CAPITOLO SETTIMO
Contiene il panegirico del padre Pendola e del suo alunno. Due matrimonii andati in fumo senza un perché. La contessa Clara e sua madre si trapiantano a Venezia, dove le segue il dottor Lucilio, e diventa assai famigliare della Legazione francese. Perché io mi stancassi della Pisana, e mi mettessi a vagheggiare tutto il bel sesso dei dintorni; perché finissi col vagheggiare la Giurisprudenza all’Università di Padova, dove rimasi fino all’agosto del 1792 odorando da lontano la Rivoluzione di Francia.
Le lusinghe della signora Contessa pel collocamento della Clara parve sulle prime che non dovessero andar deluse. Tutti, si può dire, i giovani di Portogruaro e dei dintorni le morivano cogli occhi addosso; non l’avrebbe avuto che a scegliere per esser subito impalmata da quello fra essi che meglio le fosse piaciuto. Primo di tutti il Partistagno la riguardava come cosa sua; anzi quando osservava che altri la contemplasse con troppa devozione, permetteva alla propria fisonomia certi atti di malcontento, che dichiaravano apertamente le intenzioni dell’animo. Nella sua entrata in casa Frumier erasi egli imprudentemente accostato al crocchio del padrone di casa; ma poi avea dovuto sloggiare, perché non era tanto gonzo da non vedere la meschina figura che vi faceva. Allora avea preso posto fra due vecchie ed un monsignore ad un tavolino di tresette, e di là seguitava la antica usanza di onorare continuamente la Clara delle sue occhiate conquistatrici. Quest’abitudine non talentava gran fatto a’ suoi compagni di gioco; laonde a quel tavoliere era un eterno brontolio di richiami e di rimproveri. Ma il il bel cavaliero restava imperturbabile; pagava le partite perdute, le faceva pagare al compagno, e non si scomponeva per nulla. Fortuna che era giovine e bello: per cui le vecchiette gli perdonavano le sue distrazioni, e il monsignore, essendo padre spirituale di una fra queste, doveva di necessità perdonargli anche lui. Il marchesino Fessi, il conte Dall’Elsa e qualche altro aristocratico zerbino della città corteggiavano essi pure la Clara. Ma l’assedio galante di questi signori era meno discreto; le occhiate erano il meno; si sbracciavano in inchini, in complimenti, in lodi, in profferte. Facevano gli scherzosi col braccio arritondato sul fianco e la gamba protesa; quando poi indossavano il vestito gallonato delle domeniche, il loro brio non aveva più freno. Giravano fra le seggiole delle signore, si curvavano su questa e su quella, consigliavano ora un giocatore ed ora un altro; ma ponevano somma cura di non restar invischiati in nessuna partita. I giovani abati e il professor Desalli in particolare, sedevano assai volentieri qualche quarto d’ora vicino alla Clara; il loro abito li proteggeva dalle maligne calunnie, e il contegno della zitella era tale che molto si affaceva colla gravità sacerdotale. Insomma la bionda castellana di Fratta avea messo in subbuglio tutte le teste della conversazione; ed ella ebbe la strana modestia di non accorgersene. Giulio Del Ponte, che non era il meno infervorato, si maravigliava e si stizziva di tanto riserbo; egli andava anzi più oltre, e benché non ne paresse nulla, avea concepito qualche sospetto sopra Lucilio. Infatti soltanto un cuore già occupato da un grande affetto poteva resistere freddamente a tutta quella giostra d’amore che torneava per lui. E chi mai poteva aver fatto breccia colà, se non il dottorino di Fossalta? – Così la pensava il signor Giulio; e, dal pensare al bisbigliarne qualche cosa, il tratto fu più breve d un passo di formica. Cominciavano a pigliar fiato cotali mormorazioni, quando il padre Pendola presentò il giovine Venchieredo in casa Frumier. Il Conte di Fratta ne rimase un po’ imbarazzato; perché non si dimenticava che se non per opera, certo per tolleranza sua, il padre di quel cavalierino mangiava il pane bigio nella Rocca della Chiusa. Ma la Contessa, che era donna di talento, trascorse un bel tratto innanzi coll’immaginazione, e architettò di sbalzo un disegno che poteva togliere fra le due case ogni ruggine. Il Partistagno, nel quale aveva posto grandi speranze dapprincipio, non dava sentore di volersi movere; adunque qual male sarebbe stato di tirare il Venchieredo ad un buon matrimonio; colla Clara?... Riuniti così gli interessi delle due famiglie, si avrebbe avuto il diritto di adoperarsi per la liberazione del condannato; allora la riconoscenza e la felicità avrebbero dato di frego alle brutte memorie del tempo trascorso; e che si potesse giungere a sì lieta conclusione ne dava caparra la protezione validissima del senatore Frumier. Il padre Pendola era un sacerdote di coscienza e un uomo di molto garbo; capacitatolo una volta della convenienza di questo maritaggio, egli ne avrebbe persuaso certamente il suo alunno; dunque bisognava cominciare per di là, e l’accorta dama si pose immantinente all’opera. Il Reverendo Padre non era di coloro che vedono una spanna oltre al naso, e vogliono dar ad intendere di vederci lontano un miglio; anzi tutt’altro; vedeva lontanissimo e portava gli occhiali con una cera rassegnatissima di minchioneria. Ma io credo che non gli bisognarono due alzate d’occhi per leggere nel cervello della Contessa; e contento d’essere accarezzato corrispose alle premure di lei con una modestia veramente edificante.
– Poveretto! pensava la signora – crede che lo vezzeggi pel suo raro merito! È meglio lasciarglielo credere; ché ci servirà con miglior volontà.
Il giovine Venchieredo intanto correva incontro di gran lena agli onesti divisamenti della Contessa. Si può dire che di colpo egli restò innamorato della Clara. Innamorato proprio come un asino, o come un giovinetto appena uscito di collegio. Cercava tutte le maniere di piacerle, si studiava di sederle più vicino che potesse per toccar se non altro col ginocchio le pieghe del suo abito, la guardava sempre, e delle sue poche e timorose parole non facea dono che a lei sola. La provvida mamma era al colmo della consolazione; precettore e scolaro calavano innocentemente alle vischiate che con tanta accortezza ella avea saputo disporre. Ma il padre Pendola non si sgomentiva di quelle scalmane amorose del giovine; egli conosceva il suo alunno meglio della Contessa, e lasciava correr l’acqua alla china finché gli tornava comodo. A dirla schietta il signor Raimondo (così chiamavasi il figlio del castellano di Venchieredo) più assai della Clara amava all’ingrosso il sesso gentile. Appena messo piede nel territorio della sua giurisdizione egli avea dato indizio di questa parte principalissima del suo temperamento con una caccia furibonda a tutte le bellezze dei dintorni. I padri, i fratelli, i mariti aveano tremato di questi preludii guerrieri; e le nonne barbogie ricordarono palpitando sotto la cappa del camino i tempi del suo signor padre. Il focoso puledro non rispettava né fossi né siepi, varcava quelli d’un salto, sforacchiava queste senza misericordia, e senza badare né a tirate di redini né a minaccie di voci, menava calci a dritta ed a sinistra per penetrare nel pascolo che più gli piaceva. La sua autorità peraltro non era ancora tanto formidabile da impedire che a qualcheduno non saltasse la mosca al naso per tali soperchierie. Qualche padre, qualche fratello, qualche marito cominciò a menar rumore, a minacciar rappresaglie, vendette, ricorsi. Ma allora capitava col suo collo torto, colla sua faccia compunta il Reverendo Padre: – Cosa volete!... Sono castighi della Provvidenza, sono cose spiacevoli ma che bisogna sopportarle come ogni altro male, per la maggior gloria di Dio!... Anche a me, vedete, anche a me sanguina il cuore di vedere queste mariuolerie!... Ma mi confido al Signore, ne piango dinanzi a lui, mi consolo con lui. Se egli vorrà, spero che non siano nulla più che ragazzate; ma bisogna meritarselo colla pazienza il bene che egli vorrà concederci!... Unitevi con me, figliuoli miei! Piangiamo e soffriamo insieme, ché ne avremo anche insieme la ricompensa in un mondo migliore di questo.
E i dabbenuomini piangevano con quella perla d’uomo, e soffrivano con lui; egli era l’angelo custode delle loro famiglie, il salvatore delle loro anime. Guai se egli non ci fosse stato! Chi sa quanti scandali, quanti processi avrebbero turbato il paese. Fors’anche si sarebbe sparso del sangue, perché proprio lo sdegno toccava l’ultimo segno. Ma il buon padre li consolava, li calmava, e tornavano agnellini a lasciarsi pelare e peggio, con rassegnazione. Egli poi, dopo averli ridotti a dovere, pigliava a quattr’occhi il giovine scapestrato e gli impartiva una gran satolla di ottimi consigli. – No, non era quello il modo di guadagnarsi l’affetto della gente, e di serbare il decoro e le dovizie della casa! Anche fra i suoi vecchi ce n’erano stati di giovani, di peccatori; ma almeno si comportavano con prudenza, non menavano in pompa le loro colpe, non si esponevano stoltamente all’ira degli altri, evitavano il cattivo esempio, e non aizzavano il prossimo a quel peccataccio turco e scomunicato che è la vendetta! Oh benedetta la prudenza degli avi! – Il giovinastro, com’era ben naturale, pigliò di questi consigli la parte che gli quadrava meglio; si diede a pensar le cose prima di farle, e a nasconderle bene dopo averle fatte. La gente non gridò più tanto; le spose e le ragazze del paese beccarono qualche spillone, qualche grembiule di seta; il padre Pendola era benedetto da tutti, e il nuovo castellano dovette forse a lui, se non la salute dell’anima, certo quella del corpo. Infatti la fama che lo avea dipinto sulle prime come il vero flagello della castità si tacque improvvisamente; Raimondo ebbe voce di giovine discreto e gentile; gli piaceva si scherzare, ma non fuori dei limiti; e non si schivava dall’usar cortesia a qualunque genere di persone. Per esempio egli adorava tutti i mariti che avevano mogli giovani e leggiadre; fossero benestanti o mandriani non fu mai caso che egli usasse loro il benché minimo malgarbo. Ascoltava pazientemente le loro filastrocche, li raccomandava al Cancelliere, al fattore; e portava loro fino a casa la risposta d’un’istanza esaudita, o d’un conto saldato. Se anche poi il galantuomo si trovava per avventura assente, egli pazientava aspettandolo, la moglie poi lodava assaissimo al marito dell’urbanità e della modestia del padrone. In verità il solo padre Pendola sapeva fare di tali conversioni; e in tutta la popolazione e nel clero dei dintorni fu una voce generale a proclamarlo una specie di taumaturgo.
