CAPITOLO QUARTO
Don Chisciotte contrabbandiere e i signori Provedoni di Cordovado – Idillio pastorale intorno alla fontana di Venchieredo con qualche riflessione sull’amore e sulla creazione continua nel mondo morale – La chierica del Cappellano di Fratta, e un colloquio diplomatico fra due giurisdicenti.
Lo Spaccafumo era un fornaio di Cordovado, pittoresca terricciuola tra Teglio e Venchiaredo, il quale, messosi in guerra aperta colle autorità circonvicine, dal prodigioso correre che faceva quando lo inseguivano, avea conquistato la gloria d’un tal soprannome. La sua prima impresa era stata contro i ministri della Camera1 che volevano confiscare un certo sacco di sale trovato presso una vecchia vedova che abitava muro a muro con lui. Mi pare anzi che quella vecchia fosse appunto la Martinella, che a quei tempi per esser capace di lavorare, non accattava ancora. Condannato al bando per due anni, il signor Antonio Provedoni, Uomo di Comune, gliel’avea accomodata colla multa di venti ducati. Ma dopo la rissa coi doganieri pel sacco del sale, egli ne appiccò un’altra col Vice-capitano delle carceri, che voleva imprigionare un suo cugino per averlo trovato sulla sagra di Venchiaredo colle armi in tasca. Allora gli toccarono tre giorni di berlina sulla piazzuola del villaggio, e per giunta due mesi di carceri, e il bando di vent’otto mesi da tutta la giurisdizione della Patria. Il fornaio piantò lì di far il pane; ed ecco a che si ridusse la sua obbedienza al decreto della Cancelleria Criminale di Venchieredo. Del resto continuò a far dimora qua e là nel paese; ed ad esercitare a pro’ del pubblico il suo ministero di privata giustizia. La sbirraglia di Portogruaro gli era stata sguinzagliata addosso due volte; ma egli sbatteva la polvere con tanta velocità e conosceva sì bene i nascondigli e i traghetti della campagna, che di pigliarlo non ne avean fatto nulla. Quanto al sorprenderlo nel covo era faccenda più difficile ancora: tutti i contadini erano dalla sua, e nessuno sapeva dire ov’egli usasse dormire o ripararsi nei rovesci del tempo. Del resto, se la sbirraglia di Portogruaro si moveva con troppa solennità per arrivargli improvvisa alle coste, i zaffi e le Cernide dei giurisdicenti avevano troppo buon sangue coi paesani, per corrergli dietro sul serio. Alle volte, dopo settimane e settimane che non s’era udito parlare di lui, egli compariva tranquillo tranquillissimo alla messa parrocchiale di Cordovado. Tutto il popolo gli faceva festa; ma egli la messa non l’ascoltava che con un orecchio solo; e l’altro lo teneva ben attento verso la porta grande, pronto a scappare per la piccola, se si udisse venir di colà il passo greve e misurato della pattuglia. Che questa usasse la furberia di appostarsi alle due porte non era prevedibile, stante la perfetta buona fede di quella milizia. Dopo messa egli crocchiava2 cogli altri compari sul piazzale, e all’ora di pranzo andava difilato colla sua faccia tosta nella casa dei Provedoni che era l’ultima del paese verso Teglio. Il signor Antonio, Uomo di Comune, chiudeva un occhio; e il resto della famiglia si raccoglieva con gran piacere in cucina dintorno a lui a farsi raccontare le sue prodezze, e a ridere delle facezie che infioravano il suo discorso. Fin da fanciullo egli avea tenuto usanza di buon vicino in quella casa; e allora la continuava alla meglio, come se niente fosse; tantoché il vederlo capitar ogni tanto a mangiare daccanto al fuoco la sua scodella di brovada3 la era diventata per tutti un’abitudine.
La famiglia dei Provedoni contava in paese per antichità e per reputazione. Io stesso mi ricordo aver letto il nome di ser Giacomo della Provedona nel protocollo d’una vicinia4 tenuta nel 1400 e d’allora in poi l’era sempre rimasta principale nel Comune. Ma se la sorte delle povere Comuni non era molto ridente in mezzo alle giurisdizioni castellane che le soffocavano, più meschina era l’importanza dei loro caporioni appetto dei feudatari. San Marco era popolare, ma alla lontana, e piuttosto per pompa; e in fondo gli stava troppo a cuore, massime in Friuli, l’ossequio della nobiltà perch’egli volesse alzarle contro questo spauracchio delle giurisdizioni comunali. Sopportava pazientemente quelle già stabilite e pazienti a segno da non dar appiglio ad essere decapitate con soverchie pretese di stretto diritto; ma le teneva in santa umiltà con mille vincoli, con mille restrizioni; e quanto allo stabilirne di nuove se ne guardava bene. Se una giurisdizione gentilizia, per ragioni d’estinzione di sentenza o di fellonia, ricadeva alla Repubblica, anziché costituirla in comunale, usavasi infeudarne qualche magistratura o, come si diceva, qualche carica della Provincia. Così si otteneva sott’acqua il doppio scopo, di rintuzzare almeno nel numero i signori castellani, ai quali l’appoggiarsi era necessità, non bramata tuttavia; e di mantenere le popolazioni nell’usata e cieca servitù, aliene piucché si poteva dai pubblici impasti. Del resto se le Comuni nelle loro contese coi castellani avevano spesso torto sul libro delle leggi, lo avevano poi sempre dinanzi ai tribunali, e ciò, oltreché pel resto, anche per la connivenza privata dei magistrati patrizi, mandati anno per anno dalla Serenissima Dominante a giudicare nei Fori Supremi di Terraferma. V’avea sì un mezzo ad uguagliar tutti i ceti dinanzi la santa imparzialità dei tribunali; e questo era il danaro: ma se si ponga mente alla combattività italiana che congiurava in quei Comuni colla prudentissima economia friulana, è facile capire come ben rade volte essi fossero disposti a cercare e ad ottenere giustizia per quella via. Il castellano avea già pagato il zecchino, che le Comunità litigavano ancora sul bezzo e sulla petizza5; quegli avea già in tasca la sentenza favorevole e queste contendevano sopra una clausola della risposta o della duplica6.
Così la taccagneria, che si è osservata abbarbicarsi quasi sempre nel governo dei molti e piccoli, menomava d’assai quella debolissima forza che era consentita ai Comuni. Perché inoltre, mentre i castellani tenevano armate alla meglio le loro Cernide e assoldavano per birri i capi più arrisicati del territorio, le Comunità all’incontro non ricevevano che i loro rifiuti, e in quanto alle Cernide non era raro che un drappello intero si trovasse con quattro archibugii tarlati e sconnessi, ogni colpo dei quali era piucché altro pericoloso per chi lo tirava. Infatti si guardavano bene dal commettere simili imprudenze; e nelle maggiori scalmane di coraggio combattevano col calcio. Quello che succedeva delle giurisdizioni rispetto allo Stato, che cioè ognuna faceva e pensava per sé, non vedendo né provando utile alcuno dal gran vincolo sociale, lo stesso avveniva nelle persone singole rispetto alla Comune, che diffidando e non a torto dell’autorità di questa, ognuno s’ingegnava a farsi o giustizia o autorità per sé. Da ciò rappresaglie private continue, e servilità nei Comuni ai feudatari vicini, più dannosa e codarda perché non necessaria; ma necessaria in questo, che una legge naturale fa i deboli servi dei potenti. Non sempre a torto fummo tacciati noi italiani di dissimulazione, d’adulazione, e d’eccessivo rispetto alle opinioni e alle forze individuali. Gli ordinamenti pubblici di cui accenno, fomentarono cotali piaghe dell’indole nazionale. Tartufi7, parassiti e briganti pullularono come male erbe in luogo ferace ed incolto. L’ingegno l’accortezza l’audacia volte a frodar quelle leggi da cui non era assicurato con ugualità nessun diritto, diventavano stromenti di malizia, e di perversità; e il suddito colla frode o col delitto s’adoperava a conseguire quello che gli era negato dalla giustizia obliqua, o ignorante o vendereccia del giudice. V’aveva per esempio uno statuto che accordava piena fede in causa ai libri dei mercanti e dei gentiluomini; ma come dovevano afforzar gli avversarii le loro prove se non avevano la ventura di possedere tutti i quarti in regola o d’essere iscritti alla matricola dei negozianti? – Regali e protezioni; ecco i due articoli suppletorii che compensavano l’imperfezione dei codici. Alle volte anco il giudice dalla multa inflitta al reo percepiva la sua porzione; e contro quei giudici che si mostrassero un po’ corrivi a tale specie di entrata, non soccorreva altro rimedio che la minaccia o diretta del reo se questi era potente o invocata da un più potente se il reo era umile. Spesso anche il giudice s’accontentava d’intascar la sua parte sotto la tavola, e firmava un decreto d’innocenza, beato di schivare fatica e pericolo. Ma questa felice abitudine, che colla venalità privata risparmiava almeno la giustizia pubblica, non veniva sofferta che da quei giurisdicenti tagliati alla veneziana, che non erano tanto rapaci da far a metà coi loro ministri della lana tosata ai colpevoli.
Il signor Antonio Provedoni era ossequioso alla nobiltà per sentimento, non servile per dappocaggine. La sua famiglia avea camminato sempre per quella via, ed egli non pretendeva di cambiare l’usanza. Però quel suo ossequio, prestato ma non profuso, lo facea guardar dalla gente con occhio di rispetto; e così l’andava allora, che il non far pompa di vigliaccheria era riputato grande valore di animo. Pure con ciò non voglio dire ch’egli resistesse alla smoderatezza dei castellani vicini; solamente non le andava incontro colle offerte, ed era molto. Lamentava poi fra sé quelle soperchierie come un segno secondo lui che la vera nobiltà mista di grandezza e di cortesia precipitava a capitombolo: sorgevano le avarizie e le prepotenze nuove a confonderla colla sbirraglia. Ma mai che uno di questi lamenti sbucasse da quella sua bocca silenziosa e prudente; egli s’accontentava di tacere, e di chinar il capo; come fanno i contadini quando la Provvidenza manda loro la gragnuola. Il sole, la luna e le stelle egli e i suoi vecchi le avevano vedute sempre girare ad un modo, fosse l’anno umido, asciutto, o nevoso. Dopo un anno cattivo ne eran venuti molti di buoni, e dopo un buono molti di cattivi: e l’egual ragionamento egli adoperava nel considerare le cose del mondo. Giravano prospere od avverse sempre pel loro verso: a lui era toccato un brutto giro; ecco tutto. Ma aveva gran fede che le si sarebbero accomodate pei figli o pei nipoti; e bastava a lui averne procreati in buon dato perché la famiglia non andasse frodata nel futuro della sua parte di felicità. Soltanto il secondogenito della sua numerosa figliuolanza, a cui gli era piaciuto imporre il nome di Leopardo, gli dava qualche cagione di amarezza. Ma come si fa ad esser docili e mansueti, con un nome simile? – Il buon decano di Cordovado s’era diportato in tale faccenda con assai poco accorgimento. I nomi de’ suoi figli erano tutti più o meno eroici e bestiali, lontani affatto dal persuadere la pratica di quelle virtù tolleranti, mute e compiacenti che egli sapeva convenir meglio agli uomini del suo ceto. Il primo si chiamava Leone, il secondo, come dissimo, Leopardo: gli altri via via Bruto, Bradamante, Grifone, Mastino ed Aquilina. Insomma un vero serraglio; e non capiva il signor Antonio che con cotali nomi alle spalle la solita dabbennaggine paesana diventava burlesca o impossibile. Se allora come ai tempi dei latini s’avesse osato adoperare il prenome di Bestia, certo il suo primogenito lo avrebbe ricevuto in regalo; tanto era egli frenetico per la zoologia. Ma nell’impossibilità di porre in opera il nome generico, lo avea supplito con quello forse più superbo e minaccioso del re degli animali, secondo Esopo. Leone peraltro non si mostrava meno pecora di quanto richiedessero i tempi, o almeno almeno gli esempii paterni. Egli era venuto su sopportando molto, e sospirando alquanto; e poi come suo padre s’era messo a prender moglie e a far figliuoli, e n’avea già una mezza dozzina, quando Leopardo cominciò a bazzicar colle donne. Ecco il punto donde cominciarono i dissapori famigliari fra il signor Antonio e quest’ultimo.
