CAPITOLO OTTAVO
Nel quale si discorre delle prime rivoluzioni italiane, dei costumi della scolaresca padovana, del mio ritorno a Fratta, e della cresciuta gelosia per Giulio Del Ponte. Come i morti possono consolar i vivi, ed i furbi convertire gli innocenti. Il padre Pendola affida la mia innocenza all’avvocato Ormenta di Padova. Ma non è oro tutto quello che luce.
Francia aveva decapitato un re e abolito la monarchia: il muggito interno del vulcano annunziava prossima un’eruzione: tutti i vecchi governi si guardavano spaventati, e avventavano a precipizio i loro eserciti per sopire l’incendio nel suo nascere: non combattevano più a vendetta del sangue reale ma a propria salute. Respinti dal furore invincibile delle legioni repubblicane, già Nizza e Savoia, le due porte occidentali d’Italia, sventolavano il vessillo tricolore; già si conosceva la forza degli invasori nella grandezza delle promesse; e l’urgenza maggiore del pericolo negli interni sobbollimenti. Alleanze e trattati si preparavano ovunque. Napoli e il Papa si riscotevano delle vergognose paure; la vecchia Europa, destata nel suo sonno quasi da un fantasma sanguinoso, si dibatteva da un capo all’altro per scongiurarlo. Che faceva intanto la Serenissima Repubblica di Venezia? Lo stupido Collegio de’ suoi Savii1 avea decretato che la rivoluzione francese altro non dovea essere per loro che un punto accademico di storia; avea rigettato qualunque proposta di alleanza d’Austria, di Torino, di Pietroburgo, di Napoli, e persuaso il Senato di appigliarsi unanimemente al nullo e ruinoso partito della neutralità disarmata. Indarno strepitando l’aulica eloquenza di Francesco Pesaro, il 26 gennaio 1793 Gerolamo Zuliani Savio di settimana, vinse il partito che Giovanni Jacob fosse riconosciuto ambasciatore della Repubblica francese. Libera e ragionata, una tal deliberazione nulla in sé avrebbe racchiuso di sconsigliato o di vile; poiché né legami di famiglia, né comunanza d’interessi, né patti giurati obbligavano la Repubblica a vendicar la prigionia di Luigi XVI; ma la venalità del proponente e il precipitoso assentimento del Senato impressero a quell’atto un colore di vero e codardo tradimento.
La nuova, sparsasi indi a poco, dell’uccisione del re, mutò nell’opinione dei governi la stolta arrendevolezza veneziana in pagata complicità; dall’una parte lo sprezzo, dall’altra l’odio accumulavano le loro minaccie. La Legazione francese di Venezia accentrava in sé tutte le mene e le speranze dei novatori italiani; essa dava mano ad altri emissarii che istigavano la Porta Ottomana2 contro l’Impero e la Serenissima, per divertir quinci le forze russe e di Germania. Il Collegio dei Savii, sempre rinnovato e sempre imbecille, taceva al Senato di cotali pericoli: gli usciti trasfondevano negli entranti la stolida sicurezza e la molle indolenza. Duranti da quattordici secoli fra tante rovine di ordini e di imperi, pareva loro impossibile un subito crollo: tale sarebbe un decrepito che per aver vissuto novant’anni giudicasse non dover più morire. Finalmente nel cader della primavera 1794, dopo che fu violata da Francia l’imbelle neutralità di Genova a danno futuro del Piemonte e di Lombardia, il Pesaro accennò altamente la prossimità del pericolo e la non lontana emergenza che tra gli imperiali scendenti dal Tirolo al Ducato di Mantova, e i Francesi contrastanti, un conflitto potesse nascere negli Stati di terraferma. Si riscosse pur sonnolento il Senato, e contro il parere del Zuliani, del Battaja e di altri conigli più conigli degli altri, decretò che la terraferma si armasse con nuove cerne d’Istria di Dalmazia, con restauri e artiglierie nelle fortezze. Si salvava non lo stato ma il decoro. I Savii d’allora, Zuliani primo, s’incaricarono di perdere anche questo. Per ricattarsi della sconfitta toccata in Senato, deliberarono di attraversare l’esecuzione di quel decreto, e a tal fine si decise di usar col Senato il metodo del celebre Boerhaave, il quale inzuccherava le pillole de’ suoi ammalati perché le inghiottissero senza gustarne l’amaro. Si dimostrò di poter far poco e a rilento per la povertà dell’erario; si fece nulla e mai; ogni provvedimento si ridusse a settemila uomini stentatamente raccolti ed appostati a spizzico nella Lombardia Veneta. Pesaro, Pietro suo fratello, ed uno fra i Savii stessi il cui nome va scevro, almeno in questo, dalla comune ignominia, Filippo Calbo, designarono al Senato la mala fede di tante tergiversazioni; ma il Senato era ricaduto nel suo cieco torpore, inghiottì la pillola inzuccheratagli dai Savii, e non ne gustò, no, per allora l’amarezza, ma ne sentì poscia la velenosa virtù. Così la mia vita cominciava ad aggirarsi fra le rovine; il senno mi si afforzava ogni giorno più in lunghi e rabbiosi studii; mi crescevano, unite alla forza contro il dolore, la forza e la volontà