La Doretta Provedoni era stata fra le prime ad attirare i pronti omaggi di Raimondo; ma a Leopardo non andavano a’ versi le smancerie del cavaliere, e con grandi strepiti della moglie avea trovato modo di cavarselo dai piedi. A udir la donna, il signorino usava de’ suoi diritti; erano fratelli di latte, avean giocato insieme da bambini, e non era strano ch’egli le serbasse ancora qualche affettuosa ricordanza. Il vecchio, i fratelli, le cognate paurosi d’inimicarsi il giurisdicente tenevano per lei, e censuravano Leopardo come un orso geloso ed intrattabile. Ma finché Raimondo continuò nella sua vita scapestrata egli aveva ragioni bastevoli da opporre alle loro; e la Doretta rimase col suo grugno senza poterla spuntare. Venne poi il momento della conversione: si cominciò a parlare del miracolo operato dal padre Pendola e del meraviglioso ravvedimento del giovine signore. Allora tutti furono addosso con grandi rimproveri a Leopardo; la Doretta non vociava, non strepitava, ma si fingeva offesa dai sospetti ingiuriosi del marito. Questi sincero, e credenzone e avvezzo ad arrendersi a lei in ogni altra cosa pel cieco affetto che le portava, confessò di essere stato ingiusto; e pur di non vederla patire, consentì che l’andasse a trovar suo padre a Venchieredo, com’era stata sua usanza prima che Raimondo fosse uscito di collegio. Il giovine castellano accolse con molta umanità la sua sorella di latte; si stupì di non averla mai trovata in casa le molte volte che era stato a Cordovado per salutarla; e andò anche in collera perché non gli avesse ancora fatto conoscere suo marito. Leopardo fu persuaso alla fine che le apparenze lo avevano ingannato sulle mire di Raimondo; innamorato della moglie com’era, se ne lasciò dir tante, che finì col domandarle scusa; e poi s’affrettò a far visita con lei al castellano, e tornò a casa edificato di tanta affabilità, di tanto riserbo, benedicendo anche lui il padre Pendola, e permettendo alla moglie d’andare a stare a Venchieredo quanto più le piacesse. Così s’era venuto perfezionando Raimondo nelle sue arti di feudatario; e di pari passo anche la sua idolatria per la Clara aveva imparato modi più discreti ed accorti. La Contessa temendo ch’egli si raffreddasse credette giunto il momento di tastare il padre Pendola. Lo invitò parecchie volte a pranzo, lo volle seco alla partita della sera; dimenticò monsignore di Sant’Andrea per andarsi a confessare da lui; e infine quando credette il terreno apparecchiato a dovere, pose mano a seminare.
– Padre, – gli disse ella una sera in casa Frumier dopo aver abbandonato il gioco per non so qual pretesto, ed essersi ritirata con lui su un cantone della sala – padre, ella è ben fortunato di aver un allievo che le fa onore!
La Contessa volse un’occhiata quasi materna a Raimondo che ritto dinanzi a Clara aspettava ch’ella avesse finito di prendere il caffè per ricevere la tazzina. Il reverendo padre posò sul giovane una simile occhiata, raggiante in pari proporzioni di affetto e di umiltà.
– La ha ragione, signora Contessa, – rispose egli – son proprio fortune; poiché del resto il precettore ha ben poca parte nei meriti dell’allievo. Terra buona dà buon frumento solo a volerlo raccogliere; e terra magra non dà nulla, quantunque si voglia inaffiarla con secchie di sudore.
– Oibò, padre: non dirò mai questo! – ripigliò la Contessa – la invidiava giusto appunto perché ella si è trovato in grado di meritare e di procurarsi una tale fortuna. Secondo me la buona educazione d’un giovine collocato in così buon punto per far del bene, è il merito più grande che si possa vantare verso la società!
– Quello d’una nobildonna che educa e forma delle ottime madri di famiglia non è certo minore – rispose il reverendo.
– Oh, padre! noi ci mettiamo poco studio. Se il Signore ce le dà belle e buone, la grazia è sua. Del resto una saggia economia, un buon ordine di casa, una buona dose di timor di Dio, e la dote della modestia sono tutti i pregi delle nostre figliuole.
– E lei ci dice niente, lei?... Economia, buon ordine, timor di Dio, modestia!... Ma c’è tutto qui c’è tutto!... Sarei anche per dire che ce n’è d’avanzo; perché già il buon ordine insegna gli sparagni, e il timor di Dio conduce all’umiltà. Mi creda, signora Contessa, fossero donne cosifatte sui più gran troni della terra ancora ci farebbero una degna figura!
Il cuore della Contessa si slargò come una rosa a una lavata di pioggia. Corse collo sguardo dal buon padre Pendola alla Clara, dalla Clara a Raimondo, e da questo ancora all’ottimo padre. Questa giratina d’occhi fu come il tema della sinfonia che si apprestava a suonare.
– Mi ascolti, padre reverendo, – continuò, tirandosegli ben vicina all’orecchio benché monsignore di Sant’Andrea la fulminasse con due occhi di basilisco dal suo tavolino di picchetto. – Non è vero che al primo comparire del signor Raimondo, da queste parti si mormoravano contro di lui... certe cose... certe cose...
La Contessa balbettava, quasi sperando che l’ottimo padre le porgesse quella parola che le mancava; ma questi stava, come si dice, in guardia, e rispose a quel balbettamento con un’attitudine di maraviglia.
– La mi capisce; – continuò là Contessa – io non accuso già nessuno, ma ripeto quello che diceva la gente. Pareva che il signor Raimondo non dimostrasse inclinazioni molto esemplari... Già ella sa che a questo mondo i giudizii si precipitano; e che sovente le sole apparenze...
– Pur troppo, pur troppo, cara Contessa; – la interruppe con un sospirone il reverendo – crederebbe ella che né io né lei siamo al sicuro contro questo orco maledetto della calunnia?
La signora si pizzicò le labbra coi denti, e palpò se i nastrini della cuffia erano al loro posto. Avrebbe anche voluto diventar rossa; ma per ottener questo effetto convenne che la si decidesse a tossire.
– Cosa dice mai, padre reverendo? – continuò ella sommessamente – la mi creda che da centomila bocche una voce sola s’accorda a celebrare la sua santità... Quanto a me poi son troppo piccola e brutta cosa perché...
– Eh, Contessa, Contessa!... ella vuoi burlarsi di me. Una gran dama nei tempi che corrono compera agli occhi del mondo un intero seminario di preti, ed esse sole hanno il privilegio di far parlare o in bene o in male le intere città. Quanto a noi, è troppo se degnano renderci il saluto.
La Contessa, troppo boriosa per lasciar cadere un complimento senza raccoglierlo, e poco accorta per tagliar di botto tutte queste frasche inutili del discorso, andò via colla lingua dove la menava il reverendo padre, sempre allontanandosi dalla meta che s’era prefissa nel cominciare. Ma il buon padre non era un allocco; prima d’ingarbugliarsi in certi fastidii volea capire qual pro’ ne avrebbe cavato, e chi era quella gente con cui doveva accomunarsi. Per quel giorno non giudicò opportuno toccar l’argomento, e barcamenò così bene che quando si alzarono dal gioco per andarsene, la Contessa narrava, credo, le sue delizie giovanili, e i bei tempi di Venezia, e Dio sa quali altri vecchiumi. Accorgendosi che era venuto il momento di partire, si morsicò un poco le unghie; ma quell’ora le era scappata via così premurosa, il buon padre l’aveva trattenuta con sì interessanti discorsi, che proprio il discorso principale le era rimasto a mezza gola. Quanto al sospettare che l’ottimo padre l’avesse condotta, come si dice, in cerca di viole, la Contessa ne era lontana le cento miglia. Piuttosto si stizzì colla propria loquacia, e fece proponimento di esser più sobria un’altra volta, e di scordare il passato per curare il presente. Ma la seconda volta fu come la prima; e la terza come la seconda; e non era a dirsi che il padre la schivasse o che dimostrasse di conversar con lei a malincuore. No, ché anzi la cercava, la visitava sovente, e non era mai il primo ad accomiatarsi, se il pranzo imbandito o l’ora tarda non lo costringevano a ritirarsi. Soltanto o l’occasione non si presentava mai di intavolar quel discorso, o il caso voleva che la Contessa se ne smemorasse, quando avrebbe potuto accoccarlo meglio a proposito. Bensì il padre Pendola non rimaneva ozioso nel frattempo; studiava il paese, la gente, le magistrature, il clero; si addentrava nelle grazie di quel Signore o di quella dama; si piegava ai varii gusti delle persone per esser gradito ovunque e da tutti; sopratutto poi cercava ogni via di entrar in favore a Sua Eccellenza Frumier. Ma in questa faccenda la andava da marinaio a galeotto; e il padre lo sapeva, e preferiva andar sicuro per le lunghe al precipitarsi sul primo passo. Dopo un paio di settimane egli diventò un essere necessario nel crocchio del Senatore. In fino allora vi avea regnato una vera anarchia di opinioni; egli intervenne ad accordare, a regolare, a conchiudere. Gli è vero che le conclusioni zoppicavano, e che sovente un epigramma di Lucilio le aveva fatte capitombolare con grandi risate della compagnia. Ma il pazientissimo padre tornava a rialzarle, ad assodarle con nuovi puntelli; infine stancheggiava tanto gli amici e gli avversari che finivano col dargli ragione. Il Senatore ci pigliava gusto in queste esercitazioni dialettiche. Egli era di sua natura metodico; e avvezzo per lunga pratica alle tornate accademiche, gli piacevano quelle dispute che dopo aver divertito qualche mezz’ora creavano se non altro un qualche fantasma di verità. Il padre Pendola riesciva a quello che egli non avea mai potuto ottenere da quei cervelli briosi e balzani che gli faceano corona. Perciò gli concesse una grande stima di logico perfetto; il che nella sua opinione era il più grand’onore che potesse concedere a chichessia. Non indagava poi se il padre Pendola fosse logico con se stesso, o se la sua logica cambiasse gambe ogni tre passi per andar innanzi. Gli bastava di vederlo arrivare; non importava se colle gruccie di Lucilio, o con quelle del professor Dessalli. Sia detto una volta per sempre che quell’ottimo padre aveva un occhio tutto suo per discerner l’animo delle persone; e perciò in un paio di sere non solamente aveva capito che l’affetto del nobiluomo Frumier voleva esser conquistato a suon di chiacchere, ma aveva anche indovinato la qualità delle chiacchere bisognevoli a ciò. Lucilio, che in fatto d’occhi non istava meno bene del reverendo, s’accorse tantosto che gatta ci covava; ma aveva un bel che fare di schiudersi un finestrello nell’animo di lui. La tonaca nera era d’un tessuto così fitto, così fitto, che gli sguardi ci si spuntavano contro; e il giovinotto si vedeva costretto a lavorare coll’immaginazione.