Leopardo era un giovine di poche parole e di molti fatti; cioè anche di pochi fatti avrei dovuto dire, ma in quei pochi si ostinava a segno che non c’era verso da poternelo dissuadere. Quando lo si rampognava d’alcun che, egli non rispondeva quasi mai; ma si volgeva contro al predicatore con un certo rugghio giù nella strozza e due occhi così biechi che la predica di solito non procedeva oltre l’esordio. Del resto buono come il pane e servizievole come le cinque dita. Faceva a suo modo due ore per giorno e in quelle avrei sfidato il diavolo ad impiegarlo altrimenti; le altre ventidue potevano metterlo a spaccar legna, a piantar cavoli od anche a girar lo spiedo come faceva io, che non avrebbe dato segno di noia. Era in quelle occasioni il più docile Leopardo che vivesse mai. Così pure attentissimo ai proprii doveri, assiduo alle funzioni e al Rosario, buon cristiano insomma come si costumava esserlo a quei tempi; e per giunta letterato ed erudito oltre ad ogni usanza de’ suoi coetanei. Ma in punto a logica, ho tutte le ragioni per credere che fosse un tantino cocciuto. Merito di razza forse; ma mentre la cocciutaggine degli altri si appiattava spesso nella coscienza, e lasciava libero il resto di compiacere fin troppo, egli invece era, come si dice, mulo dentro e fuori, e avrebbe scalciato nel muso, io credo, anche al Serenissimo Doge, se questo si fosse sognato di contraddirlo nelle sue idee fisse. Operoso e veemente che era nel suo fare, spostato da quello diventava inerte e plumbeo davvero; come la ruota d’un opificio cui si tagliasse la coreggia. La sua coreggia era il convincimento, senza del quale non l’andava più innanzi d’un passo di formica; e quanto al lasciarsi convincere Leopardo aveva tutta l’arrendevolezza d’un turco fanatico. Ma di cotanta tenacità era forse ragione bastevole l’essersi egli maturato nella solitudine e nel silenzio: i pensieri nel suo cervello non s’insaldavano colla fragile commettitura d’un innesto ma colle mille barbe d’una radice quercina, cresciuta lentamente prima di germogliare o di dar frutto. Ora, sopra un innesto sfruttato attecchisce un altro innesto; ma le radici o non si spiantano, o spiantate disseccano: e Leopardo aveva la testa informata a modo che non la potea reggere sul collo che ad un magnanimo o ad un pazzo. O così o nulla. Ecco il significato formale e il motto araldico della sua indole. Leopardo visse beatamente fino a ventitre anni senza fare o soffrire interrogazioni da chichessia. I precetti dei genitori e dei maestri collimavano così finitamente colle sue viste che né a lui era mestier domandar a loro, né ad essi domandar nulla a lui. Ma l’origine di tutti i guai fu la fontana di Venchiaredo. Dopo che egli prese a bere l’acqua di quella fontana, cominciò da parte di suo padre il martello delle interrogazioni dei consigli e dei rimbrotti. Siccome poi tutti questi discorsi non secondavano per nulla i pensieri di Leopardo, così egli si diede per parte sua a ruggire ed a guardare in cagnesco. Allora, direbbe Sterne, che l’influsso bestiale del suo nome prese il disopra; e se è così, al signor Antonio dovrebbe esser costata piuttosto cara la sua passione per le bestie.
Mettiamo ora un po’ in chiaro questo indovinello. – Tra Cordovado e Venchieredo, a un miglio dei due paesi, v’è una grande e limpida fontana che ha anche voce di contenere nella sua acqua molte qualità refrigeranti e salutari. Ma la ninfa della fontana non credette fidarsi unicamente alle virtù dell’acqua per adescare i devoti e si è recinta d’un così bell’orizzonte di prati di boschi e di cielo, e d’una ombra così ospitale di ontani e di saliceti che è in verità un recesso degno del pennello di Virgilio questo ove le piacque di porre sua stanza. Sentieruoli nascosti e serpeggianti, sussurrio di rigagnoli, chine dolci e muscose, nulla le manca tutto all’intorno. È proprio lo specchio d’una maga, quell’acqua tersa cilestrina che zampillando insensibilmente da un fondo di minuta ghiaiuolina s’è alzata a raddoppiar nel suo grembo l’immagine d’una scena così pittoresca e pastorale. Son luoghi che fanno pensare agli abitatori dell’Eden prima del peccato; ed anche ci fanno pensare senza ribrezzo al peccato ora che non siamo più abitatori dell’Eden. Colà dunque intorno a quella fontana, le vaghe fanciulle di Cordovado, di Venchieredo e perfino di Teglio, di Fratta, di Morsano, di Cintello e di Bagnarola, e d’altri villaggi circonvicini, costumano adunarsi da tempo immemorabile le sere festive. E vi stanno a lungo in canti in risa in conversari in merende finché la mamma l’amante e la luna le riconducano a casa. Non ho nemmeno voluto dirvi che colle fanciulle vi concorrono anche i giovinotti, perché già era cosa da immaginarsi. Ma quello che intendo notare si è, che fatti i conti a fin d’anno io credo ed affermo che alla fontana di Venchieredo si venga più per far all’amore che per abbeverarsi; e del resto anche, vi si beve più vino che acqua. Si sa; bisogna in questi casi obbedire più ai salsiciotti ed al prosciutto delle merende che alla superstizione dell’acqua passante. Io per me ci fui le belle volte a quella incantevole fontana; ma una volta una volta sola osai profanare colla mano il vergine cristallo della sua linfa. La caccia mi ci aveva menato, rotto dalla fatica e bruciato di sete; di più la mia fiaschetta del vin bianco non voleva più piangere. Se ci tornassi ora forse che ne berrei a larghi sorsi come per ringiovanirmi; ma il gusto idropatico della vecchiaia non mi farebbe dimenticare le allegre e turbolente ingollate del buon vino d’una volta.
Or dunque, qualche anno prima di me, Leopardo Provedoni avea stretta dimestichezza colla fontana di Venchieredo. Quel sito romito calmo solitario gli si attagliava bene alla fantasia, come un abito ben fatto alla persona. Ogni suo pensiero vi trovava una corrispondenza naturale; o almeno nessuno di quei salici s’intrommetteva a dire di no su quanto ei veniva pensando. Egli abbelliva, coloriva e popolava a suo modo il deserto paesaggio; e poiché, senza essere in guerra ancora con nessuno al mondo, pur si sentiva istintivamente differente da tutti, là gli pareva di vivere più felice che altrove per quella gran ragione che vi restava libero e solo. L’amicizia di Leopardo per la fontana di Venchieredo fu il primo suo fatto che non avrebbe ammesso contraddizione; il secondo fu l’amore da lui preso, più assai che per la fontana, per una bella ragazza che vi veniva sovente e nella quale egli s’incontrò soletto una bella mattina di primavera. A udirla narrare da lui come fu quella scena, mi pareva di assistere ad una lettura dell’Aminta; ma Tasso torniva i suoi versi e li leggeva poi; Leopardo si ricordava, e ricordandosi improvvisava, che a vederlo e ad ascoltarlo venivano proprio alle tempie i sudori freddi della poesia.
L’era uscito di casa con un bel sole di maggio e il fucile ad armacollo, più per soddisfazione alla curiosità dei viandanti che per ostile minaccia ai beccaccini o alle pernici. Passo dietro passo, col capo nelle nuvole, egli si trovò in orlo al boschetto che circuisce dai due lati la fontana, e lì tese le orecchie per raccogliervi il consueto saluto d’un usignuolo. L’usignuolo infatti vegliava la sua venuta e gorgheggiò il solito trillo; ma non dal solito albero; quel giorno il suono veniva timido e sommesso da un ramo più riposto: e pareva sì ch’egli salutasse, il semplice augellino, ma un po’ diffidente di quell’arnese che l’amico portava in ispalla. Leopardo porse l’occhio tra le frasche a spiare il nuovo rifugio dell’ospite armonioso, ma cercando qua e là ecco che i suoi sguardi capitarono a trovare più assai che non cercavano. – Oh perché non fui io l’innamorato della Doretta! Vecchio come sono, scriverei una tal pagina da abbacinare i lettori, e prendere d’assalto uno dei più alti seggi della poesia! Vorrei che la gioventù profilasse i disegni, il cuore vi spandesse le tinte; e che gioventù e cuore splendessero per ogni parte della pittura con tanta magia che i buoni per tenerezza e i cattivi per invidia riporrebbero il libro. Povero Leopardo! Tu solo saresti da tanto; tu che per tutta la vita portasti dipinto negli occhi e scolpito in petto quello spettacolo d’amore. Ed anche ora la vaga memoria delle tue parole mi traluce al pensiero così amorosa ed innocente che io non posso senza pianto vergar queste righe.
Egli cercava adunque l’usignuolo e vide invece seduta sul margine del ruscelletto che sgorga dalla fontana una giovinetta che vi bagnava entro un piede, e coll’altro ignudo e bianco al pari d’avorio disegnava giocarellando circoli e mezze curve intorno alle tinchiuole che guizzavano a sommo d’acqua. Ella sorrideva, e batteva le mani di quando in quando allorché le veniva fatto di toccar colla punta del piede e sollevar dall’acqua alcuno di quei pesciolini. Allora la pezzuola che le sventolava scomposta sul petto s’apriva a svelar il candore delle sue spalle mezzo discinte, e le sue guancie arrossavano di piacere senza perdere lo splendore dell’innocenza. I pesciolini non ristavano perciò dal tornarle vicini dopo una breve paura; ma ella aveva in tasca il segreto di quella familiarità. Infatti poco stante tuffò cheto cheto nel ruscello anche quel piedino solazzevole, e cavata di sotto al grembiule una mollica di pane, si diede a sfregolarne le bricciole pei suoi compagni di trastullo. L’era un andare un venire un correre un guizzare un gareggiare e un tubarsi a vicenda di tutta quella famigliuola d’argento vivo; e la giovinetta si curvava sopra di loro come a riceverne i ringraziamenti. E poi quando l’imbandigione era più copiosa, diguazzava coi piedi sott’acqua per godere di quell’avidità spaurita un momento ma presta a rifarsi temeraria per non perdere i migliori bocconi. Questo rimescolamento più in su de’ suoi piedini faceva intravvedere i dilicati contorni d’una gamba ritondetta e nervosa; e i capi della pezzuola le si scomponevano affatto sulle spalle: onde il suo petto pareva esser contenuto a fatica dalla giubberella di pannolano, tanto l’allegrezza lo rigonfiava e lo commoveva. Leopardo, di tutto orecchi ch’era prima nell’ascoltar l’usignuolo, s’era poi fatto tutt’occhi, che della metamorfosi non erasi neppur accorto. Quella giovinezza innocente semplice e lieta, quella leggiadria ignara e noncurante di sé, quell’immodestia ancor fanciullesca e che ricordava la nudità degli angeletti che scherzano nei quadri del Pordenone, che quei mille vezzi della persona snella e dilicata, dei capelli castano dorati e ricciutelli sulle tempia come fossero d’un bambino, del sorriso fresco e sincero fatto apposta per adornare due fila di denti lucidi piccioletti ed uniti come i grani d’un rosario di cristallo; tutto ciò, dico, si dipingeva con colori di meraviglia nelle pupille del giovine. Avrebbe dato ogni cosa che gli domandassero per essere uno di quei pesci tanto dimestici con lei; si sarebbe accontentato di rimaner là tutto il tempo di sua vita a contemplarla. Ma egli era piuttosto sottile di coscienza, e quei piaceri goduti di furto anche nel rapimento dell’estasi gli stuzzicarono entro una specie di rimorso. Si diede dunque a fischiare non so qual arietta, con quanta aggiustatezza ve lo potete immaginar voi che sapete per prova l’effetto prodotto nella voce e sulle labbra dai primissimi blandimenti dell’amore. Fischiando senza tono e senza tempo, e movendo qua e là le fiasche come capitasse allora, egli giunse traballando più d’un ubbriaco sul margine della fontana. La giovinetta s’era assestata il fazzoletto intorno alle spalle, ma non avea fatto a tempo a trarre i piedi dall’acqua, e rimase un po’ vergognosa un po’ meravigliata di quella visita inopportuna. Leopardo era un bel giovine; di quella bellezza che è formata di avvenenza insieme di forza e di pace; la bellezza più grande che si possa vedere e che meglio riflette l’idea della perfezione divina. Aveva del bambino nella guardatura, del filosofo nella fronte e dell’atleta nella persona; ma la modestia del vestire affatto contadinesco moderava di molto l’imponenza di quell’aspetto. Perciò a prima giunta la fanciulla non ne fu tanto turbata come se il sopraggiunto fosse stato un signore; e più si rassicurò al levar gli occhi nel suo volto, che certo lo riconobbe e mormorò con voce quasi di contento: – Ah è il signor Leopardo!