di operare; l’amore mi torturava, mi mancava la famiglia, mi moriva la patria. Ma come avrei io potuto amare, o meglio, come mai quella patria torpida, paludosa, impotente avrebbe potuto destare in me un affetto degno, utile, operoso? Si piangono, non si amano i cadaveri. La libertà dei diritti, la santità delle leggi, la religione della gloria, che danno alla patria una maestà quasi divina, non abitavano da gran tempo sotto le ali del Leone. Della patria eran rimaste le membra vecchie, divelte, contaminate; lo spirito era fuggito, e chi sentiva in cuore la divozione delle cose sublimi ed eterne, cercava altri simulacri cui dedicare la speranza e la fede dell’anima. Se Venezia era de’ governi italiani il più nullo e rimbambito, tutti dal più al meno agonizzavano per quel difetto di pensiero e di vitalità morale. Perciò il numero degli animi che si consacrò al culto della libertà e degli altri umani diritti proclamati da Francia fu in Italia di gran lunga maggiore che altrove. Questo più che la patita servitù o la somiglianza delle razze giovò ai capitani francesi per sovvertire i fracidi ordinamenti di Venezia, di Genova, di Napoli e di Roma, di tutti insomma i governi nazionali. Tanto è vero che, come negli individui, così nei consorzii e nelle istituzioni umane, senza il germe, senza il nocciuolo, senza il fuoco spirituale nemmeno l’organismo materiale prolunga di molto i suoi moti. E se una forza estranea non distrugge violentemente i congegni, la vita appoco appoco s’affievolisce e s’arresta di per sé.
Il mio vivere a Padova era proprio quello d’un povero studente. Somigliava nella figura il fanticello di qualche prete, e portava modestamente i contrassegni della nazione italiana, come si costumava anche allora dagli studenti, quasiché si fosse ancora ai tempi di Galileo, quando i Greci, Spagnuoli, Inglesi, Tedeschi, Polacchi e Norvegi concorrevano a quell’Università. Si disse che Gustavo Adolfo fu colà discepolo del grande astronomo; il che importerebbe ben poco alla storia sì dell’uno che dell’altro. Coloro che io aveva compagni di collegio erano per la maggior parte pecoroni di montagna, rozzi, sudici, ignoranti; semenzaio di futuri cancellieri per gli orgogliosi giurisdicenti, o di nodari venderecci per gli ufficii criminali. Tripudiavano e s’abbaruffavano fra loro, appiccavano eterni litigii coi birri, coi beccai, cogli osti; con questi sopratutto perché avevano la strana idea di non volerli lasciar partire dalla taverna se prima non pagavano lo scotto. La querela terminava dinanzi al foro privilegiato degli scolari; dove i giudici mostravano il facile buonsenso di dar sempre ragione a questi ultimi, per non incorrere nel loro sdegno altrettanto implacabile, quanto poco giusto e moderato. Gli studenti patrizii si tenevano in disparte a tutto potere da questa bordaglia; più per paura che per boria, credo. E del resto non mancava anche allora il ceto di mezzo, quello dei più, dei tentennanti, dei misurati, che nell’abbondare della mesata s’accomunava ai costosi piaceri dei nobili, e nella povertà degli ultimi del mese ricorreva alle ladre e petulanti baldorie degli altri. Dicevano male di questi con quelli e di quelli con questi; fra loro poi si beffavano di questi e di quelli, veri antesignani di quel medio ceto senza cervello e senza cuore che si credette poi democratico perché incapace di ubbidire validamente al pari che di comandare utilmente. Intanto i rivolgimenti francesi venivano a smuovere in qualche maniera i vuoti e frivoli talenti di quella scolaresca. Il sangue bolle e vuol bollire ad ogni costo nelle vene giovanili; i giovani son come le mosche che senza capo seguitano a volare, a ronzare. Fra i patrizii v’ebbero i novatori scolastici che applaudirono; e i timidi chiettini che si spaventarono; dei plebei qualcuno ruggì alla Marat, ma gli Inquisitori gli insegnarono la creanza; la maggior parte, impecorita nell’adorazione di San Marco, tumultuava contro i Francesi lontani, solita braveria di chi ossequia poi e serve i presenti. Quelli di mezzo aspettavano, speravano, gracchiavano: pareva loro che dai nobili il governo dovesse cader in loro per naturale pendio delle cose; acchiappato che lo avessero, si argomentavano bene di non lasciarlo cadere più in giù. Ma non gridavano a piena gola; soffiavano, bisbigliavano come chi serba la voce e la pelle a miglior momento. Gl’Inquisitori, si può ben credere, guardavano con mille occhi questo vario brulichio di opinioni, di lusinghe, di passioni: ogni tanto un calabrone che strepitava troppo, cadeva nell’agguato tesogli da qualche ragno. Il calabrone era trasportato in burchio a Venezia; e passato il Ponte dei Sospiri nessuno lo udiva nominare mai più. Con questi sotterfugii e giochetti di mano, ottimi a spaventare l’infanzia d’un popolo, credevano salvar la Repubblica dall’eccidio soprastante.
