col respiro sommesso ed affannoso. Veniva deciso di tentar la prova; e giù allora a rompicollo per rovaie e pozzanghere saltando e gridando come due indemoniati. Gli ostacoli non erano insuperabili, ma non di rado le vesti della fanciulla ne riportavano qualche guasto, o la si bagnava i piedi guazzando nell’acqua colle scarpettine di brunello1. Quanto a me la mia giacchetta era antica confidente degli spini; e avrei potuto star nell’acqua cent’anni come il rovere, prima che l’umido trapassasse la scorza callosa delle mie piante. Mi dava dunque a consolare a racconciare ed asciugar lei, che prendeva un po’ il broncio per quelle disgrazie; e perché non la si mettesse a piangere o a graffiarmi, la faceva ridere prendendola in ispalla, e saltando del pari con quella soma addosso fossatelli e rigagni. Era robusto come un torello, e il contento che provava di sentirmela abbandonata sul collo colla faccia e colle mani per ridere con maggior espansione, mi avrebbe dato lena a giunger con quel carico se non al Catajo o a Samarcanda certo più in là di Fossalta. Perdendo a quel modo le prime ore del dopopranzo, si cominciò ad allargarci fuori dalle vicinanze del castello, e a prender pratica delle strade, dei sentieri e dei luoghi più discosti. Le praterie vallive dove s’erano aggirati i primi viaggi, declinavano a ponente verso una bella corrente di acqua che serpeggiava nella pianura qua e là, sotto grandi ombre di pioppi d’ontani e di salici, come una forosetta che abbia tempo da perdere, o poca voglia di lavorare. Là sotto canticchiava sempre un perpetuo cinguettio d’augelletti; l’erba vi germinava fitta ed altissima, come il tappeto nel più segreto gabinetto d’una signora. Vi si avvolgevano fronzuti andirivieni di macchie spinose e d’arbusti profumati, e parevano preparare i più opachi ricoveri e i sedili più morbidi ai trastulli dell’innocenza o ai colloquii d’amore. Il mormorio dell’acqua rendeva armonico il silenzio, o raddoppiava l’incanto delle nostre voci fresche ed argentine. Quando sedevamo sulla zolla più verde e rigonfia, il verde ramarro fuggiva sull’orlo della siepe vicina, e di là si volgeva a guardarci, quasi avesse voglia di domandarci qualche cosa, o di spiare i fatti nostri. Per quelle pose tanto gradevoli noi sceglievamo quasi sempre una sponda della fiumiera, dove essa dopo un laberinto di giravolte susurrevoli e capricciose si protende diritta per un buon tratto queta e silenziosa, come una matterella che d’improvviso si sia fatta monaca. Il meno rapido pendio la calmava dalla sua correntia, ma la Pisana diceva che l’acqua, come lei, era stanca di menar le gambe e che bisognava imitarla e sedere. Non crediate peraltro che stesse tranquilla a lungo la civettuola. Dopo avermi fatto qualche carezza od essersi arresa al mio ruzzo di giocarellare secondo il tenore dell’estro, si levava in piedi non curante e dimentica di me come la non mi avesse mai conosciuto, e si protendeva sull’acqua a specchiarvisi dentro, o vi sciaguattava entro colle braccia, o si ficcava nella fratta a cercarvi chiocciole da farne braccialetti e collane, senza curarsi allora se il guarnellino2 si sciupava, o se le maniche o le scarpine si immollavano. Io la chiamava allora e l’ammoniva, più per golaggine di averla ancora a’ miei trastulli che per rispetto alle sue vesti; ma la non si dava neppur pensiero di rispondere. Capace di disperarsi se le si sconciava una maglia del collaretto nell’accondiscendere ai capricci altrui, avrebbe rotto e stracciato tutto, compresi i suoi lunghi e bei capelli neri, e le sue guancie rosee e ritondette, e le sue manine brevi e polpute, se i capricci da accontentarsi erano i suoi. Qualche volta per tutto il resto della passeggiata non giungeva più a stornarla da que’ suoi giochi gravi solitarii e senza fine. Ella si ostinava per mezz’ora a voler bucare coi denti e colle unghie una chiocciola da infilarla in un vimine e appendersela alle orecchie, e se io faceva le viste di volerla aiutare, la mi grugniva contro pestando i piedi, quasi piangendo e menandomi nello stomaco delle buone gomitate. Pareva ch’io le avessi fatto qualche gran torto; ma tutto era un gioco del suo umore. Volubile come una farfalla che non può ristar due minuti sulla corolla d’un fiore, senza batter le ali per succhiarne uno diverso, ella passava d’un tratto dalla dimestichezza al sussiego, dalla più chiassosa garrulità ad un silenzio ostinato, dall’allegria alla stizza e quasi alla crudeltà. La cagione era che in tutte le fasi dell’umore, l’indole non cangiava mai; la restava sempre la tiranella di Fratta, capace di render felice un tale per esperimentare la propria potenza in un verso, e di farlo poi piangere ed infuriare per esperimentarla in un altro. Nei temperamenti sensuali e subitanei il capriccio diventa legge e l’egoismo sistema se non sono sfreddati da una educazione preventiva ed avveduta che armi la ragione contro il continuo sforzo dei loro eccessi e munisca la sensibilità con un serraglio di buone abitudini, quasi riparo alle sorprese dell’istinto. Altrimenti, per quanto eccellenti qualità s’innestino in nature siffatte, nessuno potrà fidarsene, rimanendo tutte schiave della prepotenza sensuale. La Pisana era a quel tempo una fanciulletta; ma che altro sono mai anche le bambine se non scorcii e sbozzi di donne? Dipinti ad oglio o in miniatura, i lineamenti d’un ritratto stanno sempre gli stessi.

Peraltro i nuovi orizzonti che s’aprivano all’anima mia le porgevano già un ricovero contro la cocciutaggine di quei primi crucci infantili. Mi riposava nel gran seno della natura; e le sue bellezze mi svagavano dalla tetra compagnia della stizza. Quella vastità di campagne dove scorazzava allora era ben diversa dallo struggibuco dell’orto e della peschiera che dai sei agli otto anni m’avevano dato tanto piacere. Se la Pisana mi piantava lì per vezzeggiare e tormentare altri garzonetti, o se la mi fuggiva via a mezzo il passeggio colla speranza che nel frattempo fosse capitata qualche visita al castello, io non correva più a darmele in spettacolo col mio muso lungo, e le mie spalle riottose: ma n’andava invece a svampar l’affanno nella frescura dei prati e sulla sponda del rio. Ad ogni passo erano nuovi prospetti e nuove meraviglie. Scopersi un luogo dove l’acqua s’allarga quasi in un laghetto, limpido ed argentino come la faccia d’uno specchio. Le belle treccie di aliche3 vi si mescevano entro come accarezzate da una magica auretta; e i sassolini del fondo tralucevano da esse candidi e levigati in guisa di perle sdrucciolate per caso dalle loro conchiglie. Le anitre e le oche starnazzavano sulla riva; a volte di conserva si lanciavano tumultuosamente nell’acque, e tornate a galla dopo il tonfo momentaneo prendevano remigando la calma e leggiadra ordinanza d’una flotta che manovra. Era un diletto vederle avanzare retrocedere volteggiare senzaché la trasparenza dell’acque fosse altrimenti turbata che per una lieve increspatura la quale moriva sulla sponda in una carezza più lieve ancora. Tutto all’intorno poi era un folto di piante secolari sui cui rami la lambrusca4 tesseva gli attendamenti più verdi e capricciosi. Coronava la cima d’un olmo, e poi s’abbandonava ai sicuri sostegni della quercia, e abbracciandola per ogni verso le cadeva d’intorno in leggiadri festoni. Da ramo a ramo da albero ad albero l’andava via come danzando, e i suoi grappoletti neri e minuti invitavano gli stornelli a far merenda ed i colombi a litigare con questi per prenderne la loro parte. Sopra a quel largo dove il laghetto tornava ruscello erano fabbricati due o tre mulini, le cui ruote parevano corrersi dietro spruzzandosi acqua a vicenda come tante pazzerelle. Io stava lì le lunghe ore contemplandole e gettando sassolini nelle cascate dell’acqua per vederli rimbalzare, e cader poi ancora, per disparire sotto il vorticoso giro della ruota. S’udiva di dentro il rumor delle macine, e il cantar dei mugnai, e lo strepitar dei ragazzi e fin lo stridore della catena sul focolare quando dimenavano la polenta. Io me n’accorgeva pel fumo che cominciava a spennacchiarsi dal comignolo della casa, precedendo sempre l’intervento di questo nuovo stridore nel concerto universale. Sullo sterrato dinanzi ai mulini era un continuo avvicendarsi di sacchi, e di figure infarinate. Vi capitavano le comari di molti paesetti delle vicinanze; e chiaccheravano colle donne dei mulini mentre si macinava loro il grano. In quel frattempo gli asinelli liberati dalla soma gustavano ghiottamente la semola che loro si imbandisce per regalo nelle gite al mulino; finito che avevano si mettevano a ragghiare d’allegria, distendendo le orecchie e le gambe; il cane del mugnaio abbaiava e correva loro intorno facendo mille finte di assalto e di schermo. Ve lo dico io che la era una scena animatissima, e non ci voleva nulla di meglio per me che della vita altro non conosceva se non quello che mi eran venuti raccontando Martino, mastro Germano e Marchetto. Allora invece cominciai a guardare co’ miei occhi, a ragionare ed imparare colla mia propria mente; a conoscere cosa sia lavoro, e mercede; a distinguere i diversi ufficii delle massaie delle comari dei mugnai e degli asini. Queste cose mi occupavano e mi divertivano; e tornava poi verso Fratta col capo nelle nuvole, contemplando i bei colori che vi variavano entro pel diverso magistero della luce.