Il giovine udì quella sommessa esclamazione e per la prima volta il suo nome gli parve non abbastanza grazioso e carezzevole per albergar degnamente in labbra tanto gentili. Peraltro gli gioì il cuore d’essere conosciuto dalla fanciulla, trovandosi così avviato a stringer conoscenza con lei.
– E voi chi siete, bella ragazza? – domandò egli balbettando, e guardando nell’acqua della fontana il ritratto, ché non gli bastava ancor l’animo di fisar l’originale.
– Sono la Doretta del cancelliere di Venchieredo – rispose la fanciulla.
– Ah lei è la signora Doretta! – sclamò Leopardo che con una doppia voglia di guardarla se ne trovò doppiamente impedito per la confusione di averla trattata alle prime con poco rispetto.
La giovinetta alzò gli occhi come per significare – Sì, son proprio io quella, e non capisco perché se ne debba stupire. – Leopardo restrinse intorno al cuore tutta la riserva del suo coraggio per tornare alla carica; ma l’era così novizio lui nell’usanza delle interrogazioni, che non fu meraviglia se per la prima volta vi fece una mediocrissima figura.
– N’è vero che fa molto caldo oggi? – riprese egli.
– Un caldo da morire – rispose la Doretta.
– Ma crede che continuerà? – domandò l’altro.
– Eh, secondo i lunarii! – soggiunse malignamente la fanciulla. – Lo Schieson dice di sì, e il Strolic8 promette di no.
– E lei mo’ cosa ne pronostica? – seguitò Leopardo andando di male in peggio.
– Io per me sono indifferente! – rispose la fanciulla che cominciava a prender qualche sollazzo di quel dialogo. – Il piovano di Venchieredo fa i tridui tanto per l’arsura che per la brina, e a me il pregare per questa o per quella non cresce minimamente l’incommodo.
– Come è vivace e piacevole! – pensò Leopardo; e questo pensiero gli distolse il cervello da quella faticosa inchiesta d’interrogazioni così ben riuscita infin allora.
– Ha preso molto selvatico? – si decise a dimandar la Doretta vedendolo tacere e non volendo trascurare una sì peregrina occasione di trastullarsi.
– Oh! – sclamò il giovine, come accorgendosi solo in quel momento di aver il fucile ad armacollo.
– L’avverto che ha dimenticato a casa la pietra! – continuò la furbetta. – O sarebbe un’arma di nuovo stampo?
L’archibugio di Leopardo rimontava alla prima generazione delle armi da fuoco, e converrebbe averlo veduto per capire tutta la malizia di quella finta ingenuità.
– È un antico schioppo di famiglia – rispose gravemente il giovine che ci avea meditato sopra assai e ne conosceva per tradizione nascita vita e miracoli. – Esso ha combattuto in Morea col mio trisarcavolo; mio nonno ha ucciso col medesimo ventidue beccaccini in un giorno; cosa che potrebbe fin sembrare incredibile ove si osservi che bisognano dieci buoni minuti a caricarlo, e che dopo l’accensione della polvere nel bacinetto, lo sparo tarda mezzo minuto ad uscire. Infatti mio padre non arrivò mai a colpirne più di dieci ed io non oltrepassai fin’ora il numero di sei. Ma i beccaccini si vengono educando alla malizia, e in quel mezzo minuto che lo sparo s’incanta, mi scappano un mezzo miglio lontano. Verrà tempo che si dovrà correr loro dietro colla spingarda. Intanto io tiro innanzi col mio schioppo; ma il male si è che la morsa9 non stringe più, e alle volte prendo la mira e scocco il grilletto, ma dopo mezzo minuto, quando lo scoppio dovrebbe avvenire, m’accorgo invece che manca la pietra. Bisognerà che lo porti a Fratta da mastro Germano perché lo raccomodi. È vero che potrei anche dire al papà che ne provvedesse un nuovo; ma son sicuro che mi risponderebbe di non mettermi a far novità in famiglia. Infatti questa è anche la mia idea. Se lo schioppo è un po’ malandato dopo aver fatto le campagne di Morea ed aver ucciso ventidue beccaccini in un giorno, bisogna proprio compatirlo. Tuttavia, dico, lo porterò a mastro Germano perché lo raccomodi. Non è vero che ho ragione io, signora Doretta?
– Sì certo – rispose la fanciulla ritraendo i suoi piedi dal ruscello e asciugandoli nell’erba. – I beccaccini poi gli daranno ragione mille volte.
Leopardo frattanto guardava amorosamente lo schioppo e ne puliva la canna colla manica della giacchetta.
– Per ora rimedieremo così – riprese egli cavando di tasca una manata di pietre focaie e scegliendo la più acconcia per metterla nella morsa. – Vede, signora Doretta, come mi tocca munirmi contro i casi fortuiti? Devo sempre avere una saccoccia piena di pietre; ma non è colpa dello schioppo se la vecchiaia gli ha limato i denti. Si porta la fiaschetta della polvere e la stoppa e i pallini; si possono ben portare anche le pietre.
– Sicuro: lei è robusto e non si sgomenta per ciò – soggiunse la Doretta.
– Le pare? per quattro pietruzze? non so nemmeno d’averle – riprese il giovine riponendole in tasca. – Io poi potrei portar anco lei di gran corsa fino a Venchieredo, che non sfiaterei più della canna del mio schioppo. Ho buone gambe, ottimi polmoni, e vo e torno in una mattina dai paludi di Lugugnana.
– Caspita, che precipizio! – sclamò la fanciulla. – Il signor Conte quando scende colà a caccia non ci va che a cavallo e resta fuori tre giorni.
– Io poi sono più spiccio; vo e torno come un lampo.
– Senza prender nulla però!
– Come senza prender nulla? Le anitre per fortuna non impararono ancora la malizia dei beccaccini; e aspetterebbero il comodo del mio fucile non un mezzo minuto ma una mezz’ora. Io non vengo mai di là che colla bisaccia piena. Gli è vero che vado a cercare il selvatico dove c’è; e che non mi spavento di sprofondarmi nel palude fino alla cintola.
– Misericordia! – sclamò la Doretta – e non ha paura di rimanervi seppellito?
– Io non ho paura altro che dei mali che mi son toccati davvero; – rispose Leopardo – ed anco di quelli non mi prendo gran soggezione. Agli altri poi non penso nemmeno; e siccome fino ad ora non son morto mai, così non avrei la menoma paura di morire, anco se mi vedessi spianata in viso una fila di moschetti! Bella questa di farsi paura d’un male che non si conosce! Non ci vorrebbe altro!
La Doretta, che fino allora si avea preso beffa della semplicità di quel giovane, cominciò a guardarlo con qualche rispetto. Di più Leopardo, vinto il primo ostacolo, si sentiva proprio in vena di aprire l’animo suo forse per la prima volta; e le confessioni che spontanee e sincere gli venivano alle labbra non movevano meno la sua curiosità che quella della ragazza. Egli non s’era mai impacciato a far il sindaco di se stesso; e perciò ascoltava le proprie parole come altrettante novelle molto interessanti.
– La mi dica la verità; – continuò egli sedendo rimpetto alla giovane che ristette allora dal mandar gli occhi attorno in cerca dei zoccoletti – mi dica la verità, chi le ha insegnato a voler tanto bene alla fontana di Venchieredo?
Questa domanda angustiò un poco la Doretta e l’imbrogliarsi toccò allora a lei. Ciarlare e scherzare sapeva assai oltre al bisogno; ma render conto di checchessia non poteva che con un grandissimo sforzo d’attenzione e di gravità. Tuttavia, cosa strana! appetto di quella buona pasta di Leopardo non le riuscì di buttarla in ridere e la dovette rispondergli balbettando che la vicinanza della fontana al casale di suo padre l’avea adescata fin da fanciulletta a giocarvi entro; e che allora continuava perché ci prendeva gusto.
– Benissimo! – riprese Leopardo ch’era troppo modesto per accorgersi dell’impiccio della Doretta come era anco troppo dabbene per essersi prima accorto delle sue beffe – ma non l’avrà paura, m’immagino, di scherzare coll’acqua del ruscello!
– Paura!? – disse la giovane arrossendo – non saprei il perché!
– Ecco; perché sdrucciolandovi entro si potrebbe annegare – rispose Leopardo.
– Oh bella! non ci penso io a questi pericoli! – soggiunse la Doretta.
– Ed io non penso né a questi né a nessuno – riprese il giovine fisando i suoi grandi e tranquilli occhi turchini in quelli piccioletti e vivissimi della zitella. – Il mondo va innanzi con me, e potrebbe andare senza di me. Questo è il mio conforto, e del resto il Signore pensa a tutto. Ma la ci viene sovente, ella, alla fontana?
– Oh spessissimo; – rispose la Doretta – massime quando ho caldo.
Leopardo pensò che come si erano incontrati quella volta potevano incontrarsi altre volte ancora; ma un tal pensiero gli parve troppo ardito e lo confinò in una lunga occhiata di desiderio e di speranza. Invece colle labbra tornò a favellare del caldo e della stagione; e diceva che per lui estate inverno e primavera era tutt’uno. Non se ne accorgeva che per le foglie che nascevano o cascavano.
– Io poi amo sopratutto la primavera! – soggiunse la Doretta.
– Ed anch’io lo stesso! – sclamò Leopardo.
– Come? ma per lei non è tutt’uno? – disse la fanciulla.
– È vero: mi pareva... ma... Oggi è una così bella giornata che mi fa dar la palma a quest’età prima dell’anno. Credo poi che dicendo che per me era tutt’uno, intendessi parlare riguardo al caldo od al freddo. In quanto al piacere degli occhi, sicuro che la primavera è la prima!
– C’è quel birbo di Gaetano a Venchieredo che difende sempre l’inverno – soggiunse la ragazza.
– In verità quel Gaetano è proprio un birbo – ripeté l’altro.
– Che? lo conosce anco lei? – chiese Doretta.
– Sì... cioè... oh non è il guardiano? – balbettò Leopardo. – Mi pare, ho un’idea confusa di averlo udito nominare!
– No, non è il guardiano; è il cavallante, – soggiunse la giovane – con lui c’è sempre da venir ai capelli per questa inezia. Io non voglio mai sentir a parlare dell’inverno ed egli me lo porta sempre a cielo per dispetto!
– Oh io lo ridurrei a tacere! – sclamò Leopardo.
