CAPITOLO QUINTO

L’ultimo assedio del castello di Fratta nel 1786 e le prime mie gesta – Felicità di due amanti, angosciose trepidazioni di due monsignori, e strano contegno di due capuccini. Germano portinaio di Fratta, è ammazzato; il castellano di Venchieredo va in galera, Leopardo Provedoni prende moglie, ed io studio il latino. Fra tutti non mi par d’essere il più infelice.

Gli è della storia della mia vita, come di tutte le altre, credo. Essa si diparte solitaria da una cuna per frapporsi poi e divagare e confondersi coll’infinita moltitudine delle umane vicende, e tornar solitaria e sol ricca di dolori e di rimembranze verso la pace del sepolcro. Così i canali irrigatori della pingue Lombardia sgorgano da qualche lago alpestre o da una fiumiera del piano per dividersi suddividersi e frastagliarsi in cento ruscelli, in mille rigagnoli e rivoletti; più in giù l’acque si raccolgono ancora in una sola corrente lenta pallida silenziosa che sbocca nel Po. È merito o difetto? – Modestia vorrebbe ch’io dicessi merito; giacché i casi miei sarebbero ben poco importanti a raccontarsi, e le opinioni e i mutamenti e le conversioni non degne da essere studiate, se non si intralciassero nella storia di altri uomini che si trovarono meco sullo stesso sentiero, e coi quali fui temporaneamente compagno di viaggio per questo pellegrinaggio del mondo. Ma saranno queste le mie confessioni? O non somiglio per cotal modo alla donnicciuola che in vece de’ proprii peccati racconta al prete quelli del marito e della suocera, o i pettegolezzi della contrada? – Pazienza! – L’uomo è così legato al secolo in cui vive che non può dichiarare l’animo suo senza riveder le buccie anche alla generazione che lo circonda. Come i pensieri del tempo e dello spazio si perdono nell’infinito, così l’uomo d’ogni lato si perde nell’umanità. Gli argini dell’egoismo, dell’interesse, e della religione non bastano; la filosofia nostra può aver ragione nella pratica; ma la sapienza inesorabile dell’India primitiva si vendica dei nostri sistemi arrogantelli e minuziosi nella piena verità della metafisica eterna.

Intanto avrete notato che nel racconto della mia infanzia i personaggi mi si sono moltiplicati intorno che è un vero spavento. Io stesso ne sono sgomentito; come quella strega che si spaventava dei diavoli dopo averli imprudentemente evocati. È una vera falange che pretende camminar di fronte con me, e col suo strepito e colle sue ciarle rallenta di molto quella fretta ch’io avrei d’andar innanzi. Ma non dubitate; se la vita non è una battaglia campale, è però un viluppo continuo di scaramuccie e badalucchi1 giornalieri. Le falangi non cadono a schiere come sotto al fulminar dei cannoni, ma restano scompaginate, decimate, distrutte dalle diserzioni, dagli agguati, dalle malattie. I compagni della gioventù ci lasciano ad uno ad uno, e ci abbandonano alle nuove amicizie rade guardinghe interessate della virilità. Da questa al deserto della vecchiaia è un breve passo pieno di compianti e di lagrime. Date tempo al tempo, figliuoli miei! Dopo esservi raggirati con me nel laberinto allegro vario e popoloso degli anni più verdi, finirete a sedere in una poltrona, donde il povero vecchio stenta a mover le gambe e pur s’affida a forza di coraggio e di meditazioni al futuro che si stende al di qua e al di là della tomba. Ma per adesso lasciate che vi mostri il mondo vecchio; quel mondo che bamboleggiava ancora alla fine del secolo scorso, prima che il magico soffio della rivoluzione francese gli rinnovasse spirito e carni. La gente d’allora non è quella d’adesso: guardatela e fatevene specchio d’imitazione nel poco bene, e di correzione nel molto male. Io, superstite di quella nidiata, ho il diritto di parlar chiaro: voi avrete quello di giudicar noi e voi dopoché avrò parlato.

Non mi ricordo più quanti, ma certo pochissimi giorni dopo l’abboccamento del castellano di Venchieredo col Conte, il paese di Fratta fu verso sera turbato da un’improvvisa invasione. Erano villani e contrabbandieri che scappavano, e dietro a loro Cernide buli e cavallanti che scorazzavano alla rinfusa, sbraitando sulla piazza, percotendo malamente i contadini che incontravano e facendo il più gran subbuglio che si potesse vedere. Al primo sussurrare di quella gentaglia la Contessa, ch’era uscita con monsignore di Sant’Andrea e colla Rosa per la sua passeggiata del dopopranzo, s’affrettò a rinchiudersi in castello, e lì fece svegliare il marito perché vedesse cos’era quella novità. Il Conte, che da una settimana non potea dormire che con un occhio solo, scese precipitosamente in cucina, e in breve tempo il Cancelliere, monsignor Orlando, Marchetto, Fulgenzio, il fattore, il Capitano gli furono intorno colla cera più spaventata del mondo. Oramai ognuno aveva capito che non sarebbero tornati con tanta facilità alla calma d’una volta; e ad ogni nuovo segno di burrasca la paura raddoppiava come nell’animo del convalescente ai sintomi d’una recidiva. Anche quella sera toccò al capitano Sandracca e a tre de’ suoi assistenti fare il cuor del leone, e uscire alla scoperta. Ma non passarono cinque minuti ch’essi erano già tornati colla coda fra le gambe e con nessuna volontà di ritentare l’esperimento. Quella masnada che tumultuava in piazza era la sbirraglia di Venchieredo e non pareva disposta per nulla alla ritirata. Gaetano dal quartier generale dell’osteria giurava e spergiurava che avrebbe messo a pezzi i contrabbandieri e che quelli che si erano rifugiati in castello l’avrebbero pagata più cara degli altri. Egli pretendeva che lì in paese fosse una lega stabilita per frodar i diritti del Fisco, e che il Cappellano ed il Conte ne fossero i caporioni. Ma era venuto il momento, diceva egli, di sterminare questa combriccola, e giacché chi doveva tutelare le leggi nel paese se ne mostrava il più impudente nemico, a loro toccava adempiere i decreti della Serenissima Signoria e farsi grandissimo merito con quell’impresa.

– Germano, Germano, alza il ponte levatoio, e spranga bene il portone! – si mise a strillare il Conte, poiché ebbe udito tutta questa tiritera di insulti e di fandonie.

– Il ponte l’ho già alzato io, Eccellenza! – rispose il Capitano – anzi per maggior sicurezza l’ho fatto gettar nel fossato da tre dei miei uomini perché le carrucole non volevano girare.

– Benissimo, benissimo! chiudete le finestre, e chiudete tutti gli usci a catenaccio – soggiunse il Conte. – Che nessuno osi mover piede fuori del castello!

– Sfido io a moversi ora che è rovinato il ponte! – osservò il cavallante.

– Mi pare che il ponticello della scuderia ci assicuri una sortita in caso di bisogno – replicò sapientemente il Capitano.

– No, no, non voglio sortite! – tornò a gridare il Conte – Buttate giù subito anche il ponticello della scuderia: io metto da questo punto il mio castello in istato d’assedio e di difesa.

– Faccio osservare a Sua Eccellenza che rotto quel ponte non si saprà più donde uscire per le provvigioni della giornata – obbiettò il fattore inchinandosi.

– Non importa! dice bene mio marito! – rispose la Contessa che era la più spaventata di tutti. – Voi pensate ad ubbidire e a demolir tosto il ponticello delle scuderie: non c’è tempo da perdere! Potremmo esser assassinati da un momento all’altro.

Il fattore s’inchinò più profondamente di prima, e uscì per adempiere all’incarico ricevuto. Un quarto d’ora dopo le comunicazioni del castello di Fratta col resto del mondo erano intercettate affatto, e il Conte e la Contessa respirarono di miglior voglia. Solamente monsignor Orlando, che pur non era un eroe, s’arrischiò di mostrare qualche inquietudine sulla difficoltà di procacciarsi la solita quantità di manzo e di vitello per l’indomane. Il signor Conte, udite le rimostranze del fratello, ebbe campo di mostrare l’acume e la prontezza del suo genio amministrativo.

– Fulgenzio, – diss’egli con voce solenne – quanti neonati ha la vostra scrofa?

– Dieci, Eccellenza – rispose il sagrestano.

– Eccoci provveduti per tutta la settimana, – riprese il Conte – giacché pei due giorni di magro provvederà la peschiera.

Monsignor Orlando sospirò angosciosamente ricordando le belle orade di Marano e le anguille succolente di Caorle. Oimé, cos’erano a paragone di quelle i pesciolini pantanosi e i ranocchi della peschiera?

– Fulgenzio; – proseguì intanto il Conte – farete ammazzare due dei vostri porcellini; l’uno per l’allesso e l’altro per l’arrosto: avete inteso, Margherita?

Fulgenzio e la cuoca s’inchinarono alla lor volta; ma sospirare toccò allora a monsignore di Sant’Andrea, il quale per un suo incommodo intestinale non potea digerire la carne porcina, e quella prospettiva di una settimana d’assedio con un simile regime non gli andava a sangue per nulla. Senonché la Contessa, che gli lesse questo scontento in viso, s’affrettò ad assicurarlo che per lui si avrebbe messa a bollire una pollastra. La fisonomia del canonico si rischiarì tutta d’una santa tranquillità; e con un buon pollaio anche una settimana d’assedio gli parve un moderatissimo Purgatorio. Allora, dato ordine al rilevantissimo negozio della cucina, la guarnigione si sparpagliò a porre la fortezza in istato di difesa. Si appostarono alcuni vecchi moschetti alle feritoie; si trascinarono due disusate spingarde nel primo cortile; si sbarrarono le porte e le balconate. Da ultimo si sonò la campanella pel Rosario, e nessuno lo avea detto da molti anni con maggior divozione che in quella sera.

La Contessa in quei momenti era troppo fuori di sé per badare ad altri che a se stessa, ma sua suocera quando cominciò ad imbrunire chiese conto della Clara, perché la tardasse tanto a portarle il suo solito panbollito. La Faustina la Pisana ed io ci mettemmo tantosto a cercarla; chiama di qua cerca di là non ci fu verso che la potessimo trovare. L’ortolano soltanto ci disse averla veduta uscire dalla parte della scuderia un paio d’ore prima; ma di più egli non ne sapeva, e credeva la fosse rientrata, come costumava, dalla banda del piazzale colla signora Contessa. Di lì certo non l’avrebbe potuto ripassare, perché il fattore avea eseguito tanto appuntino gli ordini ricevuti, che del ponticello non rimaneva vestigio. D’altronde la notte cadeva già buia buia, e non era a credersi che la fosse stata a zonzo in fin allora. Ci rimisimo dunque in traccia di lei, e solo dopo un’altra ora di minute ed infruttuose indagini la Faustina si decise a rientrare in cucina per dare ai padroni quella tristissima nuova dello sparimento della Contessina.

– Giurabbacco! – sclamò il Conte – certo quei manigoldi ce l’hanno portata via!

La Contessa volle affliggersene assai, ma la propria inquietudine la occupava troppo perché la vi potesse riescire.

– Figuratevi – continuava il marito – figuratevi cosa son capaci di fare quegli sciagurati che danno del contrabbandiere a me per poter mettere a soqquadro il paese! – Ma me la pagheranno, oh sì che me la pagheranno! – soggiungeva sotto voce per paura che non lo udissero fuori del girone.

– Sì, chiaccherate, chiaccherate! – riprese la signora – le chiacchere son proprio buone da aiutarvi a friggere! Ecco che da tre ore noi siamo chiusi in rete e non avete pensato a nessuna maniera da levarci di ragna!... Vi portano via la figlia e voi vi sfiatate a dire che ve la pagheranno!... Già per quello che la costa a voi, ben poco potreste pretendere!

– Come, signora moglie?... Per quello che la costa a me?... Cosa sarebbe a dire?

– Eh se non intendete, aguzzatevi il cervello. Voleva dire che dei figli vostri e di me stessa e della nostra salute voi vi date tanto pensiero come di raddrizzare la punta al campanile. – (Qui la Contessa ne fiutò rabbiosamente una presa). – Vediamo cosa avete pensato per cavarci d’imbroglio?... In qual maniera volete andar in traccia della Clara!?

– Siate buonina, diamine!... La Clara, la Clara!... non c’è poi soggetto da indiavolarsene tanto. Sapete come l’è bellina e costumata. Io son d’opinione che se anche dormisse una notte fuori del castello non le interverrà alcun guaio. Quanto a noi, spero che non vorrete ridurci alle schioppettate. – (La Contessa mosse un gesto di ribrezzo e di impazienza). – Dunque – (seguitò l’altro) – proveremo a parlamentare!

– Parlamentare coi ladri! benone per diana!

– Ladri!... chi vi dice che sian ladri?... Son messi di giustizia, un po’ spicciativi, un po’ ubbriachi se volete, ma pur sempre vestiti d’un’autorità legale, e quando sarà loro passata la scalmana, intenderanno ragione. S’erano troppo infervorati nel dar la caccia a due o tre contrabbandieri; il vino li ha fatti stravedere, ed hanno creduto che i fuggitivi si siano ricoverati a Fratta. Cosa c’è di straordinario in questo?... Se li persuaderemo che qui di contrabbandi non ce n’è mai stata orma, essi torneranno verso casa mansueti come agnellini.