Finalmente venne il giorno che il padre Pendola lasciò spiegare alla Contessa quel suo disegno così a lungo accarezzato. Egli avea saputo quanto gli occorreva sapere; avea preparato ciò che bisognava preparare; non temeva più, anzi bramava che la Contessa ricorresse a lui per poterle con bel garbo rispondere: «Signora mia, questo io prometto a lei, se ella promette quest’altro a me!». Ora, domanderete voi, cosa desiderava l’ottimo padre? – Una minuzia, figliuoli, una vera minuzia! Siccome maritando il signor Raimondo colla contessina Clara, il precettore diventava una bocca inutile nel castello di Venchieredo, così egli aspirava al posto di maestro di casa presso il Senatore. La dama Frumier aveva fama di divota; egli l’aveva toccata sopra questo tasto e il tasto aveva corrisposto bene: restava alla cognata il compir l’opera, se pure voleva veder accasata la figlia in modo tanto onorevole. Il povero padre era stanco, era vecchio, era amante dello studio; quello era un posto di riposo che gli sarebbe sembrato la vera anticamera del Paradiso; il prete che lo occupava allora desiderava una cura d’anime; potevano accontentarlo e insieme accontentar lui che non si sentiva più né lena né sapienza bastevoli per lavorare operosamente nella vigna del Signore. S’intenda sempre che l’ottimo padre insinuò queste cose in maniera da sembrare che la Contessa gliele strappasse dalle labbra, e non che egli ne la pregasse lei.
– Oh, santi del Paradiso! – sclamò la signora – qual consolazione per mio cognato! che aiuto di spirito per la cognata! che, padre reverendo! lei vorrebbe proprio adattarsi alla vita meschina d’un maestro di casa?
– Sì, quando il mio alunno si maritasse – rispose il padre Pendola.
– Oh, si mariterà, si mariterà! non li vede? paiono proprio fatti l’uno per l’altra.
– Infatti se io dicessi una parola... Raimondo... Basta! mi lasci studiare i loro temperamenti, che li osservi un pochino anch’io...
– Eh, cosa serve mai studiarli questi cuori di vent’anni? Non li vede no!? basta una squadrata negli occhi... i loro pensieri, i loro affetti sono là. E poi si fidi di me!... Sono tre mesi, sa, ch’io li studio tutte le sere. Si figurerebbe lei, padre reverendo, che da sei settimane io meditava di farle questo discorso e che me ne è sempre mancato il coraggio?
– Davvero, signora Contessa?... Oh cosa la mi conta!... Mancare il coraggio a lei di chiamarmi a parte di un’opera di tanta carità e di tanto utile e di tanto lustro per due intere famiglie!
– Non è vero, padre, che la pensata è buona?... E non sarà un bel regalo di nozze se si otterrà dall’Inquisitore di veder graziato del resto della pena quell’altro poveretto?... Così finirà una lunga serie di dissidii, di malanni, di sciagure che affliggeva tutte le anime buone dei nostri paesi!
– Oh sì, certo! e io mi ritirerò contento, se potrò affidare la felicità del mio figliuolo d’anima a una sì compita sposina; ma son cose, Contessa mia, che vanno ponderate a lungo. Appunto perché io posso molto sull’animo di Raimondo...
– Sì, giusto per questo la prego di volergli chiarire tutti i vantaggi che verrebbero ad ambedue le case da questo sposalizio...
– Voleva dire, signora Contessa, che appunto per la responsabilità che mi pesa addosso mi bisognerà camminare coi calzari di piombo.
– Eh via! a lei, padre, basta un’occhiata per veder tutto!... Oh quanto mi tarda di veder stabilito questo ottimo patto di alleanza!... E mio cognato come sarà contento di poter avere in casa un uomo del suo calibro!... Domani subito penseranno a provvedere d’una prebenda il capellano attuale. Giacché lo desidera, nulla di meglio!
– Pure, signora Contessa...
– No, padre, non faccia obbiezioni... la mi prometta di far questa grazia a mio cognato! giacché gli è scappata una parola, non la ritiri...
– Io non dico di ritirarla, ma...
– Ma, ma, ma... non ci sono ma!... Guardi guardi un po’ ora il signor Raimondo e la mia Clara! Come si guardano!... Non sembrano proprio due colombini...
– Se il Signore vorrà, non vi sarà mai stata una coppia più perfetta.
– Ma i disegni del Signore bisogna aiutarli, padre, – e a lei tocca prima degli altri che è un suo degnissimo ministro...
– Indegno, indegnissimo, signora Contessa!
– Insomma io li aspetto domani a pranzo... me ne dirà qualche cosa del suo Raimondo.
– Accetto le sue grazie, signora Contessa; ma non so... così a precipizio... Insomma non prometto nulla... Basta, mi costerà assai dividermi da quel buon figliuolo.
– Le assicuro che i miei cognati la compenseranno ad usura di quanto ella sarà per perdere.
– Oh sì, lo credo, lo spero; ma...
– Insomma, padre, a domani. – Parleremo, ci concerteremo; io ne butterò un cenno stasera al Senatore, giacché appunto restiamo con lui a cena.
– Oh, per carità, signora Contessa, non mi esponga, non mi comprometta troppo. È proprio per me un sacrificio che...
– Oh bella! vorrebbe dunque per egoismo lasciar senza sposa quel caro figliuolo! Che precettore cattivo! – A domani, a domani, padre; e venga per tempo che discorreremo mentre bolliranno i risi1.
– Servo umilissimo della signora Contessa; non mancherò certamente, e Dio meni a buon fine le nostre intenzioni.
Il buon padre infatti, uscito che fu di casa Frumier con Raimondo e sprofondato nei comodi sedili d’un bombé, cominciò subito a lodarlo della vita ch’egli menava e del buon uso fatto de’ suoi consigli. Ma i proponimenti dell’uomo sono fallaci, le sue passioni prepotenti, e non mai abbastanza commendevole la cura di frenarle, di regolarle con vincoli sacri e legittimi. Egli toccava il ventunesimo anno; il momento non poteva esser migliore, ed egli se gli profferiva, l’ottimo padre, a soccorrerlo nella scelta colla sua lunga ed oculata esperienza.
– Oh; padre; dice da senno? – sclamò Raimondo. – Lei mi esorta a maritarmi?... Ma un anno fa non mi inculcava sempre la massima, che bisognava esser maturi di anni e di senno per decidersi a piantare una famiglia? e che l’aiuto d’un precettore di mente e di cuore comprava benissimo il soccorso spesso lieve e manchevole d’una donnicciuola?
– Sì, figliuolo mio; – rispose candidamente il precettore – questi consigli io vi dava nell’ultimo anno che fui vostro maestro nel collegio; e credeva fossero ottimi; ma allora non vi aveva ancora osservato nella libertà del mondo. Ora che vi conosco meglio nella pratica della vita, non mi vergogno dal ricredermi, e dal confessare che m’era ingannato. Lo vedete bene, parlo a mio danno. Quando la sposa entrerà in questo castello per una porta, io necessariamente dovrò uscire dall’altra...
– Oh no, padre! non dica questo! non mi tolga il soccorso dell’opera sua e del suo consiglio!... Mi creda che io non dimenticherò mai quanto le devo!... Anche due mesi fa quei passatori2 di Morsano mi avrebbero accoppato, se ella non li riduceva a più discreti sentimenti facendo loro accettare una piccola riparazione in denaro! E dire che io non aveva tocco un dito a quella loro sorella... Glielo giuro, padre!
– Sì, figliuolo, vi credo pienamente; ma non dovete offendere la mia modestia col ricordare questi debolissimi meriti; vi prego a dimenticarli, o almeno a non parlarne più. Quello che è stato è stato!... Come vi dico, io mi ricredo da quello che pensava utile a voi un anno fa; ora mi piacerebbe vedervi accasato stabilmente, ed onorevolmente. Lasciandovi al fianco una sposina buona, paziente, divota, io mi ritirerei più contento nella nicchia della mia vecchiaia...
– Ma padre! non mi dicevate voi sempre che anche maritandomi io, voi sareste rimasto il paciere, il consolatore, il vincolo spirituale fra me e mia moglie! che per oro al mondo non avreste consentito di separarvi da me?...
Il padre Pendola infatti avea parlato molte volte su questo tenore finché non avea sperato di giungere a un miglior posto. Allora che gli veniva fatto d’intravvedere di meglio pescando nei torbidi ecclesiastici di Portogruaro, diede a quelle sue parole una più larga interpretazione.
– Dissi così, e non nego ora quello che dissi tante volte – soggiunse egli. – Il mio spirito rimarrà sempre fra voi, perché la parte sua migliore si è transfusa nell’anima vostra col santo canale dell’educazione; e quanto alla sposa, siccome io avrei cura di sceglierla conforme alle massime della buona morale, essa corrisponderà perfettamente alle mire ch’io ho nel confidarvela. Questo, Raimondo, questo è quel vincolo spirituale che dipende dalla più intima parte del mio cuore e che rimarrà sempre fra voi e vostra moglie!...
Raimondo a questi schiarimenti del precettore non si mostrò forse così malcontento come ne sarebbe rimasto tre mesi prima. Ma in quel momento giungevano al castello, e il colloquio restò sospeso fin dopo cena. Allora lo ripresero di comune accordo, perché al giovine tardava l’ora di conoscere il nome della sposa che nel cervello del padre Pendola gli veniva destinata.
– Raimondo, quel nome voi lo sapete! – disse con voce di dolce rimprovero il soavissimo padre – io ve lo leggo negli occhi, e voi avete peccato di poca confidenza nel vostro unico amico a non partecipargli il voto del vostro cuore.
– Che! sarebbe vero? Ella, padre, lo ha indovinato così presto?
– Sì, figliuol mio – tutto s’indovina quando si ama. E vi confesso che se la vostra ritenutezza mi afflisse, mi consolò assaissimo la buona scelta che vi venne fatta e che non mancherà d’infiorare la vostra vita di gioie imperiture...
– Oh, padre! non è vero che è bella come un angelo?... Ha osservato, padre, che occhi, e quali spalle!... Oh Dio mio, io non ho veduto mai spalle così tornite!
– Questi son pregi fugaci, figliuol mio – sono ornamenti esteriori del vaso che poco contano se non vi si contiene un aroma odoroso ed incorrotto. Io peraltro vi posso assicurare che l’animo della Contessina corrisponde appunto a quanto promettono le sue sembianze. Ella sarà veramente un angelo, come dicevate poco fa...
– Ma me la daranno poi, padre dilettissimo?... Consentiranno a darmela in isposa? Io ho tutta la fretta immaginabile!... Vorrei averla meco domani, oggi stesso se fosse possibile; e la è ancora così tenerella, quasi ancora fanciulla...
– Vi sbagliate, figliuol mio, la modestia e il candore ve la fanno sembrare più giovine ch’ella non sia; per l’età ella vi si attaglia benissimo, e di poco vi deve esser minore.
– Come? cosa mi conta? la contessina Pisana avrebbe all’incirca mia età?
– Raimondo, voi scambiate i nomi; la contessina ha nome Clara e non Pisana; Pisana è la sua sorellina, quella fanciulletta che stasera stava seduta fra voi e monsignore di Sant’Andrea.
– Ma gli è appunto di quella che io intendo parlare, padre!... Non si è accorto con quali occhi la mi guardava!.. Da ieri sera io ne sono innamorato morto... Oh io non potrò vivere se non mi farò amare da lei!...