Io per me aveva allora troppe memorie da accarezzare, troppi dolori da combattere, perché mi mettessi a pescar col cervello in quei torbidi. Della Francia avea udita novellare una volta o due come di regione tanto discosta che non capiva nemmeno cosa potessero calere a noi le pazzie che vi si facevano. In fatti le mi avevano figura di pazzie e nulla più. L’autunno susseguente al primo anno di giurisprudenza fu quasi suggello a quella mia incuria politica. Il viaggio pedestre fino a Fratta, il riveder la Pisana, gli amori rinati e stroncati poi di bel nuovo per nuove stranezze, per nuove gelosie, le incombenze affidatemi per via di esperimento dal Cancelliere, gli elogii del Conte e dei nobiluomini Frumier, le soperchierie e le scappate del Venchieredo, i disordini della famiglia Provedoni, i dissidii fra la Doretta e Leopardo, le continue imprese dello Spaccafumo, le raccomandazioni del vecchio Piovano, e gli strani consigli del padre Pendola mi diedero troppo da pensare, da fare, da meditare, da godere e da soffrire perché mi pentissi di aver lasciata a’ miei compagni la cura delle cose di Francia e il passatempo delle gazzette. Peraltro tutte cotali cose mi fecero l’effetto d’una commedia goduta, in confronto di quanto mi fece provare in que’ due mesi la sola Pisana. Che l’indole di lei fosse migliorata nel frattempo nessuno lo vorrebbe credere se anche io fossi tanto bugiardo sfacciato da affermarlo. Bensì era cresciuta di bellezza nelle forme e nel volto. S’era fatta veramente donna; non di quelle che somigliano fiori delicati cui la prima brezza del novembre torrà l’olezzo e il colore; ma una figura altera, robusta, ricisa, ammorbidita da una rosea freschezza e da una mobilità di fisonomia bizzarra e istantanea sovente, ma sempre graziosa e ammaliatrice. Quando quella fronte superba e marmorea si chinava un istante alle occhiate procaci d’un giovane, e le pupille velate e come confuse si volgevano a terra, una tal fiamma di desiderii, di voluttà e d’amore traluceva da tutta lei, che le si respirava dintorno quasi un’aria infuocata. Io era geloso di chi la guardava. E come poteva non esserlo io che l’amava tanto, io che la conosceva fin nel profondo delle viscere? – Povera Pisana! – Ne aveva ella colpa se la natura abbandonata a se stessa avea guastato di sua mano ciò ch’ella di sua mano avea preparato perché gli amorosi accorgimenti dell’arte ne cavassero un prodigio d’intelligenza, di bellezza e di virtù? Ed io, aveva io colpa di amarla tuttavia, ebbi poi colpa d’amarla sempre, quantunque ingrata, perfida, indegna, se sapeva di essere il solo al mondo che potessi compatirla? La terribile sventura del peccato non ha ad essere, ricompensata quaggiù da nessun conforto?
Memoria, memoria che sei tu mai! Tormento, ristoro e tirannia nostra, tu divori i nostri giorni ora per ora, minuto per minuto e ce li rendi poi rinchiusi in un punto, come in un simbolo dell’eternità! Tutto ci togli, tutto ci ridoni; tutto distruggi, tutto conservi; parli di morte ai vivi e di vita ai sepolti! Oh la memoria dell’umanità è il sole della sapienza, è la fede della giustizia, è lo spettro dell’immortalità, è l’immagine terrena e finita del Dio che non ha fine, e che è dappertutto. Ma la mia memoria frattanto mi servì assai male; essa mi legò giovane ed uomo ai capricci d’una passione fanciullesca. Le perdono tuttavia; perché val meglio a mio giudizio il ricordar troppo e dolersene, che il dimenticar tutto per godere. Dirvi quanto soffersi nel giro di quelle poche settimane sarebbe opera lunga. Ma deggio pur confessare a mia lode che la compassione più assai della gelosia mi tormentava; nessun cruccio è così forte come quello di dover biasimare e compiangere l’oggetto dell’amor nostro. Le stranezze della Pisana toccavano sovente all’ingiustizia; spesso apparivano svergognatezza, se io non avessi ricordato quanto spensierata ella fosse di natura.