– Eccellenza, ella si dimentica una circostanza – s’intromise a dire monsignore di Sant’Andrea. – Sembra che i fuggitivi fossero sgherani essi pure travestiti da contrabbandieri e cacciati innanzi come pretesti a movere questo gran tafferuglio. Germano pretende aver conosciuto fra loro alcun mustacchione di Venchieredo.

– Eh cosa c’entro io! cosa ci ho a far io! – sclamò disperatamente il povero Conte.

– Si potrebbe intanto mandar fuori alcuno di soppiatto che spiasse come vanno le cose, e cercasse conto della Contessina – consigliò il cavallante.

– Oibò, oibò! – rispose stremenzita la Contessa – sarebbe una grave imprudenza, tanto più che in castello si scarseggia di gente e non è questo il momento da allontanare i più esperti!

La Pisana che era accosciata con me fra le ginocchia di Martino, si avanzò baldanzosamente verso il focolare, offrendosi ad andar lei in traccia della sorella; ma erano tanto costernati che nessuno fuori di Marchetto sembrò accorgersi di quella fanciullesca e commovente temerità. Per altro l’esempio non fu senza frutto, e dopo la Pisana io pure m’offersi ad uscire in cerca della Contessina. Questa volta l’offerta ebbe la fortuna di fermare taluno.

– Davvero tu ti arrischieresti ad andar fuori per dar una occhiata? – mi domandò il fattore.

– Sì certo – soggiunsi io, alzando la testa e guardando fieramente la Pisana.

– Ci andremo insieme – disse la fanciulla che non volea parere dammeno di me.

– Eh no, non sono affari da signorine questi, – riprese il fattore – ma qui il Carlino potrebbe trarsi d’impaccio a meraviglia. N’è vero, signora Contessa, che la pensata è buona?

– In difetto di meglio non dico di no – rispose la signora. – Già qui dentro un fanciullo di poco aiuto ci vorrebbe essere, e fuori invece non darebbe sospetto e potrebbe metter il naso in ogni luogo. Così anche l’esser malizioso e petulante come il demonio, gli avrà giovato una volta.

– Ma voglio andar fuori anch’io! anch’io voglio andar in traccia della Clara! – si mise a strillare la Pisana.

– Lei, signorina, andrà a letto sul momento – riprese la Contessa; e fece un cenno alla Faustina perché il comando avesse effetto tantosto.

Allora fu una piccola battaglia di urli di graffiate di morsi; ma la cameriera la vinse e la disperatella fu menata bellamente a dormire.

– Cosa devo poi rispondere alla contessa vecchia in quanto alla contessina Clara? – domandò la donna nell’andarsene colla Pisana che le strepitava fra le braccia.

– Ditele che è perduta, che non la si trova, che tornerà domani! – rispose la Contessa.

– Sarebbe meglio darle ad intendere che sua zia di Cisterna è venuta a prenderla, se è lecito il consiglio – soggiunse il fattore.

– Sì, sì! datele ad intendere qualche fandonia! – sclamò la signora – ché non la pensi di farci disperare ché dei crucci ne abbiamo anche troppi.

La Faustina se n’andò, e s’udirono i pianti della Pisana dileguarsi lungo il corritoio.

– Ora a noi, serpentello – mi disse il fattore prendendomi garbatamente per un’orecchia. – Sentiamo cosa sarai buono di farci una volta uscito dal castello!

– Io?... io prenderò un giro per la campagna, – soggiunsi – e poi, come se nulla fosse, capiterò all’osteria, dove sono quei signori, a piangere e a lagnarmi di non poter rientrare in castello... Dirò che sono uscito nel dopopranzo, che era insieme colla contessina Clara e che poi mi son perduto a correre dietro le farfalle e non ho più potuto raggiungerla. Allora chi ne sa me ne darà notizia ed io tornerò dietro le scuderie a zufolare, e l’ortolano mi allungherà una tavola sulla quale ripasserò il fossato come lo avrò passato nell’uscire.

– A meraviglia: tu sei un paladino! – rispose il fattore.

– Di che cosa si tratta? – mi domandò Martino che si sgomentiva di tutti quei discorsi che mi vedeva fare, senza poterne capire gran che.

– Vado fuori in cerca della Contessina che non è ancora rientrata – io gli risposi con tutto il fiato dei polmoni.

– Sì, sì, fai benissimo, – soggiunse il Vecchio – ma abbi gran prudenza.

– Per non comprometter noi – continuò la Contessa.

– Peraltro andrà bene che tu stia un poco origliando i discorsi degli scherani che sono all’osteria per conoscere le loro intenzioni – aggiunse il Conte. – Così potremo regolarci per le pratiche ulteriori.

– Sì, sì! e torna presto, piccino! – riprese la Contessa accarezzandomi quella zazzera disgraziata cui tante volte era toccata una sorte ben diversa. – Va, guarda, osserva, e riportaci tutto fedelmente! Il Signore ti ha fatto così furbo e risoluto per nostro maggior bene!... Va pure, e che il Signore ti benedica, e ricordati che noi stiamo qui ad attenderti col cuore sospeso!

– Tornerò appena abbia odorato qualche cosa – risposi io con piglio autorevole, ché già fin d’allora mi sentiva uomo in quell’accolta di conigli.

Marchetto il fattore e Martino vennero meco, confortandomi e raccomandandomi ad usar prudenza accortezza e premura. Si lanciò una tavola da fabbrica nel fosso; io ch’era assai destro in quella maniera di navigare, varcai felicemente all’altra sponda, e d’un colpo di mano rimandai loro lo scafo. Indi, mentre nella cucina del castello intonavano per consiglio di monsignor Orlando un secondo rosario, mi misi fra le folte ombre della notte alla mia coraggiosa spedizione.

La Clara infatti, uscita dalla pustierla del castello prima dei vespri, come avea riferito l’ortolano, non era più ritornata. Credeva ella incontrar la sua mamma lungo la strada di Fossalta, e così un passo dietro l’altro era arrivata a questo villaggio senza imbattersi in nessuno. Allora dubitò che l’ora fosse più tarda del consueto, e che la brigata del castello avesse dato addietro appunto durante il giro da lei percorso nell’andare dall’orto alla strada. Si rivolse dunque frettolosamente per ridursi essa pure a casa; ma non avea camminato un trar di sasso che lo scalpito d’una pedata la sforzò a voltarsi. Era Lucilio; Lucilio calmo e pensoso come il solito, ma irraggiato in quel momento da una gioia mal celata o fors’anche non voluta celare. Egli pareva moversi appena; eppure in un lampo fu al fianco della donzella e ad ambidue forse quel lampo non sembrò così subito come il desiderio voleva. Nessuna cosa accontenterà mai la rapidità del pensiero: la vaporiera oggimai sembra troppo lenta; l’elettrico un giorno parrà più pigro e noioso d’un cavallo di vettura. Credetelo – si farà si farà; e in ultima analisi le proporzioni rimarranno le stesse, come nel quadro ingrandito dalla lente. Gli è che la mente indovina sopra di sé un mondo altissimo lontano inaccessibile; e ogni giro, ogni passo, ogni spirale che si mova o si agiti senza raccostarla a quel sognato Paradiso non sembrerà moto ma torpore e noia. Che vale andar a Milano a Parigi in trentasei ore piuttostoché in duecento? Che vale poter vedere in quarant’anni dieci volte, in vece che una, le quattro parti del mondo? Né il mondo s’allarga né la vita s’allunga per ciò; e chi pensa troppo, correrà sempre fuori di quei limiti nell’infinito, nel mistero senza luce. Alla Clara e a Lucilio parve lunghissimo quell’attimo che li mise l’uno allato dell’altra; e il tempo all’incontro che camminarono insieme fino alle prime case di Fratta passò in un baleno. E sì che i piedi andavano innanzi a malincuore; e senza accorgersi molte e molte volte s’erano fermati lungo la via discorrendo della nonna, del castellano di Venchieredo, delle loro opinioni in proposito, e più anche di se stessi, dei proprii affetti, del bel cielo che li innamorava e del bellissimo tramonto che li fece restare lunga pezza estatici a contemplarlo.

– Ecco come io vorrei vivere! – esclamò ingenuamente la Clara.

– Come? Oh me lo dica subito! – soggiunse Lucilio colla sua voce più bella. – Ch’io vegga se son capace di comprendere i suoi desiderii, e di parteciparne!

– Davvero ho detto che vorrei vivere così; – riprese la Clara – ed ora non saprei spiegare il mio desiderio. Vorrei vivere cogli occhi di questa splendida luce di cielo; colle orecchie di questa pace allegra ed armoniosa che circonda la natura quando si addormenta; e coll’anima e col cuore in quei dolci pensieri di fratellanza, in quei grandi affetti senza distinzione e senza misura che sembrano nascere dallo spettacolo delle cose semplici e sublimi!

– Ella vorrebbe vivere, di quella vita che la natura aveva preparato agli uomini savii, uguali, innocenti! – rispose mestamente Lucilio. – Vita che nei nostri vocabolari ha nome di sogno e di poesia. Oh sì! la comprendo benissimo; perché anch’io respiro l’aria imbalsamata dei sogni, e mi affido alle poesie della speranza, per non rispondere coll’odio all’ingiustizia e colla disperazione al dolore. Vegga un po’ come siamo disposti a sproposito. Chi ha braccia non ha cervello; chi ha cervello non ha cuore; chi ha cuore e cervello non ha autorità. Dio sta sopra di noi, e lo dicono giusto e veggente. Noi figliuoli di Dio ciechi ingiusti ed oppressi colla voce cogli scritti colle opere lo neghiamo ad ogni momento. Neghiamo la sua provvidenza, la sua giustizia, la sua onnipotenza! È un dolore vasto come il mondo, duraturo quanto i secoli che ci sospinge, ci incalza ci atterra; e un giorno alfine ci fa risovvenire che siamo eguali; tutti, ma solo nella morte!...

– Nella morte, nella morte!! dica nella vita, nella vera vita che durerà sempre! – sclamò come inspirata la Clara – ed ecco dove Dio risorge, e torna ad aver ragione sulle contraddizioni di quaggiù.

– Dio dev’essere dappertutto – soggiunse Lucilio con una tal voce nella quale un divoto avrebbe desiderato maggior calore di fede. Ma la Clara non ci vide entro nessun dubbio in quelle parole, ed ei ben se l’ sapeva che sarebbe stato così; giacché altrimenti non avrebbe parlato.

– Sì, Dio è dappertutto! – riprese ella con un sorriso angelico, mandando gli occhi per ogni parte del cielo – non lo vede non lo sente non lo respira dovunque? I buoni pensieri, i dolci affetti, le passioni soavi donde ci vengono se non da lui?... Oh io lo amo il mio Dio come fonte di ogni bellezza e di ogni bontà!

Se mai vi fu argomento che valesse a persuadere un incredulo d’alcuna verità religiosa, fu certo l’aria divina che si diffuse in quel momento sulle sembianze di Clara. L’immortalità si stampò a caratteri di luce su quella fronte confidente e serena; nessuno certo avrebbe osato dire che in tanto prodigio d’intelligenza di sentimento e di bellezza, la natura avesse provveduto soltanto ad ammannir un pascolo ai vermi. Vi sono, sì, faccie morte e petrigne, sguardi biechi e sensuali, persone grevi curve striscianti che possono accarezzare col loro sucido esempio le spaventose fantasie dei materialisti; e ad esse parrebbe di doversi negare l’eternità dello spirito, come agli animali o alle piante. Ma fra tanta ciurma semimorta si erge in alto qualche fronte che sembra illuminarsi d’una luce sovrumana: dinanzi a questa il cinico va balbettando confuse parole; ma non può impedire che non gli tremoli in cuore o speranza o spavento d’una vita futura. – Quale? chiedono i filosofi. – Non chiedetelo a me, se sventura vuole che non vi faccia contenti quella sapienza secolare che si è condensata nella fede. Chiedetelo a voi stessi. – Ma certo se la materia organica anche sciolta la compagine umana seguita a fermentare ed a vivere materialmente nel grembo della terra, lo spirito pensante dovrà agitarsi tuttavia e vivere spiritualmente nel pelago dei pensieri. Il moto, che non si arresta mai nel congegno affaticato delle vene e dei nervi, potrà retrocedere o acquietarsi nell’instancabile e sottile elemento delle idee? – Lucilio si fermò cogli occhi quasi estatici ad ammirare le sembianze della sua compagna. Allora un riverbero di luce gli lampeggiò sul volto, e per la prua volta un sentimento non tutto suo ma comandatogli dai sentimenti altrui si fece strada nelle pieghe tenebrose del suo cuore. Si riebbe peraltro da quella breve sconfitta per tornar tristamente padrone di sé.

– Divina poesia! – diss’egli togliendo gli occhi dal bel tramonto che omai si scolorava in un vago crespuscolo – chi primo si alzò con te nelle speranze infinite fu il vero consolatore dell’umanità. Per insegnare agli uomini la felicità bisognerebbe educarli poeti, non scienziati o anatomici.

La Clara sorrise pietosamente; e gli chiese:

– Ella dunque, signor Lucilio, non è gran fatto felice!

– Oh sì, lo sono ora come forse non potrò mai esserlo! – sclamò il giovine stringendole improvvisamente una mano. A quella stretta scomparve dal volto della fanciulla lo splendore immortale della fede, e la luce tremula e soave del sentimento vi si diffuse come un bel chiaro di luna dopo l’oscurarsi vespertino del sole. – Sì, sono felice come forse non lo sarò mai più! – proseguì Lucilio – felice nei desiderii, perché i desiderii miei sono pieni di speranza, e la speranza mi invita da lunge come un bel giardino fiorito. Ahimé non cogliete quei fiori! non dispiccateli dal loro gracile stelo! Per cure che ne abbiate poi, dopo tre giorni intristiranno; dopo cinque non sarà più in loro il bel colore il soave profumo! Alla fine cadranno senza remissione nel sepolcro della memoria!