– Raimondo, figliuol mio, siete pazzo, non avete occhi, non ponete mente a quanto mi dite!... Quella è una fanciulletta di una decina d’anni al più!... Non può essere che vi siate invaghito di lei; è certo il cuore che v’inganna e ve la rende così diletta come sorella della contessina Clara...
– Ma no; padre, l’assicuro.
– Ma sì, figliuol mio; lasciatevi guidare da chi ne sa più di voi; lasciate ch’io metta un po’ di chiaro in un cuore che conosco meglio di voi; e ne ho il diritto dopo tanti anni che lo studio, che lo indirizzo al suo meglio. Voi amate la contessina Clara; me ne sono avveduto alle cortesi premure che le dimostravate.
– Sì, padre, fino alla settimana passata, ma ora...
– Ora, ora poi siccome la Contessina è troppo pudica e ben educata per corrispondervi apertamente e senza il consenso dei suoi genitori, voi avete creduto che non la si commovesse punto alle vostre dimostrazioni, e avete cercato per giungere a lei di addomesticarvi colla sorella. Questa piccina vi ha accolto colle feste, coll’ingenuità propria dell’età sua, e la riconoscenza che le professate di queste buone maniere voi la affigurate per amore! Ma pensateci, figliuol mio, sarebbe una ridicolaggine, una vergogna!
– Non importa, padre! Si vede che non l’avete mai osservata come ho fatto io con molta accortezza nelle due ultime sere.
– Anzi l’ho osservata benissimo, e se aveste qualche intenzione sopra di lei, Raimondo caro, bisognerebbe che vi rassegnaste a sette od otto anni di aspettativa, senzaché ella intanto potrebbe cambiar parere. E poi tutti riderebbero di vedervi innamorato d’una bambina! E poi sapete che è una vera fanciullaggine adorare un frutto acerbo mentre ne potreste cogliere uno già maturo e saporito!
– Non so che farne, padre, non so che farne!
– Ma pensate, figliuol mio, riflettete bene. Voglio adoperare i vostri stessi argomenti. Vorreste sperare che la Pisana possa superare la contessina Clara nella bellezza dei sembianti, nel candor della pelle, nella perfezione delle forme? Riducetevela bene alla memoria, Raimondo!... Vi sentireste in grado di resisterle?
– Non so, padre, non so; ma ella certamente non ha voluto saperne di me.
– Fandonie, credetelo, apparenze, e nulla più. Puro effetto di pudicizia e di modestia.
– Bene, sarà anche, ma questi temperamenti agghiacciati non mi talentano.
– Agghiacciati, figliuol mio? – Si vede che non avete esperienza! Ma è appunto sotto queste maniere composte e riserbate che si nascondono gli ardori più intensi, le voluttà più squisite!... Credetelo a chi ha studiato il cuore umano.
– Sarà, padre; anzi mi pare che deve esser così; eppure...
– Eppure eppure!... cosa volevate dire?... Eppure ve lo dirò io!... Eppure non è opera di carità né di prudenza l’affliggere il cuore d’una bella ragazza che sotto le sue apparenze di pace e di modestia vi ama sfrenatamente, non vive che per voi, ed è disposta a farvi dono dei più santi piaceri che Dio clemente ci abbia conceduto di gustare!
– Oh, padre! sarebbe vero?... la contessina Clara è innamorata di me?
– Sì, certo, ve lo accerto, ve lo giuro; volete saperlo?... me lo disse qualcuno di sua casa!... È innamorata, poverina, e muore dal desiderio di piacervi!
– Quand’è così, capisco, padre: mi sono sbagliato. Sett’anni sono lunghi. Io pure fui innamorato della contessina Clara! ed anche adesso a ripensarci su...
– Ah! l’hai confessato, figliuol mio! l’hai confessato! – Signore ti ringrazio! Ecco che il mio ministero è terminato, e che potrò riposarmi in pace sulla felicità preparata per le mie mani a queste tue dilette creature. Raimondo, io ho scoperto il segreto del vostro cuore; lasciatemi adoperare in maniera che tutto riesca secondo i vostri desiderii.
– Adagio, padre: non vorrei che per la troppa fretta...
– Il rimedio urge, figliuol mio. Pensate alla beatitudine che proverete nello stringervi sul cuore in questo castello, in questa stessa camera una sposina così bella, così docile, così infiammata per voi!... Oh Dio! non avrete mai provato nulla di simile.
– Or bene, padre – ha ragione; faccia pur lei... Veramente le mie intenzioni... ma ora dopo più matura riflessione, e giacché ella mi assicura che quella ragazza è innamorata di me...
– Sì, Raimondo, ne metterei le mani nel fuoco.
– Or bene, padre; le nozze non si potrebbero fare domenica?
– Potenza del cielo! domenica dici! e poi raccomandi a me di non aver troppa fretta! ci vorrà qualche settimana, forse qualche mese, figliuol caro. Le cose di questo mondo camminano con un certo ordine che non va disturbato. Tuttavia nel frattempo tu potrai vedere la tua fidanzata e parlarle e star a lungo con lei nel castello di Fratta, e presenti i genitori.
– Oh che consolazione, padre! Così potrò continuar a vedere anche la Pisana!
– S’intende, ed amarla e trattarla coll’onesta confidenza di un futuro cognato. Sta cheto, figliuol mio; confida in me e dormi pure tranquilli i tuoi sonni, ché le lusinghe del tuo venerabile zio non andranno deluse e partecipandogli il tuo matrimonio potrai assicurarlo che io ti ho fatto buono, e felice!...
Il nobile giovine pianse di tenerezza a queste parole, baciò la mano al diligente precettore, e salì nella sua stanza da letto colla Pisana e la Clara che gli ballavano confusamente nella fantasia. Omai non sapeva ben quale, ma sentiva distintamente che ognuna delle due sarebbe stata quella sera la benvenuta. Sopra queste felici posizioni avea contato il padre Pendola per distoglierlo da quell’impensato capriccio per la Pisana, e rinfiammarlo della Clara; né l’esito gli ebbe a fallire. Soltanto andando egli pure a letto seguitò a maravigliarsi e a congratularsi di quel nuovo impiccio così venturosamente evitato.
«Ah! la birboncella!» pensava egli «me ne era accorto io che in quei suoi quattordici anni ne covavano trenta di malizia!... ma così a rompicollo, non me lo sarei mai immaginato. Proprio chi afferma che il mondo progredisce sempre, finirà coll’aver ragione».
In questi pensieri il reverendo padre erasi coricato; e poi tolse in mano gli Opuscoli divoti del Bartoli che erano la sua consueta lettura prima di addormentarsi. Ma quello che aveva tanto sorpreso lui, non avrebbe sorpreso me per nulla. Io aveva seguito benissimo il Venchieredo nelle fasi del suo amore per la Clara; e sfidato3 alla fine di muoverla, lo avea veduto nelle due ultime sere accorgersi della Pisana, accostarsi a questa, e pigliar tanto fuoco in un attimo, quanto non gli si era destato in cuore in due mesi di omaggi alla sorella maggiore. Quanto rammarico io avessi per questo, ognuno se lo può immaginare per poco che abbia capito l’indole del mio affetto per quell’ingrata. Ma ebbi campo in seguito di maravigliarmi, quando vidi la Pisana dopo gli ossequii del Venchieredo riprendere verso di me la sua maniera affettuosa e gentile, quale da un pezzo non la usava più che a sbalzi e quasi per sforzo di volontà. Donde proveniva questa nuova stranezza? Allora non poteva farmene ragione per nessun modo. Adesso mi par di capire che la burbanza di essa verso di me derivasse massimamente dal coruccio di vedersi trascurata come una bambina a dispetto della sua sfrenata bramosia di piacere. E non appena la piacque a qualcuno, tornò verso di me quale era sempre stata. Anzi migliore; perché nessuna cosa ci fa verso gli altri così buoni e condiscendenti, quanto l’ambizione soddisfatta. Confesso la verità che senza scrupoli e senza vergogna io presi la mia parte di quell’amorevolezza; e che a poco a poco il rammarico pel trionfo del Venchieredo mi si andò mutando nel cuore in un’amara specie di gioia. Mi parve di essere omai accertato che la Pisana non cercava negli altri né il merito né il piacere di esser amata ma la novità e il contentamento della vanagloria. Perciò avea lasciato da un canto Lucilio per appigliarsi al Venchieredo non appena la novità di questo aveva attirato gli sguardi più che il brioso gesteggiare di quello. Allora mi confortai colla certezza che nessuno né l’amava né l’avrebbe amata al pari di me; e ogniqualvolta le avesse ricercato l’animo un vero desiderio di amore, viveva sicuro che la mi sarebbe volata fra le braccia. Stupido cinismo di accontentarmi a questa lusinga, ma un gradino dopo l’altro io era disceso a tanto; e finii coll’usarmi a quella vita di avvilimento, di servilità e di gelosie per modo che io era già uomo snervato e disilluso quando tutti mi credevano ancora un ragazzaccio rubesto e senza pensieri. Ma chi si dava cura di tener dietro alle passioncelle e ai romanzi della nostra adolescenza? – Ci giudicavano novelli affatto nella vita, che ne avevamo già fornita tutta l’orditura; e il compiere la trama è opera manuale alla quale siamo sospinti il più delle volte da forza ineluttabile e fatale.
Il padre Pendola, dopo aver riconfermato il giovine cavaliero nei propositi della sera prima, riferì alla Contessa di Fratta l’ottimo risultato delle sue parole, tacendo, non è d’uopo nemmen il dirlo, tuttociò che si riferiva alla Pisana. La signora volle quasi gettargli le braccia al collo, e lo ricompensò coll’assicurarlo che un suo semplice motto lasciato cadere intorno allo stabilimento di lui in casa Frumier, era stato accolto dal Senatore e dalla moglie con tal festosa premura da augurarsene un pronto adempimento dei loro voti.
– Ora poi – disse la signora all’orecchio del reverendo che si era seduto a tavola vicino a lei a dispetto del solito cerimoniale di casa – ora poi lasci fare a me. Prima anche che la Clara sospetti di nulla, perché già le ragazze devono esser condotte adagio entro queste faccende, io voglio che i miei eccellentissimi cognati sieno beati della sua compagnia.
– Povero Raimondo! – sospirò il padre fra un boccone e l’altro.
– Non lo compianga. – soggiunse ancor sottovoce la Contessa occhieggiando la figlia – Una sposina come quella si quadra meglio del prete a un giovine di ventun anno.