– Sì?... venga dunque una volta o l’altra – riprese Doretta levandosi in piedi ed infilando i zoccoletti. – Ma badi di recar seco una buona dose di pazienza perché quel Gaetano è testardo come un asino.
– Verrò, verrò – soggiunse Leopardo. – Ma lei verrà ancora alla fontana, n’è vero?
– Sì certo; quando me ne salta l’estro, – rispose la fanciulla – e le feste poi non manco mai insieme alle altre zitelle dei dintorni.
– Le feste, le feste... – mormorò il giovine.
– Oh la ci venga, la ci venga, – gli diede sulla voce la giovine – e vedrà che bel paradiso qui tutto all’intorno.
Leopardo andava dietro alla Doretta che volgeva a Venchie-redo, come un cagnolino che tien dietro al padrone anche dopo esserne stato cacciato. La Doretta si volgeva di tratto in tratto a guardarlo sorridendogli: egli sorrideva anche lui, ma il cuore gli scappava troppo innanzi perché non si sentisse tremar sotto le gambe; e finalmente quando fu al cancello del casale:
– A rivederlo, signor Leopardo! – gli disse la giovinetta alla lontana.
– A rivederla, signora Doretta! – rispose il giovine con un’occhiata così lunga ed immobile che parve le volesse mandar dietro l’anima; e si sbassò, arrossendo, a raccogliere alcuni fiori ch’ella aveva perduti, credo, col suo buon fine di malizia. Poi quando il pergolato delle viti frondose gli tolse di scernere il corpicciuolo svelto e grazioso della Doretta che s’affrettava verso il castello, allora quell’occhiata ricascò a terra così grave così profonda che parve vi si volesse seppellire in eterno. Indi a un buon tratto la risollevò faticosamente con un sospiro, e riprese verso casa, pieno il capo se non di nuovi pensieri certo di novissime e strane fantasticherie. Quei pochi fiorellini se li pose sul cuore, e non li abbandonò mai più.
Leopardo s’era innamorato di quella giovine, ecco tutto. Ma come e perché se n’era innamorato? Il come fu certamente col guardarla e coll’ascoltarla; il perché, nessuno lo saprà mai; come non si saprà mai perché a taluno piaccia il color aierino10, ad altri lo scarlatto e il giallo d’arancio. Di belle come la Doretta e di belle tre volte tanto, egli ne avea vedute a Cordovado a Fossalta e a Portogruaro; giacché la figlia del cancelliere di Venchieredo era assai più vispa che perfetta; e pure non s’era invaghito di quelle, benché avesse grande comodità di starsene e di conversar con loro, s’era invece cotto di questa alla prima occhiata alla prima parola. Forse che l’usanza e la conversazione tolgono piucché non aggiungano forza d’incanto ai pregi femminili? – Io non dico ciò; farei troppo grave torto alle donne. Fra esse ve n’hanno che non colpiscono alla prima; ma avvicinate poi con lunga abitudine riscaldano appoco appoco, e mettono un tal incendio nei cuori che più non s’estingue. Altre ne sono che abbruciano al solo vederle, e spesso poi della fiamma così destata non riman che la cenere. Ma come vi sono uomini di paglia che anche scaldati lentamente finiscono in nulla; così si trovano cuori di ferro che arroventati d’un subito non raffreddano più. L’amore è una legge universale che ha tanti diversi corollarii quante sono le anime che soggiacciono a lui. Per dettarne praticamente un trattato completo converrebbe formare una biblioteca nella quale ogni uomo ed ogni donna depositasse un volume delle proprie osservazioni. Si leggerebbero le cose più magnanime e le più vili, le più celesti e le più bestiali che possa immaginare fantasia di romanziero. Ma il difficile sarebbe che cotali scritture obbedissero al primo impulso della sincerità; poiché molti entrano nell’amore con un buon sistema preconcetto in capo, e vogliono secondo esso, non secondo la forza dei sentimenti, spiegare le proprie azioni. Da ciò deriva l’abuso di quella terribile parola sempre, che si fa con tanta leggerezza nei colloquii e nelle promesse amorose. Moltissimi credono, e a buon diritto, che l’amore eterno e fedele sia il migliore; e perciò solo s’appigliano a quello. Ma per radicarsi stabilmente nel petto un gran sentimento, non basta saperlo e crederlo ottimo, bisogna sentirsene capaci. I più, se ponessero mente a ciò, non porgerebbero nei fatti loro tante buone ragioni di calunniare la saldezza e veracità degli umani propositi. Gli è come se io scrittorello di ciancie pensassi: Ecco che il sommo vertice dell’umana sapienza è la filosofia metafisica; io dunque sono filosofo come Platone e metafisico al pari di Kant. In vero bel ragionamento e proprio da schiaffi! – Ma l’arroganza che non si permetterebbe ad alcuno negli ordini intellettuali, la permettiamo poi molto facilmente a noi medesimi nella stima dei sentimenti nostri; benché la paia ancor meno ragionevole perché il sentimento più che l’intelletto sfugge al predominio della volontà. Nessuno oserebbe uguagliarsi a Dante nell’altezza della mente; tutti nell’altezza dell’amore. Ma l’amore di Dante fu anche più raro che il suo genio; e pazzi sono gli uomini a stimarlo facile a tutti. La grandezza vera dell’anima non è più comune della grandezza vera dell’ingegno; e per sentire e nutrire l’amore nell’esser suo più sublime bisogna staccarsi dalla fralezza umana più che non se ne stacchi la mente d’un poeta nelle sue più alte immaginazioni. Cessate, cessate una volta, o pigmei, dall’uguagliarvi ai giganti, e applicate l’animo alla favola della rana e del bue! Che serve adulare noi stessi, e l’umana natura per accrescere le stesse sciagure col disdoro della falsità e coi rimorsi del tradimento? Meglio sarebbe picchiarsi il petto e arrossire; anziché alzar la mano a imprudenti giuramenti. Giurare si lasci a chi frugò se medesimo; e si conobbe atto a mantenere; senzaché a costoro giurare diventa superfluo. Quanto a quelli che promettono e giurano col fermo intento di gabbare, son troppo frivoli o malvagi perché vi debba spender dietro una parola. Se è ridicolo in un matto il farla da santo, sarebbe sacrilegio in un tristo. Io poi ne ho conosciuti altri che scambiavano per virtù e sentimenti proprii la forza e l’ardore momentaneo instillato in loro dal contatto di qualche anima infervorata. Credono essi, come quel ragazzo, che la luna sia cascata nel pozzo perché ne veggono entro l’acqua l’immagine. Ma la luna tramonta, e l’immagine sparisce. Allora essi si sbracciano per restare incaloriti come prima erano, e sbruffano e sospirano con perfetta buona fede. Quell’anima infervorata guarda compassionando all’inutile fatica, e l’amore misto di pietà di sfiducia di memoria e di sprezzo diventa martirio. È inutile tentarlo: il cielo non si scala coi superlativi, e la volontà non basta a tener accesa una lucerna cui vien mancando l’olio. Le anime piccole debbono diffidare di sé; e più delle proprie passioni quanto sono più intense; in esse l’amor tiepido può durar a lungo fausto a sé ed ad altrui; l’amor veemente è una meteora è un lampo che più infelicità produce quanto maggiori speranze avea suscitato. Ma la infelicità così prodotta è tutta per gli altri, giacché i frivoli non son tali da sentirla. Per questo non si danno eglino cura alcuna di schivar le occasioni ond’essa deriva; e da ultimo si oppone a ciò la estrema difficoltà di obbedire quell’antico precetto: Conosci te stesso! – Chi osa confessare od anche solo creder sé piccolo di cuore? Bisogna in verità uscire con un salto da questi ragionamenti che sono un perpetuo laberinto di circoli viziosi, e dai quali null’altro è messo in chiaro senonché per le indoli forti e superiori sono più numerose e fatali le occasioni di sventure pei disinganni e le miserie preparate loro dalla vana fiducia degli inferiori. Pieghiamo sì il capo adorando dinanzi a questi misteri dai quali rifugge il sentimento della giustizia. Ma pensiamo che dentro di noi la giustizia ha un altare senza misteri. La coscienza ci assicura che meglio è la generosità colla miseria che la dappoccaggine colla contentezza. Soffriamo adunque, ma amiamo.
La Doretta di Venchieredo non sembrava certamente fatta per appagare l’animo grave caloroso e concentrato di Leopardo. Tuttavia fu essa la prima che comandò al suo cuore di vivere e di vivere tutto e sempre per essa. Altro mistero non meno oscuro né doloroso degli altri. Perché chi meglio di lei poteva appagarlo non mosse invece nell’animo di lui alcuno di quei desiderii che compongono o menano all’amore? Sarebbe forse così fatto l’ordine morale che i simili vi si fuggissero e i contrarii vi si cercassero a vicenda? Nemmen questo può affermarsi pei molti esempii che vi si oppongono. Solo si può sospettare che se le cose materiali vaganti confusamente nello spazio soggiacquero da molti secoli ad una forza ordinatrice, il mondo spirituale ed interno aspetti forse ancora nello stato di caos la virtù che lo incardini. Intanto è un contrasto di sentimenti di forze di giudizii; un’accozzaglia informe e tumultuosa di passioni, di assopimenti, e d’imposture; un sobbollimento di viltà, di ardimenti, di opere magnanime, e di lordure; un vero caos di spiriti non bene sviluppati ancora dalla materia, e di materia premente a sbaraglio sugli spiriti. Tutto si agita, si move, si cangia; ma torno ancora a ripeterlo, il nocciuolo dell’ordine futuro si è già composto, e ad ogni giorno agglomera intorno a sé nuovi elementi, come quelle nebulose che aggirandosi ingrandiscono, spesseggiano e diminuiscono densità e confusione all’atmosfera atomistica che le circonda. Quanti secoli bisognarono a quella nebulosa per crescere da atomo a stella? Ve lo dicano gli astronomi. Quanti secoli ci vollero al sentimento umano per concertarsi in coscienza? Lo dicano gli antropologi. – Ma come quella stella matura forse agli ultimi e scomposti confini dell’universo un altro sistema solare, così la coscienza promette al disordine interno dei sentimenti un’armonia stabile e veramente morale. Vi sono spazii di tempo che si confondono coll’eternità nel pensiero d’un uomo: ma ciò che si toglie al pensiero non è vietato alla speranza. L’Umanità è uno spirito che può sperar lungamente, e aspettar con pazienza.
Ma anche il povero Leopardo, benché non avesse dinanzi la vita dei secoli, dovette aspettar con pazienza primaché la Doretta mostrasse accorgersi delle sue premure e sapergliene grado. La vanità, io credo, fu quella che la persuase. Prima di tutto Leopardo era bello; poi era uno dei più agiati partiti del territorio, e infine le dava tante prove di amore quasi devoto che sarebbe stata vera sciocchezza il non approfittarne. Del resto se egli la divertiva assai volte colla sua semplicità, la ammaliava anche sovente con quel suo fare di animo valoroso e sereno. La si era accorta che mite e tollerante colle donne anche quando si prendevan giuoco di lui, non lo era poi niente affatto verso ai giovinastri lì intorno. Una sua occhiata bastava a far loro calare le ali, e a lei non era piccola gloria lo aver pronto a’ suoi cenni chi tanto facilmente frenava la caparbietà degli altri. La Doretta adunque si lasciò trovare sempre più spesso alla fontana; s’intrattenne sempre più amichevolmente con essolui nelle ragunanze festive, e dall’accogliere le sue cortesie al ricambiarle, il tratto fu sì abbastanza lungo, ma dalli e dalli ne vennero a capo. Allora Leopardo non si accontentò più di vederla il mattino quando capitava, o le feste in mezzo alla baraonda della sagra, ma tutte le sere andava a Venchieredo e là o passeggiando nel casale o sulla scaletta della Cancelleria, s’intratteneva con lei fino all’ora di cena. Allora la salutava più col cuore che colle labbra, e tornavasene a Cordovado fischiando con miglior sicurezza la solita arietta.