Le sue simpatie non aveano più né ragione né scusa né durata, né modo. Questa settimana s’apprendeva d’un affetto rispettoso e veemente pel vecchio Piovano di Teglio; usciva col velo nero sul capo e le ciglia basse; s’intratteneva con lui sulla porta della canonica volgendo le spalle ai passeggieri; udiva pazientemente i suoi consigli e perfino le sue mezze prediche. Si ficcava in testa di diventare una santa Maddalena, e si pettinava i capelli come li vedeva a questa santa in un quadretto che stava a capo del suo letto. Il giorno dopo compariva mutata come per incanto; la sua delizia non era più il Piovano, ma il cavallante Marchetto; voleva a tutta forza ch’ei le insegnasse a cavalcare; scorazzava pei prati a bisdosso d’un ronzino come un’amazzone, e si guastava la fronte e le ginocchia contro i rami della boscaglia. Allora non voleva seco che poverelli e contadini; si atteggiava, credo, a castellana del Medio Evo; camminava lungo il rio a braccetto di Sandro il mugnaio, e perfin Donato, lo spezialino, le pareva troppo azzimato e artifizioso. Poco stante eccola cambiar registro; voleva esser condotta mattina e sera a Portogruaro; faceva attrappire tutti i vecchi cavalli di suo padre nelle fangose carraie di quelle stradaccie, ma si dovea sempre correre di galoppo. Godeva di eclissare la Podestaressa, la Coreggitrice, e tutte le signore e donzelle della città. Giulio Del Ponte, il damerino più vivace e desiderato, le serviva di riverbero: parlava e gesticolava con lui, non perché avesse nulla a dirgli, ma per ottener voce di briosa e maligna. Giulio ne era innamorato pazzamente e avrebbe giurato ch’ella aveva più brio di tutte le male lingue di Venezia. Ella invece sempre scontenta, sempre tormentata da desiderii mal definiti, e da una voglia sfrenata di piacere a tutti, di far bene a tutti, non pensava che ciò, non si studiava che a ciò, e rade volte si prendea la riga di neppur ascoltare quando altri parlava.
Questa era una qualità singolarissima della sua indole, che purché fosse certa di far contento alcuno, a nessuna opera, per quanto difficile e schifosa, si sarebbe rifiutata. Se uno storpio, uno sciancato, un mostro avesse mostrato desiderio d’ottenere un suo sguardo lusinghiero, tosto ella glielo avrebbe donato così amorevole, così lungo, così infocato come al vagheggino più lindo e lucente. Era generosità, spensieratezza, o superbia? Forse questi tre motivi si univano a renderla tale; per cui non ebbe dintorno essere tanto odioso e spregevole che con un’attitudine di preghiera non ottenesse da lei confidenza e pietà, se non affetto e stima. Perfino con Fulgenzio si addomesticava talvolta a segno da sedere al suo focolare intantoché dimenavano la polenta. E poi, uscita di là, la sola memoria di quel bisunto e ipocrita sagrestano le metteva raccapriccio. Ma non sapeva resistere a un’occhiata di adulazione. La signora Veronica s’era accorta di questo; e di antipaticissima che le era dapprincipio avea saputo renderlesi sopportabile e quasi cara, a forza di piacenteria. Figuratevi qual perfezionamento di educazione fu per lei l’interessata indulgenza di quest’aia da trivio! Avea finito per entrarle in grazia col farle addirittura da mezzana; ed era dessa che correva ad avvertirla e faceva scappare Giulio Del Ponte per la parte delle scuderie, quando il Conte o Monsignore si svegliavano prima del solito. La Faustina, rimasta a Fratta come cameriera, non le era miglior compagna. Queste mezze vesticciuole cittadinesche ridotte a vivere in campagna, diventano maestre di vizii e di corruzione; e la Faustina peggio forse di molte altre, perché ve la tirava il temperamento tutt’altro che modesto. La complicità della padrona le sembrava la miglior arra d’impunità; e potete credere se la aiutava con zelo, e se la eccitava colle suggestioni e coll’esempio!