Infatti la settimana seguente tutta Portogruaro fu piena della gran novella. Il celebre, l’illustre, il dotto, il santo padre Pendola si ritirava in casa Frumier, stanco delle fatiche d’un lungo apostolato. Colà egli disegnava metter in pace la sua età non molto provetta ancora, ma pur afflitta pei sofferti disagi da molti incommodi della vecchiaia. Il vecchio capellano era stato trasferito, come desiderava, ad una cura vicino a Pordenone; e il Senatore e la nobildonna non potevano capire in sé per la gioia di possedere in sua vece un tanto luminare d’ecclesiastica perfezione. Raimondo aveva fatto le viste di adirarsi perché egli volesse uscire di sua casa prima che fosse entrata la sposa; ma il buon padre non ebbe bisogno di sfiatarsi per persuaderlo che ad un giovine vicino a fidanzarsi non si affaceva la tutela del precettore, e che per tutte le ragioni conveniva che la sua partenza da Venchieredo precedesse d’alcun poco la celebrazione degli sponsali. Raimondo lo vide partire senza molte lagrime, e continuò a frequentare il castello di Fratta, dove la confidente affabilità della Pisana lo compensava del gelato riserbo della Clara. Ma a costei non aveano ancor fatto cenno della fortuna che la aspettava; ed egli attribuiva a ciò lo sforzo da lei durato per nascondergli la veemenza dell’amor suo. Del resto non se ne pigliava grande affanno; e se Clara gli falliva egli avrebbe goduto di ricattarsi colla sorella. Questi erano i filosofici sentimenti del signor di Venchieredo, ma la Contessa non la pensava a quel modo. Dopo aver lasciato i due giovani entrare, secondo lei, in una decente dimestichezza, prese ella a preparare la Clara alla domanda del giovine; e parla e riparla s’inquietò alla fine un poco di vederla restar così fredda e imperterrita come non si trattasse di lei. Un bel giorno le spiattellò chiare e tonde le probabili intenzioni di Raimondo; e anche quest’ultimo colpo non diradò per nulla quella nube che da molti giorni si era raunata sulla fronte della donzella. Chinava le ciglia, sospirava, non diceva né si né no. La mamma cominciò a credere che la fosse una stupida, come aveva sempre sospettato dentro di sé vedendola grave modesta e disforme in tutto da quello ch’ella era stata negli anni della giovinezza. Ma anche le stupide si scuotono a toccarle su quel tasto del marito; e la stupidità della Clara doveva essere veramente fuor di natura per non muoversi nemmeno a ciò. Si aperse allora colla vecchia suocera che era sempre stata la confidente della fanciulla, e la pregò d’ingegnarsi a farle capire i disegni della famiglia intorno a lei. La vecchia inferma parlò ascoltò, e riferì alla nuora che la Clara non aveva intenzione di maritarsi, e che voleva star sempre con lei a vegliarla nelle sue malattie, a confortarla nella sua solitudine.
– Eh! questi son grilli da pettegola! – sclamò la Contessa. – La vorrei vedere io che la seguitasse a fargli il muso duro a quel poverino, sicché egli trovasse un pretesto di cavarsela. Quando i genitori vogliono, il dovere delle ragazze fu sempre quello di obbedire, almeno in questa casa; e non si vedranno novità, no, non si vedranno. Quanto a lei poi, signora, io spero che non la fomenterà questa pazzia e che la vorrà aiutare me e il signor Conte a far vedere alla ragazza qual è il suo meglio.
La vecchia accennò del capo che avrebbe fatto, e fu molto contenta che la nuora dopo quella gridata le uscisse fuori di camera. Ma non fu meno pronta per ciò a ritentare il cuor della Clara per persuaderla di accettare lo sposo che nobile e degno per ogni riguardo le si profferiva. La giovine si rinchiudeva nel suo silenzio, o rispondeva come prima che Dio non la chiamava al matrimonio, e che sarebbe stata felice di terminar la sua vita in quel castello accanto alla nonna. Si ebbe un bel che dire e un bel che fare: alla nonna, alla mamma, al papà, allo zio monsignore la Clara ripeté sempre la medesima solfa. Laonde la Contessa, per quanto ne arrabbiasse furiosamente dentro di sé, decise di soprastare senza nulla rispondere al Venchieredo e di dar intanto una voce al padre Pendola perché egli colla sua meravigliosa prudenza le additasse un mezzo da convertir la Clara all’obbedienza, senza ricorrere a maniere violente e scandalose. Peraltro alcunché di questo ostinato resistere della zitella al desiderio dei suoi trapelava di fuori; e Lucilio sembrava non se n’accorgere, tanto serbava con essa le solite maniere e il Partistagno compariva alle veglie del castello di Fratta e alla conversazione di casa Frumier più sorridente e glorioso che mai. Il padre Pendola udito il grave caso si offerse esso stesso a paciero fra la Contessa e la nobile donzella; tutti ne concepirono le grandi speranze; e lasciato ch’ei fu a quattr’occhi con essa, alcuno si fermò per curiosità ad origliare dietro l’uscio.
– Contessina, – principiò a dire il reverendo – cosa ne dice di questo bel tempo?
La Clara s’inchinò un po’ confusa per non saper come rispondere; ma il padre stesso la tolse d’impiccio continuando.
– Una stagione come questa non l’abbiamo goduta da un pezzo e sì che si può dire di esser appena usciti dall’inverno. L’Eccellentissimo Senatore mi ha concesso, anzi doveva dir pregato, di andarne a visitare il mio caro alunno, quell’ottimo giovane, quel compito cavaliere ch’ella ben dovrebbe conoscere. Ma così passando ho voluto vedere di loro, e chieder novella delle cose di famiglia.
– Grazie, padre – balbettò la fanciulla non vedendolo disposto a proseguire.
Il padre prese buon augurio da quella timidità, argomentando che come le avea strappato quel grazie, le avrebbe poi fatto dire e promettere ogni cosa che avrebbe voluto.
– Contessina; – riprese egli colla sua voce più melliflua – la sua signora madre ha riposto in me qualche confidenza e oggi sperava di udire da lei quanto il mio cuore desiderava da lungo tempo. In quella vece ella non mi ha dato che mezze parole; sembra che ella non abbia inteso i retti e santi divisamenti de’ suoi genitori; ma spero che quando io le li abbia spiegati meglio, non avrà più ombra di dubbio nell’accettarli come comandati dal Signore.
– Parli pure – soggiunse la Clara con fare modesto ma calmo questa volta e sicuro.
– Contessina, ella ha in mano il mezzo di ridare la gioia e la concordia non solo a due illustri famiglie, ma si può dire ad un intero territorio; e mi si vuol far credere che per altri scrupoli pietosi ella non voglia approfittarne. Mi permetterà ella di credere che non si interpretò bene la sua risposta, e che quello che parve irragionevole rifiuto e scandalosa ribellione altro non fu che peritanza di pudore o impeto di troppa carità?
– Padre, io non so forse spiegarmi abbastanza, ma col ripetere le stesse cose molte volte spero che alla fine mi capiranno. No, io non mi sento chiamata al matrimonio. Dio mi tragge per un’altra strada: sarei una cattivissima moglie e posso continuare a vivere da figliuola dabbene; la mia coscienza mi comanda di attenermi a quest’ultimo partito.
– Ottimamente, Contessina. Io non sarò certamente quello che vorrà condannarla di questo rispetto alle leggi della coscienza. Questo anzi raddoppia la stima ch’io aveva per lei e mi fa sperare che in seguito ci raccosteremo nelle opinioni. Mi vuol ella permettere che col mio umilissimo ma divoto criterio l’aiuti a illuminare quella coscienza che forse s’è un po’ turbata, un po’ oscurata nei tentennamenti, nelle battaglie dei giorni passati? Nessuno, Contessina, è tanto santo da credere ciecamente alla coscienza propria rifiutando i lumi e i suggerimenti dell’altrui.
– Parli pure, parli pure, padre: io son qui per ascoltarla e per confessare che avrò torto, quando ne sia persuasa.
«Mi dicevano che è stupida!» pensava l’ottimo padre «altro che stupida! Mi accorgo che avrò una stizzosa gatta da pelare, e bravo se ci riesco!» – Or dunque – soggiunse egli a voce alta – ella saprà prima di me che l’obbedienza è la prima legge delle figliuole coscienziose e timorate di Dio. Onora il padre e la madre se vuoi vivere lungamente sopra la terra; lo disse il medesimo Dio, ed ella finora ha sempre messo in pratica questo divino precetto. Ma l’obbedienza, figliuola cara, non soffre eccezioni, non cerca nessuna scappatoia; l’obbedienza obbedisce, ecco tutto. Ecco la coscienza come l’intendiamo noi poveri ministri dell’Evangelo.
– E così pure l’intendo anch’io – rispose umilmente la Clara.
«Che l’avessi persuasa a quest’ora?» pensò di nuovo il reverendo. «Non me ne fido un cavolo davvero». Tuttavia fece le viste di crederlo, e alzando le mani al cielo: – Grazie, diletta figliuola in Cristo! – sclamò – grazie di questa buona parola; così per questa strada d’abnegazione e di sacrifizio si tocca l’ultimo grado della perfezione, così si potrà persuadere con suo grande vantaggio che la potrà diventare ancor più eccellente sposa e madre di famiglia che non fu fino ad ora buona e costumata figliuola... Oh non durerà una grande fatica, la si assicuri!... Uno sposo quale fu destinato a lei dal cielo non è sì facile trovarlo al giorno d’oggi! L’ho educato io, Contessina; io l’ho formato colla midolla più pura del mio spirito e colle massime più sante del Cristianesimo. Dio la vuol rimeritare della sua insigne pietà, del suo figliale rispetto!... Che egli seguiti a benedirla, e che egli sia ringraziato dell’aver permesso a me di portare nell’anima sua la luce della persuasione!...
Il buon padre tenendo sempre le mani e gli occhi verso il cielo si disponeva ad uscire dalla stanza per recare alla Contessa la buona novella; ma la Clara era troppo sincera per lasciarlo in un inganno sì madornale. La sincerità in quel frangente la aiutò tanto bene quanto la furberia, perché il buon padre fidava appunto nel suo scarso coraggio e nell’innocente semplicità, e credeva che si sarebbe lasciata credere persuasa per la ritrosia di dovergli contraddire. Fu adunque molto maravigliato di sentirsi fermar per una manica dalla fanciulla; e capì cosa annunziava quel gesto. Tuttavia non volle darsi per disperato e si volse a lei con un’unzione veramente paterna.
– Cosa ha figliuola? – diss’egli inzuccherando ogni parola con un sorriso serafico. – Ah capisco! vuol esser lei la prima a recare a’ suoi genitori una tanta consolazione. Dopo averli martoriati tanto, forse a fin di bene, le parrà giusto di gettarsi a’ loro piedi, di implorar perdono, di assicurarli della sua sommissione figliale! Andiamo dunque; venga pure con me.
– Padre, – rispose la Clara per nulla sgomentita da questa finta sicurezza del predicatore – io forse intendo l’obbedienza in un modo differente dal suo. A me pare che obbedire sia un arrendersi oltrecché nella lettera, anche nello spirito, ai comandamenti dei superiori. Ma quando uno di questi comandamenti sentiamo di non poterlo osservare pienamente, sarebbe ipocrisia fingere di piegarvisi colle apparenze!
– Ah, figliuola mia! cosa dice mai! sono sottigliezze scolastiche. San Tommaso...