Le mie passeggiate si facevano sempre più lunghe, e sempre più lunghe e temerarie le diserzioni dalla custodia di Fulgenzio e dalla scuola del Piovano. Quando andava attorno a cavallo con Marchetto era troppo piccino per poter imprimere nella memoria quanto vedeva; e fattomi poi grande egli non voleva arrischiarmi sulla groppa d’un ronzino che era troppo antico di senno per esser forte di gambe. Così tutte le cose m’erano tornate nuove e inusitate; e non solamente i mulini e i mugnai, ma i pescatori colle loro reti, i contadini coll’aratro, i pastori colle capre e colle pecore; e tutto tutto mi dava materia di stupore e di diletto. Finalmente venne un giorno ch’io credetti perder la testa od esser caduto nella luna, tanto mi sembrarono meravigliose ed incredibili le cose che ebbi sott’occhio. Voglio contarle perché quella passeggiata mi votò forse per sempre a quella religione semplice e poetica della natura che mi ha poi consolato d’ogni tristizia umana colla dolce e immanchevole placidità delle sue gioie.

Un dopopranzo capitò alla Pisana la visita di tre suoi cuginetti figliuoli di una sorella del Conte maritata ad un castellano dell’alta. (Egli ne aveva un’altra delle sorelle, accasata splendidamente a Venezia, ma le son persone che incontreremo più tardi). Quel dopopranzo adunque la mi fece tanti dispetti, e mi offerse con tanta barbarie allo scherno dei cugini ch’io me la svignai arrabbiatissimo, desideroso di mettere fra me e lei quella maggiore distanza che mi fosse stata possibile. Uscii dunque pel ponticello della scuderia, e via a gambe traverso a seminati colla vergogna e la stizza che mi cacciavano da tergo. E cammina e cammina cogli occhi nella punta dei piedi senza badare a nulla, ecco che quando caso volle che gli alzassi mi vidi in un luogo a me affatto sconosciuto. Stetti un momento senza poter pensare o meglio senza poter disvincolarmi da quei pensieri che m’avevano martellato fino allora.

– Possibile! pensai quando giunsi a distogliermene – Possibile che abbia camminato tanto! – Infatti era ben certo che il sito dove mi trovava non apparteneva alla solita cerchia delle mie scorrerie: spanna per spanna tutto il territorio che si stendeva per due miglia dietro il castello io l’avrei ravvisato senza tema d’errore. Quel sito invece era un luogo deserto e sabbioso che franava in un canale d’acqua limacciosa e stagnante; da un lato una prateria invasa dai giunchi allargavasi per quanto l’occhio potea correre e dall’altro s’abbassava una campagna mal coltivata, nella quale il disordine e l’apparente sterilità contrastavano col rigoglio dei pochi e grandi alberi che rimanevano nei filari scomposti. Io mi guardai intorno e non vidi segno che richiamasse la mia mente a qualche memoria.

– Capperi! è un sito nuovo! dissi fra me, colla contentezza d’un avaro che scopre un tesoro. – Andiamo un po’ innanzi a vedere!

Ma per andar oltre c’era un piccolo guaio, c’era nient’altro che quel gran canale paludoso, e tutto coperto da un bel manto di giunchiglia. La gran prateria coll’ignoto e l’infinito si dilungava di là; al di qua non aveva che quella campagna arida e abbandonata che punto non m’invogliava a visitarla. Che fare in quel frangente? – Era troppo stuzzicato nella curiosità per dar addietro, e troppo spensierato per temere che il canale si profondasse più che non avrei desiderato. Mi rotolai su le mie brache fino alla piegatura delle coscie, e discesi nel pelago impigliandomi i piedi e le mani nelle ninfee e nelle giunchiglie che lo asserragliavano. Spingi da una banda e tira dall’altra mi faceva strada fra quella boscaglia nuotante, ma la strada andava sempre in giù, e le piante mi scivolavano sopra una belletta sdrucciolevole come il ghiaccio. Quando Dio volle il fondo ricominciò a salire; e me la cavai colla paura, ma credo che talmente fossi infervorato nell’andar oltre che non mi sarei ritratto dovessi anco affogarne. Messo il piede sull’erba mi parve di volare come un uccello; la prateria saliva dolcemente e mi tardava l’ora di toccarne il punto più alto donde guardare quella mia grande conquista. Vi giunsi alla fine, ma tanto trafelato che mi pareva esser un cane di ritorno dall’aver inseguito una lepre. E volsi intorno gli occhi e mi ricorderò sempre l’abbagliante piacere e quasi lo sbigottimento di maraviglia che ne ricevetti. Aveva dinanzi un vastissimo spazio di pianure verdi e fiorite, intersecate da grandissimi canali simili a quello che aveva passato io, ma assai più larghi e profondi. I quali s’andavano perdendo in una stesa d’acqua assai più grande ancora; e in fondo a questa sorgevano qua e là disseminati alcuni monticelli, coronati taluno da qualche campanile. Ma più in là ancora l’occhio mio non poteva indovinar cosa fosse quello spazio infinito d’azzurro, che mi pareva un pezzo di cielo caduto e schiacciatosi in terra: un azzurro trasparente, e svariato da striscie d’argento che si congiungeva lontano lontano coll’azzurro meno colorito dell’aria. Era l’ultima ora del giorno; da ciò m’accorsi che io doveva aver camminato assai assai. Il sole in quel momento, come dicono i contadini, si voltava indietro, cioè dopo aver declinato dietro un fitto tendone di nuvole, trovava vicino al tramonto un varco da mandare alla terra un ultimo sguardo, lo sguardo d’un moribondo sotto una palpebra abbassata. D’improvviso i canali, e il gran lago dove sboccavano, diventarono tutti di fuoco: e quel lontanissimo azzurro misterioso si mutò in un’iride immensa e guizzolante dei colori più diversi e vivaci. Il cielo fiammeggiante ci si specchiava dentro, e di momento in momento lo spettacolo si dilatava s’abbelliva agli occhi miei e prendeva tutte le apparenze ideali e quasi impossibili d’un sogno. Volete crederlo? Io cascai in ginocchio, come Voltaire sul Grütli quando pronunziò dinanzi a Dio l’unico articolo del suo credo. Dio mi venne in mente anche a me: quel buono e grande Iddio che è nella natura, padre di tutti e per tutti. Adorai, piansi, pregai; e debbo anche confessare che l’animo mio sbattuto poscia dalle maggiori tempeste si rifugiò sovente nella memoria fanciullesca di quel momento per riavere un barlume di speranze. No, quella non fu allora la ripetizione dell’atto di fede insegnatomi dal Pievano a tirate di orecchi; fu uno slancio nuovo spontaneo vigoroso d’una nuova fede che dormiva quieta quieta nel mio cuore e si risvegliò di sbalzo all’invito materno della natura! Dalla bellezza universale pregustai il sentimento dell’universale bontà; credetti fino d’allora che come le tempeste del verno non potevano guastare la stupenda armonia del creato, così le passioni umane non varrebbero mai ad offuscare il bel sereno dell’eterna giustizia. La giustizia è fra noi, sopra di noi, dentro di noi. Essa ci punisce e ci ricompensa. Essa, essa sola è la grande unitrice delle cose che assicura la felicità delle anime nella grand’anima dell’umanità. Sentimenti mal definiti che diverranno idee quando che sia; ma che dai cuori ove nacquero tralucono già alla mente d’alcuni uomini, ed alla mia; sentimenti poetici, ma di quella poesia che vive, e s’incarna verso per verso negli annali della storia; sentimenti d’un animo provato dal lungo cimento della vita, ma che già covavano in quel senso di felicità e di religione che a me fanciullo fece piegar le ginocchia dinanzi alla maestà dell’universo!

Povero a me se avessi allor pensato queste cose alte e quasi inesprimibili! Avrei perduto il cervello nella filosofia e certo non tornava più a Fratta per quella notte. Invece quando cominciò ad imbrunire, e mi si oscurò dinanzi quello spettacolo di maraviglia, tornai subito fanciullo, e mi diedi quasi a piangere temendo di non trovar più la strada di Fratta. Avea corso nel venire; nel ritorno corsi più assai; e giunsi al valico del canale che splendeva ancora il crepuscolo. Ma addentratomi nella campagna la cosa cangiò d’aspetto: la notte calava giù nebbiosa e nerissima ed io ch’era venuto, così camminando soprappensiero, non sapea più trovarmi. Principiò a mettermisi intorno un tremore di febbre ed una voglia di correre per arrivare non sapeva nemmen io dove. Mi sembrava che per quanto fossi ito per le lunghe, il correre mi avrebbe menato più presto che l’andare adagio; ma i conti erano sbagliati, perché il precipizio della corsa mi faceva trascurare quegli accorgimenti che potevano almeno aiutarmi a non perdere affatto la tramontana. S’aggiungeva che la fatica mi spossava e che avea d’uopo di tutto lo spavento che mi metteva in corpo il pensiero di non poter arrivare a casa, per persuadere le mie gambe ad andare innanzi. Fortuna volle che volgessi abbastanza diritto per non tornare nelle paludi ove certo mi sarei annegato, e alla fine imboccai una strada. Ma che strada, mio Dio! ora non si adopererebbe questo sostantivo per dinotarla; la si direbbe un ammazzatoio, o peggio. Io ne ringraziai cionullameno la Provvidenza e mi diedi a camminare più tranquillo, divisando con bastevole criterio di chieder contezza della via alle prime case. Ma chi doveva esser stato sì gonzo da piantar casa in quelle fondure? Io mi ci fidava e tirava innanzi. Le prime case una volta o l’altra sarebbero venute. Non aveva fatto per quella stradaccia un mezzo miglio che mi sentii venir dietro il galoppo d’un cavallo. Io mi feci il segno della santa croce tirandomi nel fosso più che poteva; ma il passo era strettissimo e il cavallo aombrando di me diede uno strabalzo in dietro che fece improvvisare una bella filza di bestemmie al cavaliero che lo montava.

– Chi è là? fammi strada, mascalzone! – gridò colui con una vociaccia ruvida che mi gelò il sangue nelle vene.

– L’abbia misericordia di me! sono un fanciullo smarrito e non so dove mi vada a finire per questa strada – ebbi fiato di rispondergli.

La mia voce infantile e supplichevole commosse certamente colui dal cavallo, perché lo rattenne colle redini benché gli avesse già cacciate le gambe nel ventre per passarmi sopra.

– Ah! sei un ragazzo? – soggiuns’egli curvandosi un po’ dalla mia banda e mostrandomi una figurona nera nascosta sotto le falde d’un cappellaccio da contrabbandiere o da mago. – Sì, sei un ragazzo; e dove vai?