Io mi maraviglio ancora che non ne nascesse sotto gli occhi del Conte e del Canonico qualche gravissimo scandalo; ma forse le apparenze furono peggiori della realtà, e le fatiche corporali e la vita selvatica e vagabonda attutirono per allora nella Pisana gli istinti focosi e sensuali. In ciò io era più disposto tuttavia a veder nero che bianco; perché essendo stato testimonio e compagno delle sue infantili effervescenze, durava grande fatica a credere che l’età più adulta avesse smorzato in lei quello che suole accendere negli altri. Briaco d’amore e di rimembranze, ogni qualvolta un impeto di compassione me la recava fra le braccia e non la sentiva tremare e sospirare come avrei voluto, la gelosia mi torceva l’anima: pensava che a me restassero le ceneri d’un fuoco che avea bruciato per altri, e su quelle labbra dove m’immaginava dover gustare ogni gioia del paradiso trovava invece i tormenti dell’inferno. Ella si stoglieva da me disgustata della mia freddezza, della mia rabbia continua; io fuggiva da lei colle mani nei capelli, colla disperazione nel cuore volgendo nell’animo pensieri di morte e di vendetta. Giulio Del Ponte mi sovveniva allora colla sua fisonomia piena di fuoco, d’ardimento, di vita, co’ suoi occhi inondati sempre di gioia e d’amore, col suo sorriso schernitore insieme e procace come quello d’un fauno greco, colla sua loquela pronta, vivace, immaginosa, soave! Io lo odiava in ragione delle immense doti concessegli da natura per ammaliare le donne; mi piaceva di pensare ch’egli non era né bello né robusto né ben fatto, e che la più guercia donzella del contado avrebbe preferito le mie larghe spalle e la mia aperta e sana figura a quel suo corpicciuolo magro, sparuto, convulso. Contuttociò dinanzi alla Pisana mi sentiva nulla appetto a lui; capiva che se fossi stato donna, io pure gli avrei concesso la palma in mio confronto. Dio! cosa non avrei io dato allora per cambiarmi con lui a prezzo di qualunque sacrifizio! – Avessi perduto le forze, la salute, fossi morto sfilato il giorno dopo, non avrei esitato a entrar ne’ suoi panni per godere un istante di trionfo, e credere ch’ella mi amava più di se stessa! Sciocco di pensare e di desiderar ciò! Nessuno al mondo esisterà mai, per santo incantevole e perfetto, che avesse potuto concentrare in sé solo e per sempre tutti gli affetti, tutti i desiderii della Pisana. Io che ne aveva una buona parte, desiderava l’altra: se avessi ottenuto questa, mi sarebbe mancata la prima. Poiché né Giulio, né alcun altro prima o dopo di lui, poté vantarsi di godere al pari di me la confidenza e la stima della Pisana. Io solo, io solo ebbi questa parte più intima e sola forse santa dell’anima sua; io solo, nei pochi intervalli che fui da lei beato d’amore, ho potuto credermi padrone di tutto l’esser suo, veramente amante, poiché l’amava conoscendola com’ella era; veramente amato, perché al sentimento che mi desiderava, la ragione stessa dava la sveglia e l’abbandono soave della gratitudine. Oh! mi si conceda questo unico premio d’un amore sì lungo, paziente, infelice. Mi si conceda di poter credere che come io prelibai le delizie di quell’anima, così solo ne ebbi il pieno godimento. Né lo spettacolo d’un bello e vario prospetto di natura, né l’aspetto d’un quadro finitamente condotto può apprezzarsi degnamente se non da chi ha la vera conoscenza della natura e dell’arte. Nessuno potrà apprezzar certo i tesori di un’anima, se non ne ha indagato con lunga consuetudine e con devoto e profondo amore i più reconditi nascondigli. La Pisana fu una creatura siffatta che soltanto chi nacque, si può dire, e crebbe con lei, e pensò sempre a lei, e non amò che lei, può averla interamente indovinata.
In onta alle lezioni del Piovano io posso assicurarvi che io non era in fin d’allora né un cristiano esemplare, né un giovine scrupoloso. La libertà lasciatami nell’infanzia, e gli esempii altrui sia a Fratta che a Portogruaro ed a Padova avean lasciata assai lenta la briglia a’ miei costumi. Pure coll’avara cautela dell’amore io studiai ogni via per ritrar la Pisana da quel pericoloso sentiero a cui mi pareva avviata. Era carità pelosa, se volete; ma il tentativo era a fin di bene, senza metter in conto altri intenti personali. La Pisana non s’avvide di questi miei sforzi; la Faustina e la Veronica ne indispettirono. Quest’ultima, credo, ebbe paura ch’io intendessi farle la satira a lei ed alla sua manica larga; ma se ella temeva ciò in fatti, doveva farne suo pro’ e correggere con qualche accorgimento di severità un’eccessiva indulgenza. Al contrario continuò nella sua cieca condiscendenza, vendicandosi di me collo screditarmi in ogni mala guisa presso la Pisana. Io credo in ultima analisi ch’ella riversasse, sopra questa povera disgraziata tutto l’odio che aveva accumulato nel fegato contro la Contessa sua madre in tanti e tanti anni di spregii sofferti e di muta e tremante servitù. Se ne pagava col guastarla nell’ozio, nella frivolezza e nelle famigliarità d’ogni peggior vitupero; non sarebbe questo il primo esempio di simile vendetta per parte di un’aia. Baldracca più sboccata di lei e della Faustina io non mi ricordo averla trovata mai in nessun porto di mare; ma dinanzi al Conte e a Monsignore sapeva star contegnosa, e tutte le sere nella stanza della Contessa vecchia intonava devotamente il Rosario, cui l’inferma dal suo letto e una contadinella destinata a vegliarla, dopo la partenza della Clara, rispondevano con voce sommessa.