– San Tommaso fu un gran santo, ed io lo rispetto e lo venero. Quanto a me, ripeto a lei quello che dovetti dire alla signora madre, alla nonna, al papà ed allo zio. Io non posso promettere di amare un marito che non potrò amar mai. Obbedire nello concedermi a questo marito sarebbe un obbedire col corpo, colla bocca; ma col cuore no. Col cuore non potrei mai. Laonde mi permetterà, padre, di rimaner zitella!
– Oh, Contessina! badi e torni a badare! Il suo ragionamento pecca nella forma e nella sostanza. L’obbedienza non ha la lingua così lunga.
– L’obbedienza quando è interrogata risponde, ed io non chiamata non avrei risposto mai, ne l’assicuro, reverendo padre!
– Alto là, Contessina! ancora una parola! Ho da dirle tutto?... Ho dunque da spiegarle tutta la virtù che si può cristianamente pretendere da una figliuola esemplare?... Ella si professa pronta ad obbedire tutti quei comandi de’ suoi genitori che si sente capace di eseguire!! Ottimamente, figliuola!... Ma cosa le comandano i suoi genitori? Le comandano di sposare un giovine che le viene profferto, nobile, dabbene, ricco, costumato, dall’alleanza col quale proverranno grandi beni a tutte e due le famiglie e all’intero paese!... Quanto al suo cuore, essi non le comandano punto. Al cuore ci penserà ella in seguito; ma la religione vuole che la si pieghi intanto in quello che può, e stia certa che come premio di tanta sommessione Dio le largirà anche la grazia di adempiere perfettamente tutti i doveri del suo nuovo stato.
La Clara rimase qualche tempo perplessa a questo sotterfugio del moralista; tantoché egli racquistò qualche lusinga di averla piegata, ma la sua vittoria fu assai breve, perché brevissima fu la perplessità della giovine.
– Padre, – riprese ella col piglio risoluto di chi conchiude una disputa e non vuol più udirne parlare – cosa direbbe ella d’un tale che crivellato dai debiti e nudo di ogni altra cosa si facesse mallevadore d’ottantamila ducati per l’indomane?... Per me io lo direi o un pazzo o un furfante. Ella mi ha capito, padre. Conscia della mia povertà io non farò malleveria d’un soldo.
Ciò dicendo la Clara s’inchinava, facendo atto di uscire a sua volta. E il reverendo voleva a sua volta trattenerla con altre parole, con altre obbiezioni; ma comprendendo che avrebbe fatto un buco nell’acqua si accontentò di uscirle dietro, col desolato contegno del cane da caccia che torna al padrone senza riportargli la selvaggina inutilmente cercata. Coloro che origliavano dietro l’uscio aveano fatto appena a tempo di ricoverarsi in tinello; ma non furono così destri da nascondere che sapevano tutto. Il padre Pendola non erasi ancora accostato all’orecchio della Contessa che già costei s’era buttata sulla Clara con ogni sorta di minaccie e d’improperi; tantoché molti accorsero dalla cucina allo strepito. Ma allora il marito e il cognato diedero opera a frenarla, e il padre Pendola colse il momento opportuno di battersela lavandosene le mani come Pilato. Partito che fu, l’intemerata toccò a lui; e la signora si sfogò a gridarlo un ipocritone, un disutile, uno sfacciato, che l’aveva adoperata per ottenere quanto cercava, e allora l’abbandonava nell’imbarazzo colla sua faccia tosta. Monsignore supplicava per carità la cognata che smettesse d’insolentire un abate che in pochissimi giorni di dimora a Portogruaro avea già preso il sopravvento negli affari del clero e quasi fin’anco in quelli della Curia. Ma le donne hanno ben altro pel capo quando prude loro la lingua. Ella volle versar fuori tutta la sovrabbondanza del suo fiele, prima di badare ai consigli del cognato. Indi, acchetata su questo argomento, tornò a rampognare la Clara; e essendo tornati pei fatti loro i curiosi della cucina, anche il papà e lo zio si misero intorno alla giovinetta tormentandola malamente. Ella sopportava tutto non con quella fredda rassegnazione che move il dispetto, ma col vero dolore di chi vorrebbe e non può accontentare altri di quanto gli viene chiesto. Un tal martirio durò per lei molti giorni; e la Contessa se l’era legata al dito che l’avrebbe sposato il Venchieredo, o sarebbe cacciata in un convento senza misericordia. Già si cominciava anche a mormorare di Lucilio più forte che mai; e il giovine doveva serbarsi più prudente che per lo addietro nelle sue visite. Ma sparsasi intorno la notizia dell’ostinato rifiuto della Clara ad imparentarsi col Venchieredo, furono anche parecchi che ne accagionarono un segreto amore da lei concepito pel Partistagno. Fra questi primo era il Partistagno stesso, che, avuta contezza della cosa, capitò al castello più sorridente e pettoruto del solito; egli guardava dall’alto in basso tutta la famiglia, e nelle tenere occhiate che teneva in serbo per la Clara, non si avrebbe potuto definire se l’amore soverchiasse la compassione, o viceversa. Il fatto sta che alla Contessa balenò quest’ipotesi nel cervello; e poiché non si degnava di sospettare intorno a Lucilio, essa gli parve abbastanza fondata. Ma quel benedetto Partistagno non si decideva mai a far un passo innanzi. Erano anni che lavorava colle sue occhiate, co’ suoi sorrisi senza che si aprisse per nulla l’animo suo. Raimondo invece veniva, si può dire, coll’anello in mano; e non si trattava che di accennare un sì, perché egli fosse beato e riconoscente di poterlo infilare alla Clara. Queste considerazioni non diminuivano punto il mal sangue della signora verso la figlia; tanto più che anche le ultime vicende non sembravano aver dato fretta alcuna al glorioso castellano di Lugugnana.
Un giorno pertanto che i Frumier avevano invitato a pranzo i parenti di Fratta per isvagarli da questi dispiaceri famigliari, l’illustrissimo signor Conte fu oltremodo inquieto di vedersi chiamar dal cognato in uno stanzino appartato. Ognivolta che gli accadeva di doversi dividere dal fido Cancelliere, si sa ch’egli rimaneva come una candela senza stoppino. Tuttavia fece di necessità virtù, e con molti sospiri seguì il cognato ov’egli lo voleva. Questi rinchiuse la porta a doppio giro di chiave, tirò giù le cortinette verdi della finestra, aperse con gran precauzione il cassetto più segreto dello scrittoio, ne trasse un piego, e glielo porse dicendogli:
– Leggete; ma per pietà silenzio! mi affido a voi perché so chi siete.
Il povero Conte ebbe gli occhi coperti da una nuvola, fregò e rifregò colla fodera della veste le lenti degli occhiali più per guadagnar tempo che per altro, ma alla fine con qualche fatica riuscì a dicifrare lo scritto. Era un anonimo, uomo a quanto sembrava di grande autorità nei consigli della Signoria, che rispondeva confidenzialmente al nobile Senatore intorno alla grazia da implorarsi pel vecchio Venchieredo. Si stupiva prima di tutto dell’idea: non era quello il tempo che la Repubblica potesse sguinzagliare i suoi nemici più accaniti, quando appunto si occupava di spiarli e di renderli impotenti per quanto era fattibile. I castellani dell’alta erano tutti male affetti alla Signoria; l’esempio del Venchieredo avrebbe servito a correggerli, fors’anche non bastava, e con soverchia indulgenza erasi preservata la famiglia di lui dagli effetti della condanna. Nulla è pernicioso più della potenza concessa agli attinenti dei nostri nemici; bisogna sempre tagliar il male nelle radici perché non rigermogli. Solo di non aver fatto questo si pentiva la Signoria. Del resto, non parlava al Senatore che era superiore ad ogni sospetto e tratto in quella faccenda da suggestioni e preghiere altrui, ma badassero bene gli amici del Venchieredo a non lasciar travedere in una soverchia benevolenza verso di questo la loro fedeltà tentennante e le opinioni intinte forse di quelle massime sovvertitrici che venute d’oltremonti minacciavano di rovina gli antichi e venerabili ordini di San Marco. In tempi difficili maggiore la prudenza; questo a loro norma, perché l’Inquisizione di Stato vegliava senza rispetto per alcuno.
Il Senatore nella sua qualità di patrizio veneziano tenea dietro con orgoglio ai diversi sentimenti di maraviglia, di dolore, di costernazione che si dipingevano in viso al cognato mano a mano che rilevava qualche periodo di quella lettera. Finita ch’egli la ebbe il foglio gli cadde di mano, e balbettò non so quali scuse e proteste.
– State tranquillo; – soggiunse il Senatore raccogliendo il foglio, e mettendogli una mano sulla spalla – è un avvertimento e nulla più; ma vedete che fu quasi una grazia del cielo che la vostra figliuola si rifiutasse a quel matrimonio. Se avesse acconsentito a quest’ora si sarebbero già celebrate le nozze...
– No, per tutti i santi del cielo! – sclamò il Conte con un gesto di raccapriccio. – Se ella le volesse ora, e se mia moglie con tutte le sue furie pretendesse di celebrarle, con due sole parole io vorrei...
– Ps, ps! – fece il Senatore. – Ricordatevi che è affare delicato.
Il castellano rimase colla bocca aperta come il fanciullino colto in flagranti; ma poi cacciò giù un gnocco che aveva in gola e soggiunse:
– Insomma, Dio sia benedetto che ci ha voluto bene; e siamo salvi da un gran pericolo. Mia moglie saprà che per ragioni forti, nascoste, stringentissime, di quel matrimonio non bisogna più parlarne, come d’una faccenda non mai sognata. Ella è prudente e si regolerà!... Cospettonaccio! ho paura che la si fosse fatta infinocchiare da quel benedetto padre Pendola!
Qui egli si tacque e rimase colla bocca aperta un’altra volta perché ad uno sberleffo del Senatore conobbe di esser per dire o di aver già detto qualche castroneria.
– In confidenza, – gli rispose il Frumier con quel piglio di maggioranza che ha il maestro sullo scolare – da certe frasi sfuggite al degnissimo padre io credo che non per nulla lo si avesse messo alle coste del giovine Venchieredo!... Potrebbe anche darsi che vedendo vostra moglie incapricciata di dare a costui la sua figliuola egli avesse fatto le viste di secondarla. Ma poi, mi capite, egli voleva bene a voi, egli voleva bene a me... e senza violare le convenienze... Insomma, quel colloquio da lui tenuto colla Clara...
– Ma no! io era dietro l’uscio, e vi posso assicurare... – ripigliò il Conte.
– Eh cosa sapete mai voi? – gli dié sulla voce il Senatore. – Son mille le maniere di dire una cosa colle labbra e farne capire un’altra o colla fisonomia o con certe reticenze... Il padre sospettava forse che voi e vostra moglie stavate ad ascoltare; ma del resto io vi posso assicurare, che se quel matrimonio non è andato, un gran merito ne viene a lui.
– Oh benedetto quel caro padre! io lo ringrazierò...
– Per carità! bella cosa che fareste! Dopo tutta la cura ch’ei prese per nascondersi e per [far] credere anzi ch’egli approvava il vostro disegno!! Davvero alle volte siete un bel furbo!