– Andrei a Fratta se il signore mi aiutasse – diss’io ritraendomi per un po’ di paura che aveva di quella figura.

– Ma come ti trovi in questi dintorni ove non passa mai anima viva di notte? – domandò ancora lo sconosciuto con qualche sospetto nella voce.

– Ecco; – risposi io – sono scappato di casa per qualche dispiacere, e camminai camminai finché giunsi in un bel luogo dove vidi molta acqua molto sole e moltissime belle cose che non so cosa le sieno: ma nel ritorno mi trovai piuttosto imbrogliato, perché si faceva scuro e non mi ricordava la strada, e correndo alla ventura adesso mi vedo qui, e non so proprio dove mi sia.

– Sei dietro San Mauro verso la pineta, fanciullo mio; – riprese quell’uomo – ed hai quattro miglia buone per giungere a casa.

– Signore, la è tanto buono – soggiunsi io di bel nuovo, facendo forza colla paura maggiore alla minore – che la mi dovrebbe insegnare qual modo debba tenere per giunger a casa per le più spiccie.

– Ah tu credi ch’io sia buono! – disse il cavaliere con un accento alquanto beffardo. – Si, perdiana, che hai ragione, e voglio dartene una prova. Saltami in groppa, e giacché devo passarci, ti metterò giù di fianco al castello.

– Sto nel castello appunto – ripresi io non sapendo se dovessi fidarmi alle proferte dello sconosciuto.

– Nel castello? – sclamò egli con poco gradevole sorpresa – e a chi appartieni tu, nel castello?

– Oh bella! a nessuno appartengo! Sono Carlino, quello che mena lo spiedo e va a scuola dal Piovano.

– Manco male; se la è così, salta, ti dico; il cavallo è forte e non se ne accorgerà.

Un po’ tremando un po’ confortandomi io mi arrampicai fin sul dorso della bestia e colui mi aiutava con una mano, dicendo che non avessi timor di cadere. Là in quei paesi si nasce, quasi, a cavallo e ad ogni ragazzotto si dice: – monta su quel puledro! – come gli si dicesse: va’ a cavalcione di quella stanga. Or dunque acconciato che mi fui, si diede giù in un galoppo sfrenato che per quella strada aveva tutti i pericoli d’un continuo precipizio. Io mi teneva con ambe le mani al petto del cavaliero e sentiva i peli d’una barba lunghissima che mi soffregavano le dita.

– Che fosse il diavolo? pensai. – Potrebbe anche darsi! – E feci un rapido esame di coscienza dal quale mi parve rilevare che io avea peccati oltre al bisogno per dargli ogni diritto di condurmi a casa sua. Ma mi risovvenne in buon punto che il cavallo s’era impaurito della mia ombra, e siccome i cavalli del diavolo, secondo me, non dovevano avere le debolezze dei nostri, così mi diedi un po’ di pace da questo lato. Se non era il diavolo poteva peraltro essere un suo luogotenente, come un ladro, un assassino, che so io? – Nessuna paura per questo: io non aveva denari e mi sentiva l’uomo meglio armato contro ogni ladreria. Così, dopo aver pensato a quello che non era, mi volsi a sindacare quello che poteva essere il mio notturno protettore. Peggio che peggio! Sfido l’immaginazione d’un napoletano di giungere a conclusioni più certe di quelle cui giunsi io; e per me allora io avea finito col decidere che non potea saperne nulla. Tutto ad un tratto il negro soggetto di tali fantasticherie mi si volse incontro col suo gran barbone e mi chiese colla solita voce poco aggraziata:

– Mastro Germano ce l’avete ancora a Fratta?

– Sissignore! – risposi dopo un guizzo di sorpresa per quella vociata repentina. – Egli regola ogni giorno l’orologio della torre; apre e chiude il portone; e spazza anche il cortile dinanzi la Cancelleria. Egli è molto dabbene con me e molte volte mi conduce a veder le ruote dell’orologio, insieme alla Pisana che è proprio la figliuola della signora Contessa.

– Monsignor di Sant’Andrea ci viene spesso a trovarvi? – mi domandò ancora con una risata.

– Gli è il confessore della signora Contessa; – dissi io – ma gli è un pezzo che non lo vedo, perché ora, dopo che ho incominciato a veder il mondo, sto in cucina meno che posso.

– Bravo! bravo! la cucina è pei canonici – continuò egli. – Adesso puoi scendere, scoiattolo; ché siamo a Fratta. Tu sei il più buon cavalcatore del territorio, me ne congratulo con te!

– S’immagini! – soggiunsi saltando a terra – ci andava sempre a cavallo io dietro a Marchetto.

– Ah! sei tu quel pappagallo che gli stava dietro anni sono – riprese colui ridacchiando. – Prendi, prendi; – aggiunse dandomi una buona impalmata sulla nuca – dagliela per mio conto al cavallante questa focaccia; ma giacché sei suo amico non dirgli che mi hai veduto da queste bande: non dirglielo, né a lui, né a nessuno, sai!

In ciò dire l’uomo della gran barba spinse il suo cavallo alla carriera per una straducola che mena a Ramuscello, ed io restai là a udire colla bocca aperta lo scalpitar del galoppo. E quando il romore si fu dileguato girai intorno alle fosse, e sul ponte del castello vidi Germano che guardava intorno come se aspettasse qualcuno.

– Ah birbone! ah scellerato! andar a zonzo per queste ore! tornar a casa così tardi? Chi te ne ha insegnate di tanto belle?... Ora te la darò io!!...

Cotal fu l’intemerata con cui Germano mi accolse; ma la parte più calorosa dell’orazione non posso tradurla in parole. Il buon Germano mi menò avanti a sculacciate dalla porta del castello fino a quella di cucina. Là mi saltò addosso Martino.

– Furfantello! scapestrato che sei! non la farai la seconda volta, te lo giuro io! arrischiarti di notte per questo buio fuori casa!

Anche qui la parlata fu il meno; il più si erano le scoppate5 che l’accompagnavano. Se tanto mi toccava dagli amici, figuratevi poi cosa dovessi aspettarmi dagli altri... Il Capitano che giocava all’oca con Marchetto s’accontentò di menarmi un buon pugno nella schiena dicendo che la mia era tutta infingardaggine, e che dovevano consegnarmi a lui per averne un buon risultato de’ fatti miei. Marchetto mi tirò le orecchie con amicizia, la signora Veronica che si scaldava al fuoco tornò a ribadirmi le sculacciate di Germano, e la vecchiaccia unta della cuoca mi menò un piede nel sedere con tanta grazia che andai a finir col naso sul menarrosto che girava.

– Giusto proprio! sei capitato a tempo! – si pensò di dire quella strega – ho dovuto metter in opera il menarrosto, ma giacché ci sei tu non fa più di mestieri.

In tali parole ella avea già cavato la corda dalla carrucola e dato a me in mano lo spiedo dopo averlo preso fuori dalla morsa del menarrosto. Io cominciai a voltare e a rivoltare non senza essere assalito e bersagliato dalle fantesche e dalle cameriere mano a mano che capitavano in cucina: e voltando e rivoltando pensava al Piovano, pensava a Fulgenzio, pensava a Gregorio, a Monsignore, al Confiteor, al signor Conte, alla signora Contessa ed alla mia cuticagna! Quella sera se mi avessero sforacchiato banda per banda collo spiedo non avrebbero fatto altro che diminuirmi il martirio della paura. Certo io avrei preferito veder arrostita la mia cuticagna, piuttostoché abbandonarla per tre soli minuti alle mani della Contessa; e in quanto alla conciatura, trovava nella mia idea assai più fortunato San Lorenzo che San Bartolomeo. Finché tutti attendevano a malmenarmi, nessuno avea potuto domandare cosa m’avessi io fatto in quella così lunga assenza; ma quando fui inchiodato allo spiedo cominciarono ad assaltarmi d’ogni banda di richieste e d’interrogazioni, sicché dopo essere stato duro sotto le battiture, io presi in quel frangente il partito di piangere.

– Ma cos’hai ora che ti sciogli in lagrime? – mi disse Martino – oh non val meglio rispondere a quello che ti si domanda?

– Son stato giù nel prato dei mulini; son stato là lungo l’acqua a pigliar grilli, son stato!... Ih, ih ih! È venuto scuro!...e poi ho fatto tardi.

– E dove sono questi grilli? – mi chiese il Capitano che se ne immischiava un poco nelle inquisizioni criminali della Cancelleria, e ci aveva rubato il mestiero.

– Ecco! – soggiunsi io con voce ancor più piagnolosa. – Ecco che io non so!... Ecco che i grilli mi saranno fuggiti di tasca!... Non so nulla! io!... Sono stato sull’acqua a pigliar grilli, io!... Ih, ih, ih!...

– Avanti con quello spiedo, impostore, – mi gridò la cuoca – o ti concio io per le feste.

– Non ispaventatelo troppo, Orsola – le raccomandò Martino che dal volto di quella strega aveva indovinato la minaccia delle parole.

– Corpo di Pancrazio! – sclamò il Capitano battendo la mano sulla tavola in modo che ne saltarono alte tutte le posate disposte per la cena della servitù. – Tre volte di seguito il nove dovean portare quei maledetti dadi!... Non mi è mai successo un caso simile!... Che partita rovinata!... Basta, tenete a mente, Marchetto!... Tre bezzi di domenica, e due e mezzo di stasera...

– La ne ha anche sette della settimana passata! – soggiunse prudentemente il cavallante.

– Ah sì sì! sette e cinque, dodici e mezzo – rispose il Capitano scomponendosi il ciuffo. – Giusto manca un mezzo bezzo a fare i sei soldi. Te li pagherò domani.

– Si figuri! s’accomodi! – disse sospirando Marchetto.

– Quanto a te, continuò il Capitano venendomi vicino per divertire il discorso – quanto a te, bragia coperta d’un girapolli, vorrei sì averti io fra la grinfe che ti farei metter giudizio! N’è vero, Veronica, che son famoso io per far metter giudizio alla gente?

– Va là! volevate dire per farlo perdere! – rispose sua moglie uscendo dal focolare ed avviandosi al tinello. – Vado ora a dire alla signora Contessa che non stia in angustie, e che Carlino è tornato.