– No, non chiami la memoria un sepolcro! – soggiunse con forza la Clara. – La memoria è un tempio, un altare! Le ossa dei santi che veneriamo sono sotterra, ma le loro virtù splendono in cielo. Il fiore perde la freschezza e il profumo; ma la memoria del fiore ci rimane nell’anima incorruttibile ed odorosa per sempre!

– Dio mio, per sempre, per sempre! – sclamò Lucilio correndo colla veemenza degli affetti dove lo chiamava l’opportunità di quegli istanti quasi solenni. – Sì, per sempre! E sia un istante, sia un anno, sia un’eternità, questo sempre bisogna riempirlo satollarlo beatificarlo d’amore per non vivere abbracciati colla morte! Oh sì, Clara, l’amore ricorre all’infinito per ogni via; se v’è parte in noi sublime ed immortale è certamente questa. Fidiamoci a lui per non diventar creta prima del tempo; per non perdere almeno quella poesia istintiva dell’anima che sola abbellisce la vita!... Sì, lo giuro ora; lo giuro, e mi ricorderò sempre di questo rapimento che mi fa maggiore di me stesso. Il desiderio è così potente da tramutarsi in fede; l’amor nostro durerà sempre, perché le cose veramente grandi non finiscono mai!...

Queste parole pronunciate dal giovine con voce sommessa, ma vibrata e profonda, svegliarono deliziosamente i confusi desiderii di Clara. Non se ne maravigliò punto, perché trovava stampate nel proprio cuore già da lungo tempo le cose udite allora. Gli sguardi, i colloquii, le arti pazienti raffinate di Lucilio aveano preparato nell’anima di lei un posto sicuro a quell’ardente dichiarazione. E sentirsi ripetere dalla sua bocca quello che il cuore aspettava senza saperlo, fu piucché altro il risvegliarsi subitaneo d’una gioia timida e latente. Successe nell’anima di lei quello che sulle lastre del fotografo al versarsi dell’acido; l’immagine nascosta si disegnò in tutte le sue forme: e se stupì in quel momento, fu forse di non potersi stupire. Peraltro un turbamento arcano e non provato mai le vietò di rispondere alle ardenti parole del giovane; e mentre cercava ritrarre la propria mano dalla sua, fu costretta anzi a cercarvi un appoggio perché si sentiva venir meno d’un deliquio di piacere.

– Clara, Clara per carità rispondi! – le veniva dicendo Lucilio sorreggendola angosciosamente e volgendo intorno gli occhi a spiare se qualcuno veniva. – Rispondimi una sola parola!... non uccidermi col tuo silenzio, non punirmi collo spettacolo del tuo dolore!... Perdono se non altro, perdono!

Egli sembrava lì lì per cadere in ginocchio tanto pareva smarrito, ma era un’attitudine studiata forse per dar fretta al tempo. La fanciulla si riebbe in buon punto e gli volse per unica risposta un sorriso. Chi raccolse mai nelle pupille uno di quei sorrisi e non ne tenne poi conto per tutta la vita? Quel sorriso che domanda compassione, che promette felicità, che dice tutto, che perdona tutto; quel sorriso esprimente un’anima che si dona ad un’altra anima; che non ha in sé riverbero alcuno di immagini mondane, ma che splende solo d’amore e per amore; quel sorriso che comprende o meglio dimentica il mondo intero, per vivere e farti vivere di se stesso, e che in un lampo solo schiude affratella e confonde le misteriose profondità di due spiriti in un unico desiderio d’amore e d’eternità, in un unico sentimento di beatitudine e di fede! – Il cielo che si aprisse pieno di visioni divine e d’ineffabili splendori agli occhi d’un santo, non sarebbe certo più incantevole di quella meteora di felicità che guizza raggiante e ahi spesso fugace nelle sembianze d’una donna. È una meteora; è un baleno; ma in quel baleno, più che in dieci anni di meditazioni e di studi l’anima travede i confusi orizzonti d’una vita futura. Oh quante volte all’oscurarsi di quelle sembianze s’annuvolò dentro di noi il bel sereno della speranza, e il pensiero precipitò bestemmiando nel gran vuoto del nulla, come Icaro sfortunato cui si fondevano le ali di cera! Quali subiti, dolorosi trabalzi dall’etere inane dove nuotano miriadi di spiriti in oceani di luce, al morto e gelido abisso che non vedrà mai raggio di sole, che mai non darà vita per volger di secoli a una larva pensata! E la scienza, erede di cento generazioni, e l’orgoglio, frutto di quattromill’anni di storia, fuggono come schiavi colti in fallo, al tempestar minaccioso d’un sentimento. Che siamo noi, dove andiamo noi, poveri pellegrini fuorviati? Qual è la guida che ci assicura d’un viaggio non infelice? Mille voci ne suonano dintorno; cento mani misteriose accennano a sentieri più misteriosi ancora; una forza segreta e fatale ci spinge a destra ed a sinistra; l’amore, alato fanciullo c’invita al Paradiso; l’amore, demonio beffardo ci stritola nel niente. E solo la fede che il sacrifizio sarà contato a minor danno delle vittime sostenta i nostri pensieri nell’aria vitale.

Ma Lucilio?... Oh Lucilio allora non pensava a ciò! I pensieri vengon dietro alle gioie, come la notte al tramonto, come il gelido verno all’autunno canoro e dorato. Egli amava da anni; da anni drizzava ogni suo consiglio, ogni sua arte, ogni sua parola a incalorire nel lontano futuro la beatitudine di quel momento; da anni camminava accorto paziente per vie tortuose e solitarie ma rischiarate qua e là da qualche barlume di speranza; camminava lento e instancabile verso quella cima fiorita, donde contemplava allora e teneva per sue tutte le gioie tutte le delizie tutte le ricchezze del mondo, come il monarca dell’universo. Era giunto a comporre una pietra filosofale; da una laboriosa miscela di sguardi di azioni di parole avea tratto l’oro purissimo della felicità e dell’amore. Alchimista vittorioso assaporava con tutti i sensi dell’anima le delizie del trionfo; artista entusiasta e passionato non finiva d’ammirare e godere l’opera propria in quel divino sorriso che spuntava come l’aurora d’un giorno più bello sul volto di Clara. Ad altri avrebbero tremato in cuore gratitudine divozione, e paura; a lui la superbia ritemprò le fibre d’una gioia sfrenata e tirannica. Io forse e mille altri simili a me avremmo ringraziato colle lagrime agli occhi; egli ricompensò l’ubbidienza di Clara con un bacio di fuoco.

– Sei mia! sei mia! – le disse alzando la destra di lei verso il cielo. E voleva significare: Ti merito, perché ti ho conquistata!

Clara nulla rispose. Senza accorgersene e senza parlare avea amato in fino allora; e il momento in cui l’amore si fa conscio di sé non è quello per lui di diventar loquace. Solamente sentì per la prima volta di essere con tutta l’anima in potere d’un altro; e ciò non fece altro che cambiare il suo sorriso dal color della gioia in quello della speranza. A primo tratto avea goduto per sé; allora godeva per Lucilio, e questo contento fu più facile e caro a lei perché più pietoso e pudico.

–  Clara; – continuò Lucilio – l’ora si fa tarda e ci aspetteranno al castello!

La giovinetta si destò come da un sogno; si stropicciò gli occhi colla mano e li sentì bagnati di lagrime.

– Volete che andiamo? – rispose ella con una voce soave e dimessa che non pareva la sua. Lucilio senza mover parola si ravviò per la strada; e la fanciulla gli veniva del paro docile e mansueta come l’agnella al fianco della madre. Il giovine per quel giorno non chiedeva di più. Scoperto il tesoro, voleva goderne lungamente come l’avaro, non disperderlo all’impazzata in guisa dei prodighi per trovarsi poi misero peggio di prima e col sopraccollo delle memorie sfumate.

– Mi amerai sempre? – le domandò egli dopo alcuni passi silenziosi.

– Sempre! – rispose ella. La cetra d’un angelo non moverà mai un concento più soave di questa parola pronunciata da quelle labbra. L’amore ha il genio di Paganini; egli infonde nell’armonia le virtù dello spirito.

– E quando la tua famiglia ti profferirà uno sposo? – soggiunse con voce dolorosa e stridente Lucilio.

– Uno sposo!? – sclamò la giovinetta chinando il mento sul petto.

– Sì; – riprese il giovane – vorranno sacrificarti all’ambizione, vorranno comandarti in nome della religione un amore che la religione ti proibirà in nome della natura!

– Oh io non veggo che voi! – rispose Clara quasi parlando con se stessa.

– Giuralo per quanto hai di più sacro! giuralo pel tuo Dio e per la vita di tua nonna! – soggiunse Lucilio.

– Sì, lo giuro! – disse tranquillamente la Clara. Giurar quello che si sentiva costretta a fare da una forza irresistibile le parve cosa molto semplice e naturale. Allora si cominciavano a vedere fra il chiaroscuro della sera le prime case di Fratta: e Lucilio lasciò la mano della fanciulla per camminarle rispettosamente a fianco. Ma la catena era gittata; le loro due anime erano avvinte per sempre. La pertinacia e la freddezza da un lato, dall’altro la mansuetudine e la pietà s’erano confuse in un incendio d’amore. La volontà di Lucilio e l’abnegazione di Clara corrispondevano insieme, come quegli astri gemelli che s’avvicendano eternamente l’uno intorno all’altro negli spazi del cielo.

Due uomini armati s’offersero loro incontro prima di entrar nel villaggio. Lucilio passava oltre avvisandoli per due guardiani campestri che aspettassero alcuno; ma uno di essi gli intimò di fermarsi, dicendo che per quella sera era vietato penetrar nel paese. Il giovine fu offeso e maravigliato d’una così strana tracotanza; e cominciò ad adoperare un mezzo che per molta esperienza conosceva infallibile in quegli incontri. Si mise ad alzar la voce e a strapazzarli. Indarno! I due buli lo fermarono pulitamente per le braccia rispondendo che così voleva il servizio della Serenissima Signoria, e che nessuno sarebbe entrato in Fratta, finché non fosse ultimata l’inchiesta d’alcuni contrabbandi che si cercavano.

– M’immagino che non vorrete proibire l’ingresso in castello la contessina Clara? – riprese Lucilio sbuffando ed additando la giovinetta, che egli proteggeva tenendosela stretta a braccio. Clara fece un moto come per trattenerlo dall’infuriar troppo; ma egli non le badò piucché tanto, e seguitò a minacciare e a voler proceder oltre. I due buli tornarono allora ad afferrarlo per le braccia, avvertendolo che l’ordine era preciso e che contro i renitenti avevano facoltà di adoperare la forza.

– E questa facoltà di adoperare la forza io la ho sempre, e ne uso largamente contro i soperchiatori! – soggiunse con maggior calore Lucilio sciogliendosi con una scrollata dal pugno dei due sgherani. Ma in quella un altro moto di Clara lo avvisò del pericolo e dell’inopportunità di tali atti di violenza. Laonde si rimise in calma e domandò a quei due chi fossero e con qual’autorità vietassero di entrare in castello alla figlia del giurisdicente. Gli scherani risposero che erano delle Cernide di Venchieredo, ma che l’inseguimento dei contrabbandieri li autorizzava ad agire anche fuori della loro giurisdizione; che i bandi dei signori Sindaci parlavano chiaro, e che del resto tale era l’ordine del loro Capo di Cento e che erano là non per altro che per farlo rispettare. Lucilio voleva resistere ancora, ma la Clara lo pregò sommessamente di cessare; ed egli s’accontentò di tornar indietro con lei minacciando i due sgherani e il loro padrone di tutte le ire del Luogotenente della Serenissima Signoria, che egli ben sapeva quanto poco valessero.

– Tacete! già sarebbe inutile – gli veniva bisbigliando all’orecchio la Clara traendolo lunge da quei due sgherri. – Mi dispiace che è notte fatta e a casa saranno inquieti per me; ma con un piccolo giro potremo entrare benissimo dalla parte delle scuderie.

Infatti si sviarono per la campagna cercando il sentiero che menava alla pustierla: ma non avean camminato cento passi che trovarono l’intoppo di due altre guardie.

– È un vero agguato! – sclamò indispettito Lucilio. – Che una nobile donzella debba serenare2 tutta notte pel capriccio di alcuni mascalzoni!

– Badi alle parole, Illustrissimo! – gridò uno dei due dando per terra un furioso colpo col calcio del moschetto.

Il giovine tremava di rabbia palpeggiando coll’una mano in fondo alla tasca la sua fida pistola; ma nell’altra sentiva il braccio di Clara che tremava di spavento ed ebbe il coraggio di trattenersi.

– Cerchiamo d’intendersi colle buone – riprese egli fremendo ancora pel dispetto. – Quanto volete a lasciar passare qui la Contessina?... Credo che non sospetterete già ch’ella porti qualche contrabbando!

– Illustrissimo, noi non sospettiamo niente: – rispose lo sgherro – ma se anche potessimo chiuder un occhio e lasciarli passare, quei del castello sono di diverso parere. Essi hanno buttato a terra tutti e due i ponti e la Contessina non potrebbe entrare che camminando sull’acqua come San Pietro.

– Ohimé! ma dunque il pericolo è proprio grave! – sclamò tramortendo la Clara.