Così si aveano composto fra loro la vita i due giovani. Quanto ai vecchi era un altro conto. L’illustrissimo dottor Natalino cancelliere di Venchieredo lasciava correre la cosa, perché ce ne avea veduti tanti dei mosconi intorno alla sua Doretta che uno di più uno di meno non lo sgomentiva per nulla. Il signor Antonio poi, non appena se ne accorse, cominciò a torcer il naso e a dare cento altri segni di pessimo umore. Era egli di ceppo paesano e di pasta paesana affatto; né gli potea garbare quel veder suo figlio bazzicare con gente d’altra sfera. Cominciò dunque dal torcer il naso; manovra che lasciò affatto tranquillo Leopardo; ma vedendo che non bastava, si diede a star con lui sul tirato, a tenergli il broncio, e a parlargli con un certo sussiego che voleva dire: non son contento di te. Leopardo era contentissimo di se stesso, e credeva dar esempio di cristiana pazienza col sopportare la burbanza di suo padre. Quando poi questi venne, come si dice, a romper il ghiaccio, e a spiattellargli netta e tonda la causa del suo naso torto, allora egli si credette obbligato a spiattellargli netta e tonda di rimando la sua incrollabile volontà di seguitar a fare come avea fatto in fin allora. – Come? tu, vergognoso, seguiterai a grogiolare dietro quei begli abitini? E che cosa ne diranno in paese? E non t’accorgi che i buli di Venchieredo si prendono beffa di te? E come credi che andrà a finire questo bel giuoco? E non temi che il castellano una volta o l’altra ti faccia cacciare dai suoi servitori? E vorresti forse mettermi in mal sangue con quel signore che sai già quanto sia schizzinoso?... – Con queste e simili interrogazioni il prudente uomo di Comune andava tentando e bersagliando l’animo del suo Assalonne11; ma questi se ne imbeveva12 di cotali ciancie, com’ei le chiamava; e rispondeva che era pur un uomo come gli altri, e che se voleva bene alla Doretta non era certo per ridere o per piantarla lì al motteggio del primo capitato. Il signor Antonio alzava la voce, Leopardo alzava le spalle, e ognuno rimaneva della propria opinione; anzi io credo che questi diverbii stuzzicassero non poco l’animo già abbastanza incalorito del giovane.
Peraltro indi a poco si venne a capire che il vecchio scrupoloso poteva non aver torto. Se la Doretta faceva sempre al suo damo le belle accoglienze, tutti gli altri abitanti di Venchieredo non si mostravano dell’ugual parere. Fra gli altri quel Gaetano, che capitanava i buli del castellano e vantava forse qualche vecchia pretesa sulla zitella, non poteva proprio digerire il bel giovine di Cordovado e le sue visite giornaliere. Si cominciò cogli scherzi, si venne poi agli alterchi e finirono una volta col misurarsi qualche pugno. Ma Leopardo era così calmo così deliberato che toccò al bulo il voltar via colla coda bassa; e questa sconfitta sofferta sul pubblico piazzale non cooperò certo a fargli smettere la sua inimicizia. S’aggiunga che la Doretta, più vanagloriosa di sé che innamorata di Leopardo, godeva di quella guerra che le si accendeva intorno, e nulla certo faceva per sedarla. Gaetano soffiò tanto alle orecchie del suo padrone, e della petulanza del giovine Provedoni, e della sua poca reverenza alle persone d’alto grado e in particolare al signor giurisdicente, che questi finalmente dovette accontentarlo col guardar Leopardo con occhio più bieco assai che non guardasse la comune della gente. Quella guardatura voleva dire: «Statemi fuor dei piedi!», e la intendevano tanto per dieci miglia all’intorno, che un’occhiata bieca del castellano di Venchieredo equivaleva ad una sentenza di bando almeno per due mesi. Leopardo invece fu guardato, guardò, e proseguì tranquillamente nel suo mestiero. Gaetano non chiedeva di più; e sapeva benissimo che quella tacita sfida avrebbe contato per cento delitti nell’opinione del prepotente castellano. Infatti costui si stizzì assaissimo di veder Leopardo far così basso conto delle sue occhiate; e dopo averlo incontrato due tre e quattro volte nel cortile del castello, una volta lo fermò colla voce per dirgli risentitamente che egli si stava troppo in ozio e che quel tanto passeggiare da Cordovado a Venchieredo potea dargli il mal delle reni. Leopardo s’inchinò, e non comprese o finse di non comprendere; ma seguitò a passeggiare come prima senza paura di ammalarne. Il signore principiò allora, come si dice, ad averlo proprio sulle corna, e vedendo di non cavarne nulla colle mezze misure, un bel dopopranzo lo fece chiamare a sé e gli cantò chiaramente che egli il suo castello non lo teneva per comodo dei signorini di Cordovado, e che, se andava in amore, cercasse guarirsene con altre donzelle che con quelle di Venchieredo; se poi volesse arrischiar le spalle a qualche buona untata, capitasse la sera alla solita tresca e sarebbe servito a piacere. Leopardo s’inchinò anche allora, e non rispose verbo; ma la sera stessa non mancò di andare dalla Doretta la quale, bisogna pur dirlo, superba di vederlo sfidare per lei una tanta burrasca, ne lo ricompensò con doppia tenerezza. Gaetano fremeva, il signorotto guardava bieco perfino i suoi cani, e tutto dava indizio che tramassero fra loro qualche brutto tiro. Infatti una bella notte (quella stessa in cui io ricevetti la visita notturna della Pisana, dopo esser tornato a Fratta in groppa al cavallo dello sconosciuto), mentre Leopardo si partiva dalla sua bella e scavalcava la siepe del casale per tornare a Cordovado, tre omacci scellerati gli si buttarono addosso coi manichi dei coltelli e cominciarono a dargli contro a tradimento che egli sopraffatto dall’improvviso assalto ne andò rotolone per terra e stava assai a mal partito. Ma in quel momento un’anima negra e disperata saltò fuori dalla siepe e cominciò a martellare col calcio del fucile i tre sicari e a pestarli tanto, che toccò ad essi difendersi e Leopardo riavutosi dalla prima sorpresa si mise a tempestare a sua volta.
– Ah cani! ve la darò io! gridava quel nuovo arrivato inseguendo i tre manigoldi che correvano verso il ponte del castello.
Ma costoro, schivati i colpi dei due indemoniati, correvano tanto leggieri che non venne lor fatto di raggiungerli che proprio sulla porta. Per fortuna che questa era serrata, onde, per quanto gridassero di aprire di aprir subito, ebbero commodamente il tempo di buscar qualche cosa. Appena però il guardiano ebbe socchiuso lo sportello vi si precipitarono entro che sembravano fuggiti alle mani del diavolo.
– Va là! t’ho conosciuto! – disse allora volgendosi un di coloro che era proprio Gaetano. – Sei lo Spaccafumo, e me la pagherai salata questa soperchieria, di volerti immischiare in ciò che non t’appartiene.
– Sì, sì, sono lo Spaccafumo! – urlò l’altro di fuori. – E non ho paura né di te, né del tuo malnato padrone, né di mille che ti somiglino.
– Avete udito, avete udito! – riprese Gaetano mentre si rinchiudeva la porta a gran catenacci. – Come è vero Dio che il padrone lo farà impiccare!
– Sì, ma prima io appiccherò te! – gli gridò di rimando lo Spaccafumo allontanandosi con Leopardo che a malincuore si partiva da quella porta serratagli in faccia.
E poi il contrabbandiere tornò dietro la siepe, vi tolse il suo puledro, e volle scortare il giovine fino a Cordovado.
– Oh com’è che sei capitato così in buon punto? – gli chiese Leopardo che avea più vergogna che piacere di dovere all’altrui soccorso la propria salute.
– Oh bella! io avea già avuto sentore di quello che doveva succedere, e stava lì alla posta! – riprese lo Spaccafumo.
– Birbanti! manigoldi! traditori! – imprecava sbuffando il giovane.
– Zitto! è il loro mestiero – riprese lo Spaccafumo. – Parliamo d’altro se ti piace. Oh che ti pare di vedermi oggi cavaliero? Saprai che da poco in qua ho deciso di dar riposo alle mie gambe che non son più tanto giovani, e mi valgo per turno dei puledri di razza che pascolano in laguna. Oggi toccava questo; e son venuto di sotto a Lugugnana a qui in meno di un’ora ed anco ho portato in groppa fino a Fratta un ragazzetto che si era smarrito nel palude.
– Mi dirai poi come hai saputo la trama – lo interruppe Leopardo che ruminava sempre il brutto gioco che gli era toccato.
– Anzi non ti dirò nulla; – rispose lo Spaccafumo – ed ora che sei all’uscio di tua casa ti saluto di cuore e ci rivedremo presto.
– Come? non entri, non dormi in casa nostra?
– No, no, non ci fa buon’aria qui pei miei polmoni!
In ciò dire lo Spaccafumo col suo cavallo era già lunge ed io non vi saprei dire dove esso abbia passato quella nottata. Certo al mezzogiorno del dì appresso egli fu veduto entrare presso il Cappellano di Fratta, che era il suo padre spirituale, e si diceva che lo accogliesse con molto rispetto per la gran paura che ne aveva. Ma più tardi capitarono a Fratta a chieder di lui quattro sgherani di Venchieredo; e saputo che l’era presso il Cappellano andarono franchi alla canonica. Picchia, ripicchia, chiama e richiama, finalmente il Capellano tutto sonacchioso venne ad aprire facendo il gnorri e domandando cosa chiedessero.
– Ah cosa chiediamo! – rispose furiosamente Gaetano lanciandosi verso la campagna che s’apriva dietro alla canonica e nella quale si vedeva un uomo a cavallo che se la batteva di gran galoppo. – Eccolo chi cerchiamo! Venite, venite voi altri! Il signor Cappellano ce la pagherà in seguito!
Il povero prete cascò sopra una seggiola sfinito dallo spavento e i quattro buli si diedero a correre traverso i solai sperando che le piantate ed i fossi rallentassero la corsa del fuggitivo. Ma la gente era d’avviso che se lo Spaccafumo non si lasciava prendere correndo a piedi, meno che meno poi questa disgrazia gli sarebbe avvenuta allora che fuggiva a cavallo. I signori buli ci avrebbero rimesso il fiato per nulla.