Io non aveva uno specchio dinanzi; contuttociò potrei giurare che a quell’annunzio mi si drizzarono i capelli sul capo, come tanti parafulmini. Mi fu allora di mestieri una nuova esortazione della cuoca per tirar innanzi collo spiedo, e poi stetti là più stupidito che rassegnato ad aspettare gli avvenimenti. Infatti questi non mi fecero aspettare a lungo. Mentre la Contessa violava da una banda la sua prammatica giornaliera, e compariva per la terza volta in cucina colla signora Veronica a latere, dall’altra veniva dentro Fulgenzio colla sua grossa figura da santone seppellita più del solito nel collare della giacchetta. Mai la similitudine di Cristo fra i due ladroni non si è appropriata così bene come a me in quel caso; ma sul momento non avea tempo di burlare, poiché sapeva benissimo che nessuno di quei ladri si sarebbe pentito. La Contessa si fece innanzi strascicando oltre l’usanza la coda della veste, e mi si piantò proprio sul viso; che la vampa del focolare le rendeva gli occhi come due bragie, e lucente il pari d’un carbonchio la goccioletta che spesso aggiungeva vezzo al suo naso uncinato.

– Così, – mi disse stendendo verso di me una mano che mi fece raggruzolar tutto per i brividi che mi corsero giù per la schiena – così, brutto ranocchio, tu rimeriti la bontà di chi ti ha raccolto, allevato, nutrito, ed educato anche a leggere, a scrivere, e a servir messa?... Me ne consolo con te. Io ti predico fin’ora che la tua mala condotta ti trarrà in perdizione, che farai la mala vita come l’ha fatta tuo padre, e che finirai col farti appiccare, come è vero che ne dimostri fin d’ora tutte le buone disposizioni!

A quel punto credetti sentire nel collo lo strettoio del capestro. Nulla! erano le dita della signora Contessa che mi attanagliavano al solito luogo. Io mandai due strilli così acuti che accorsero dal tinello il Piovano, il Cancelliere, la Clara, il signor Lucilio, il Partistagno, e perfino, un attimo dopo, il signor Conte e Monsignore. Tutta questa gente, unita a quella che si trovava in cucina e alle fantesche e alle cameriere accorse pur esse, componeva un bellissimo apparecchio di assistenti alla mia passione. Lo spiedo stava fermo, e la cuoca s’era intromessa per distaccarmi le mani dalla coppa e rimettermele al lavoro: ma io era ancora troppo distratto dalla rabbiosa operazione della Contessa perché potessi dar mente a quell’altro impiastro.

– Dimmi ora cos’hai fatto a zonzo fino a due ore di notte – riprese colei riponendosi ambe le mani sui fianchi con immensa mia consolazione. – Voglio sapere tutta la verità, e a me non la darai a intendere coi tuoi grilli, e col frignare!

La signora Veronica ghignò, come sanno ghignare solo le cattive vecchie ed il diavolo; io dal mio canto le buttai un’occhiata che valeva per cento maledizioni.

– Parla parla, sangue di galera! – urlò la Contessa facendomisi questa volta addosso con ambe le mani uncinate come gli artigli d’una gatta.

– Son stato a spasso fino al luogo dove c’era molta acqua rossa, e molto sole. E poi... – diss’io.

– E poi? – domandò la Contessa.

– E poi sono tornato!

– Ah sì che sei tornato in tanta malora! – soggiunse ella. – Ti veggo sì e non ci ha bisogno che tu me lo dica; ma se non vorrai dire quello che hai fatto in tutte queste ore, ti prometto in fede di gentildonna che tu non gusterai più il sapore del sale!...

Io tacqui; e poi strillai ancora un poco per un altro scrollo che la mi diede alla zazzera con quelle sue dita di scimmia; e poi mi rimisi a tacere, ed anco a menare stupidamente lo spiedo, perché alla cuoca era venuto fatto di rificcarmene il manico in una mano.

– Le dirò io, signora Contessa, cos’ha fatto questo bel capo – prese allora a dire Fulgenzio. – Io era poco fa in sagristia a pulirvi i vasi e le ampolline per la Pasqua che è vicina, ed essendo uscito fin sulla fossa per prender acqua, ho veduto giungere dalla banda di San Mauro un uomo a cavallo che mise a terra il signorino, e gli tenne anche un discorso che non ho capito punto; e poi colui seguitò col suo cavallo verso Ramuscello, e il signorino girò la fossa per entrar dal portone. Ecco come sta la cosa!

– E chi era quell’uomo a cavallo? eravate voi Marchetto? – richiese la Contessa.

– Marchetto passò con me tutto il dopopranzo – rispose il Capitano.

– Chi era dunque quell’uomo? – ripeté la Contessa volgendosi a me.

– Era... era... non era nessuno, – mormorai io ricordando il servigio resomi e la raccomandazione fattami dallo sconosciuto.

– Nessuno, nessuno! – brontolò la Contessa – lo sapremo chi era questo nessuno! Faustina, – aggiunse ella, parlando alla donna dei ragazzi – porterete subito il letto di Carlino nel camerottolo scuro tra la stanza di Martino e la frateria6 e menatevelo quando sarà in punto l’arrosto. Di là, carino mio, – continuò volgendosi a me – non uscirai più se prima non avrai detto chi era quell’uomo a cavallo col quale sei venuto fin sulla scorciatoia di Ramuscello.

La Faustina aveva acceso il lume, ma non era partita ancora per trasportare il mio covacciolo.

– Vuoi dunque dire chi era quell’uomo? – domandò la Contessa.

Io volsi uno sguardo alla Faustina; e mi sentii rompere il cuore pensando che prima di coricarmi non avrei più potuto fisar gli occhi ed anche arrischiar un bacio sulle palpebre socchiuse e sul bocchino tondetto e rugiadoso della Pisana. E stava in me forse, che la Faustina non partisse!

– No! non ho veduto nessuno! non son venuto con nessuno, io – risposi ad un tratto con maggior franchezza che non avessi mai mostrato dapprima.

– Ebbene! – soggiunse la Contessa tornando verso il tinello dopo aver fatto alla Faustina un altro gesto che la indusse ad uscire per l’eseguimento degli ordini ricevuti. – Sia fatto come tu vuoi!

Mise le mani in tasca e uscì tirandosi dietro in codazzo tutta la comitiva; ma ognuno prima di seguirla mi volgeva due occhiate che sanzionavano la giusta sentenza della castellana. Il Conte mi esorcizzò inoltre con un gesto che significava: – Costui ha il diavolo addosso. – Monsignore andò via scrollando il capo quasi disperasse del Confiteor; il Piovano strinse le labbra come per dire: – Non ci capisco nulla –, e il Partistagno voltò via allegramente perché era stufo della scena. Restava la contessina Clara che in onta agli occhiacci della signora Veronica, di Fulgenzio e del Capitano, mi venne daccanto amorevolmente domandandomi se avessi proprio detto la verità. Io volsi uno sguardo in giro, e risposi di sì piegando il mento sul petto. Allora ella mi accarezzò amichevolmente sul capo, e andò insieme cogli altri: ma prima che la fosse uscita il signor Lucilio mi si era accostato proprio vicino all’orecchio per dirmi che io stessi in letto il giorno dopo e che lo facessi chiamar lui, che avremmo accomodato tutto con poco danno. Io alzai la testa per guardarlo e vedere se mi parlava da senno con tanta amorevolezza; ma egli si era già allontanato fingendo non accorgersi d’uno sguardo quasi di riconoscenza che la Clara avea tenuto fermo sopra di lui, rivolgendosi sulla soglia della porta.

– Cosa gli ha detto a quel poverino? – chiese la fanciulla.

– Gli ho detto così e così – rispose Lucilio.

La giovane sorrise, e tornarono poi insieme in tinello, dove approssimandosi l’ora della cena tennero loro dietro il Capitano colla moglie. Restavano Fulgenzio e la cuoca; ma Marchetto e Martino me ne liberarono assicurando che l’arrosto era cotto, e consigliandomi di andarmene a dormire. Infatti Martino prese su un lume e mi condusse al mio nuovo domicilio per quei lunghissimi giri di scale e di corritoio che mi parvero in quella sera non dover più finire. Egli mi raccomodò il letticciuolo in un angolo di quello stanzino che era nulla più d’un sottoscala; m’aiutò a svestirmi e mi compose le coltri intorno al collo perché non pigliassi freddo. Io lo lasciava fare, come appunto se fossi un morto; ma quando poi fu partito, e al lume della lucernetta deposta da lui in un cantone vidi le muraglie sgretolate e il soffittaccio sghembato in quel buco da gatti, la disperazione di non essere nella stanza bianca ed allegra della Pisana mi riprese con tal violenza che mi dava pugni e unghiate nella fronte e non fui contento se prima non mi vidi le mani rosse di sangue. In mezzo a quelle smanie sentii grattare pian piano all’uscio, e, cosa naturalissima in un ragazzo, la disperazione cesse pel momento il luogo alla paura.

– Chi è? – diss’io con voce malferma pei singhiozzi che mi agitavano ancora il petto.

L’uscio s’aperse allora e la Pisana, mezzo ignuda nella sua camicina, a piedi nudi, e tutta tremante di freddo, saltò d’improvviso sul mio letto.

– Tu? cosa hai?... cosa fai?... – le dissi io non rinvenendo ancora dalla sorpresa.

– Oh bella! ti vengo a trovare e ti bacio, perché ti voglio bene – mi rispose la fanciulletta. – Mi sono svegliata che la Faustina disfaceva il tuo letto, e siccome seppi che non volevano più lasciarti dormire nella nostra camera, e che ti avevano messo con Martino, son venuta quassù a vedere come stai, e a domandarti perché sei scappato oggi e non ti sei più fatto vedere.

– Oh cara la mia Pisana, cara la mia Pisana! – mi misi a gridare stringendomela di tutta forza sul cuore.

– Non gridar tanto che ci sentano poi in cucina – rispose ella accarezzandomi sulla fronte. – Cos’hai qui? – la aggiunse sentendosi bagnata la mano e guardandola contro il chiaro del lume.

– Sangue, sangue; sei tutto insanguinato!... Hai qui sulla fronte un’ammaccatura che ne getta fuori a zampilli!... Cos’hai fatto? sei forse caduto o hai dato in qualche spino?