– Eh nulla! un timor panico! me lo figuro! – rispose Lucilio. E voltosi ancora allo sgherro: – Dov’è il vostro Capo di Cento? – domandò.

– Lustrissimo è all’osteria che beve del migliore mentre noi facciamo la guardia ai pipistrelli – rispose il malandrino.

– Va bene; spero che non ci negherete di accompagnarci all’osteria per abboccarci con essolui – soggiunse Lucilio.

– Ma! non abbiamo ordini in proposito – ripigliò l’altro. – Tuttavia mi pare che si potrebbe, massime se Vostra Signoria volesse pagarne un bicchiere.

– Animo dunque e vieni con noi! – disse Lucilio.

Lo sbirro si volse al suo compagno raccomandandogli di stare alla posta e di non addormentarsi: raccomandazioni udite con pochissimo conforto da colui che dovea restarsene a mangiar la nebbia mentre l’altro aveva in prospettiva un boccaletto di Cividino3. Tuttavia si rassegnò borbottando; e Lucilio e la Clara preceduti dalla Cernida mossero di bel nuovo verso il paese. Questa volta i due guardiani li lasciarono passare, e in breve furono all’osteria dove strepitava una tal gazzarra che pareva più un carnevale che una caccia di contrabbandi. Infatti Gaetano, dopo aver inaffiato le gole de’ suoi, aveva cominciato a porger il bicchiero ai curiosi. Costoro, un po’ selvatici dapprincipio, s’intesero benissimo con lui con quel muto ed espressivo linguaggio. E gli abbeverati chiamavano compagnia, e questa cresceva si rinnovava e beveva sempre più. Tantoché, mesci e rimesci, in capo ad una mezz’ora la sbirraglia di Venchieredo era diventata una sola famiglia col contadiname del villaggio; e l’oste non rifiniva dal portare a cielo la splendidezza e la rara puntualità del Degnissimo Capo di Cento delle Cernide di Venchieredo. Come si può ben credere, tanta munificenza non era né arbitraria né senza motivo. Il padrone gliel’avea suggerita per tener in quiete la popolazione, e distoglierla dal prender partito contro di loro a favore dei castellani. Gaetano adoperava da furbo; e le mire del principale erano ben servite. Se avesse voluto, avrebbe fatto gridare da trecento ubbriachi: – Viva il castellano di Venchieredo! – E Dio sa qual effetto avrebbe prodotto nel castello di Fratta il suono minaccioso di questo grido.

Quando Lucilio e la Clara posero piede nell’osteria, la baldoria era al colmo. La giovine castellana avrebbe avuto il crepacuore di veder in festa coi nemici della sua famiglia i più fidati coloni; ma la non ci badava, e la sorpresa e lo sgomento per tutto quel parapiglia le impedivano dal vederci entro chiaro. Temeva qualche grave pericolo pei suoi e le doleva di non esser con loro a dividerlo, non pensando che se pericolo c’era per essi asserragliati ben bene dietro due pertiche di fossato, più grave doveva essere per lei difesa da un unico uomo contro quella canaglia sguinzagliata. Lucilio peraltro non era di tal animo da lasciarsi imporre da chichessia. Egli andò difilato a Gaetano, e gli ordinò con voce discretamente arrogante di far in maniera che la Contessina potesse entrare in castello. La prepotenza del nuovo arrivato e il vino che aveva in corpo fecero che il Capo di Cento la portasse, per modo di dire, ancor più cimata del solito. Gli rispose che in castello erano una razza perversa di contrabbandieri, che egli aveva precetto di tenerli ben chiusi finché avessero consegnati i colpevoli e le merci trafugate, e che in quanto alla Contessina ci pensasse lui giacché l’aveva a braccio. Lucilio alzò la mano per menare uno schiaffo a quell’impertinente; ma si pentì a mezzo e si torse rabbiosamente i mustacchi col gesto favorito del capitano Sandracca. Il meglio che gli restava a fare era di uscire da quel subbuglio e menare la sua compagna in qualche sicuro ricovero ove passasse la notte. La Clara si oppose dapprima a una tal deliberazione, e volle ad ogni patto giungere fin sul ponte per vedere se veramente era rotto. E Lucilio ve la accompagnò per quanto gli sembrasse pericoloso avventurarsi con una donzella fra quei manigoldi avvinazzati che gavazzavano in piazza. Ma non voleva lo si accagionasse né di aver mancato di coraggio né di aver ommesso cura alcuna per raccompagnare la Clara in casa sua. Però osservate le rovine del ponte e chiamato inutilmente Germano un paio di volte, convenne loro darsi fretta a partire, perché lo schiamazzo cresceva sempre, e la sbirraglia cominciava ad affoltarsi e a provocarli con beffe ed insulti. Lucilio sudava per la fatica durata a moderarsi; ma la briga maggiore era quella di trarre in salvo la donzella, e in tal pensiero diede giù per una stradicciuola laterale del villaggio, e girando poi verso la strada di Venchieredo, giunse a gran passi trascinandosela dietro sulle praterie dei mulini. Là si fermò per farle prender flato. Ella sedette stanca e lagrimosa sul margine d’una siepe, e il giovine si curvò sopra di lei a contemplare quelle pallide sembianze sulle quali la luna appena sorta pareva specchiarsi con amore. I negri fabbricati del castello sorgevano rimpetto a loro, e qualche lume traspariva dalle fessure dei balconi per nascondersi tosto come una stella in cielo tempestoso. L’oscuro fogliame dei pioppi stormeggiava lievemente; e il baccano del villaggio, ammorzato dalla distanza, non interrompeva per nulla i trilli amorosi e sonori degli usignuoli. I bruchi lucenti scintillavano fra l’erbe; le stelle tremolavano in cielo; la luna giovinetta strisciava sulle forme incerte e tenebrose con raggio obliquo e velato. La modesta natura circondava di tenebre e di silenzi il suo talamo estivo, ma l’immenso suo palpito sollevava di tanto in tanto qualche ventata di un’aria odorosa di fecondità. – Era una di quelle ore in cui l’uomo non pensa, ma sente; cioè riceve i pensieri begli e fatti dall’universo che lo assorbe. Lucilio, anima pensosa e spregiatrice per eccellenza, si sentì piccolo suo malgrado in quella calma così profonda e solenne. Perfino la gioia dell’amore si diffuse nel suo cuore in un lungo vaneggiamento melanconico e soave. Gli parve che i suoi sentimenti ingrandissero come la nube di polvere sperperata dal vento; ma le forme scomparivano, il colore si diradava; si sentiva più grande e meno forte; più padrone di tutto e meno di sé. Gli sembrò un momento che la Clara seduta dinanzi a lui s’illuminasse negli occhi d’un bagliore fiammeggiante: egli quasi folgorato dovette socchiuder le palpebre. – Donde questo prodigio? – Non lo potea capire egli stesso. Forse la solennità della notte, che stringe le anime deboli di superstiziose paure, ripiega sopra se stesso lo spirito dei forti mostrandogli, entro il buio delle ombre il simulacro del destino, del domatore di tutti. Forse anco il dolore della fanciulla regnava sopra di lui com’egli avea trionfato poco prima di lei per forza di volontà. Poveretta! No che gli occhi suoi non fiammeggiavano allora; se almeno lo sguardo non risplendeva pel tremolio delle lagrime. Il suo cuore riboccante una mezz’ora prima di felicità e d’amore volava in quegli istanti al letto di sua nonna; in quella cameretta silenziosa e bene assettata dove Lucilio avea passato con esse le lunghe ore; e quando egli non c’era ne restava viva per l’aria una cara memoria, un’immagine invisibile e ammaliatrice. Oh come avrebbe stentato ad addormentarsi la povera vecchia senza il solito bacio della nipote! Chi le avrebbe dato ragione, chi l’avrebbe consolata della sua assenza? Chi avrebbe pensato a lei nei pericoli che si minacciavano al castello per quella notte? La pietà, la divina pietà gonfiava di nuovi singhiozzi il petto della giovane, e la mano che Lucilio le stese per aiutarla a rialzarsi fu inondata di pianto. Ma rimessi che furono in via questi riebbe subito l’alacrità consueta. I sogni disparvero; i pensieri gli sprizzarono in capo risoluti e virili; la volontà piegata un momento rizzossi con miglior lena a ripigliare il comando. La storia dell’amor suo, e quella dell’amore di Clara, i casi straordinarii di quella sera, i sentimenti della giovinetta ed i proprii gli si dipinsero dinanzi in un sol quadro senza confusione e senza anacronismi. Egli ne rilevò con un’occhiata da aquila il concetto generale, e decise ad ogni costo che o solo o colla fanciulla egli doveva entrare in castello prima che passasse la notte. L’amore gli imponeva questo dovere; aggiungiamo ancora che l’interesse dell’amore medesimo glielo consigliava caldamente. Clara pregava il Signore e la Madonna, Lucilio stringeva a parlamento tutte le voci del proprio ingegno e del proprio coraggio; e così appoggiati l’una al braccio dell’altro, camminavano silenziosamente verso il mulino. Quanta moderazione! diranno taluni pensando al caso di Lucilio. Ma se diranno così gli è o ch’io mi sono spiegato male o che essi non mi hanno capito a dovere quando discorreva della sua indole. Lucilio non era né un birbone né uno scavezzacollo; pretendeva soltanto di vederci a fondo nelle cose umane, di volerne il meglio e di saper conseguire questo meglio. Queste tre pretese, se temperate da un sano criterio, egli avrebbe potuto provarle coi fatti; perciò non si lasciava mai trascinare dalle passioni, ma teneva ben salde le redini e sapeva fermarle all’uopo tanto sull’orlo del precipizio quanto sulla sponda lusinghiera e traditrice d’una fondura verdeggiante. Entrarono dunque nel mulino, ma non ci trovarono alcuno benché il fuoco scoppiettasse tuttavia in mezzo alle ceneri. La polenta lasciata sul tagliere dava a vedere che tutti non aveano cenato e che alcuni degli uomini s’erano forse attardati nel villaggio a guardar la tregenda. Ma quella era forse la famiglia con cui la Contessina aveva maggior dimestichezza, onde non le dispiacque di vedersi colà ricoverata.

– Ascolta, ben mio – le disse sottovoce Lucilio rattizzando il fuoco per sciuttarla dell’umido preso nei prati. – Io chiamerò ora e ti affiderò a qualcuna di queste donne, e poi o per forza o per amore penetrerò in castello a recarvi le tue novelle, e a guardare come stanno là dentro.

La Clara arrossì tutta sotto gli sguardi del giovane. Era la prima volta che in una stanza e alla piena del fuoco riceveva nel cuore il loro muto linguaggio d’amore. Arrossì peraltro senza rimorsi perché non le pareva di aver violato nessuno dei comandamenti del Signore; e dal volersi bene alla muta al confessarselo vicendevolmente non capiva qual differenza ci potesse essere.

– Tu fa’ in modo di coricarti e di riposare; – proseguì Lucilio – io penserò nel frattempo a dar la voce dell’accaduto al Vicecapitano di Portogruaro, perché si affrettino a scompigliare le trame di questi birbanti... Va là! per nulla non sono venuti e a me pare di leggerci sotto bene a tutto questo loro zelo contro i contrabbandi... È una vendetta, o una rappresaglia, fors’anco un tafferuglio ingarbugliato a bella posta per finire quell’imbroglio del processo... Ma io metterò le cose sotto la vera luce, e il Vicecapitano vedrà lui da qual parte stiano i veri interessi della Signoria. Intanto, Clara mia, sta’ in pace e dormi sicura; domattina, se non saranno venuti dal castello a prenderti, verrò io stesso; e chi sa anche che non capiti durante la notte se ci son cose pressanti.

– Oh ma voi!... non arrischiatevi! per carità! – mormorò la giovinetta.

– Sai come sono – rispose Lucilio. – Non potrei far a meno di movermi e di tentar qualche cosa, se anche si trattasse di gente sconosciuta. Figurati poi ora che è in ballo la tua famiglia, la nostra buona vecchia!

– Povera nonna! – sclamò la Clara. – Sì, va’ va’; e confortala e torna subito a chiamare anche me che starò qui ad aspettare col cuore sospeso.

– Ti dico che tu devi coricarti e che chiamerò qualcheduna delle donne – soggiunse Lucilio.

– No, lasciale dormire, ché io non potrei – replicò la donzella. – Oh, mi maraviglio con me, e quasi mi vergogno, di poter rimaner qui e di non correre fuori anch’io!

– A che fare? – soggiunse Lucilio. – No per carità, non ti muovere da questo luogo. Anzi devi rinchiuderti bene, giacché essi sono tanto sconsigliati da lasciar le porte spalancate fino a mezza notte!... Marianna, Marianna! – si mise a gridare il giovane affacciandosi alla porta della scala.

Di lì a poco rispose dall’alto una voce, e poi lo scalpitare di due zoccoli, e non passò un minuto che la Marianna tutta scollata e sbracciata scese in cucina.

– Dio mi perdoni! – sclamò ella raccogliendosi la camicia sul petto – credeva che fosse il mio uomo!... E lei, signor dottore?... E anche la Contessina!... Oh diavolo! cos’è stato? Da qual parte son venuti dentro?

– Capperi! da quelle quattro braccia di porta spalancata! – rispose Lucilio. – Ma ora non è tempo da ciarle, Marianna: la Contessina non può entrare in castello perché là intorno c’è del subbuglio...

– Come, c’è del subbuglio?... Ma i nostri uomini dunque?... Ah birbonacci! Non hanno neppur cenato!... Per andarsene a curiosare hanno lasciato aperte anche tutte le porte...