Queste cose si sapevano già nel castello di Fratta e se ne discorreva come di gravi e misteriosi avvenimenti, quando ci tornammo noi tre, la Pisana, il figliuolo dello speziale, ed io. Il Conte ed il Cancelliere correvano su e giù in cerca del Capitano e di Marchetto; Fulgenzio era volato al campanile e sonava a stormo come se il fenile avesse preso fuoco; monsignor Orlando sfregolandosi gli occhi domandava cos’era stato, e la Contessa si affaccendava nell’ordinare che si sbarrassero porte e finestre e si ponesse insomma la fortezza in istato di difesa. Quando Dio volle il Capitano ebbe in pronto tre uomini i quali con due moschetti ed un trombone si schierarono nel cortile ad aspettar gli ordini di Sua Eccellenza. Sua Eccellenza comandò andassero in piazza a vedere se la quiete non era turbata, e a prestar man forte alle altre autorità contro tutti i malviventi, ed in ispecialità contro il nominato Spaccafumo. Germano calò brontolando il ponte levatoio, e la prode soldatesca uscì in campagna. Ma lo Spaccafumo non avea voglia per nulla di farsi vedere in quel giorno sulla piazza di Fratta; e per quanto il Capitano mostrasse il brutto muso e s’arricciasse i baffi sull’uscio dell’osteria, nessuno gli capitò innanzi che osasse sfidare un sì minaccioso cipiglio. Fu un gran vanto pel Capitano; e quando i buli di Venchieredo tornarono verso sera dalla loro inutile caccia, sfiancati e trafelanti come cani da corsa, egli non mancò di menarne scalpore. Gaetano gli sghignazzò sul muso con pochissima creanza; tantoché le tre Cernide di Fratta ne pigliarono sgomento e s’intanarono nell’osteria piantando il loro caporione. Ma costui era uomo di spada e di toga; per cui non gli riuscì difficile schermirsi pulitamente dalle beffe di Gaetano: e finse di sapere allora soltanto che lo Spaccafumo se l’avesse battuta a cavallo traverso i campi. A udirlo lui, egli aspettava che quel disgraziato sbucasse di momento in momento dal suo nascondiglio, e allora gliel’avrebbe fatto pagar salato lo sfregio recato all’autorità del nobile giurisdicente di Venchieredo. Gaetano a codeste smargiassate rispose che il suo padrone era piucché capace di farsi pagare da sé: e che del resto dicessero al Cappellano che per la nottata dello Spaccafumo essi avrebbero pensato a saldare lo scotto. In quel dopopranzo nessuno pensò di moversi dal castello; e io e la Pisana passammo un’assai brutta e noiosa giornata litigando nel cortile coi figliuoli di Fulgenzio e del fattore. La sera poi, ad ogni visita che capitava, Germano dalla sua camera dava la voce; e solamente quando avevano risposto di fuori egli abbassava il ponte levatoio perché avanzassero. Le catene rugginose stridevano sulle carrucole quasi pel rammarico di esser rimesse al lavoro dopo tanti anni di tranquillissimo ozio; e nessuno passava sullo sconnesso tavolato senza mandar prima un’occhiata di poca fede alle fessure che lo trapanavano. Lucilio ed il Partistagno si fermarono quella sera al castello più tardi del solito; e non ci vollero meno delle loro risate per metter in calma i nervi della Contessa la quale per quella inimicizia tra lo Spaccafumo e il conte di Venchieredo vedeva già in fiamme tutta la giurisdizione di Fratta.
Il giorno dopo, che era domenica, furono ben altre novità in paese. Alle sette e mezza, quando la gente tornava dalla prima messa di Teglio, s’udì un grande scalpito di cavalli: e poco stante il signore di Venchieredo con tre de’ suoi buli comparve sul piazzale. L’era un uomo rosso, ben tarchiato, di mezza età; nei cui occhi non si sapea bene se prevalessero la furberia o la ferocia; superbo poi ed arrogante più di tutto, e questo lo si indovinava dal portamento e dalla voce. Fermò il cavallo di pianta, e chiese con malgarbo ove abitasse il Reverendo Capellano di Fratta: gli fu additata la canonica, ed egli vi entrò con piglio da padrone dopo aver affidato il palafreno al Gaetano che gli veniva alle coste. Il Cappellano aveva finito poco prima di farsi la barba; e stava allora in balia della fantesca che gli radeva la chierica. La cucina era il loro laboratorio; e il pretucolo, riavuto un poco dalla paura del giorno prima, scherzava colla Giustina raccomandandole di tondergli bene il cucuzzolo, non come all’ultima festa, che tutta la chiesa erasi messa a ridere quand’egli s’avea tolto di capo la berretta quadrata. La Giustina dal suo lato ci adoperava tanto studio che non le rimaneva tempo da rispondere a quei motteggi; ma tondi di qua e radi di là, la chierica s’allargava come una macchia d’oglio su quella povera testa da prete; e benché egli le avesse dato il precetto di non tenerla più grande d’un mezzo ducato, oggimai non v’avea più moneta di zecca che bastasse a coprirla.
– Ah Giustina! Giustina! – sospirava il Cappellano, palpandosi della mano i limiti della nuova tonsura – mi pare che siamo andati un po’ vicini a quest’orecchio.
– Non la ne dubiti! – rispondeva la Giustina che era una dabbene e maldestra contadinaccia sui trent’anni, sebbene ne dimostrava quarantacinque. – Se siamo vicini a quest’orecchio andremo poco lontani anche dall’altro!
– Cospetto! mi vorresti pelar tutto come un frate! – sclamò il paziente.
– Eh no, che io non l’ho mai pelato! – soggiunse la fantesca – e non lo pelerò neppur oggi.
– No, no ti dico... lascia stare, basta!
– Tutt’altro... mi lasci finire... stia zitto, non si mova per un momento.
– Eh già! voi altre donne siete il diavolo! – mormorò il Capellano – Quando si tratta di andar innanzi a modo vostro, ci persuadereste anche a lasciarci tosare...
Chi sa cosa avrebbe aggiunto a quel verbo tosare; ma s’interruppe udendo sulla porta un sussurro come di speroni. Balzò allora in piedi, respinse la Giustina, si tolse dal collo lo sciugamani, e rivolgendosi tutto in un punto si trovò faccia a faccia col signore di Venchieredo. Che viso che occhi che figura facesse allora il povero prete, voi lo potete immaginare! Rimase in quella malferma posizione di curiosità di paura di stupore nella quale lo avea colto il minaccioso apparimento del castellano; il mantino13 gli cascò per terra, e tra le falde del giubbone e le coscie faceva colle mani un certo armeggio che voleva dire: – Siamo proprio fritti!
– Oh Capellano amatissimo! come va la salute? – cominciò il feudatario.
– Eh!... non saprei... anzi... s’accomodi... il piacer è il mio – balbettò il prete.
– Non pare che sia un gran piacere proseguì il castellano. – Ella ha il viso più sparuto del suo collare, Reverendo. O forse, – continuò volgendo un’occhiata beffarda alla Giustina – son io venuto a distrarlo da qualche sua occupazione canonica?
– Oh, si figuri! – bisbigliò il Cappellano – io mi occupo... Giustina, metti su dunque l’acqua pel caffè; oppure la cioccolatta? Vuole la cioccolatta, signor Conte?... Eccellenza?
– Andate a curare i polli, ché ho da parlar da solo al Reverendo – ripigliò il castellano rivolto alla Giustina.
Costei non se lo fece dire due volte e sguisciò nel cortile tenendo ancora in mano il rasoio. Egli allora s’accostò al Cappellano, e presolo per un braccio, lo trasse fin sotto il focolare, ove senza pur pensarvi l’abate si trovò seduto sopra una panca.
– Ed ora a noi – proseguì il castellano, sedendogli rimpetto. – Già una fiammata appena alzati non guasta la pelle neppur d’estate, dicono. Mi dica in coscienza, Reverendo! Fa ella il prete o il contrabbandiere?
Il poveretto ebbe un brivido per tutta la persona, e gli si torse talmente il grugno, che per quanto si racconciasse il collare e si grattasse le labbra, non gli venne più fatto di rimetterlo in sesto per tutto il dialogo susseguente.
– Son due mestieri ambidue e non faccio confronti – andò innanzi l’altro. – Domando solamente per mia regola quale ella intende esercitare. Pei preti ci sono le elemosine, i capponi e le decime: pei contrabbandieri le fucilate, le prigioni, e la corda. Del resto ognuno è libero della scelta; e nel caso io non dico che avrei fatto il prete. Solamente mi pare che i canoni debbano proibire il far un cumulo di queste due professioni. E lei cosa ne dice, Reverendo?
– Sì, signore... Eccellenza... son proprio del suo parere! – balbettò il prete.
– Or dunque mi risponda a tono, – riprese il Venchieredo – fa ella il prete o il contrabbandiere?
– Eccellenza... ella ha voglia di scherzare!
– Di scherzare io? Si figuri, Reverendo!... Mi sono alzato all’alba; e quando ciò mi succede, non è già per voglia di scherzare!... Vengo a dirle netto e tondo che se il signor conte di Fratta non è capace di tutelare gl’interessi della Serenissima, ci son qua io poco lontano, che me ne sento in grado. Ella accoglie in casa sua contrabbandi e contrabbandieri... No, no, Reverendo!... Non serve il diniegare col capo... Ci abbiamo anche i testimoni, e all’uopo si potrà citarlo in giudizio, o andar intesi colla Curia.
– Misericordia! – sclamò il Capellano.
– Or dunque, – proseguì il feudatario – siccome non mi garba per nulla a me la vicinanza di cotali combriccole, sarei a pregarla di cambiar aria a suo talento, prima che si possa essere indotti a fargliela cambiare per forza.
– Cambiar aria? Cosa vuol dire?... cambiar aria io? come? si spieghi Eccellenza!
– Ecco, voglio dire, che se la potesse ottenere una prebenda in montagna, la mi userebbe una vera finezza!
– In montagna? – continuò sempre più stupefatto il Capella-no. – Io in montagna? Ma non è possibile, Eccellenza! Io non so nemmeno dove sieno le montagne!
– Eccole là – soggiunse il signore accennando fuori della finestra.
Ma il castellano avea fatto i conti senza valutar la timidità eccessiva del prete. In alcuni esseri rozzi semplici modesti ma interi e primitivi, la timidità tien luogo alle volte di coraggio; e allora al Capellano quel dover incominciare una vita nuova in paese nuovo con gente a lui sconosciuta sembrò una fatica più grave e formidabile di quella di morire. Era nato a Fratta, lì aveva le sue radici e sentiva che a sbarbicarlo di quel paese lo si avrebbe addirittura ammazzato.
– No, Eccellenza – rispose egli con intonazione più sicura che non avesse mai avuto per lo addietro. – Bisogna ch’io muoia a Fratta come vi sono vissuto; e quanto alla montagna se mi vi manderanno, dubito di giungervi vivo.
– Or bene; – riprese alzandosi il tiranello – la vi arriverà morto; ma o in un modo o nell’altro io l’assicuro che il manutengolo dello Spaccafumo non resterà cappellano a Fratta. Questo le serva di regola.
Ciò dicendo il nobile personaggio diede una grande scrollata di sproni sullo scalino del focolare, e uscì dalla canonica seguitato a capo basso dal prete. Costui gli fece un ultimo inchino quando lo vide salire a cavallo, e poi tornò dentro a sfogarsi colla Giustina che aveva origliato tutti i loro discorsi dietro la porta del cortile.
– Oh, no, no che non la ficcheranno in montagna! – piagnucolava la donna. – È certo che gli capiterebbe male di andar tanto lontano!.. E poi non sono qui le sue anime?... E cosa risponderebbe poi al Signore quando gli toccherà rendergliene conto?...
– Fatti in là con quel rasoio, figliuola mia! – le rispose il prete – e sta’ pur quieta che in montagna non vi andrò di sicuro!... Mi metteranno in berlina, ma in un’altra canonica no per certo!... Figurati se nella tenera età di quarant’anni voglio trovarmi fra musi tutti nuovi, e ricominciar daccapo quello stento che provai a venir su da bambino fino ad ora!!... No, no, Giustina!... L’ho detto e lo ripeto, che io morirò a Fratta; e contuttociò è una gran croce questa che mi piomba ora sul collo; ma bisognerà portarla in santa pace. Uff!... quel signor giurisdicente!... Che brutto grugno mi faceva!... Ma tant’è, piuttosto di movermi sopporterò anche questo; e se mi giuocherà qualche brutto tiro, meno male!... Meglio esser alle prese coi suoi buli che con altri!... Almeno li conosco, e ne prenderò minor soggezione nel farmi bastonare.
– Oh cosa dice mai! – soggiunse la fantesca. – I buli anzi avranno soggezione di lei. – Oh che, le pare, che un prete sia un capo di chiodo?
– Poco più, poco più, figliuola mia, ai tempi che corrono!... Ma ci vuol pazienza!...
In quella entrò il sagrestano ad avvertire che tutta la gente aspettava per la messa; e il poveruomo risovvenendosi di aver tardato anche troppo, corse fuori per celebrar le funzioni colla chierica mezzo fatta. – Indarno la Giustina gli tenne dietro col rasoio in mano fino sulla piazza: la chierica irregolare del Cappellano e la visita del signore di Venchieredo, aggiungendosi alle vicende del giorno prima, diedero materia ai più strani commenti.