– No, non fu nulla... è stato contro la merletta della porta – risposi io.

– Bene, bene; comunque la sia, lascia far a me a guarirti – soggiunse la Pisana. E mi mise la bocca sulla ferita baciandomela e succiandomela, come facevano le buone sorelle d’una volta sul petto dei loro fratelli crociati; e io le veniva dicendo:

– Basta, basta, Pisana: ora sto benissimo! non mi accorgo nemmeno più d’essermi fatto male!

– No, esce ancora un poco di sangue – rispondeva ella, e mi teneva ancora la bocca sulla fronte, serrata con tal forza che non pareva una bambina di otto anni.

Finalmente il sangue fu stagnato, e la vanerella insuperbiva di vedermi tanto beato come era di quelle sue carezze.

– Son venuta su allo scuro tastando le muraglie, – la mi disse – ma dabasso sono a cena, e non avea paura che mi scoprissero. Ora poi che ti ho guarito, mi tocca scender ancora perché non mi trovino per le scale.

– E se ti trovassero?

– Oh bella! faccio le viste di sognare!

– Sì; ma mi dispiace quasi, che tu arrischi così di buscarti dalla mamma qualche castigo.

– Se dispiace a te, a me non importa, anzi mi piace – ella rispose con un atto di vezzosa superbietta, squassando la testa all’indietro per liberarsi la fronte dai capelli disciolti che la avevano ingombra. – Vedi! tu mi piaci più di tutto, e quando poi non hai indosso quella giubbaccia, come sei ora il mio Carlino, che ti veggo proprio tal qual sei, mi piaci tre volte tanto!... Oh! perché non ti mettono le belle cose che aveva oggi intorno mio cugino Augusto!...

– Oh me ne procurerò di quelle belle cose! – io sclamai. – Le voglio ad ogni costo!

– E dove le prenderai? – mi chiese di rimando.

– Dove, dove!... lavorerò per guadagnar danari, e coi danari, dice Germano, che si può aver tutto.

– Sì, sì, lavora lavora! – mi disse la Pisana. – Io allora ti vorrò bene sempre più! Ma perché non ridi ora?... Eri tanto allegro poco fa!

– Vedi un po’ se rido? – soggiunsi io giungendo la mia bocca alla sua.

– No, così non ti posso vedere!... Via, lasciami! Voglio guardarti se ridi. Hai capito che ho detto di volerti guardare.

Io la accontentai e feci anche prova di riderle colle labbra, ma giù nel cuore andava pensando qual bene la m’avrebbe voluto intantoché io mi fossi guadagnati quegli arredi da signore.

– Ora sei carino, che mi dai piacere – riprese la Pisana canticchiando con quella sua vocina che mi par ancora di sentirla e mi diletta le orecchie fin dalla memoria. – Addio Carlino; io ti saluto, e vado dabasso prima che non ritorni la Faustina!

– Voglio farti lume io!

– No, no; – soggiunse ella saltando giù dal letto e impedendomi di far lo stesso con una delle sue mani – son venuta allo scuro e tornerò giù come sono venuta.

– Ed io ripeto che non voglio che ti faccia male, e che ti farò lume fin sulla scala.

– Guai a te se ti movi! – la mi disse allora cambiando modo di voce, e lasciandomi libero di movermi, come sicura che il suo cenno avrebbe bastato a farmi star quatto – mi fai andar in collera; ti dico che voglio scendere senza lume! io son coraggiosa, io non ho paura di nulla! io voglio andare come voglio io!

– E se poi ti succede di inciampare, o di perderti pei corritoi!

– Io inciampare o perdermi?... Sei matto?... Non son mica nata ieri!... Addio, addio Carlino. Ringraziami perché sono stata buona di venirti a trovare.

– Oh sì, ti ringrazio, ti ringrazio! – le dissi io, col cuore slargato dalla consolazione.

– E lascia che io ringrazi te; – la soggiunse, inginocchiandomisi vicino e baciuzzandomi la mano – perché seguiti a volermi bene anche quando sono cattiva. Ah sì! tu sei proprio il fanciullo più buono e più bello di quanti me ne vengono dintorno, e non capisco come non mi castighi mai di quelle malegrazie che ti faccio qualche volta.

– Castigarti? perché mai, Pisana? – io le andava dicendo. – Levati su piuttosto, e lascia che ti faccia lume, che così al freddo puoi ammalarti!

– Eh! – sclamò la piccoletta. – Sai pure che io non mi ammalo mai! Prima di andar via voglio proprio che tu mi castighi, e che mi strappi ben bene i capelli per le cattiverie che ho commesse contro di te. – E la mi prendeva le mani mettendomele sulla sua testolina.

– Oibò! – diceva io ritraendole – piuttosto ti bacerei!

– Voglio che tu mi strappi i capelli! – soggiunse ella riprendendomi le mani.

– Ed io invece non voglio! – risposi ancora.

– Come non vuoi? ed io ti dico che vorrai! – la si mise a strillare. – Strappami i capelli, strappami i capelli, se no grido tanto che verranno qua sopra e mi farò pestare dalla mamma.

Io per acchetarla presi con due dita una ciocca delle sue treccie e me la attorcigliai intorno alla mano, giocarellando.

– Tira dunque, via; tirami i capelli – ella soggiunse un po’ stizzita, ritraendo di furia la testa in modo che la mia mano dovette seguirla per non farle troppo male. – Ti dico che voglio esser castigata! – continuò pestando i suoi piedini e le ginocchia contro il pavimento che era di pietre tutte sconnesse.

– Non far così, Pisana, che ti guasterai tutta.

– Or dunque strappami i capelli!

Io tirai pian piano quella ciocca che aveva fra le dita.

– Più forte, più forte! – disse la pazzerella.

– Così dunque – diss’io facendo un po’ più di forza.

– No così! più forte ancora – riprese ella con atto di rabbia. E mentre io non sapeva che fare, la dimenò il capo con tanto impeto e così improvvisamente che quella ciocca de’ suoi capelli mi rimase divelta fra le dita. – Vedi? – aggiunse allora tutta contenta. – Così voglio esser castigata quando lo voglio!... e a rivederci dimani, Carlino; e non moverti di là se no non vengo più a spasso con te.

Io mi stetti attonito ed immobile con quella ciocca fra le dita mentr’ella guizzò dalla porta e rinchiuse l’uscio; e poi feci per correrle dietro col lume ma la era già scomparsa dal corritoio. Scommetto che se la sua mamma nel castigarla le avesse strappato uno di quei capelli, ella ne avrebbe strepitato tanto da metter sottosopra la casa ed anche ora mi maraviglia che la sopportasse quel dolore senza batter palpebra; tanto potevano in lei la volontà e la bizzarria infin da bambina. Io poi non so se quei momenti mi fossero più di piacere o di rammarico. Quell’eroismo della Pisana di venirmi a trovare a traverso gli andirivieni di quella buia casaccia, e ad onta delle punizioni che ne poteano capitarle, m’avea fatto salire al settimo cielo; poscia la sua caparbietà s’era intromessa a tosarmi di molto le ali perché sentiva (dico sentiva, perché a nove o dieci anni certe cose non si capiscono ancora) sentiva, ripeto, che l’immaginativa, e la vanagloria di mostrare un piccolo portento di prodezza, c’entravano più assai dell’affetto in un tale eroismo. M’era dunque raumiliato d’alquanto dal primo bollore d’entusiasmo, e quei capelli che m’erano rimasti testimoniavano piuttosto della mia servitù che del suo buon cuore verso di me. Tuttavia fin da fanciullo i segni materiali delle mie gioie de’ miei dolori e delle mie varie vicende mi furono sempre carissimi; e quei capelli non li avrei dati allora per tutti i bei bottoni d’oro e di mosaico e per le altre dovizie che sfoggiava sulla persona il signor Conte nei giorni solenni. Per me la memoria fu sempre un libro, e gli oggetti che la richiamano a certi tratti de’ suoi annali mi somigliano quei nastri che si mettono nel libro alle pagine più interessanti. Essi ti cascano sott’occhio di subito; e senza sfogliazzar le carte, per trovare quel punto del racconto o quella sentenza che ti ha meglio colpito, non hai che a fidarti di loro. Io mi portai sempre dietro per lunghissimi anni un museo di minutaglie di capelli di sassolini di fiori secchi, di fronzoli, di anelli rotti, di pezzuoli di carta, di vasettini, e perfino d’abiti e di pezzuole da collo che corrispondevano ad altrettanti fatti o frivoli o gravi o soavi o dolorosi, ma per me sempre memorabili della mia vita. Quel museo cresceva sempre, e lo conservava con tanta religione quanta ne dimostrerebbe un antiquario al suo medagliere. Se voi lettori foste vissuti coll’anima mia, io non avrei che a far incidere quella lunga serie di minutaglie e di vecchiumi per tornarvi in mente tutta la storia della mia vita, a mo’ dei geroglifici egiziani. E per me io la leggo in essi tanto chiara, come Champollion lesse sulle Piramidi la storia dei Faraoni. Il male si è, che l’anima mia non diede mai ricetto al pubblico, e così, per metterlo a parte de’ suoi segreti, come le ne è venuto il talento, la deve sfiatarsi in ragionamenti e in parole. Me lo perdonerete voi? Io spero di sì; almeno in grazie dell’intenzione la quale è di darvi qualche utilità della mia lunga esperienza; e se cotale opera mi è di alcun diletto o sollievo, vorreste ch’io me ne stogliessi per una pretta mortificazione di spirito? – Lo confesso; non son tanto ascetico. – Il fatto si è che quei simboli del passato sono nella memoria d’un uomo, quello che i monumenti cittadini e nazionali nella memoria dei posteri. Ricordano, celebrano, ricompensano, infiammano: sono sepolcri di Foscolo che ci rimenano col pensiero a favellare coi cari estinti: giacché ogni giorno passato è un caro estinto per noi, un’urna piena di fiori e di cenere. Un popolo che ha grandi monumenti onde inspirarsi non morrà mai del tutto, e moribondo sorgerà a vita più colma e vigorosa che mai: come i Greci, che se ebbero in mente le statue d’Ercole e di Teseo nel resistere ai Persiani di Serse, ingigantirono poi nella guerra contro Mahmud alla vista del Partenone e delle Termopili. Così l’uomo, religioso al memoriale delle sue fortune, non perde il tempo che scorre; ma riversa la gioventù nella virilità e le raccoglie poi ambedue nello stanco e memore riposo della vecchiaia. È un tesoro che s’accumula, non son monete che si spendono giorno per giorno. Del resto questa pietosa abitudine mi parve sempre indizio d’animo dabbene; il tristo nulla ha da guadagnare e tutto da perdere nel ricordarsi; egli s’affanna a distruggere non a conservare le traccie delle sue azioni, perché i rimorsi pullulano da ognuna di esse, come gli uomini dai denti seminati da Cadmo. Alle volte io temetti che con tale usanza si venisse a porre nella vita un soverchio affetto, e che il culto del passato significasse avidità del futuro. Ma se è così in taluno, non è certo sempre né in tutti; del che sono io la prova. Chi raccolse nel suo pellegrinaggio e tenne sol conto delle gemme e dei fiori, si avvicinerà forse tremando a quel varco dove i gabellieri inesorabili lo spoglieranno per sempre dell’allegro bottino; ma se si affidarono al sacrario delle rimembranze i sorrisi e le lagrime, le rose e le spine, e tutta la varia vicenda della sorte nostra ci si schiera dinanzi per via di figure e d’emblemi, allora lo spirito s’adagia rassegnato nel pensiero dell’ultima necessità; i gabellieri gli sembrano inesorabili insieme e pietosi. La va secondo l’indole di chi ha raccolto ed ordinato il museo; poiché mio pensiero è che la fortuna nostra sia scritta profeticamente nell’indole. Essa è la regola interna secondo cui le cose esterne hanno questo o quel valore; e che dai proprii modi di essere giudica la vita o un ozio o un piacere o un sacrifizio, o una battaglia, o una modalità. Chi falla nel giudizio deve o rimediarvi colla convinzione nell’errore, o espiare la propria cecità col disperarsene. E molto facilmente chi stimi la vita un’occasione di piaceri non la stimerà più tale al momento d’andarsene.