– Ascoltate me ora, Marianna – riprese Lucilio. – I vostri uomini torneranno, ché non corrono nessun pericolo.

– Come, non corrono nessun pericolo? Se sapesse il mio in ispecialità come è manesco e arrischiato!... È capace di appiccar briga con un esercito, colui!...

– E bene! state certa! per questa sera non l’appiccherà!... Io andrò in cerca di loro e ve li manderò a casa... Ma voi intanto badate che non manchi niente alla Contessina.

– Oh povera signora! cosa le deve capitare anche a lei!... Scusi, sa, se mi vede in questo arnese, ma credeva proprio che fosse il mio uomo. Birbone! scappar via senza cena lasciando la porta aperta! Oh me la pagherà... Mi comandi dunque, Contessina!... Mi dispiace che qui non troverà nulla da par suo!...

–  Dunque vi raccomando, Marianna! – disse ancora Lucilio.

–  Si figuri; non c’è mestieri di raccomandazioni. Mi dispiace di essere così scamiciata. Ma già lei, signor dottore, è avvezzo a queste scene, e la contessina è tanto buona!

La Marianna nell’affaccendarsi intorno al fuoco mostrava due bellissime spalle che meglio spiccavano per la loro candidezza dal bruno colore delle braccia e del viso. Non era forse malcontenta di mostrarle e per questo se ne scusava tanto.

– Addio!... amami, amami! – mormorò Lucilio all’orecchio della Clara; indi, raccolto uno sguardo di lei tutto amore e speranza, si dileguò fuori dell’uscio nella nebbia della campagna. La Clara non poté fare a meno di seguirlo fin sulla soglia, indi perdutolo di vista, tornò a sedere in cucina, ma non presso al foco perché il caldo era grande e aveva asciutte le vesti più del bisogno. Invece la sua testa i suoi polsi ardevano come tizzoni, e aveva le labbra e la gola riarse quasi per febbre. La Marianna voleva a tutta forza che la mandasse giù un boccone; ma la non volle a nessun patto, e si accontentò d’un bicchier d’acqua. Indi allungò il braccio sulla spalliera della seggiola e vi poggiò sopra il capo nell’attitudine di chi s’appresta a dormire; e la Marianna allora cercò persuaderla di coricarsi di sopra nel suo letto, che le avrebbe messe le lenzuola di bucato. Vedendo poi che eran parole buttate via, la vistosa mugnaia si tacque, e dati i chiavistelli alla porta sedette essa pure su uno sgabello.

– Io voglio che voi andiate a coricarvi – le disse allora la Clara, che, per quanti pensieri per quanti timori avesse per sé, non avrebbe mai commesso una dimenticanza a scapito altrui.

– No signora! bisogna che io stia qui per esser pronta ad aprire al nostri uomini, – rispose la Marianna – altrimenti invece di darla mi toccherebbe pigliare una gridata.

La Clara tornò allora a reclinar la fronte sul braccio, e stette così, come si dice, sognando ad occhi aperti, mentre la Marianna dopo aver dondolato un buon pezzo col capo lo appoggiava sopra una tavola cominciando a fiatare colle tranquille e regolari battute d’una robusta campagnuola che dorme della grossa.

Intanto mentre il signor Lucilio con ogni accorgimento per non esser veduto si veniva avvicinando alle fosse posteriori del castello, io mandato fuori esploratore me ne scostava con pari prudenza, volendo girar in maniera da sbucar al villaggio per un altro capo e togliere ogni sospetto di quello che era veramente. Quando ebbi camminato un tiro di schioppo verso le praterie, mi parve discernere nel buio una forma d’uomo che avanzava tra il fogliame delle viti con somma circospezione. Mi acquattai dietro il seminato; e stetti guardando, protetto contro ogni curiosità dalla mia piccolezza e dal frumento che mi stava a ridosso colle sue belle spighe già bionde e pencolanti. Guardo tra spica e spica, tra vite e vite, e in un aperto battuto dalla luna cosa mi par di vedere?... – Il signor Lucilio! – Torno ad osservar ancora; e mi torna a comparire. Mi alzo, me gli avvicino con prudenza sempre dietro il frumento, e pronto ad intanarmivi entro come una lepre al minimo bisogno. Guardo ancora: era proprio lui. Nessuna ventura al mondo potea toccarmi secondo me più fortunata di questa in simile congiuntura. Il signor Lucilio era il confidente della vecchia Contessa, e della Clara; egli avea dimostrato volermi qualche bene nell’occasione della mia scappata in laguna; nessuno migliore di lui per aiutarmi nelle mie ricerche. E siccome egli avea fama di uomo scienziato, così il mio criterio prese da quell’incontro le più belle lusinghe. Quando me gli trovai presso un dieci passi:

– Signor Lucilio! signor Lucilio! – bisbigliai con quella voce sommessa sommessa che sembra voglia farsi tanto lunga quanto si fa sottile.

Egli si fermò e stette in ascolto.

– Sono il Carlino di Fratta! Sono il Carlino dello spiedo! – io continuai alla stessa maniera.

Egli trasse di tasca un certo arnese che conobbi poi essere una pistola e mi si avvicinò guardandomi ben fiso in faccia. Siccome ero coperto dall’ombra del frumento, pareva che stentasse a riconoscermi.

– E sì, sì, diavolo! son proprio io! – gli dissi con qualche impazienza.

– Zitto, silenzio! – mormorò egli con un filettino di voce. – Qui presso vi ha una guardia e non vorrei che origliasse i nostri discorsi.

Intendeva quella guardia ch’era rimasta sola dopoché la compagna s’era messa per guida di Lucilio e della Contessina. Ma la solitudine è alle volte una triste consigliera e la guardia, dopo una valorosa difesa durata per più di mezz’ora, avea finito col rimaner vinta dal sonno. Perciò Lucilio ed io potevamo parlare in piena sicurezza che nessuno ci avrebbe incommodati.

– Accostamiti all’orecchio, e dimmi se esci dal castello, e cosa c’è di nuovo là dentro – mi bisbigliò egli all’orecchio.

– C’è di nuovo che hanno una paura da oglio Santo; – risposi io – che hanno buttato giù i ponti pel timore di essere ammazzati dai buli di Venchieredo, che si è perduta la signora Clara, e che dall’Avemaria ad ora hanno già detto due Rosarii. Ma adesso hanno mandato fuori me perché fiuti l’aria, e cerchi conto della Contessina, e torni poi a recar loro le novelle.

– E cosa penseresti di fare, piccino?

– Capperi! cosa penso di fare!... Andare all’osteria fingendo di essermi smarrito come mi è accaduto quell’altra volta, se ne ricorda? quella volta della febbre; e poi ascoltare quello che dicono gli sbirri, e poi domandar della Contessina a qualche contadino, e poi tornare fedelmente per dove sono venuto scavalcando il fosso sopra una tavola.

– Sai che sei proprio uno spiritino! Non ti credeva da tanto. Peraltro consolati che la fortuna ti sparagna de’ bei fastidii. Io sono stato all’osteria, io ho condotto in salvo al mulino la contessina Clara, e se m’insegni il modo di entrare in castello, potremo portar loro la risposta in compagnia.

– Se gli insegnerò il modo? Mi basterà un fischio, e Marchetto ci butterà la tavola. Dopo lasci fare a me, che passerà l’acqua senza bagnarsi, purché abbia l’avvertenza di imitarmi e di star ben in bilico sulla tavola.

– Andiamo dunque!

E Lucilio mi prese per mano; e rasentando alcune folte siepaie dietro le quali è impossibile affatto l’esser veduti anche di giorno, io lo condussi in un batter d’occhio in riva alla fossa. Lì fischiai com’eravamo d’intesa, e Marchetto fu pronto ad accorrere e a buttarmi la tavola.

– Così presto? – mi diss’egli dall’altra banda del fosso, perché la maraviglia vinse pel momento ogni altro riguardo.

– Zitto! – risposi io mostrando a Lucilio il modo di adagiarsi sulla tavola.

– Chi c’è? – soggiunse più sorpreso ancora il cavallante che cominciava allora a distinguere nel buio due figure in vece di una.

– Amici, e zitto! – rispose Lucilio; e poi egli stesso, come pratico del mestiere, diede una spinta che ci menò proprio a baciare pulitamente l’altra riva.

– Son io, son io! – diss’egli saltando a terra – e porto buone notizie della contessina Clara!

– Davvero? Sia lodato il Cielo! – soggiunse Marchetto sgomberandogli la strada per aiutar me a ritirare la tavola dall’acqua.

Quando s’entrò in cucina aveano finito allora allora di recitare il Rosario; il fuoco era spento, ché del resto non avrebbero potuto reggere in quel luogo colla caldana della state; nessuno pensava alla cena e solamente monsignor Orlando gettava di tanto in tanto sulla cuoca qualche occhiata irrequieta. Anche Martino s’era messo taciturno e imperterrito a grattare il suo formagio; ma tutti gli altri avevano tali faccie da far onore ad un funerale. La comparsa di Lucilio fu un raggio di sole in mezzo ad un temporale. Un – Oh! – di maraviglia d’ansietà, e di piacere gli risonò intorno in coro, e poi tutti si fermarono a guardarlo senza domandargli nulla, quasi dubitassero s’ei fosse un corpo o un fantasma. Toccò dunque a lui aprir la bocca pel primo; e le parole di Mosé quando tornava dal monte non furono ascoltate con minor attenzione delle sue. Martino avea intromesso anch’egli di grattare, ma non arrivando a capire nulla dei discorsi che si facevano, finì coll’impadronirsi di me e farsi contar a cenni una parte della storia.

– Prima di tutto ho buone notizie della contessina Clara – diceva intanto il signor Lucilio. – Ella era uscita nei campi verso Fossalta incontro alla signora Contessa come costuma; e impedita di rientrare in castello dai bravacci che lo guardano da tutte le parti, io stesso ebbi l’onore di menarla in salvo nel mulino della prateria.

Quei bravacci che attorniavano il castello d’ogni lato guastarono assai la buona impressione che dovea esser prodotta dalle notizie della Clara. Tutti sorrisero colle labbra al colombo della buona nuova, ma negli occhi lo sgomento durava peggio che mai e non sorrideva per nulla.

– Ma dunque siam proprio assediati come se fossero Turchi coloro! – sclamò la Contessa giungendo disperatamente le mani.

– Si consoli che l’assedio non è poi tanto rigoroso se io ho potuto penetrare fin qui; – soggiunse Lucilio – gli è vero che il merito è tutto del Carlino, e che se non lo avessi incontrato lui, difficilmente avrei potuto orientarmi così presto e farmi gettar la tavola da Marchetto.

Gli occhi della brigata si volsero allora tutti verso di me con qualche segno di rispetto. Alla fine capivano che io era buono ad altro che a girare l’arrosto, ed io godetti dignitosamente di quel piccolo trionfo.

– Sei anche stato all’osteria? – mi chiese il fattore.

– Vi dirà tutto il signor Lucilio – risposi modestamente. – Egli ne sa più di me perché ha avuto a che fare, credo, con quei signori.

– Ah! e cosa dicono? pensano d’andarsene? – domandò ansiosamente il Conte.

– Pensano di rimanere; – rispose Lucilio – per ora almeno non c’è speranza che levino il campo, e bisognerà ricorrere al Vice-capitano di Portogruaro per deciderli a metter la coda fra le gambe.

Monsignor Orlando mandò un’altra e più espressiva occhiata alla cuoca; il canonico di Sant’Andrea si accomodò il collare con un leggero sbadiglio: in ambidue i reverendi i bisogni del corpo cominciavano a gridar più forte delle afflizioni dello spirito. Se questo è segno di coraggio, essi furono in quella circostanza i cuori più animosi del castello.

– Ma cosa ne dice lei? cos’è il suo parere in questa urgenza? – chiese con non minor ansietà di prima il signor Conte.

– Dei pareri non ce n’è che uno – soggiunse Lucilio. – Son ben munite le mura? sono sprangate le porte e le finestre? ci sono moschetti e spingarde alle feritoie? V’ha per questa notte gente sufficiente per vegliare alla difesa?

– A voi, a voi, Capitano! – strillò la Contessa invelenita pel contegno poco sicuro dello Schiavone. – Rispondete dunque al signor Lucilio! Avete disposto le cose in maniera che si possa credersi al sicuro?

– Cioè; – barbugliò il Capitano – io non ho che quattro uomini, compresi Marchetto e Germano; ma i moschetti e le spingarde sono all’ordine; e ho anche distribuito la polvere... In difetto poi di palle, ho messo in opera la mia munizione da caccia.

– Benissimo! credete che quei manigoldi siano passerotti! – gridò il conte. – Freschi staremo a difendercene coi pallini!

– Via, per cinque o sei ore anche i pallini basteranno; – riprese Lucilio – e quando loro signorie sappiano tener a freno quegli assassini fino a giorno, io credo che le milizie del Vice-capitano avranno campo di intervenire.

– Fino a giorno! come si fa a difenderci fino a giorno, se quei temerarii si mettono in capo di darci l’assalto!? – urlò il Conte strappandosi a ciocche la perrucca. – Ne uccideremo uno, agli altri il sangue andrà alla testa, e saremo tutti fritti prima che il signor Vice-capitano pensi a mettersi le ciabatte!