Il giorno dopo capitò al conte di Fratta un gran letterone del signore di Venchieredo, nel quale costui senza tanti preamboli pregava il suo illustre collega di dar lo sfratto al Cappellano nel più breve spazio di tempo possibile, accusandolo di mille birberie, fra le altre di dar mano a frodare le gabelle della Serenissima tenendo il sacco ai contrabbandieri più arrisicati della laguna. «E quanto un tal delitto sia inviso all’Eccellentissima Signoria (così diceva la lettera), e quanto grande il merito di coloro che si affrettano a punirlo, e quanto capitale il pericolo degli sconsigliati che per mire private lo lasciano impunito, Ella, Illustrissimo Signor Giurisdicente, lo deve sapere al pari di chiunque. Gli statuti ed i proclami degli Inquisitori parlano chiaro; e ne può andar di mezzo la testa, perché i denari sono come il sangue dello Stato, ed è reo di Stato colui che colla sua negligenza cospira a dissanguarlo di questo vero fluido vitale». Come si vede, il castellano avea trovato la vera strada; e infatti il conte di Fratta, al sentirsi legger dal Cancelliere questa antifona, si dimenò tanto sul seggiolone che ne restò un pochino offesa la sua solita maestà. Si vollero tener secrete le pratiche in proposito; ma la chiamata del Cappellano, la visita ricevuta da costui la mattina antecedente, il suo smarrimento, le sue chiacchere colla Giustina diedero contezza in paese dell’avvenuto e ne successe un vero tafferuglio. Il Cappellano era amato da tutti come un buon compare; più anche, la popolazione di Fratta, avvezza al governo patriarcale e venezianesco de’ suoi giurisdicenti, aveva il ticchio di non volersi lasciar mettere il piede sul collo. Si fece un gran sussurrare contro la prepotenza del castellano di Venchieredo; e con grande rammarico del signor Conte gli stessi abitanti del castello col loro contegno caparbio e immodesto mostravano di volergli tirar addosso qualche brutto temporale. Mai io non avea veduto come a quei giorni il signor Conte ed il suo cancelliere più appiccicati l’uno coll’altro: sembravano due travicelli malconci che si fossero appoggiati l’uno contro l’altro per resistere ad una ventata; e se uno si moveva, tosto l’altro si sentiva cadere e gli andava dietro per non uscir di bilico. Furono anche messi in opera molti argomenti per sedare quella pericolosa esasperazione di anni; ma il rimedio era peggiore del male. Si addentava con miglior gusto al frutto proibito; e le lingue, frenate in cucina, si scatenavano più violente sulla piazza ed all’osteria. Più di tutti mastro Germano strepitava contro l’arroganza del suo vecchio padrone. Egli, per la virulenza delle sue filippiche e per l’audacia con cui difendeva il Capellano, era diventato quasi il caporione del subbuglio. Ogni sera impancato alla bettola predicava ad alta voce sulla necessità di non lasciarsi togliere anche quell’unico rappresentante della povera gente che è il prete. E i prepotenti tempestassero pure, egli diceva, ché giustizia ce n’era per tutti e potrebbero saltar fuori certi peccati vecchi che avrebbero mandato in prigione i giudici, e in trionfo gli accusati. Fulgenzio, il sagrestano, barcamenava colla sua faccia tosta in tutto quello scombuglio; e benché serbasse nel castello un piglio officiale di prudenza, fuori poi non si stancava dal pizzicare con ogni accorgimento Germano, per sapere quanta verità si ascondesse in quelle minacciose amplificazioni. Una sera che il portinaio avea bevuto oltre il dovere, lo tirò tanto in lingua che uscì affatto dai gangheri, e cantò e gridò su tutti i toni che il signor castellano di Venchieredo la mettesse via, se no egli, povero spazzaturaio, avrebbe messo fuori certe storie vecchie che gli avrebbero dato la mala Pasqua. Fulgenzio non chiedeva forse di più. Egli si studiò allora di divertire il discorso da quella faccenda, tantoché le parole del cionco o non fecero caso o le parvero mattie da ubbriacone. Egli poi si ritrasse a casa a recitar il Rosario colla moglie ed i bimbi. Ma il giorno seguente, essendo mercato a Portogruaro, vi andò di buon mattino, e ne tornò più tardi del solito. Fu veduto anche colà entrare dal Vice-capitano di giustizia; ma essendo egli, come dissi, un mezzo scriba di cancelleria, non se ne fecero le maraviglie. Il fatto sta che otto giorni dopo, quando appunto s’erano incominciate colla Curia le pratiche per mandar il Cappellano a respirar l’aria montanina, la cancelleria di Fratta ricevette da Venezia ordine preciso e formale di desistere da ogni atto ulteriore, e di istituire invece un processo inquisitorio e segreto sulla persona di mastro Germano intorno a certe rivelazioni importantissime alla Signoria ch’egli poteva e doveva fare sulla vita passata dell’Illustrissimo Signor Giurisdicente di Venchieredo. Una aereolito che piombasse dalla luna ad interrompere le gaie gozzoviglie d’una brigata di buontemponi non avrebbe recato più stupore e sgomento di quel decreto. Il Conte e il Cancelliere perdettero la bussola e si sentirono mancar sotto la terra: e siccome nel primo sbigottimento non avean pensato a rinchiudersi nel riserbo abituale, così la paura della Contessa e di Monsignore e la gioia del resto della famiglia dimostrata per mille modi a quell’annunzio, peggiorarono di tre doppi lo stato deplorabile del loro animo.
Pur troppo la posizione era critica. Da un lato la vicina e provata oltracotanza d’un feudatario, avvezzo a farsi beffe d’ogni legge divina ed umana; dall’altro l’imperiosa inesorabile arcana giustizia dell’Inquisizione veneziana: qui i pericoli di una vendetta subitanea e feroce, là lo spauracchio d’un castigo segreto, terribile, immanchevole: a destra una visione paurosa di buli armati fino ai denti, di tromboni14 appostati dietro le siepi; a sinistra un apparimento sinistro di Messer Grande, di pozzi profondi, di piombi infocati, di corde, di tanaglie e di mannaie. I due illustri magistrati ebbero le vertigini per quarantott’ore; ma alla fin fine, com’era prevedibile, si decisero a dar l’offa al cane più grosso, giacché l’accontentarli tutti due o il rappatumarli non era neppur cosa da tentarsi. Non posso neppur nascondere che gli incoraggiamenti del Partistagno ed i savii consigli di Lucilio Vianello cooperarono assai a far traboccar la bilancia da questo lato; e al postutto il signor Conte si sentì un tantin più sicuro nel vedersi spalleggiato da gente così valorosa ed assennata. Ciò non tolse peraltro che il processo di Germano non si tenesse avvolto nelle più imperscrutabili ombre del mistero; come anche queste ombre non furono tanto imperscrutabili da impedire agli occhi più pettegoli di volerci veder entro per forza. Infatti si buccinò tantosto che il vecchio bulo del Venchieredo, spaventato dal decreto degli Inquisitori, avea deposto contro il suo antico padrone certe carte di vecchia data che non provavano una specchiata fedeltà al governo della Serenissima; e se sopra queste ipotesi (non erano piucché ipotesi, intendiamoci bene, perché dopo aperto il processo, il Conte, il Cancelliere e mastro Germano, che soli vi avevano parte, erano diventati come sordomuti) se sopra queste ipotesi, dico, se ne fabbricarono dei castelli in aria, lo lascio a voi immaginare. Come si può credere, uno dei primi ad aver sentore di ciò fu il castellano di Venchieredo, e convien dire che non si sentisse la coscienza affatto candida, perché a prima giunta mostrò aver della cosa maggior dispiacere e spavento che non volesse dimostrarne in seguito. Egli pensò, guardò, pesò, ripensò ancora: e finalmente un bel giorno che a Fratta s’erano alzati da tavola, fu annunciata al signor Conte la sua visita. Il Capellano, che era in cucina, credo che all’annunzio di quel nome stesse lì lì per andare in deliquio; quanto al signor Conte, dopo aver cercato consiglio negli occhi de’ suoi commensali che non erano né meno stupiti né più sicuri dei suoi, egli rispose balbettando al cameriere che introducesse pure la visita nella sala di sopra; e che egli col Cancelliere sarebbe salito incontanente. Erano troppe le minaccie, i rischi, e le spiacevolezze di quella visita perché si potesse neppur sperare di ripiegarvi con una consulta preventiva; e d’altronde i due pazienti non erano tanto aquile da sbrigare in due minuti una tale deliberazione. Perciò misero rassegnatamente la testa nel sacco; e salirono di conserva ad affrontare la temuta arroganza e la non men temuta furberia del prepotente castellano. La famiglia rimase nel tinello coll’egual batticuore della famiglia di Regolo, quando si trattava nel Senato se si dovesse trattenerlo a Roma o rimandarlo a Cartagine.
– Servo di Sua Signoria! – disse lestamente il Venchieredo come appena il Conte e la sua ombra ebbero messo piede nella sala. E volse insieme a quest’ombra una certa occhiata che la rese livida e oscura a tre tanti.
– Servo umilissimo di Vostra Eccellenza! – rispose il Conte senza alzar gli occhi dal pavimento ove pareva cercasse una buona ispirazione per cavarsela. Poi siccome l’ispirazione non veniva, si volse a domandarne conto al Cancelliere, e fu molto inquieto di veder costui indietreggiato fino alla parete. – Signor Cancelliere... – si provò a soggiungere.
Ma il Venchieredo gli soffocò le parole in bocca.
– È inutile, – diss’egli – è inutile che il signor Cancelliere si distolga dalle sue solite incombenze per perdersi nelle nostre ciarle. Si sa che egli ha per le mani processi molto importanti e che esigono pronta trattazione e diligentissimo esame. Il bene della Serenissima Signoria prima di tutto, dovesse anche andarne la vita! non è vero, signor Cancelliere? Intanto ella può lasciarci qui a quattr’occhi, che il nostro colloquio non è null’affatto curiale, e ce ne sbrigheremo tra noi.
Il Cancelliere ebbe appena appena la forza necessaria per trascinare le gambe fin fuori della sala; e il suo occhietto bieco era in quel momento così fuori di strada, che nell’uscire gli lasciò batter il naso contro la merletta. Il Conte mosse verso di lui un tacito e impotente gesto di preghiera di paura e di disperazione; uno di quei gesti che annaspano per aria le braccia d’un annegato prima di abbandonarsi alla corrente. Indi, quando l’uscio fu rinchiuso, si rassettò la veste gallonata, e alzò timidamente gli occhi come per dire: portiamola con dignità!
– Ho piacere ch’ella mi abbia accolto con tanta confidenza, – riprese allora il Venchieredo – ciò dimostra chiaro che finiremo coll’intenderci. E in fin dei conti l’ha anche fatto bene, perché debbo appunto intrattenerla d’un affare di confidenza. N’è vero che ci intenderemo, signor Conte? – aggiunse il volpone avvicinandosegli per stringergli furbescamente la mano.
Il signor Conte fu discretamente consolato di quel segno d’affetto; si lasciò stringer la mano con una leggiera impazienza, e non appena la sentì libera se la nascose frettolosamente nella tasca della zimarra. Credo che gli tardasse l’ora di correre a lavarsela, perché il Vice-capitano non fiutasse da Portogruaro l’odore di quella stretta.
– Sì, signore; – rispose egli impiastricciando un sorrisetto che per la fatica gli cavò dagli occhi due lagrime – sì signore, credo... anzi... ci siamo intesi sempre!