Quella ciocca di capelli neri ineguali e avvilluppati, che serbano ancora i segni dello strappamento, furono come la prima croce appesa a segnare lo spazio vuoto d’un giorno nel sacrario domestico nella memoria. E sovente venni poi a pregare a meditare, a sorridere, a piangere dinanzi a quella croce, dal cui significato misto di gioia e d’affanno potevasi forse pronosticar fin d’allora il tenore di quei godimenti acuti, scapigliati e convulsi che mi dovevano poi logorar l’anima e fortunatamente rinnovarla. Quella ciocca di capelli restò l’A del mio alfabeto, il primo mistero della mia Via Crucis, la prima reliquia della mia felicità; la prima parola scritta insomma della mia vita; varia com’essa, e quasi inesplicabile come quella di tutti. Certo fin dal primo istante io ne presentii l’importanza perché non mi pareva aver ripostiglio tanto sicuro ove nasconderla. L’avvoltolai per allora in una pagina bianca strappata dal mio libro di messa e la misi fra il letto ed il pagliericcio. Cosa strana assai! poiché mi si parò alla mente il valore inestimabile di quei pochi capelli, essi mi bruciavano le dita. Non so se fosse paura di perderli e di esserne privato, o ribrezzo istintivo dalle tremende promesse che significarono poi. – Io li aveva già nascosti, e stava cheto cheto fingendo di dormire quando capitò su Martino, il quale vedendomi addormentato tolse la lucernetta per sé, e si ritrasse nella sua stanza. Poi a poco a poco la finta di dormire mi si volse in sonno vero, ed il sonno in un ghiribizzo continuo di sogni, di fantasmagorie, di trasfiguramenti, che mi lasciò di quella notte l’idea lunga lunga d’un’intera vita. Che il tempo non si misurasse, come pare, dai moti del pendolo, ma dal numero delle sensazioni? Potrebbe essere; e potrebbe esser del pari che una tal questione si riducesse a un gioco di parole. Io certo vissi alle volte nel sogno di un’ora lunghissimi anni; e mi parve poter spiegare questo fenomeno assomigliando il tempo ad una distanza ed il sogno ad una vaporiera. I prospetti sono gli stessi ma passano più rapidi; la distanza non è diminuita ma divorata. La mattina mi svegliai con tanta gravità addosso che mi invogliava di credermi un uomo addirittura, così lunga età mi pareva essersi condensata nelle ultime ventiquattr’ore da me vissute: e le memorie del giorno prima mi passarono innanzi chiare ordinate e vivaci come i capitoli d’un bel romanzo. I dispetti della Pisana, le smorfie dei bei cugini, il mio abbattimento, la fuga, il risvegliarsi in riva al canale, il guazzo7 periglioso di questo, la gran prateria, il giungere sull’altura, le meraviglie di quella scena stupenda di grandezza, di splendore, e di mistero; il cader delle tenebre, i miei timori, e il correre traverso la campagna, e lo scalpitarmi a tergo del cavallo, e l’uomo dalla gran barba che m’avea tolto in groppa; il galoppo sfrenato traverso l’oscurità e la nebbia, le sculacciate di Germano sul primo giungere a Fratta, quegli altri martirii della cucina, e quello spiedo e quella Contessa, e la mia fermezza di non voler disobbedire alla raccomandazione di chi m’avea reso un servigio ad onta del tremendo castigo minacciatomi; la carezza della Clara e le parole del signor Lucilio, le mie smanie, le disperazioni poiché fui coricato, e l’apparimento in mezzo a queste della Pisana, della Pisana umile e superba, buona e crudele, sventata bizzara e bellissima secondo il solito, non vi pare che ce ne fossero troppe pel cervello d’un bambino? E lì in un foglietto di carta sotto il pagliericcio io aveva un talismano che per tutta la vita mi avrebbe ravvivato a mio grado tutto quel giorno così vario così pieno. Allora, risovvenendomi specialmente della parlata del signor Lucilio, divisai trarne profitto, e presi a chiamare Martino con quanta voce aveva in gola. Ma il vecchio m’avrebbe fatto squarciare, senza che il suo timpano si risolvesse ad avvertirlo delle mie grida; balzai dunque dal letto, e andai nella sua camera che appunto l’era sul finir di vestirsi, e gli dissi che io mi sentiva un gran mal di capo, e che per tutta la notte non avea chiuso occhio e che mi chiamassero il dottore perché avea gran paura di morirne. Martino mi rispose ch’era pazzo, e che mi ricoricassi quietino e che egli andrebbe intanto pel dottore: ma prima scese in cucina a rubarmi un po’ di brodo; impresa nella quale, protetto dall’oscurità del locale, riuscì a meraviglia; e io bevetti il brodo con gran pazienza benché avessi dentro una grandissima voglia di panetti e poi m’adagiai sotto le coltri promettendo che avrei cercato di sudare. Credo che tra le botte della testa, la sfinitezza della fatica e del digiuno, e il sudore promossomi da quella bevanda calda, io arrivai a compormi una bellissima febbre; tantoché quando il signor Lucilio capitò di lì a un’ora, la fame erami passata e le era succeduta una sete ardentissima. Mi tastò il polso, mi guardò la lingua, e mentre mi domandava conto di quelle graffiature che mi screziavano la fronte, sorrise in modo più benevolo di prima, udendo nel corritoio il fruscio d’una gonna. La Clara entrò nel bugigattolo per ascoltare dal medico la ragion del mio male e confortarmi con dire che la Contessa in vista della mia malattia non si sarebbe ostinata nel castigarmi tanto severamente, e purché dicessi a lei la verità circa alla sera prima, mi avrebbe anche perdonato. Io le risposi che la verità l’aveva già detta, e sarei tornato a ripeterla; e che se pareva strano a loro che andando a zonzo senza saper dove avessi passato quasi un’intera giornata, lo stesso sembrava anche a me, ma non sapeva che farci. La Clara allora m’interrogò su quel luogo così maraviglioso e così pieno di luce di sole e di colori ove diceva essere stato; e ripetutane ch’io n’ebbi con grand’enfasi la descrizione, la soggiunse che forse Marchetto aveva ragione e che io poteva essere stato al Bastione di Attila, che è un’altura presso la marina di fianco a Lugugnana dove la tradizione paesana vuole che venendo da Aquileia abbia tenuto suo campo il re degli Unni prima di essere incontrato dal pontefice Leone. Peraltro da Fratta a là correvano sette buone miglia pei traghetti più spicci, e non sapeva capacitarsi che nel ritorno non mi fossi smarrito. E la mi disse per giunta che quella tal bella cosa immensa azzurra e di tutti i colori nella quale si specchiava il cielo era per l’appunto il mare.

– Il mare! – io sclamai – oh qual felicità menar la propria vita sul mare!

– Davvero? – disse il signor Lucilio. – Eppure io ci ho un cugino che gode da molti anni di questa felicità e non ne è gran fatto contento. Egli afferma che l’acqua è fatta pei pesci e che un gran controsenso fu quello dei vecchi Veneziani di piantarvisi entro.

– Sarà un controsenso ora; ma non lo era una volta; – soggiunse la Clara – quando al di là del mare c’eran Candia la Morea e Cipro e tutto il Levante.

– Oh per me, – ripresi io – starei sempre sul mare senza occuparmi di quello che possa essere di là.

– Ma intanto pensa a star ben coperto e a guarire, demonietto – aggiunse il signor Lucilio. – Martino ti porterà dalla spezieria una boccettina d’acqua, buona come la conserva, e tu la prenderai un cucchiaio per volta ad ogni mezz’ora, hai capito?

– Intanto ti aggiusteremo le cose colla mamma pel minor danno – continuò la Clara – e giacché mi hai ripetuto che quella era la verità come l’avevi detta ieri sera, io spero che la ti perdonerà.