– Non veda, no, le cose tanto scure; – replicò Lucilio – castigatone uno, creda a me che gli altri faranno giudizio. Non ci si perde mai a mostrar i denti; e giacché il signor capitano Sandracca non sembra del suo umor solito, io solo voglio incaricarmene; e dichiaro e guarentisco che io solo basterò a difendere il castello, e a mettere in iscompiglio al menomo atto tutti quei spaccamonti di fuori!

– Bravo signor Lucilio! Ci salvi lei! Siamo nelle sue mani! – sclamò la Contessa.

Infatti il giovane parlava con tal sicurezza che a tutti si rimise un po’ di fiato in corpo; la vita tornò a muoversi in quelle figure, sbalordite dallo spavento, e la cuoca s’avviò alla credenza con gran conforto di Monsignore. Lucilio si fece raccontar brevemente l’andamento di tutto l’affare; giudicò con miglior fondamento che fosse una gherminella del castellano di Venchieredo per tagliar a mezzo il processo con un colpo di mano sulla cancelleria, e per primo atto della sua autorità fece trasportare in un salotto interno le carte e i protocolli di quella faccenda. Esaminò poi diligentemente le fosse le porte e le finestre; appostò Marchetto con Germano dietro la saracinesca; il fattore lo mise alla vedetta dalla parte della scuderia, altre due cernide che erano il nerbo della guarnigione le dispose alle finestre che guardavano il ponte; distribuì le cariche e comandò che irremissibilmente fosse ammazzato chi primo osasse tentare il valico della fossa. Il capitano Sandracca stava sempre alle calcagna del giovine mentre egli attendeva a questi provvedimenti; ma non aveva coraggio di fare il brutto muso, anzi gli facevano mestieri i cenni gli urtoni e gli incorraggiamenti della moglie per non accusare il mal di ventre e ritirarsi in granaio.

– Cosa le pare, Capitano? gli disse Lucilio con un ghignetto alquanto beffardo. – Avrebbe fatto anche lei quello che ho fatto io?...

– Sissignore... lo aveva già fatto; – balbettò il Capitano – ma mi sento lo stomaco...

– Poveretto! – lo interruppe la signora Veronica. – Egli ha faticato fin adesso; ed è suo merito se i manigoldi non son già penetrati in castello. Ma non è più tanto giovane, la fatica è fatica, e le forze non corrispondono alla buona volontà!

– Ho bisogno di riposo – mormorò il Capitano.

– Sì, sì, riposi con suo comodo; – soggiunse Lucilio – il suo zelo lo ha provato bastevolmente; e ormai può mettersi sotto la piega colla coscienza tranquilla.

Il veterano di Candia non se lo fece dire due volte; infilò la scala volando come un angelo, e per quanto la moglie gli stesse a’ panni gridando; di guardarsi bene e di non precipitarsi! in quattro salti fu nella sua stanza ben inchiavata e puntellata. Quel dover passare vicino alle feritoie gli avea dato il capogiro; e gli parve di stare assai meglio fra la coltre e il materasso. Ai pericoli futuri Dio avrebbe provveduto; egli temeva più di tutto i presenti. La signora Veronica poi si sfogava, rimproverandogli sommessamente la sua dappoccagine; ed egli rispondeva che non era il suo mestiero quello di affrontare i ladri, ma che se si fosse trattato di vera guerra guerreggiata lo avrebbero veduto al suo posto.

– Giovinastri, giovinastri! – sclamò il valentuomo stirandosi le gambe. – La trinciano da eroi perché hanno l’imprudenza di sfidar una palla facendo capolino dai merli. Eh, mio Dio, ci vuol altro!... Veronica, non uscir mica di camera sai!... Io voglio difenderti come il più gran tesoro che abbia!

– Grazie; – rispose la donna – ma perché non vi siete svestito?

– Svestirmi! vorresti che mi svestissi con quella giuggiola di tempesta che abbiamo alle spalle!... Veronica, sta sempre vicina a me... Chi vorrà offenderti dovrà prima calpestare il mio cadavere.

Costei si gettò anch’essa, vestita com’era, sul letto; e da coraggiosa donna avrebbe anche pigliato sonno, se il marito ad ogni mosca che volava non fosse sobbalzato tant’alto, domandandole se aveva udito nulla, ed esortandola a confidare in lui, e a non allontanarsi dal suo legittimo difensore.

Intanto da basso una discreta cena improvvisata con ova e bragiuole avea calmato gli spasimi dei due monsignori, e rimessili con tutta l’anima alla paura, s’interrogavan l’un l’altro sul numero e sulla qualità degli assalitori: eran cento, eran trecento, eran mille; tutti capi da galera, il miglior de’ quali era fuggito al capestro per indulgenza del boia. Se gridavano al contrabbando, si era per trovar pretesto ad un saccheggio; a udirli urlare e cantare sulla piazza dovevan esser ubbriachi fradici, dunque non bisogna aspettarsi da essoloro né ragionevolezza né remissione. Il resto della compagnia faceva tanto d’occhi a questi ragionamenti; e peggio poi quando alcuna delle scolte veniva a riferire di qualche romore udito, di qualche movimento osservato nelle vicinanze del castello. Lucilio, dopo fatta una visita alla vecchia Contessa e aver coonestato anche lui con una panchiana4 l’assenza della Clara, era tornato a confortare quei poveri diavoli. Scrisse allora e fece firmare dal Conte una lunga e pressantissima lettera al Vice-capitano di Portogruaro, e domandò licenza alla compagnia d’andar egli stesso in persona a portarla. Misericordia! non lo avesse mai detto! La Contessa gli si gettò quasi ginocchione dinanzi; il Conte lo abbrancò pel vestito così furiosamente che gliene strappò quasi una falda; i canonici, la cuoca le guattere i servitori lo attorniarono d’ogni lato come ad impedirgli d’uscire. E tutti con occhiate con gesti con monosillabi o con parole s’ingegnavano di fargli capire che partir lui era lo stesso che volerli privare dell’ultima lusinga di salute5. Lucilio pensò a Clara, e pur decise di rimanere. Tuttavia si richiedeva alcuno che s’incaricasse della lettera, e di nuovo gettarono gli occhi sopra di me. Giovandomi della confusione generale, io era sempre stato nella camera della Pisana sopportando i suoi rimbrotti per la fazione extra muros di cui io l’aveva defraudata. Ma appena mi chiamarono ebbi l’accortezza e la fortuna di farmi trovar sulla scala. M’empirono il capo di istruzioni e di raccomandazioni, mi cucirono nella giacchetta il piego, mi imbarcarono sulla solita tavola, ed eccomi per la seconda volta impegnato in una missione diplomatica. Sonavano allor per l’appunto, le dieci ore di notte, e la luna mi dava negli occhi con poca modestia; due cose che mi davano qualche fastidio, la prima per le streghe e le stregherie raccontatemi da Marchetto, la seconda per la facilità che ne proveniva di poter essere osservato. Con tutto ciò ebbi la fortuna di giungere sano e salvo sui prati. Tremava un pocolino dapprincipio; ma mi rassicurai strada facendo, e nell’entrar al mulino, come volevano le mie istruzioni, assunsi una cert’aria d’importanza che mi fece onore. Rassicurai la contessina Clara e risposi con garbo a tutte le sue interrogazioni; indi detto alla Marianna che l’andasse a svegliare il maggiore de’ suoi figliuoli, approfittai della sua assenza per istracciare la fodera della giacchetta; e cavatane la lettera la riposi come nulla fosse in saccoccia. Sandro era un garzoncello maggiore di me di due anni e che dimostrava un ingegno ed un coraggio non comuni; perciò il fattore m’aveva raccomandato di addrizzarmi a lui per mandar quella scritta a Portogruaro. Egli si tolse l’incarico senza neppur pensarci sopra; si buttò la giubba sulle spalle, mise la lettera nel petto, e uscì fuori zufolando come andasse ad abbeverare i buoi. La strada ch’ei dovea tenere verso Portogruaro s’allontanava sempre più da Fratta e non v’ avea pericolo che fosse sorpreso e intercettato. Perciò io stava senza alcun timore beato beatissimo di veder uscire a buon fine tutte le commissioni affidatemi, e piene le orecchie degli elogii che mi avrebbero suonato intorno nella cucina del castello. Benché mi avesse raccomandato il signor Lucilio di far compagnia alla signora Clara fino al ritorno del messo, il terreno mi bruciava sotto di rimettermi in moto; quell’andare e venire, quel mistero, quei pericoli avean dato l’abbrivo alla mia immaginazione infantile, e non potei stare senza qualche gran impresa per le mani. Mi saltò allora in capo di rientrare nel castello a darvi contezza di quella parte dell’incarico che aveva già avuto effetto; salvo sempre di rinnovare la sortita per saper la risposta del Vice-capitano di giustizia. La Clara, udita questa mia intenzione, domandò risolutamente se mi bastava l’animo di far passare la fossa anche a lei. Il mio piccolo cuore palpitò più di superbia che d’incertezza, e risposi col volto fiammeggiante e col braccio teso che mi sarei annegato io, piuttostoché far bagnare a lei la falda della veste. La Marianna tentò attraversare con molte ragioni di prudenza questo disegno della padroncina; ma essa avea conficcato proprio il chiodo, ed io poi era così contento di ribadirlo che mi tardava l’ora di trovarmi con lei all’aperta. Detto fatto, lasciata la mugnaia colla sua prudenza, noi uscimmo sui prati, e di là in breve fummo senza guaio alle fosse. Il solito fischio la solita tavola; e la traversata successe a dovere come le altre volte. La Contessina gongollava tanto di fare quell’improvvisata, che il passar l’acqua a quel modo le fu quasi piacevole e rideva come una ragazzina nell’inginocchiarsi su quell’ordigno. Le feste le maraviglie la consolazione di tutta la famiglia sarebbero lunghe a ridirsi: ma il primo pensiero di Clara fu di chieder conto della nonna; o se non fu il primo pensiero, fu certo la prima parola. Lucilio le rispose che la buona vecchia, persuasa della fandonia che le avean dato a bere sul conto di lei, erasi addormentata in pace, e bene stava di non risvegliarla. Allora la giovinetta sedette cogli altri in tinello; ma mentre tutti origliavano dalle fessure delle finestre i rumori che venivano dal villaggio, ella parlava muta muta cogli occhi di Lucilio e lo ringraziava per tutto quanto egli aveva adoperato a loro vantaggio. Infatti era una voce sola che ascriveva al signor Lucilio tutto quel po’ di sicurezza e di speranza, che risollevava le anime degli abitatori del castello dalla prima abiezione. Lui era stato a consolarli con qualche buon argomento, lui a munire provvisoriamente il castello contro un colpo di mano, lui a concepire quella sublime pensata del ricorso al Vice-capitano. Lì tornava in campo io. Mi si chiese conto della lettera e di chi se n’era incaricato; e tutti giubilarono di sapere che di lì a un paio d’ore io sarei tornato al mulino per recare la risposta di Portogruaro. Ognuno mi fece mille carezze, io era portato in palma di mano, Monsignore mi perdonava la mia ignoranza in punto al Confiteor, ed il fattore si pentiva di avermi posposto ad un menarrosto. Il Conte mi volgeva gli occhi dolci e la Contessa poi non finiva mai di accarezzarmi la nuca. Giustizia tarda e meritata.

Mentre la brigata si sbracciava a farmi la corte, crebbe il romore di fuori improvvisamente, e Marchetto, il cavallante, col fucile in mano e gli occhi sbarrati si precipitò nel tinello. Che è che non è? – Fu un alzarsi improvviso, un gridare, un domandare, un rovesciarsi di seggiole, e di candellieri. – C’era che quattro uomini per un condotto d’acqua rimasto asciutto erano sbucati dietro la torre; che erano saltati addosso a lui e a Germano; che costui con due coltellate nel fianco doveva essere a mal partito, e che egli avea fatto appena tempo di scappare serrandosi dietro le porte. A queste notizie lo strillare, e il rimescolarsi crebbe di tre tanti; nessuno sapeva cosa si facesse; parevano quaglie insaccate allo scuro in un canestro che danno del capo qua e là alla rinfusa senza cognizione e senza scopo. Lucilio si sfiatava a raccomandare la quiete, e il coraggio; ma era un parlare ai sordi. La sola Clara lo udiva e cercava aiutarlo col persuadere la Contessa a farsi animo e a sperare in Dio.

– Dio, Dio! è proprio tempo di ricorrere a Dio!... – sclamava la signora – chiamateci il confessore!... Monsignore, lei pensi a raccomandarci l’anima.