Per questa volta tanto, chi fosse il più furbo non lo saprei dire. Il padre Pendola, avendo sentito a tavola il giorno prima la subita disapprovazione data dal Senatore al matrimonio di sua nipote col Venchieredo, benché lo avesse anch’egli approvato in fin allora, ava subodorato, se non la lettera da Venezia, certo qualche cosa di simile. Perciò con mezze parole con atti del capo e con altri mezzi di suo grado avea dato ad intendere al Senatore tutto il rovescio di quello ch’era stato. E questi poi levandosi da tavola gli avea stretta la mano in modo misterioso, dicendogli:
– Ho capito, padre; la ringrazio a nome dei miei cognati! –
Se il Senatore era furbo, e ne avea dato grandi prove nella sua lunga vita pubblica e privata, certo fu quello il caso di riscontrar vero il proverbio, che tutti abbiamo durante il giorno il nostro quarto d’ora di minchioneria. Non v’è poi anche ladro così astuto che non possa essere derubato da uno più astuto di lui.
Finito il colloquio fra i due cognati e abbrucciata diligentemente la lettera fatale, tornarono in sala da pranzo, discorrendo della Clara e della vera fortuna che la si potesse accasare in casa Partistagno. Il Conte aveva qualche scrupolo perché tutti i parenti di questo giovine non erano sul buon libro della Serenissima; ma il Senatore obiettava che non cadesse in soverchii timori, che erano parenti lontani, e che finalmente il giovine col suo contegno si dimostrava così ossequioso ai magistrati della Repubblica che gli avrebbe non che altro fatto onore anche da questo lato.
– C’è poi un altro guaio; – soggiungeva il Conte – che per quanto si creda la Clara innamorata di lui ed egli di lei, non si vede mai che si disponga a manifestarsi.
– Per questo ci penserò io – rispose il Senatore. – Quel giovine mi piace, perché avremmo bisogno di simil gente devota e rispettosa sì, ma forte e coraggiosa. Lasciatemi fare, egli si manifesterà presto.
Per quel giorno si misero da un canto questi discorsi; e solamente la sera nel silenzio del letto nuziale il Conte s’arrischiò di accennare alla moglie d’un grave e misterioso pericolo da cui il rifiuto della Clara al Venchieredo li aveva salvati. La signora voleva saperne di più, e gracchiava di non volerne credere un’acca; ma non appena il marito ebbe bisbigliato il nome dell’Eccellentissimo Senatore Frumier, la si rifece credula e buona, né s’incaponì di più a indovinar quello che l’illustre cognato teneva avvolto nell’arcano impenetrabile. Le disse anche il marito che questi si mostrava persuaso dello sposalizio di Clara col Partistagno, e che si disponeva anzi ad adoperarsi perché il giovine venisse ad una domanda formale. I due coniugi ebbero un assalto comune di contentezza matrimoniale; la quale non voglio immaginarmi quanto oltre andasse. La miglior contentezza tuttavia fu per la Clara, la quale, senza ch’ella ne sapesse il perché, rimase dall’esser tormentata ed ebbe qualche giorno di tregua per poter corrispondere con nessuna superbia alle occhiate riconoscenti ed appassionate indirizzatele alla sfuggita da Lucilio.
Intanto il Senatore avea mantenuto la sua promessa di ingegnarsi con ogni maniera perché il Partistagno domandasse finalmente la mano di Clara. La Correggitrice, che era la consigliera del giovine, fu beata di aiutar in ciò il nobiluomo Frumier, e seppe così bene commovere la bontà e la vanagloria che erano le doti principali di lui da riescir nell’intento più presto che non si sperava. Il Partistagno s’impietosì di lasciar una donzella morir d’amore per lui, insuperbì di esser tenuto degno di diventar nipote di un senatore di Venezia, e confessò che egli pure era invaghito da gran tempo della donzella, e che soltanto una pigrizia naturale lo aveva trattenuto dal togliere quell’amore alla sua sfera platonica. Pronunciata quest’ultima frase il giovine sbuffò come per la gran fatica che ci avea messo ad architettarla.
– Dunque animo, e facciamo presto – gli soggiunse la dama. Ed egli prese commiato da lei colle più sincere assicurazioni che lo stato della zitella gli faceva compassione e che si avrebbe dato ogni fretta.
Ma i Partistagno nascevano tutti col cerimoniale in testa; e prima che il giovine avesse preparato tutti gli ingredienti necessarii ad una domanda solenne di matrimonio passarono de’ giorni assai. In quel frattempo veniva a Fratta, secondo il solito, e guardava la Clara come la castalda usa guardare il pollo d’India da lei tenuto in pastura pel convito pasquale. Un giorno finalmente, sopra due palafreni bianchi bardati d’oro e di porpora, due cavalieri si presentarono al ponte levatoio del castello. Menichetto corse a tutte gambe in cucina per dar l’annunzio della solenne comparsa, mentre i due cavalieri gravi e pettoruti s’avanzavano verso le scuderie. L’uno era il Partistagno col cappello a tre punte piumato, coi merletti della camicia che gli uscivano una spanna fuori dello sparato, e con tanti anelli, spilli e spilloni che pareva addirittura un cuscinetto da spilli. Lo accompagnava un suo zio materno, uno dei mille baroni di Cormons, vestito tutto a nero, con ricami d’argento come portava la solennità del suo ministero. Il Partistagno rimase ritto a cavallo come la statua di Gattamelata, mentre l’altro scavalcava e consegnate le redini al cocchiere, entrava per la porta dello scalone che gli veniva spalancata a due battenti. Fu introdotto nella gran sala ma dovette aspettare qualche poco perché anche i Conti di Fratta sapevano il galateo e non volevano mostrarsi dammeno dei loro nobilissimi ospiti. Finalmente il Conte con una giubba tessuta letteralmente di galloni, la Contessa con venti braccia di nastro rosa sulla cuffia, gli si presentarono con mille scuse della involontaria tardanza. La Clara vestita di bianco e pallida come la cera veniva a mano della mamma; il Cancelliere e monsignor Orlando che avea fra mano il tovagliolo e lo nascose in una tasca dell’abito, stavano ai due lati. Successe un profondo silenzio con grandi inchini d’ambo le parti; pareva che si apprestassero a ballare un minuetto. Io, la Pisana e le cameriere che stavamo ad osservare dalle toppe delle porte, eravamo allibiti per l’imponenza di quella scena. Il signor Barone si mise una mano sul petto, e protesa l’altra innanzi, recitò meravigliosamente la sua parte.
– A nome di mio nipote, l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Alberto di Partistagno, Barone di Dorsa, Giurisdicente di Fratta, Decano di San Mauro, etc., etc., io Barone Duringo di Caporetto ho l’onore di chiedere la mano di sposa dell’Illustrissima ed Eccellentissima dama la Contessa Clara di Fratta, figlia dell’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Conte Giovanni di Fratta e della Nobildonna Cleonice Navagero.
Un mormorio di approvazione accolse queste parole, e le cameriere furono lì lì per battergli le mani. Pareva proprio di essere ai burattini. La Contessa si volse alla Clara che le aveva stretta la mano e sembrava esser più vicina a morire che a maritarsi.
– Mia figlia – prese ella a rispondere – accoglie con gratitudine l’onorevole offerta e...
– No, madre mia, – la interruppe la Clara con voce soffocata dai singhiozzi, ma nella quale la forza della volontà signoreggiava il tremore della commozione e del rispetto – no, madre, mia, io non mi mariterò mai... io ringrazio il signor Barone, ma...
A questo punto le morì la voce, le si estinse sul volto ogni colore di vita, e le ginocchia accennavano di mancarle. Le cameriere, non pensando che così davano a divedere di essere state in ascolto, si precipitarono nella sala gridando: – La padroncina muore! la padroncina muore! – e la raccolsero fra le braccia. Dietro esse entrammo curiosamente io, la Pisana e quanti altri dietro di noi s’erano accalcati via via per goder lo spettacolo. La Contessa fremeva e stringeva i pugni, il Conte piegava di qua e di là; come una banderuola che ha perduto l’equilibrio, il Cancelliere gli stava dietro quasi per puntellarlo se accennasse di cadere, Monsignore tratto di tasca il tovagliolo se ne asciugava la fronte, e il Barone solo restava imperterrito col suo braccio steso, come fosse stato lui che con quel magico gesto avesse prodotto quel general parapiglia. La Contessa s’adoperò un istante intorno alla figlia per farla rinvenire e comandarle il rispetto e l’ubbidienza; ma vedendo ch’ella appena tornata in sé accennava col capo di no e sveniva quasi di nuovo, si volse al Barone con voce soffocata dalla stizza.
– Signore, – gli disse – ella vede bene; un impreveduto accidente ha guastato la festa di questo giorno; ma io posso assicurarla a nome di mia figlia che mai donzella non fu così onorata da offerta alcuna, come essa dalla domanda fattale in nome dell’Eccellentissimo Partistagno. Egli può contare d’aver fino d’ora una sposa ubbidiente e fedele. Soltanto lo prego di differire a momento più opportuno la sua prima visita di fidanzato.
Le cameriere trascinarono allora fuori della sala la padroncina, quale benché quasi esanime seguitava a diniegare colle mani e col capo. Ma il Barone non le badava più che a qualunque altro mobile della casa: così egli si accinse a recitare la seconda ed ultima parte della sua orazione.
– Ringrazio – egli disse – a nome di mio nipote la nobile sposa e tutta l’eccellentissima sua famiglia dell’onore fattogli di accettarlo per isposo. Fatte le pubblicazioni di metodo si celebrerà il matrimonio nella cappella di questo castello giurisdizionale di Fratta. Io, Barone di Caporetto, mi offro fin d’adesso per compare dell’anello, e che le benedizioni del cielo piovano benigne sul felicissimo gesto delle illustri ed antichissime case di Fratta e di Partistagno.
Lì un triplice inchino, un gira sui tacchi, e il nobile barone Duringo andò giù per la scala con tutta la maestà con cui era salito.
– E così? – disse il nipote apprestandosi a scender d’arcione.
– Rimanti, nipote mio – rispose il Barone, trattenendolo dallo smontare e risalendo egli stesso sulla sua cavalcatura. – Per oggi ti dispensano dalla visita di fidanzato. Alla sposa è venuto male per la consolazione; io sono ancora tutto commosso.
– Dice davvero? – soggiunse il Partistagno rosso di piacere.
– Guarda! – ripigliò il Barone accennandogli due occhietti umidi e sanguigni che dicevano di esser soliti a vedere il fondo di molti bicchieri. – Credo di aver pianto!
– Crede che basterà la collana di diamanti pel regalo di nozze? – gli dimandò il nipote avviandosi di paro a lui fuori del castello.
– In vista di questo nuovo incidente aggiungeremo il fermaglio di smeraldi – rispose il Barone. – I Partistagno devono farsi onore ed essere riconoscenti all’amore che sanno ispirare.