La Pisana anche colla nonna usava come cogli altri; una settimana sì ed un’altra no; non v’aveano che suo padre, il Cancelliere e lo zio Monsignore che non godessero de’ suoi insulti di tenerezza; ma questa era gente di carta pesta, che non aveva anima, che non aveva né indole propria né colore e la Pisana se ne dimenticava. Dubito che si sarebbe anche dimenticata della madre e della sorella, perché la lontananza fu sempre pe’ suoi affetti un calmante prodigioso. Ma una lettera della Contessa con un poscritto della Clara la faceva risovvenire ogni due mesi di quella parte di famiglia che viveva a Venezia; siccome poi in quella lettera si davano novelle anche del Contino che era agli ultimi anni della sua educazione, così ogni due mesi la risovveniva di avere un fratello. Gli zii Frumier erano forse i soli che, lontani o vicini, stettero sempre in mente o sulle labbra alla fanciulla. Quel poter nominare un Senatore, un parente del doge Manin, e dire – gli è mio zio –, era per lei una discreta soddisfazione, e se la prendeva sovente anche senza una stretta necessità. Giulio Del Ponte e la Veronica le menzionavano sovente suo zio Senatore quando la vedevano sconvolta o annuvolata. A quelle magiche parole si rasserenava, si ricomponeva immantinente per dilagarsi in gran chiacchere sulla potenza e sull’autorità del Senatore, sui suoi palazzi, sulle sue ville, sulle sue gondole, sulle vesti di seta, sulle gemme e sui brillanti della zia. E quante maggiori splendidezze narrava, tanto più vi scivolava sopra colla lingua senza alcun sussiego quasi a dimostrare che di cotali cose essa aveva troppa consuetudine per esserne maravigliata. Invece, poverina, né gioie, né ville, né palazzi essa aveva veduto mai fuori del palazzo del Frumier a Portogruaro, e della crocetta di brillanti di sua mamma; l’immaginazione suppliva a tutto, e si comportava alla foggia delle attrici che parlano in commedia dei loro cocchi, dei loro tesori, né hanno mai cavalcato un asino o fiutato l’odor d’un zecchino.
Peraltro io mi stupii sempre che col gran magnificar ch’ella faceva l’eccellentissima casa Frumier, rimanesse poi mogia, imbrogliata e quasi uggiosa quando vi compariva in conversazione. Ora capisco che il solo dover cedere alla zia il primo posto le tarpava le ali dell’orgoglio; e più poi insalvatichita dalla solitudine di Fratta e dal consorzio di rozzi villani o di pettegole sfacciate, non s’arrischiava di mischiarsi ai ragionari degli altri e così s’imbronciava di dover sfigurare in punto a brio ed a loquela. Ma volendo ricattarsene coi vezzi e collo splendore della bellezza, cadeva nell’altro sconcio di far sempre mille attucci e di restar sempre preoccupata di sé in modo che pareva perfino stupida. Monsignor di Sant’Andrea che in onta al barbaro abbandonamento della Contessa avea serbato alla figlia una calorosa predilezione, la proteggeva sovente contro i motteggi dei maligni. Affermava egli che la era piena di brio, d’ingegno, e di sapere, ma che per dar risalto a tutti questi pregi sarebbe occorsa un’abbondante sbruffata di vaiuolo.
– Ma che Dio ne la preservi! – soggiungeva il dotto canonico – perché d’ingegno e di dottrina ne son piene perfin le cantere della biblioteca, mentre una bellezza come questa non la si trova né in cielo né in terra, e bisogna esser di pietra per non esserne esilarati fino in fondo al cuore solo a contemplarla!...
Giulio Del Ponte sosteneva a spada tratta il parere di Monsignore; ma l’Eccellentissimo Frumier gettava sul giovine qualche occhiatina agrodolce quand’egli s’incaloriva tanto sopra questo argomento. Gli è vero che la Pisana non somigliava per nulla alla Clara, ma Giulio somigliava troppo a Lucilio e il Senatore ne avea mosso cenno più volte al cognato. Eh sì, ci voleva altro per promovere una deliberazione del signor Conte! Egli si era scaricato di tutti i doveri della paternità sulle spalle della signora Veronica; e siccome le infinite chiacchere di costei gli davano il capogiro, s’accontentava di domandare al Capitano:
– Ehi, Capitano! cosa ne dice della Pisana vostra moglie? È contenta del suo contegno, delle sue maniere, de’ suoi lavori? Si fa esperta nelle faccende casalinghe?
Il Capitano imbeccato dalla Veronica rispondeva a tutto di sì; e poi torceva e ritorceva quei suoi poveri baffi, che a furia di esser toccati, stravolti, malmenati, s’eran ridotti, di neri, grigi, di grigi, canuti, e di canuti, gialli. Avevano il più bel colore di zucchero filato che si potesse vedere; e soltanto la coda di Marocco, in merito della vecchiaia e dell’esser continuamente abbrustolita sul fuoco, aveva acquistato una tinta consimile. Marchetto aveva offerto al Capitano, per quella sola coda, la cessione di tutti i suoi crediti di gioco; e l’Andreini e il Cappellano affermavano che solo il valoroso Sandracca ed il suo nobile cane da ferma potevano gareggiare coll’alba nel colore del pelo. Questi ospiti perpetui del castello di Fratta eran divenuti sempre più domestici e burloni, dopo la partenza della Contessa; e neppure il Cappellano pativa più tanto la soggezione. Perfino i gatti della cucina avean perduto l’antica salvatichezza e s’accoccollavano fra le ceneri e sui piedi della compagnia. Un vecchio gattone soriano, grave come un consigliere, s’era legato di strettissima amicizia con Marocco: dormivano insieme in comunanza di paglia e di pulci, passeggiavano di conserva, mangiavano sullo stesso desco, e s’esercitavano alla stessa caccia, a quella dei sorci. Ma con molta discretezza e affatto signorilmente; si vedevano in essi i cacciatori dilettanti che si movevano per ingannar l’ora, e cedevano la preda al servidorame degli altri gatti e gattini della cucina.