Il canonico di Sant’Andrea, cui erano rivolte queste parole, non avea più anima per sé – figuratevi se avea intenzione o possibilità di raccomandare quella degli altri! In quel momento s’udì lo scoppio di molte schioppettate, e insieme grida e romori e minaccie di gente che sembrava azzuffarsi nella torre. Lo scompiglio non conobbe più limiti. Le donne di cucina capitarono da un lato, le cameriere la Pisana i servi dall’altro; il Capitano entrò più morto che vivo sostenuto dalla moglie, e gridando che tutto era perduto. S’udivano di fuori le strida e le preghiere delle famiglie di Fulgenzio e del fattore che chiedevano esser ricoverate nella casa padronale come in luogo più sicuro. In tinello era un affacciarsi confuso e precipitoso di volti sorpresi e sparuti, un gesteggiare di preghiere e di segni di croce, un piangere di donne, un bestemmiare di uomini, un esorcizzare di monsignori. Il Conte avea perduto la sua ombra che avea stimato opportuno di ficcarsi più ancora all’ombra sotto il tappeto della tavola. La Contessa quasi svenuta guizzava come un’anguilla, la Clara s’ingegnava di confortarla come poteva meglio. Io per me aveva preso tra le braccia la Pisana, ben deciso a lasciarmi squartare prima di cederla a chichessia: il solo Lucilio avea la testa a segno in quel parapiglia. Domandò a Marchetto, ed ai servi se tutte le porte fossero serrate; indi chiese al cavallante se avesse veduto le due cernide prima di scappare dalla torre. Il cavallante non le aveva vedute; ma ad ogni modo non bastavano due soli uomini a menar tutto quel gran romore che si udiva di fuori; e Lucilio giudicò tosto che qualche nuovo accidente fosse intervenuto. Avesse già avuto effetto il ricorso al Vice-capitano? – Pareva troppo presto; tanto più che la soverchia premura non era il difetto delle milizie d’allora. Certo peraltro qualche soccorso era capitato; se pur gli assalitori non erano tanto ubbriachi da favorirsi le archibugiate fra di loro. In quella, alle querele delle donne di Fulgenzio e del fattore successe contro le finestre un tambussar di uomini, e un gridar che si aprisse e che si stesse quieti, perché tutto era finito. Il Conte e la Contessa non s’acquietavano per nulla, credendo che fosse uno stratagemma immaginato per entrar in casa a tradimento. Tutti si stringevano angosciosamente intorno a Lucilio aspettando consiglio e salute da lui solo; la contessina Clara s’era messa alla porta della scala deliberata a correre dalla nonna non appena il pericolo si facesse imminente. I suoi occhi rispondevano valorosamente agli sguardi del giovane; che badasse egli pure agli altri, poiché per lei si sentiva forte e sicura contro ogni evento. Io teneva la Pisana piucchemai stretta fra le braccia, ma la fanciulletta mossa all’emulazione dal mio coraggio gridava che la lasciassi, e che si sarebbe difesa da sé. L’orgoglio poteva tanto sull’immaginazione di lei che le pareva di bastare contro un esercito. Frattanto il signor Lucilio accostatosi ad una finestra avea domandato chi fossero coloro che bussavano.

– Amici, amici! di San Mauro e di Lugugnana! – risposero molte voci.

– Aprite! Sono il Partistagno! I malandrini furono snidati! – soggiunse un’altra voce ben nota che sciolse si può dire il respiro a tutta quella gente trepidante tra la paura e la speranza.

Un grido di consolazione fece tremare i vetri ed i muri del tinello e se tutti fossero diventati pazzi ad un punto non avrebbero dato in più strane e grottesche dimostrazioni di gioia. Mi ricorda e mi ricorderà sempre del signor Conte, il quale al fausto suono di quella voce amica si mise le mani alle tempia, ne sollevò la perrucca, e stette con questa sollevata verso il cielo, come offrendola in voto per la grazia ricevuta. Io ne risi, ne risi tanto, che buon per me che la grandezza del contento stornasse dalla mia persona l’attenzione generale! – Finalmente le porte furono aperte, le finestre spalancate; s’accesero fanali, lucerne, lampioni e candelabri; e al festivo splendore d’una piena illuminazione, fra il suono delle canzoni trionfali, dei Te deum e delle più divote giaculatorie, il Partistagno invase coll’armata liberatrice tutto il pianterreno del castello. Gli abbracciari le lagrime i ringraziamenti le meraviglie furono senza fine; la Contessa, dimenticando ogni riguardo, era saltata al collo del giovine vincitore, il Conte, monsignor Orlando, e il canonico di Sant’Andrea vollero imitarla; la Clara lo ringraziò con vera effusione d’aver risparmiato alla sua famiglia chi sa quante ore di spavento e d’incertezza, e fors’anco qualche disgrazia meno immaginaria. Il solo Lucilio non si congiunse al giubilo e all’ammirazione comune; forse lo scioglimento non gli quadrava, e l’avrebbe voluto derivare dovunque fuorché dalla parte per la quale era venuto. Tuttavia era troppo giusto ed accorto per non mascherare questi spropositati sentimenti d’invidia; e fu egli il primo che richiese il Partistagno del modo e della fortuna che l’aveva menato a quella buona opera. Il Partistagno raccontò allora com’egli fosse venuto quella sera per la solita visita al castello, ma un po’ più tardi del consueto pel riparo di alcune arginature che l’ebbe trattenuto a San Mauro. Gli sgherri di Venchieredo gli avevano proibito d’entrare, ed egli avea fatto un gran gridare contro quella soperchieria, ma non ne avea cavato nulla; e alla fine vedendo che le chiacchere contavano un fico, ed accorgendosi che quel gridare al contrabbando era una copertina a Dio sa quali diavolerie, s’era proposto di partire e tornar alla carica con ben altri argomenti che le parole.

– Perché io non sono un prepotente di mestiere; – soggiunse il Partistagno – ma all’uopo anch’io posso qualche cosa e so farmi valere. – E ciò dicendo mostrava tesi i muscoli dei polsi, e faceva digrignare certi denti acuti e sottili che somigliavano quelli del leone.

Infatti l’era tornato di galoppo a San Mauro, e là, raccoltivi alcuni suoi fidati, nonché molte Cernide di Lugugnana che vi stavano ancora a lavoro sopra l’argine, s’era ravviato verso Fratta. Eravi giunto proprio nel momento che la torre veniva occupata per sorpresa da quattro bravacci; ond’egli, sgominato prima assai facilmente gli ubbriachi che armeggiavano sulla piazza e nell’osteria, si mise a guadar la fossa con parecchi de’ suoi. Con qualche fatica guadagnarono l’altra riva senzaché coloro che aveano occupato la torre si dessero cura di ributtarli, intesi com’erano a scassinar gangheri e serrature per penetrare nell’archivio. E poi dopo qualche schioppettata, scambiatasi così tra il chiaroscuro più per braveria che per bisogno, i quattro malandrini erano venuti nelle sue mani; e li teneva guardati nella stessa torre ove s’erano introdotti con sì sfacciata sceleraggine. Fra questi era il capo-banda Gaetano. Quanto poi al portinaio del castello l’era già morto quando le Cernide di Lugugnana s’erano accorte di lui.

– Povero Germano! – sclamò il cavallante.

– E che non ci sia proprio più pericolo? che tutti siano partiti? che non ci si rifacciano addosso per la rivincita? – chiese il signor Conte al quale non pareva vero che un tanto temporale si fosse squagliato per aria senza qualche grande fracasso di fulmini.

– I capi sono bene ammanettati e saranno savii come bambini fino al momento che li regoli meglio il boia; – rispose il Partistagno – quanto agli altri scommetto che non si sovvengono più di qual odor sappia l’aria di Fratta, e che lor non cale niente affatto di fiutarla ancora.

– Dio sia lodato! – sclamò la Contessa – signor Barone di Partistagno, noi tutti e le cose nostre ci facciamo roba sua in riconoscenza dell’immenso servigio che ci ha prestato.

– Ella è il più gran guerriero dei secoli moderni! – gridò il Capitano asciugandosi sulla fronte il sudore che vi avea lasciato la paura.

– Pare peraltro che anche lei avesse pensato ad una buona difesa – rispose il Partistagno. – Finestre e porte erano così tappate che non ci sarebbe passata una formica.

Il Capitano ammutolì, s’avvicinò col fianco alla tavola per non far vedere ch’egli era senza spada e della mano accennò a Lucilio, come per riferir a lui tutto il merito di tali precauzioni.

– Ah è stato il signor Lucilio!? – sclamò Partistagno con un lieve sapore d’ironia. – Bisogna confessare che non si poteva usare maggior prudenza.

Il panegirico della prudenza in bocca di chi avea vinto coll’audacia somigliava troppo ad un motteggio perché Lucilio non se ne accorgesse. L’anima sua dovette sollevarsi ben alto per rispondere con un modesto inchino a quelle ambigue parole. Il Partistagno, che credeva di averlo subissato o poco meno, si volse per vedere sulla fisonomia della Clara l’effetto di quel nuovo trionfo sul piccolo e infelice rivale. Si maravigliò alquanto di non vederla, perché la fanciulla era già corsa di sopra ad usciolare6 dietro la porta della nonna. Ma la buona vecchia dormiva saporitamente protetta contro le archibugiate da un principio di sordità; ed ella tornò indi a poco in tinello, contentissima della sua esplorazione. Il Partistagno la adocchiò allora gustosamente e n’ebbe un’occhiata di pura benevolenza che lo confermò viemmeglio nella sua compassione pel povero dottorino di Fratta. In mezzo a ciò gli piovevano d’ogni lato domande sopra questo e sopra quello; e sul numero dei malandrini, e sul modo da lui adoperato nel passar la fossa, e come sempre avviene dopo il pericolo, tutti godevano d’immaginarlo grandissimo e di ricordarne le emozioni. Lo stato d’animo di chi è o si crede sfuggito ad un rischio mortale somiglia a quello di chi ha ricevuto risposta favorevole ad una dichiarazione d’amore. L’istessa giocondità, l’istessa loquacia, l’istessa prodigalità di ogni cosa che gli venga domandata, l’istessa leggerezza di corpo e di mente; e per dirla meglio, tutte le grandi gioie si somigliano nei loro effetti, a differenza dei grandi dolori che hanno una scala di manifestazioni molto variata. Le anime hanno un centinaio di sensi per sentir il male, ed uno solo pel bene; e la natura rileva alcun poco dell’indole di Guerrazzi che ha maggior immaginativa per le miserie che pei pregi della vita.

Il primo cui venne in mente che ai nuovi arrivati potesse abbisognare qualche rinfresco, fu monsignor Orlando; io penso sempre che lo stomaco più ancora della riconoscenza lo facesse accorto di tale bisogno. Dicono che l’allegria è il più attivo dei succhi gastrici, ma Monsignore avea digerito la cena durante la paura; e l’allegria non avea fatto altro che stimolare vieppiù il suo appetito. Due ova e mezza bragiuola! Ci voleva altro per farlo tacere l’appetito d’un monsignore!... Subito si misero all’opera; e si fece man bassa sui porcellini di Fulgenzio. Il timore d’un lungo assedio era svanito; la cuoca lavorava per tre; le guattere e i servi avevano quattro braccia per uno; il fuoco sembrava disporsi a cuocere ogni cosa in un minuto; Martino, lagrimando per la morte di Germano comunicatagli allora allora dal cavallante, grattava in tre colpi mezza libbra di formagio. Io e la Pisana facevamo gazzarra contenti e beati di vederci dimenticati nel tripudio universale; per noi avremmo desiderato ogni mese un assalto al castello per goderne poi un simile carnovale. Ma la memoria del povero Germano s’intrometteva sovente ad abbuiare la mia contentezza. Era la prima volta che la morte mi passava vicina dopo che era venuto in età di ragione. La Pisana mi svagava col suo chiaccherio, e mi rampognava del mio umore ineguale. Ma io le rispondeva: – E Germano? – La piccina allungava il broncio; ma poco stante tornava a ciarlare, a dimandarmi contezza delle mie spedizioni notturne, a persuadermi che ella avrebbe fatto anche meglio, e a congratularsi meco che la cuoca si fosse degnata di porre in opera il menarrosto senza ficcar me a far le sue veci. Io mi svagava dal mio dolore in questi colloquii; e la superbietta di essere stimato qualche cosa mi teneva troppo occupato di me e della mia importanza per permettermi di pensar troppo al morto. Era già passata la mezzanotte di qualche mezz’ora quando la cena fu in pronto. Non si badò a distinzione di quarti7 o di persone. In cucina in tinello in sala nella dispensa ognuno mangiò e bevve, come e dove voleva. Le famiglie del fattore e di Fulgenzio furono convitate al banchetto trionfale; e soltanto fra un boccone ed un brindisi la morte di Germano e la sparizione del sagrista e del Cappellano richiamarono qualche sospiro. Ma i morti non si movono e i vivi si trovano. Di fatti il pretucolo e Fulgenzio capitarono non molto dopo, così pallidi e sformati che parevano essere stati rinchiusi fin allora in un cassone di farina. Uno scoppio di applausi salutò il loro ingresso, e poi furono invitati a contare la loro storia. La era in verità molto semplice. Ambidue, dicevano, senza farsi motto l’uno all’altro, al primo giungere dei nemici erano corsi a Portogruaro per implorar soccorso; e di là infatti capitavano col vero soccorso di Pisa.

– Che? sono lì fuori i signori soldati? – sclamò il signor Conte che non si era ancora accorto di aver perduto la perrucca. – Fateli entrare!... Su dunque, fateli entrare!

I signori soldati erano sei di numero compreso un caporale, ma in punto a stomaco valevano un reggimento. Essi giunsero opportuni a spazzar i piatti degli ultimi rimasugli dei porcellini arrostiti e a ravvivar l’allegria che cominciava già a maturarsi in sonno. Ma poi ch’essi furono satolli e il canonico di Sant’Andrea ebbe recitato un Oremus in rendimento di grazie al Signore del pericolo da cui eravamo scampati, si pensò sul serio a coricarsi. Allora, chi chiappa chiappa, uno qua ed uno là, ognuno trovò il proprio covo, la gente di rilievo nella foresteria, gli altri chi nella frateria, chi nelle rimesse, chi sul fenile. Il giorno dopo soldati, Cernide e sbirri ebbero per ordine del signor Conte una grossa mancia; e ognuno tornò a casa sua dopo aver ascoltato tre messe, in nessuna delle quali io fui seccato perché recitassi il Confiteor. Così si tornò dopo quella furia di burrasca alla solita vita; il signor Conte peraltro aveva raccomandato che portassimo il trionfo con fronte modesta perché non gli garbava per nulla di andar incontro ad altre rappresaglie.