Così andarono fino a Lugugnana divisando lo splendore delle feste che si sarebbero celebrate nell’occasione delle nozze. Ma qual fu lo stupore d’ambidue, quando al giorno dopo ricevettero una lettera del Conte di Fratta che palesava loro il suo dispiacere per la volontà espressa dalla figlia di consacrare la sua verginità al Signore in un convento! Il giovine dubitava che mai donzella al mondo fosse capace di anteporre un convento a lui; ma di ciò dovette allora persuadersi e ne rimase un po’ raumiliato. Peggio poi fu quando per le ciarle della gente venne a sapere che non la donzella voleva ritirarsi in monastero, ma che i suoi volevano cacciarvela in castigo dello aver rifiutato un bel partito come il suo e che Lucilio Vianello era il rivale che gli contrastava il cuore della Clara. Il Barone scappò fino a Caporetto per nascondervi la sua vergogna; il Partistagno rimase per gridare a tutti i canti della provincia che di Lucilio, della Clara e de’ suoi parenti si sarebbe vendicato; e che guai a loro se monaca o smonacata non gli mandavano a casa la sposa! Egli continuava a dire che dell’amore di questa era certissimo; com’era anche certo che il malanimo de’ suoi e le cattive arti del dottorino la impedivano dal manifestarglielo.
A Portogruaro intanto vi fu un gran consiglio di famiglia in casa Frumier su quello che doveva farsi, e il caso era abbastanza nuovo, perché di donzelle allora che si opponessero con tanta pertinacia al voler dei parenti, non ve n’erano tante. Si voleva ricorrere al Vescovo, ma il padre Pendola scartò pel primo questo parere. Tutti furono tacitamente d’accordo che pur troppo la voce della gente diceva il vero, e che Lucilio Vianello era la pietra dello scandalo. Allontanar lui non si poteva; si trattava dunque di allontanare la Clara. Il Frumier aveva vuoto il suo palazzo di Venezia, e la Contessa non parve malcontenta d’andare ad abitarlo. Dopo molte parole si decise adunque che si sarebbero trasferiti a Venezia. Ma per togliere ogni solennità e ogni occasione di grandi spese solamente essa e la figlia si sarebbero accasate colà, e la famiglia avrebbe continuato a dimorare a Fratta. Ella si lusingava che i grilli sarebbero usciti di capo alla Clara, e se ciò non avveniva, c’erano conventi in buon numero a Venezia dove farle metter giudizio. Il Conte si lamentò un poco di restar relegato a Fratta perché aveva una discreta paura del Partistagno; ma il cognato lo assicurò che avrebbe vissuto sicuro e che egli ne faceva malleveria.
In fin dei conti un mese dopo questi ragionamenti la Con-tessa colla Clara s’era già stabilita a Venezia nel palazzo Frumier presso i nipoti: ma finallora la dovea confessare di aver guadagnato ben poco sull’animo della figlia. A Fratta eravamo rimasti più contenti che mai, perché il gatto era partito e i sorci ballavano.
Peraltro a sfrondar nel loro fiore le lusinghe della Contessa avvenne quello che non si sarebbe mai creduto. Lucilio, che l’avea tanto tirata in lungo colla sua laurea, si mise repentinamente in capo di volerla conseguire; e in onta alle opposizioni del dottor Sperandio partì per Padova, vi fu fatto dottore, e poi, anziché tornare a Fossalta, si fermò a Venezia, dove attese ad esercitare la medicina. A Portogruaro si seppe una tal novità quando già egli si avea procurata una clientela che lo scioglieva da ogni dipendenza famigliare. Figuratevi che imbroglio! Chi proponeva di farlo arrestare, chi voleva che la Contessa e la Clara tornassero tosto, chi proponeva un’andata di tutti a Venezia per resistere alle audacie di lui. Ma non ne fu nulla. La Contessa scrisse che non aveva paura, che la Clara pareva darsi sul serio alla vocazione monacale, e che del resto se avessero voluto cambiar paese, Lucilio colla sua professione di medico potea farle andare in capo al mondo. Si limitarono dunque a pregare il Frumier che scrivesse a qualche suo collega del Consiglio di Dieci acciocché il dottorino fosse tenuto d’occhio; al che si rispose che lo osservavano già notte e giorno, ma che non bisognava far chiassi perché egli aveva voce di esser protetto da un segretario della Legazione francese, da un certo Jacob, che era a que’ giorni il vero ambasciatore, fidandosi principalmente in lui i caporioni della rivoluzione da Parigi. Il Conte udendo cotali cosaccie faceva occhi da spiritato; ma il Frumier lo confortava a darsi animo e a cercar invece di accontentare sua moglie la quale sempre più si lamentava della sua parsimonia nel mandar denari. Il poveruomo sospirava pensando che per la economia aveano relegato lui a Fratta e che ciò nonostante consumavano più denari che non ne sembrassero bisognevoli ad uno splendido mantenimento di tutta la famiglia. Sospirava, dico, ma rammucchiava nello scrigno semivuoto quei grami ducati e ne faceva certi rotoletti che cadevano cogli altri nell’abisso di Venezia. Il fattore lo ammoniva che andando di quel trotto le entrate di Fratta sarebbero in breve ipotecate per cinquant’anni avvenire. Ma rispondeva il padrone che non c’era rimedio, e con quella filosofia tiravano innanzi. Più felice almeno, Monsignore non si avvedeva di nulla, e seguitava a mutare in polpe i capponcelli e le anitre delle onoranze.
Quanto a me, io avea finito i miei studi di umanità e di filosofia, un po’ alla zingaresca è vero, ma li aveva finiti. E nel sommario esame che sostenni mi trovarono per lo meno tanto asino quanto coloro che li avevano percorsi regolarmente. S’avvicinava il momento che m’avrebbero dovuto mandare a Padova, ma le finanze del Conte non gli consentivano questa munificenza, e giustizia vuole ch’io dia lode a cui si appartiene di una buona opera. Il padre Pendola non era uomo da mettersi a poltrire in un posto di maestro di casa sull’età dei cinquant’anni, quand’appunto l’ambizione si restringe per diventar più alta ed ostinata. Capellano e consigliere favorito di casa Frumier aveva egli potuto accapparrarsi la stima dei molti preti e monsignori che la frequentavano: non gli mancavano né le sante massime né i pronti ripieghi di coscienza per innamorare ambidue i partiti; e tanto bene vi riescì, e tanto seppe destramente metter in mostra questo suo trionfo, che, venuta la cosa agli orecchi del Vescovo, si diceva che questi ad ogni imbroglio che turbava la diocesi usasse esclamare: – Oh fossi io il padre Pendola! Oh avessi in Curia il padre Pendola! – L’umiltà di questo diede maggior rilievo alle esclamazioni episcopali; e venuto a morte il segretario d’allora, vi furono preti d’ambidue i partiti clausetani e bassavoli4 che supplicarono presso il Frumier perché egli inducesse il padre ad accettare quel posto. Con ciò ognuno sperava d’insediare più saldamente che mai nell’Episcopio il proprio partito. Il Frumier ne parlò al padre; questi fece il ritroso, rifiutò la corona come Cesare, ma si lasciò incoronare come Augusto; ed eccolo diventar segretario del Vescovo, e colla sua destrezza e co’ suoi maneggi padrone a dir poco d’una diocesi. Si aspettavano grandi cose; ma tutti pel momento furono gabbati; tutti peraltro erano contentissimi perché speravano nel futuro e nelle gradi promesse del padre. Egli era da poco installato nella sua nuova dignità quando il piovano di Teglio me gli presentò nella sua canonica, ove il Vescovo faceva la visita. Gli piacqui, bisogna dire, e mi promise d’interessar a mio favore il senatore Frumier. Questi infatti godeva il diritto di nomina ad un posto in un collegio gratuito pei studenti poveri presso l’Università di Padova; ed essendo quel posto vacante, lo destinò a me pel venturo Novembre. Si lamentò anzi col cognato perché non gli parlasse prima del mio caso, che vi avrebbe provveduto con tutto il cuore. Ma il beneficio veniva a tempo ed io ne ringraziai fervidamente tanto il mio mecenate che l’utile intercessore. Per allora non ci vedeva più in là, e non avea imparato a far saltar la moneta sulla tavola per provare se era buona.
Del resto io non era malcontento di cambiar paese. La Pisana, dopoché Lucilio era partito e il Venchieredo aveva abbandonato la loro casa, faceva l’occhiolino a Giulio Del Ponte, e sul serio questa volta, perché l’aveva i suoi quindici anni, e ne mostrava e ne sentiva forse diciotto. Fu appunto in quel torno che per isvagarmi da tanto crepacuore io mi misi a gozzovigliare e a trescare coi buli del paese, e in breve divenni il vagheggino di tutte le ragazze contadine od artigiane. Quando tornava da qualche fiera o sagra sul mio cavalluccio stornello preso a prestito da Marchetto, suonando il mio piffero alla montanara, ne aveva intorno una dozzina che ballavano la furlana per tutta la via. Ed ora mi pare che avrò somigliato una caricatura del sole che nasce, dipinto da Guido Reni, col suo corteggio delle ore danzanti. Però deggio dire che quella vita mi pesava; e fu anche interrotta da un luttuoso accidente, dalla morte di Martino che spirò nelle mie braccia dopo brevissimo male di apoplessia. Io, credo, fui il solo che piansi sulla sua fossa, perché per allora alla Contessa vecchia, già quasi centenaria e rimbambita per la mancanza della Clara, si giudicò opportuno di tacere quella perdita. La Pisana, affidata alla guida poco sicura di quella volpe scodata della signora Veronica, imbizzariva sempre più, e peggiorava nell’ozio la cattiva piega della sua indole. Il giorno prima che partissi per Padova, io la vidi tornare dal passeggio rossa, scalmanata.
– Cos’hai Pisana? – le chiesi col cuore gonfio di lagrime di compassione; e piucché altro, lo confesso, di quell’amore che era più forte e più grande di me tutto.
– Quel cane di Giulio non è venuto! – mi rispose ella furibonda.
E poi scoppiando in singhiozzi, mi si gettò colle braccia al collo gridando: – Tu sì che mi ami, tu sì che mi vuoi bene tu! – E la mi baciava ed io la baciava frenetico.
Quattro giorni dopo io assisteva alla prima lezione di giurisprudenza, ma non ne capii verbo perché la memoria di quei baci mi frullava diabolicamente pel capo. La scolaresca era in gran tumulto in grandi discorsi per le novelle di Francia che giungevano sempre più guerriere e contrarie ai vecchi governi. Io per me rosicchiava melanconicamente lo scarso pane del collegio e le abbondantissime chiose del Digesto, sempre pensando alla Pisana e alle gioie, ora dolci ora amare, sempre dilette alla memoria, de’ nostri anni infantili. E così si chiuse per me l’anno di grazia 1792. Soltanto mi ricordo che giunta, al fine di gennaio del venturo anno, la nuova della decapitazione di re Luigi XVI, recitai un Requiem in suffragio dell’anima sua. Testimonio questo delle mie opinioni moderate d’allora.