A dirvi il vero, trascorsi i primi giorni nei quali la Pisana era tornata la mia fedelona d’una volta, io non ci stava bene per nulla in mezzo a quella gente. Quando era piccino mi accontentava di non intenderli e di ammirarli; allora invece li intendeva benissimo senza capire come potessero godersi di tante scipitaggini. Mi ficcai dunque per disperazione in cancelleria; e là impasticciava protocolli e copiava sentenze raccomodando anche mano a mano molti strafalcioni che sgorgavano dalla fecondissima penna del mio principale. E sì che aveva sempre il capo nelle nuvole! e ad ogni pedata che udissi nel cortile correva alla finestra per vedere se era la Pisana che usciva o che tornava dalle sue gite solitarie. Era tanto inasinito che nemmeno lo scalpiccio di due zoccoli mi lasciava quieto; udiva sempre la Pisana, la vedeva dovunque, e per quanto ella sfuggisse d’incontrarsi con me, e incontratomi mi tenesse il broncio, io non cessava dal desiderarla come il solo bene che m’avessi. La signora Veronica si compiaceva di gabbarmi per questa mia smania, e m’intratteneva sovente del gran chiasso che la Pisana faceva a Portogruaro, e di Giulio Del Ponte che moriva per lei, e di Raimondo Venchieredo che, escluso dal vederla a Fratta o in casa Frumier, la aspettava sulla strada o nei luoghi ov’ella costumava passeggiare. Io mi rodeva di dentro e scappava da quella ciarlona. Rifaceva passo passo le corse di una volta; andava fino al bastione di Attila a contemplarvi il tramonto; là mi saziava di quel sentimento dell’infinito con cui la natura ci accarezza nei luoghi aperti e solinghi; guardava il cielo, la laguna, il mare; riandava le memorie della mia infanzia, pensando quanto era fatto diverso, e quante diversità ancora mi prometteva o mi minacciava il futuro.
Qualche volta mi ricoverava a Cordovado in casa Provedoni dove almeno un po’ di pace, un po’ di giocondità famigliare mi rinfrescava l’anima quando non la guastava la Doretta colle sue scappatelle o co’ suoi grilli da gran signora. I più piccoli dei fratelli Provedoni, Bruto, Grifone, Mastino, erano tre bravi ed operosi garzoni, ubbidienti come pecori, e forti come tori. La Bradamante e l’Aquilina mi piacevano assai per la loro rozza ingenuità, e pel continuo e allegro affaccendarsi delle loro manine a vantaggio della famiglia. L’Aquilina era una fanciulla di forse appena dieci anni; ma attenta grave e previdente come una reggitrice di casa. A vederla sul fosso in fondo all’ortaglia occuparsi a risciacquare il bucato col suo corsetto smanicato e la camicia rimboccata oltre il gomito, la sembrava proprio una vera donnetta; e io ci stava presso di lei le lunghe ore rifacendomi quasi fanciullo per godere d’un po’ di quiete almeno colla fantasia. Bruna come una zingarella, di quel bruno dorato che ricorda lo splendore delle arabe, breve e nerboruta di corpo, con due folte e sottili sopracciglia che s’aggruppavano quasi dispettosamente in mezzo alla fronte, con due grandi occhi grigi e profondi, e una selva di capelli crespi e corvini che nascondevano per metà le orecchie ed il collo, l’Aquilina aveva un’impronta di calma e di fierezza quasi virile che contrastavano colla modesta titubanza della sorella maggiore. Costei in onta a’ suoi vent’anni pareva più bambina dell’altra: eppure la era una ragazza di garbo, e il signor Antonio diceva scherzosamente che chi l’avesse voluta sposare avrebbe dovuto pagargliela salata. Ma tutte e due si mostravano ammirabili di pazienza nel loro contegno verso Leopardo e la cognata. Costei arrogante, bisbetica, malcontenta di tutto; suo marito infinocchiato e aizzato sempre da lei, ingiusto, zotico e crudele a sua volta; non è a dire quanto l’indole di lui s’era cambiata sotto l’impero della moglie. Non lo si conosceva proprio più, e tutti strolicavano3 per sapere qual droga avesse filtrato la Doretta per affaturarlo a quel modo. Alle corte, non era stato che amore; ma l’amore, che è un ventaglio d’angelo nelle mani della bontà, abbrancato dalla malignità e dall’orgoglio diventa un tizzone d’inferno. La Doretta si pentiva di essersi piegata a quel matrimonio con Leopardo, e non si schivava dal dirlo a tutti ed anco a lui, facendogli anche misurare la gran degnazione ch’era stata la sua a sposarlo. I corteggiamenti di Raimondo le davano a credere che se avesse avuto pazienza di restar zitella, a ben più eccelso stato poteva aspirare che non a quella stentata condizione di moglie d’un possidentuccio di paese, e nuora e cognata per giunta di villanzoni duri, frugali, e bigotti. La dimora in casa le pareva omai intollerabile; stava sovente le giornate intere a Venchieredo, e se le domandavano ov’era stata non si degnava neppur di rispondere, ma squassava le spalle e tirava innanzi. Per poter comparire in gran pompa a Portogruaro, avea trovato la scusa di scegliersi a confessore il padre Pendola. Ma queste frequenti confessioni poco contribuivano, per quanto pareva, a migliorarla ne’ suoi costumi.