Con simili disposizioni d’animo vi figurerete che il processo instituito sulle rivelazioni di Germano non andò innanzi con molta premura; e neppur pareva che si avesse volontà di castigare davvero quei quattro sgherani che erano rimasti prigioni di guerra del Partistagno. Il Venchieredo, fatto accortamente palpare a loro riguardo, rispose che egli veramente li avea mandati sull’orme di alcuni contrabbandieri che si dicevano rifugiati nelle vicinanze di Fratta, che se poi le sue istruzioni erano state da loro oltreppassate in modo punibile criminalmente, ciò non riguardava lui ma la cancelleria di Fratta. Il Cancelliere del resto non mostrava gran volontà di veder a fondo nelle cose, e sfuggiva di condurre i detenuti a pericolose confessioni. L’esempio di Germano parlava troppo chiaro; e l’accorto curiale era uomo da pigliar le cose di volo. Lasciava dunque dormire il processo principale, e in quell’altra inquisizione dell’assalto dato alla torre era felicissimo di aver provato la perfetta ubbriachezza dei quattro imputati. Così sperava lavarsene le mani, e che la polvere dell’obblio si sarebbe accumulata provvidenzialmente su quei malaugurati protocolli. Le cose tentennavano in questo modo da circa un mese, quando una sera due capuccini chiesero ospitalità nel castello di Fratta. Fulgenzio che conosceva tutte le barbe capuccinesche della provincia non affigurò per nulla quelle due; ma avendo essi dichiarato che venivano dall’Illirio, circostanza provata vera dall’accento, furono accolti cortesemente. Fossero poi venuti dal mondo della luna, nessuno avrebbe arrischiato di respingere due capuccini colla magra scusa che non si conoscevano. Essi si scusarono colla santa umiltà dall’entrare in tinello, ove c’era in quella sera piena conversazione; ed edificarono invece la servitù con certe loro santocchierie e certi racconti della Dalmazia e di Turchia ch’erano le consuete parabole dei frati di quelle parti. Indi domandarono licenza d’andare a coricarsi; e Martino li guidò e li introdusse nella stanza della frateria che era divisa dal mio covacciolo con un semplice assito e nella quale io li vidi entrare per una fessura di questo. Il castello poco dopo taceva tutto nella quiete del sonno; ma io vegliava alla mia fessura, perché i due capuccini avevano certe cose addosso da stuzzicar propriamente la curiosità. Appena entrati nella stanza si assicurarono essi con due buone spanne di catenaccio; indi li vidi trarre di sotto alla tonaca arnesi, mi parevano, da manovale, ed anche due solidi coltellacci, e due buone paia di pistole, che non son solite a portarsi da frati. Io non fiatava per lo spavento, ma la curiosità di sapere cosa volessero dire quegli apparecchi mi faceva durare alla vedetta. Allora uno di coloro cominciò con uno scalpello a smovere le pietre del muro dirimpetto che s’addossava alla torre; e un colpo dopo l’altro così alla sordina fu fatto un bel buco.

– La muraglia è profonda – osservò sommessamente quell’altro.

– Tre braccia e un quarto: – soggiunse quello che lavorava – ne avremo il bisogno per due ore e mezzo prima di poterci passare.

– Ma se qualcuno ci scopre in questo frattempo!

– Sì eh?... peggio per lui!... sei mila ducati comprano bene un paio di coltellate.

– Ma se non possiamo poi svignarcela perché si svegli il portinaio?

– E cosa sogni mai?... Gli è un ragazzaccio, il figliuolo di Fulgenzio!... Lo spaventeremo e ci darà le chiavi per farci uscire comodamente, altrimenti...

«Povero Noni!» pensai io al vedere il gesto minaccioso con cui il sicario interruppe il lavoro. Quella bragia coperta di Noni non mi era mai andato a sangue, massime per lo spionaggio ch’egli esercitava malignamente a danno mio e della Pisana; ma in quel momento dimenticai la sua cattiveria, com’anche avrei dimenticato la chiettineria8 invidiosa e maligna di suo fratello Menichetto. La compassione fece tacere ogni altro sentimento; d’altronde la minaccia toccava anche me, se avessero sospettato che li osservava pei fori dell’assito; e avvezzo già alle spedizioni avventurose sperai anche in quella notte di darmi a divedere un personaggio di proposito. Apersi pian pianino l’uscio del mio buco, e penetrai a tentone nella camera di Martino. Non volendo né arrischiando parlare, spalancai le finestre in modo che entrasse un po’ di luce perché la notte era chiarissima: indi mi avvicinai al letto, e presi a destarlo. Egli saltava su di soprassalto gridando chi era, e cosa fosse, ma io gli chiusi la bocca colla mano e gli feci cenno di tacere. Fortuna che egli mi conobbe subito; laonde così a cenni lo persuasi di seguirmi e condottolo fin giù sul pianerottolo della scala gli diedi contezza della cosa. Il povero Martino faceva occhi grandi come lanterne.

– Bisogna destare Marchetto, il signor Conte, e il Cancelliere – diss’egli pieno di sgomento.

– No, basterà Marchetto; – osservai io con molto giudizio – gli altri farebbero confusione.

Infatti si destò il cavallante il quale entrò nel mio disegno che bisognava far le cose alla muta senza baccani e senza molta gente. Il foro dietro cui lavoravano i capuccini dava nell’archivio della cancelleria, che era una cameraccia scura al terzo piano della torre, piena di carte di sorci e di polvere. O meglio era appostar colà due uomini fidati e robusti che abbrancassero uno per uno i due frati mano a mano che passavano e li sbavagliassero9 e li legassero a dovere. E così si fece. I due uomini furono lo stesso Marchetto e suo cognato che stava in castello per ortolano. Essi penetrarono pian piano nell’archivio adoperando la chiave del Conte che restava sempre nelle tasche delle sue brache in anticamera; e stettero lì uno a destra ed uno a sinistra del luogo ove si sentivano sordi sordi i colpi dei due scalpelli. Dopo mezz’ora penetrò nell’archivio un raggio di luce, e i due uomini fermi al loro posto. Per ogni buon conto s’erano armati di mannaie e di pistole, ma speravano di farne senza perché i signori frati lavoravano sicuri e privi di qualunque timore.

– Io passo col braccio – mormorò uno di questi.

– Ancora due colpi e il difficile è fatto – rispose l’altro.

Con poco lavoro s’allargò il buco siffattamente, che vi potea passare con qualche stento una persona; e allora uno dei due frati, quello che sembrava il caporione, allungò la testa indi un braccio indi l’altro e strisciando innanzi colle mani sul pavimento dell’archivio s’ingegnava di tirarsi addietro le gambe. Ma quando meno se lo aspettava sentì una forza amica aiutarlo a ciò, e nel tempo stesso un pugno vigoroso gli afferrò il mento, e sbarrategli le mascelle gli cacciò in bocca un certo arnese che gli impediva quasi di respirare nonché di gridare. Una buona attortigliata ai polsi e una pistola alla gola fornirono l’opera e persuasero colui a non moversi dal muro contro cui lo avevano addossato. Il frate compagno parve un poi inquieto del silenzio che successe al passaggio del suo principale; ma poi si rassicurò credendo che non fiatasse per paura di farsi udire, e fece animo egli pure di sporger la testa dal buco. Costui fu trattato con minor precauzione del primo. Appena impadronitosi della testa, Marchetto la tirò tanto che quasi gliel’avrebbe cavata se lo stesso paziente non avesse smosso colle spalle alcune pietre della muraglia. Imbavagliato e legato anche questo, lo si frugò ben bene unitamente al compagno; si tolsero loro le armi e furono condotti in un luoguccio umido, appartato, e ben riparato dall’aria dov’ebbero posto cadauno in una celletta come due veri frati. Li lasciarono così in preda alle loro meditazioni per destar la famiglia e propalare la gran novella.

Figuratevi qual maraviglia, che batticuore, che consolazione! Era certo che anche quel nuovo tiro veniva dalle parti di Venchieredo. Laonde si decise di serbare piucché fosse possibile il segreto finché si desse notizia dell’accaduto al Vice-capitano di Portogruaro. Fulgenzio fu incaricato di ciò. La missione ebbe effetto così pieno che il castellano aspettava ancora il ritorno dei due frati, quando una compagnia di Schiavoni attorniò il castello di Venchieredo, s’impadronì della persona del signor giurisdicente, e lo trasse legato in tutta regola a Portogruaro. Certamente Fulgenzio avea trovato argomenti molto decisivi per indurre la prudenza del Vice-capitano a una sì forte e subitanea risoluzione. Il prigioniero pallido di bile e di paura si mordeva le labbra per esser caduto da sciocco in una trappola, e con tardiva avvedutezza pensava indarno ai bei feudi che possedeva oltre l’Isonzo. Le carceri di Portogruaro erano molto solide e la fretta della sua cattura troppo significante perché si lusingasse di poterla scappolare. Gli abitanti di Fratta dal canto loro furono alleggeriti d’un gran peso: e tutti si scatenarono allora contro la temerità di quel prepotente; e piccoli e grandi si facevano belli di quel colpo di mano come se il merito fosse appunto loro e non del caso. Un ordine venuto qualche giorno dopo di consegnare i quattro imputati d’invasione a mano armata, nonché i due finti capuccini e le carte del processo di Germano ad un messo del Serenissimo Consiglio di Dieci mise il colmo alla gioia del Conte e del Cancelliere. Essi respirarono di aver nette le mani di quella pece, e fecero cantare un Te Deum per motivi moventi l’animo loro quando dopo due mesi si venne a sapere di sottovento10 che i sei malandrini eran condannati alle galere in vita, e il castellano di Venchieredo a dieci anni di reclusione nella fortezza di Rocca d’Anfo sul Bresciano come reo convinto di alto tradimento e di cospirazione con potentati esteri a danno della Repubblica. Le lettere deposte da Germano erano appunto parte d’una corrispondenza clandestina, tenuta in addietro dal Venchieredo con alcuni feudatari goriziani, nella quale si parlava d’indurre Maria Teresa ad appropriarsi il Friuli veneto assicurandole il favore e la cooperazione della nobiltà terrazzana11. Rimasta in potere di Germano parte di questa corrispondenza per le difficoltà di porto e di recapito spesse volte incontrate, egli si era schivato dal restituirla accusando di aver distrutto quelle carte o per paura di chi lo inseguiva o per altra urgente cagione. Così pensava egli apparecchiarsi una buona difesa contro il padrone nel caso che questi, come usava, avesse cercato sbarazzarsi di lui; e il destino volle che quanto egli aveva preparato per difendersi valesse invece ad offendere un uomo prepotente ed iniquo. Dopo il processo criminale del Venchieredo s’agitò in foro civile la causa di fellonia. Ma fosse accorgimento del Governo di non toccar troppo sul vivo la nobiltà friulana, o valentia degli avvocati, o bontà dei giudici, fu deciso che la giurisdizione del castello di Venchieredo continuerebbe ad esercitarsi in nome del figliuolo minorenne del condannato, il quale era alunno nel collegio dei padri Scolopi a Venezia. In una parola la sentenza di fellonia pronunciata contro il padre si giudicò non dovesse recar effetto a pregiudizio del figlio. Allora fu che, tolto di mezzo Gaetano e ogni altro impiccio, Leopardo Provedoni ottenne finalmente in isposa la Doretta. Il signor Antonio se ne dovette accontentare; come anche di vedere lo Spaccafumo in onta ai bandi e alle sentenze assistere e far grande onore al pranzo di nozze. Gli sposi furono stimati i più belli che si fossero mai veduti nel territorio da cinquant’anni in poi; e i mortaretti che si spararono in loro onore nessuno si prese la briga di contarli. La Doretta entrò trionfalmente in casa Provedoni: e i vagheggini di Cordovado ebbero una bellezza di più da occhieggiare durante la messa delle domeniche. Se la forza erculea e la severità del marito sgomentiva i loro omaggi, li incoraggiava invece continuamente la civetteria della moglie. E tutti sanno che in tali faccende son più ascoltate le lusinghe che le paure. Il cancelliere di Venchieredo, rimasto padrone quasi assoluto in castello durante la minorennità del giovane giurisdicente, rifletteva parte del suo splendore sopra la figlia: e certo nei giorni di sagra ella preferiva il braccio del padre a quello del marito, massime quando andava a pompeggiare nelle festive radunanze intorno alla fontana.

Anche la mia sorte in quel frattempo s’era cambiata di molto. Non era ancora in istato di pigliar moglie, ma aveva dodici anni sonati, e la scoperta dei finti capuccini mi avea cresciuto assai nell’opinione della gente. La Contessa non mi aspreggiava più, e qualche volta sembrava vicina a ricordarsi della nostra parentela benché si ravvedesse tosto tosto da quegli slanci di tenerezza. Però non si oppose al marito quando egli si mise in capo di avviarmi alla professione curiale, aggiungendomi intanto come scrivano al signor Cancelliere. Finalmente ebbi la mia posata alla tavola comune, proprio vicino alla Pisana, perché le strettezze della famiglia, che continuavano con una pessima amministrazione, aveano fatto smettere l’idea del convento anche riguardo alla piccina. Io seguitava a taroccare12 a giocare e a martoriarmi con lei; ma già la mia importanza mi compensava degli smacchi che ancor mi toccava sopportare. Quando poteva passarle dinanzi recitando la mia lezione di latino, che doveva ripetere al Piovano la dimane, mi sembrava di esserle in qualche cosa superiore. Povero latinista! come la sapeva corta!...