Lucilio e la Clara uscirono, Martino uscì con loro per andarne alla spezieria; io mi rimasi col mio sudore colla mia sete e con una voglia sfrenata di veder la Pisana, ché allora non mi avrebbe più importato se mi perdonavano o meno. Ma la fanciulletta non si fece vedere, e soltanto nel cortile udii la sua voce e quella degli altri ragazzi che strimpellavano ne’ loro giochi; e siccome io aveva paura di esser veduto o prevenuto da Martino, o denunziato da alcuno dei fanciulli, non mi cimentai a vestirmi e scender nel cortile come ne aveva quasi volontà. Io stetti coll’orecchie intese e il cuore in tumulto che mi impediva quasi di udire. – Tuttavia di lì a un’ora intesi la Pisana gridare a perdifiato:

– Martino, Martino, come sta dunque Carletto?

Martino dovette aver capito e le avrà anche risposto, ma io non ne intesi nulla; solamente lo vidi entrar di lì a poco colla boccetta della medicina e mi disse che la Contessa lo aveva incontrato per la scala e domandatogli se era vero che mi fossi spaccata la fronte contro la parete per la disperazione.

– È vero questo? – soggiunse il buon Martino.

– Non so, – io gli risposi – ma ieri sera era così scaldato che posso aver fatto delle sciocchezze senza che ora me ne ricordi.

– Non te ne ricordi? – soggiunse Martino che poco m’aveva capito.

– No, no, non me ne ricordo – ripresi io. Ed egli non rimase affatto contento d’una tale risposta poiché gli pareva a lui che dopo aversi conciato il muso a quel modo per un pezzo dovesse durarne buonissima memoria.

La medicina fece il suo effetto, migliore forse e più improvviso che nessuno si sarebbe aspettato, perché il giorno stesso m’alzai; e quanto al castigo inflittomi dalla Contessa non se ne parlò più. Gli è vero peraltro che non si parlò neppure di ristabilirmi nella camera della Faustina, e che il mio canile rimase definitivamente nell’appartamento di Martino. Come si può immaginare, la voglia di riveder la Pisana dopo quell’improvvisata della notte scorsa ci ebbe un gran merito nella mia repentina guarigione; e quando discesi in cucina, mia prima cura fu quella di cercarla. La famiglia avea finito il pranzo allora allora; e Monsignore incontrandomi per la scala mi accarrezzò il mento contro ogni suo solito, e mi guardò le ammaccature della fronte, le quali poi non erano quel gran malanno. Egli mi disse che non doveva essere quella peste che mi credevano se il dolore di esser reputato bugiardo mi faceva dare in simili violenze contro me stesso; ma mi raccomandò di usar più discrezione in avvenire, di offerire a Dio le mie tribolazioni, e di imparare la seconda parte del Confiteor. Nelle benigne parole di Monsignore io riconobbi il buon animo della Clara, la quale aveva dato quell’edificantissima ragione delle mie stramberie, e così, se non il perdono completo, mi fu almeno concessa una clemente dimenticanza. Seppi in seguito da Marchetto che il signor Lucilio mi aveva dipinto come un ragazzo molto timido e permaloso, facile ad esser abbattuto anche nelle forze e nella salute da un qualunque dispiacere; e tra lui e la Clara tanta malleveria diedero della mia sincerità che la Contessa non volle insistere ad accusarmi di doppiezza. Peraltro ella si tolse la briga di interrogare Germano; ma questi, imbeccato forse da Martino, rispose che avea bensì udito la notte prima lo scalpitar d’un cavallo, ma buona pezza dopo il mio ritorno a Fratta, sicché non era possibile che con quel cavallo io fossi venuto. Allora la testimonianza di Fulgenzio fu lasciata là, ed io rimasi colla mia pace, e non caddi più nella necessità di dover mentire per delicatezza di coscienza. Debbo tuttavia soggiungere che quella che parrà a taluni frivola e cocciuta ostinazione di fanciullo, a me sembrò fin d’allora e la sembra tuttavia una bella prova di fedeltà e di gratitudine. Fu allora la prima volta che l’animo mio ebbe a lottare fra piacere e dovere; né io titubai un istante ad appigliarmi a quest’ultimo. Se il dovere in quel caso non era poi tanto stringente, poiché né la raccomandazione dello sconosciuto pareva fatta sul serio, né io avea promesso nulla, né potea capire a che gli potesse giovare il mio silenzio sopra un fatto così comune com’è del passaggio d’un uomo a cavallo, tuttociò prova a tre tanti la rettitudine de’ miei sentimenti. Fors’anco quel primo sacrificio, cui mi disposi tanto volonterosamente e per sì frivolo motivo, diede alla mia indole quell’avviamento che non ho poi cessato dal seguir quasi sempre in circostanze più gravi e solenni. A lungo si è disputato se la fortuna faccia l’uomo; o se l’uomo governi la fortuna. Ma nella disputa non si badò forse troppo fin qui a distinguere quello che è, da quello che dovrebbe essere. Certo la filosofia solleva l’uomo sopra ogni influsso di astri o di comete; ma gli astri e le comete gravitano sopra di noi molto tempo innanzi che la filosofia ci insegni a difendersene. È spesso la sola fortuna che viene apparecchiando i nutrimenti alla ragione prima ancora che questa non sia nata. E così le circostanze dell’infanzia, se non governano l’intero tenore della vita, educano sovente a modo loro quelle opinioni che formate una volta diventano per sempre gli incentivi delle opere nostre. Perciò badate ai fanciulli, amici miei; badate sempre ai fanciulli, se vi sta a cuore di averne degli uomini. Che le occasioni non diano mala piega alle loro passioncelle; che una sprovveduta condiscendenza, o una soverchia durezza, o una micidiale trascuranza non li lascino in bilico di creder giusto ciò che piace, e abbominevole quello che dispiace. Aiutateli, sorreggeteli, guidateli. Preparate loro col maggior accorgimento occasioni da trovar bella, santa piacevole la virtù; e brutto e spiacevole il vizio. Un grano di buona esperienza a nove anni val più assai che un corso di morale a venti. Il coraggio, l’incorruttibilità, l’amor della famiglia e della patria, questi due grandi amori che fanno legittimi tutti gli altri, somigliano allo studio delle lingue. La prima età vi si presta assai; ma guai a chi non li apprende. Guai a loro, e peggio che peggio a chi avrà che fare con loro, od alla famiglia ed al paese che da essi attende aiuto decoro e salvamento. Il germoglio è nel seme, e la pianta nel germoglio; non mi stancherò mai dal ripeterlo; perché l’esperienza della mia vita confermò sempre in me ed in altri la verità di questa antica osservazione. Sparta, la dominatrice degli uomini, e Roma, la regina del mondo, educavano dalla culla il guerriero e il cittadino: perciò ebbero popoli di cittadini e di guerrieri. Noi che vediamo nei bimbi i vezzosi e i gaudenti, abbiamo plebaglie di gaudenti e di vezzosi.

Ora sarò forse allucinato dall’amor proprio, ma pur non veggo nel mio passato memoria che più mi sia confortevole e buona, di quel primo castigo così valorosamente sfidato per mantenere un segreto raccomandatomi e per mostrarmi grato d’un beneficio ricevuto. Credo che dappoi moltissime volte mi sia condotto colla stessa regola, per la vergogna che altrimenti avrei provato di mostrarmi uomo più dappoco che stato non lo fossi da ragazzo. Ecco in qual modo le circostanze fanno sovente l’opinione. Io era salito; e non volli più scendere. Se precipitai in qualche occorrenza, fu pronto il pentimento; ma non iscrivo per iscusarmene, e la mia penna sarà sempre pronta a riprovare come a benedire le mie azioni secondo il merito. Tanto più colpevole alle volte in quanto non doveva esserlo né per abitudine né per coscienza. Però chi è puro affatto tra noi mortali? – Mi conforta la parabola dell’adultera e la sublime parola di Cristo: Chi non ha peccato scagli la prima pietra!