– Ben parlato, giuraddio! – soggiunse l’altro sedendogli allato sopra una poltroncina. – Ci siamo sempre intesi e c’intenderemo anche questa volta in barba a chiunque. La nobiltà per quanto diversa di costumi, d’indole, e di attinenze, ha pur sempre interessi comuni; e un torto fatto ad uno de’ suoi membri ricade sopra tutti. E così è necessario star bene uniti e darsi mano l’un l’altro e aiutarsi in quello che si può per mantenere inviolati i nostri privilegi. La giustizia va bene, anzi benissimo... per quelli che ne abbisognano. Io per me trovo che di giustizia ne ho il mio bisogno in casa mia, e chi vuol farmela a mio dispetto mi secca a tutto potere. N’è vero che anche a lei, signor Conte, non garba per nulla questa pretesa che hanno taluni di volersi immischiare nei fatti nostri?
– Eh... anzi... la cosa è chiara! – balbettò il Conte, che s’era seduto macchinalmente anche lui, e di tutte quelle parole non altro avea udito che un suono confuso, e un intronamento, come d’una macina che gli girasse negli orecchi.
– Di più, – continuò il Venchieredo – la giustizia di quei cotali non è sempre né la più pronta, né la meglio servita; e chi volesse obbedire pecorilmente a lei, potrebbe trovarsi alle prese con chi è di diverso parere, ed ha ai suoi comandi un’altra giustizia ben altrimenti spiccia ed operativa!
Queste frasi pronunciate una per una, e sarei per dire sottosegnate dall’accento fermo e riciso del parlatore, scossero profondamente il timpano del Conte, e fecero ch’egli alzasse un viso non so se più scandolezzato o impaurito dall’averle comprese. Siccome peraltro il dimostrarsene offeso poteva esporlo a qualche spiacevole schiarimento, così fu abbastanza diplomatico per ricorrere una seconda volta al solito sorriso che gli ubbidì meno ritroso di prima.
– Veggo ch’ella mi ha capito; – tirò innanzi l’altro – ch’ella è in grado di pesare la forza delle mie ragioni, e che il favore ch’io vengo a chiederle non sembrerà né strano, né soverchio.
Il Conte allargò bene gli occhi, e trasse una mano di tasca per mettersela sul cuore.
– Qualche mala lingua, qualche pettegolo sciagurato e bugiardo che io farò punire colle frustate, non la ne dubiti, – proseguì il Venchieredo – mi ha usato la finezza di mettermi in mala vista della Signoria per non so quali freddure15 di vecchia data che non meritano nemmeno di essere ricordate. Son birberie, sono freddure, tutti lo consentono; ma a Venezia si dovette dar corso all’affare per non far torto al sistema. Ella mi capisce bene; se si trascurassero le denunzie nelle cose frivole, mancherebbero poi nelle grandi, e, adottata una massima, bisogna accettarne tutte le conseguenze. Insomma io lo so di sicuro, che a malincuore si comandò di colassù l’istituzione di quel tal processo... ella intende bene... quel protocollo segreto... a carico di quel mastro Germano...
– Se fosse qui il Cancelliere – mormorò con un raggio di speranza in volto il conte di Fratta.
– No, no; non voglio ora né pretendo che mi si spiattelli il processo – riprese il Venchieredo. – Mi basta ricordarglielo, e avergli dimostrato che non per diffidenza contro di me, né per l’entità della cosa, ma che per un solo costume di buon governo si venne a quel tal decreto... Già è inutile che mi dilunghi di più. Al fatto, anche a Venezia non sarebbero malcontenti di veder troncato l’affare: e così succede sempre che nell’applicazione conviene ammorbidire e correggere ciò che v’ha di troppo ruvido e generale nelle massime di Stato. Ora, signor Conte, tocca a noi tra buoni amici interpretare le nascoste intenzioni dei Serenissimi Inquisitori. Lo spirito, ella lo sa meglio di me, va sopra la lettera; ed io la assicuro, che se la lettera le comanda di andar innanzi, lo spirito invece le consiglia di dar un frego su tutto. In confidenza ebbi anche da Venezia comunicazioni di questo tenore; e lei già indovina il mezzo... con un onesto compromesso... con un buon mezzo termine, si potrebbe...
Il Conte allargava sempre più gli occhi, e si stracciava colle dita i merletti della camicia; a questo punto tutto il respiro, che gli si era compresso nel petto per la grande agitazione, uscì romorosamente in una sbuffata.
– Oh non pigli soggezione di ciò! – soggiunse l’altro. – La cosa è più facile ch’ella non crede. E fosse anche difficilissima, bisognerebbe tentarla per ubbidire allo spirito del Serenissimo Consiglio di Dieci. Allo spirito, si ricordi bene, non alla lettera!... Poiché del resto la giustizia della Serenissima non può volere che un Eccellentissimo Signore, com’ella è, si trovi quandocchessia in gravi imbarazzi per essere stato troppo ligio alle apparenze d’un decreto. Si figuri! metter un giurisdicente in lotta con tutti i suoi colleghi!... Sarebbe ingratitudine, sarebbe una nequizia imperdonabile contro di lei!...
Al povero giurisdicente, che coll’acume della paura intendeva meravigliosamente tutti questi discorsi, i sudori freddi venivano giù per le tempie, come gli sgoccioli d’una torcia in un giorno di processione. Il dover rispondere, il non voler dire né si né no, era tal tormento per lui che avrebbe preferito di cedere tutti i suoi diritti giurisdizionali per esserne liberato. Ma alla fin fine gli parve aver trovato il vero modo di cavarsela. Figuratevi che talentone!... Avea proprio trovato una gran novità!
– Ma... col tempo... vedremo... combineremo...
– Eh, che tempo d’Egitto! – saltò su con una bella stizza il Venchieredo. – Chi ha tempo non aspetti tempo, Conte carissimo! Io per esempio se fossi in lei vorrei dire subito e per le mie buone ragioni: Domani non si potrà più parlare di questo processo!
– Per esempio! Come è possibile? – sclamò il Conte di Fratta.
– Ah, vedo che torniamo a raccostarci; – soggiunse l’altro – chi cerca il mezzo è già persuaso della massima. E il mezzo è bello e trovato. Tutto sta che lei, signor Conte, sia disposto ad accontentare, com’è di dovere, i desiderii segreti del Consiglio di Dieci ed i miei!
Quel miei fu pronunciato in maniera che ricordò lo scoppio d’una trombonata.
– Si figuri!... Son dispostissimo io! – balbettò il poveruomo. – Quando ella mi assicura che anche quelli di sopra vogliono così!...
– Sicuro, pel minor male – proseguì il Venchieredo. – Sempre intesi che tutto debba succedere per caso, e qui è il bandolo della matassa. Una buona parola a Germano, mi capisce!... un po’ di esca e un acciarino battuto su quelle carte, e non se ne parla più.
– Ma il Cancelliere?
– Non parlerà, stia quieto! ho una parola anche per lui. Così si desidera da quelli che stanno in alto; e così desidero anch’io: non che la cosa possa aver conseguenze a mio danno; ma mi dorrebbe dover fare qualche rappresaglia a un uomo del suo merito. Il castellano di Venchieredo subir un processo da un suo pari!... S’immagini! il decoro non me lo permette. Insterò16 io stesso perché quel processo lo si istituisca altrove: a Udine, a Venezia, che so io, allora mi purgherò, allora mi difenderò. Qui, ella vede bene, è impossibile; io non devo sopportarlo a costo d’ammazzarne, non che uno, mille!
Il conte di Fratta tremò tutto da capo a piedi; ma oggimai si era avvezzato a quei sussulti importuni e trovò fiato da soggiungere:
– Ebbene, Eccellenza; e non si potrebbe addirittura mandarle a Venezia quelle carte inconcludenti?...
– Oibò – s’affrettò ad interromperlo il Venchieredo. – Non le ho detto ch’io voglio che le sieno abbrucciate?... Cioè, m’intendeva dire, che essendo inconcludenti non c’è ragione da incommodarne il messo postale.
– Quand’è così; – rispose a voce bassa il Conte – quand’è così le abbruccieremo... domani.
– Le abbruccieremo subito – ripigliò alzandosi il castellano.
– Subito?... subito, vuole?... – Il Conte alzò gli occhi, ché di togliersi da sedere non si sentì in quel punto la benché minima volontà. Convien supporre peraltro che la faccia del suo interlocutore fosse molto espressiva, perché immantinente soggiunse:
– Sì, sì, ella ha ragione!... Subito vanno abbrucciate, subito!
E allora con gran fatica si mise in piedi, e mosse verso l’uscio che non sapeva più in qual mondo si fosse. Ma appunto mentre toccava il saliscendi, una voce modesta e piagnolosa domandò – Con permesso –, e l’umile Fulgenzio con un piego tra mano entrò nella sala.
– Cos’hai, cosa c’è, chi ti ha detto d’entrare? – chiese tutto tremante il padrone.
– Il cavallante porta da Portogruaro questa missiva pressantissima della Serenissima Signoria – rispose Fulgenzio.
– Eh via! affari per domattina! – disse il Venchieredo un po’ impallidito, e movendo un passo oltre la soglia.
– Scusino le Loro Eccellenze; – rispose Fulgenzio – l’ordine è perentorio. Da leggersi subito!
– Ohimé sì... leggerò subito – soggiunse il Conte inforcando gli occhiali e disuggellando il piego. Ma non appena vi ebbe gettati sopra gli occhi, un brivido tale gli corse per la persona che dovette appoggiarsi alla porta per non perder le gambe. Allo stesso tempo anche il Venchieredo avea squadrato all’ingrosso quella cartaccia, e ne avea odorato il contenuto.
– Veggo che per oggi non ci intenderemo, signor Conte! – diss’egli colla solita arroganza. – Si raccomandi alla protezione del Consiglio di Dieci e di Sant’Antonio! Io resto col piacere di averla riverita.
Così dicendo andò giù per la scala lasciando il giurisdicente di Fratta affatto fuori dei sensi.
– E così?... se n’è andato? – disse costui quando rinvenne dal suo smarrimento.
– Sì, Eccellenza! se n’è andato! – ripeté Fulgenzio.
– Guarda, guarda, cosa mi scrivono? – riprese egli porgendo il piego al sagrestano.
Costui lesse con nessuna sorpresa un mandato formale di arrestare il signor di Venchieredo ove se ne porgesse il destro senza pericolo di far baccano.
– Ora è partito, è proprio partito, e non è mia colpa se non posso farne il fermo – rispose il Conte. – Tu sei testimonio che egli se n’è ito prima ch’io avessi compreso a dovere il significato dello scritto!
– Eccellenza, io sarò testimonio di tutto quello che comanda lei!
– Pure sarebbe stato meglio che il cavallante avesse tardato una mezz’ora!...
Fulgenzio sorrise da par suo; e il Conte andò in cerca del Cancelliere per partecipargli il nuovo e più terribile imbroglio nel quale erano invischiati.
Chi fosse Fulgenzio, e quale il suo uffizio, voi ve lo immaginerete come me lo immagino io; ed erano frequenti simili casi, nei quali la Signoria di Venezia adoperava il più abietto servidorame per invigilare la fedeltà e lo zelo dei padroni. Quanto al Venchieredo, in onta alla sua apparente tracotanza, ne ebbe una gran battisoffia17 dalla lettura di quella nota, perocché comprese di volo che gli si voleva far la festa senza misericordia: perciò sulle prime vinsero gli argomenti della paura. Poco appresso tornò a confidare nella propria furberia, nelle potenti attinenze, nella mollezza del governo; e così tornò daccapo a tentare le scappatoie. La prima ispirazione sarebbe stata di saltar sull’Illirio; e vedremo in seguito se ebbe torto o ragione a non darle retta. Ma poi pensò che non sarebbe stato sì facile il catturar lui senza qualche gran chiasso, e alla peggio per fuggire di là dall’Isonzo ogni ora gli pareva buona. Il desiderio di vendicarsi ad un colpo di Fulgenzio, del Cappellano, dello Spaccafumo e del Conte, e di imporre le ragioni della forza anche sulla Serenissima Signoria la vinse a lungo andare in quel suo animo feroce e turbolento. Rimase dunque, trascinato dalla paura a maggiori temerità.