Quel dopopranzo, come vi diceva, mia prima cura fu di andar in traccia della Pisana, ma con sommo mio rammarico non mi venne fatto di trovarla in nessun luogo. Ne domandai alle cameriere, le quali, siccome colte in fallo per la loro sprovvedutezza verso la fanciulla, si svelenirono contro la mia petulanza. Germano, Gregorio e Martino a’ quali ne chiesi conto del pari, non mi seppero dare nessun ragguaglio, e finalmente scorrucciato passai oltre le scuderie e interrogai l’ortolano se non l’avesse veduta uscire da quelle bande. Mi rispose che l’aveva veduta in fatti prender verso la campagna col figliuoletto dello speziale, ma che la cosa era vecchia di due ore e probabilmente la padroncina doveva esser rientrata, perché il sole scottava assai e il farsi abbrustolire non le piaceva. Io però, conoscendo l’umor balzano della fanciulla, non mi fidai di questa conghiettura, ed uscii io pure nei campi. Il sole mi dardeggiava cocentissimo sul capo, la terra mi si sfregolava sotto i piedi per la grande arsura, ed io di nulla mi accorgeva per la grande ambascia che mi tumultuava dentro. Trovai in riva d’un fosso un legacciolo da scarpe. L’era della Pisana, ed io seguitai oltre persuaso che il gran desiderio me l’avrebbe fatta trovare in qualunque luogo. Spiava le macchie, i rivali, e le ombre dove eravamo usati posare nelle nostre scorrerie: gli occhi miei correvano d’ogni lato sferzati dalla gelosia, e se mi fosse capitato alle mani quel figliuoletto dello speziale, credo che l’avrei unto ben bene senza darmene un perché. Quanto alla Pisana, la conosceva a fondo, mi ci era avvezzato stupidamente, ed avea cominciato quasi ad amarla in ragione de’ difetti, come appunto l’eccellente cavallerizzo predilige fra’ suoi cavalli quello che più s’impenna e resiste agli speroni ed alle redini. Non è qualità che tanto renda pregevole e cara alcuna cosa come quella di vederla pronta a sfuggirci; e se cotal abitudine di timore e di sforzo affatica gli animi deboli, essa arma e ribadisce i costanti. Si direbbe che la Pisana m’avesse stregato, se la ragione dello stregamento io non la leggessi chiara nell’orgoglio in me continuamente stuzzicato a volerla spuntare sugli altri pretendenti. Mi vedeva il preferito più di sovente e sopra tutti; voleva esserlo sempre. Quanto al sentimento che mi portava a voler ciò, era amore del più schietto; amore che crebbe poi, che mutò anche tempra e colore, ma che fin d’allora mi occupava l’anima con ogni sua pazzia. E l’amore a dieci anni è tanto eccessivo come ogni altra voglia in quella età fiduciosa che non conobbe ancora dove stia di casa l’impossibile. Sempre d’accordo che qui la carestia delle parole mi fa dir amore in vece di quell’altro qualunque vocabolo che si dovrebbe adoperare; perché una passione tanto varia, che abbraccia le sommità più pure dell’anima e i più bassi movimenti corporali, e che sa inchinar quelle a questi o sollevar questi a quelle, e confonder tutto talvolta in un’estasi quasi divina e tal altra in una convulsione affatto bestiale, meriterebbe venti nomi proprii invece d’un solo generico, sospetto in bene o in male a seconda dei casi, e scelto si può dire apposta per sbigottire i pudorati e scusare gli indegni. Dissi dunque amore e non potea dir altro; ma ogni qualvolta mi avverrà di usare un tal vocabolo nel decorso della mia storia, mi terrò obbligato ad aggiungere una riga di commento per supplire al vocabolario. A quel tempo pertanto io amava nella Pisana la compagna de’ miei trastulli; e poiché a quell’età i trastulli son tutto, ciò vien a dire che la voleva tutta per me; il che se non costituisce amore e di quel pretto, come notava più sopra, prendetevela coi vocabolaristi. Ad onta peraltro del mio furore a cercarla, ella quel dopopranzo non si lasciava trovare; e cerca di qua e guarda di là, e corri e salta e cammina, io presi senza avvedermene la piega che m’avea menato così lontano il giorno prima. Quando m’accorsi di ciò, mi trovava appunto in un crocicchio di strade campestri, dove sur un muricciuolo scalcinato un povero San Rocco mostrava la piaga della sua gamba ai devoti passeggieri. Il fido cane gli stava a fianco colla coda bassa e il muso innalzato, quasi per osservare cos’egli stesse facendo. – Tutto questo io vidi nella prima alzata d’occhi; ma nel ritirarli poi, m’addiedi d’una vecchia curva e pezzente, che pregava con gran fervore davanti a quel San Rocco. E la mi sembrò la Martinella, una povera accattona così chiamata in quel contado, che soleva fermarsi a prender una presa dalla scatola di Germano, ogniqualvolta la passasse dinanzi al ponte di Fratta. Me le accostai allora con qualche soggezione, perché i racconti di Marchetto mi avevano messo tutte le vecchie in sospetto di streghe; ma la conoscenza e il bisogno mi spronarono a non dar addietro. Ella mi si volse incontro con una cera fastidiosa, benché fosse per costume la poveretta più paziente ed affabile di quante ne giravano: e mi chiese borbottando cosa facessi io in quel luogo ed a quell’ora. Le risposi che andava in cerca della Pisana, la figliuoletta della Contessa, e che mi preparava appunto a domandarne a lei se per avventura non l’avesse veduta passare col ragazzetto dello speziale.

– No, no, Carlino; non l’ho veduta – rispose con molta fretta e alquanta stizza la vecchia, benché volesse mostrarmisi benevola. – Mentre tu la cerchi ella è già forse tornata a casa da un’altra banda. Va, va in castello; son sicura che la troverai.

– Ma no, – soggiunsi io – l’ha appena finito di pranzare or ora...

– Ti dico che tu vada là e che non puoi sbagliare di raggiungervela; – mi interruppe la vecchia – anzi un cinque minuti fa, ora che mi ricordo, devo averla veduta che la svoltava giù dietro il campo dei Montagnesi.

– Ma se ci son passato io cinque minuti fa! – ribattei alla mia volta.

– Ed io ti dico che l’ho veduta.

– Ma no, che non può essere.

Mentre io voleva pur soffermarmi a ragionare, e la vecchia s’affaccendava a farmi dar addietro, ecco che si sentì per una delle quattro strade il galoppo d’un cavallo che s’avvicinava. E la Martinella allora mi piantò lì con una scrollata di spalle, movendo incontro a quello, come per domandar la limosina. Il cavallo sbucò fuori dopo un istante dall’affossamento di quella stradaccia, e l’era un puledro focoso e robusto colle nari tremolanti e la bocca coperta di schiuma. Sopra poi stava un uomo lacero e grande con una barbaccia grigia sperperata ai quattro venti e un cappellaccio appassito dalle pioggie che gli batteva sul naso. Non aveva né staffe né sella né briglia e solamente stringeva i capi della cavezza coi quali batteva le spalle della cavalcatura per animarne la corsa. Così a prima giunta egli mi svegliò una lontana idea di quel barbone che m’avea ricondotto a casa la sera prima; ma il sospetto divenne certezza quando colla sua voce rauca e vibrata corrispose al saluto dell’accattona. Costei si volse accennando me dello sguardo, ed egli allora, fermato il puledro vicino alla vecchia, le si piegò all’orecchio, per bisbigliarle alcune parole. La Martinella si rasserenò tutta levando le braccia al cielo, e poi aggiunse a voce alta:

– Dio e San Rocco rimeritino voi della vostra buona azione. E quanto alla carità io mi fido, e ricordatevi in fin di settimana!

– Sì, sì, Martinella! e non mancatemi! – soggiunse quell’uomo stringendo colle gambe il ventre del puledro e prendendo di gran corsa per la strada della laguna. Quando fu lontano egli si volse per far alla vecchia un segno verso la strada per la quale era venuta; poi cavallo e cavaliero scomparvero nella polvere sollevata dalle zampe di quello.

Io stava tutto intento a quella scena quando, togliendo gli occhi dal luogo ove era scomparso il cavallo, li portai sulla campagna dirimpetto dove vidi appunto la Pisana e il fanciullo dello speziale che correvano molto affannati alla mia volta. Io pure mi diedi a correre verso di loro, e la Martinella mi gridava: – Oh dove corri ora, Carlino? – ed io a risponderle: – La è là, la è là la Pisana! Non la vedete? – Infatti raggiunsi la ragazzetta, ma la era tanto pallida e smarrita, poverina, da far compassione.

– Per carità, Pisana, cos’hai, ti senti male? – le chiesi sostenendola pel braccio.

– Oimé, che paura... che correre... son là con gli schioppi... che voglion passar l’acqua – rispondeva trafelando la ragazzetta.

– Ma chi sono quelli là cogli schioppi che voglion passare?

– Ecco – entrò a rispondermi Donato il ragazzo dello speziale che s’era un po’ rimesso da quell’ansa8 spaventata – ecco come la è... Eravamo a giocare sul rio del mulino, quando sboccano sull’altra sponda quattro o cinque uomini con certi ceffi e certe pistole in mano da far paura, i quali parevano cercar qualche cosa ed accingersi benanco a guazzare. E la Pisana si diede a correr via, ed io a tenerle dietro con quante gambe aveva; ma due o tre di loro si misero a gridare: «Oh non avete veduto un uomo a cavallo scappare qui a traverso!?». Ma la Pisana non avea voglia di rispondere ed io neppure; e continuammo a fuggire ed eccoci qui; ma quegli uomini verranno anch’essi certamente, perché, quantunque l’acqua sia alta, il ponte del mulino non è lontano.

– Oh scappiamo, scappiamo! – sclamò tutta sbigottita la fanciulletta.

– Datevi animo, signorina – entrò allora a dire la vecchia che avea posto mente a tutti questi discorsi. – Quelle Cernide non cercano di voi, ma d’un uomo a cavallo; e quando qui io e Carlino avremo risposto che di uomini a cavallo non vidimo altro che il guardiano di Lugugnana che andava a guardar il fieno a Portovecchio...

– No, no! voglio andarmene! ho paura io! – strillava la pazzerella.

Ma d’andarsene non era omai tempo poiché quattro buli sbucarono in quell’istante dalla campagna, e, guardatisi intorno per le quattro vie, si volsero alla vecchia colla stessa domanda che avevano fatta un momento prima ai due fanciulli.

– Non vidi altro che il guardiano di Lugugnana che volgeva a Portovecchio – rispose loro la Martinella.

– Eh che guardiano di Lugugnana! sarà stato lui! – disse uno della banda.

– Sentite Martinella; – domandò un altro di coloro – non conoscete voi lo Spaccafumo?

– Lo Spaccafumo! – sclamò la vecchia con due occhiacci brutti brutti. – Quel ribaldo, quel bandito che vive senza legge e senza timor di Dio, come un vero turco! No per grazia di Dio che non lo conosco: ma lo vidi peraltro una domenica sulla berlina di Venchiaredo che saranno due anni.

– E oggi non lo avete veduto per queste bande? – chiese ancora colui che avea parlato il primo.

– Se l’ho veduto oggi? ma se dicevano che fosse morto annegato fin dall’anno scorso! – ripigliò la vecchia. – E poi confesso alle Loro Eccellenze che patisco un po’ negli occhi...

– Udite pure! era lui! – tornò a dire lo sgherro. – Perché non dircelo prima che sei orba come una talpa, vecchiaccia grinza? Su in gamba, a Portovecchio, figliuoli! – soggiunse rivolto ai suoi.

E tutti quattro presero per la strada di Portovecchio che era l’opposta a quella battuta un quarto d’ora prima dal barbone.

– Ma sbagliano per di là; – volli dir io.

– Zitto; – mi bisbigliò la Martinella – lascia andare quella cattiva gente, e diciamo invece un pater noster a San Rocco che ce ne ha liberati.

La Pisana durante il colloquio cogli sgherri avea riavuto tutto il suo coraggio, e mostrava da ultimo un contegno più sicuro di tutti noi.

– No, no; – diss’ella – prima di pregare bisogna correre a Fratta ad avvertire il Cancelliere e Marchetto di quei brutti musi che abbiamo veduto. Oh non tocca al Cancelliere a tener lontano dal feudo del papà i malviventi?

– Sì certo; – risposi io – ed anco li fa metter in prigione a suo talento.

– Or dunque andiamo a far mettere in prigione quei quattro brutti uomini; – riprese ella trascinandomi verso Fratta. – Non voglio, no, non voglio che mi spaventino più.

Donato ci seguiva posto affatto in non cale dalla capricciosa fanciulletta; e la Martinella erasi rimessa in ginocchione dinanzi a san Rocco, come se nulla fosse stato.