Fino con suo padre aveva smesso di usar le buone, come usano sempre i temperamenti fastidiosi, che cominciano ad irritarsi contro qualcuno, e finiscono poi col pesar sopra tutti. Gli serbava astio di aver consentito alle sue nozze con Leopardo, e se il dottor Natalino soggiungeva che era stata lei a volerlo, si rimbeccava come una vipera, gridando che è dovere dei padri soccorrere col loro senno il giudizio poco maturo delle figliuole, e che certo se ella avesse mostrato voglia di gettarsi nel pozzo avrebbe avuto la consolazione di sentirsi dare la prima spinta da suo padre. Toccava poi al padroncino quietarla da tali furie: e come vi riuscisse e con santo onore del credulo Leopardo, io lo lascio pensare ai lettori. Infin dei conti tutto il paese mormorava di lei, e la famiglia tuttavia la sopportava con rassegnazione, e il povero marito non vedea cosa da lei desiderata che subito non gettasse foco dalle narici per ottenerla. Io fra me e me ritraeva dallo spettacolo di queste scene domestiche i miei ammaestramenti, i miei conforti; toccava con mano che la felicità è relativa, passeggiera ma più ancor rara e fallace. Tornando poi a Fratta se ben poco mi restava di tali conforti, avea se non altro passato qualche ora senza frugar colle unghie nelle mie piaghe; e qualcheduna mi si chiudeva lentamente: però ne restavano le cicatrici fino all’osso, e restava come quei barometri ambulanti nei quali ogni costola, ogni giuntura con doloruzzi e scricchiolamenti dà indizio del cambiar del tempo.
Continuava così vagabondo e melanconico in quelle vacanze autunnali quando un giorno che avea creduto intravvedere nella Pisana una cera più benigna del solito, me le misi dietro, la seguii fuori per l’orto fin sulla strada di Fossalta; e poi avvicinandomele di soppiatto passai il mio braccio nel suo chiedendole se mi avrebbe sopportato per compagno. Non avessi mai osato tanto! La giovinetta mi si voltò contro con tali occhi che parve mi volesse divorare; e poi volle dar sfogo alla sua bile con qualche grande ingiuria, ma la voce le rimase strozzata in gola, e si morse le labbra che ne spillò il sangue fino sul mento.
– Pisana, – le dissi – per carità Pisana, non guardarmi in quella maniera.
Ella strappò violentemente il braccio di sotto al mio e lasciò di mordersi le labbra perché omai la rabbia dava passo alle parole.
– Cosa fate? cosa mi chiedete? – rispose ella disdegnosamente. – Non siamo più fanciulli mi pare! Ora è tempo di stare ciascuno al nostro posto, e mi maraviglio che voi, anziché eccitarmi a dimenticare questa massima, non me la rechiate a mente quando la troppa bontà me ne fa smemorare. Già lo sapete ch’io sono bizzarra e di primo impeto; or dunque tocca a voi freddo e ragionevole di natura ricordarvi chi siete e chi sono io!...
Ciò detto ella mi volse le spalle e s’avviò verso l’ombra di alcuni salici dove Giulio Del Ponte l’aspettava collo schioppo in ispalla. Seppi poi che si avean data la posta colà, e che l’idea ch’io la seguissi per ispiarla avea ispirato alla Pisana quelle cattive parole. Non monta. Io ne patii allora fino in fondo all’anima. Tornai in castello che non sapeva se fossi morto o vivo; girava qua e là su e giù per le scale come l’ombra d’un dannato; entrai spensatamente in camera della Contessa vecchia.
– Guardate se è la Clara! – disse costei alla sua infermiera, perché gli occhi oggimai non le servivano più che per piangere le lagrime senza conforto della vecchiaia.
Io fuggii addolorato e stravolto; corsi corsi fino disopra nel mio covacciolo ove tutto stava ancora disposto come quand’io n’era uscito un anno prima. Di là, dopo una lunga ora, passai nella camera di Martino. La mia devozione e l’incuria degli altri non avean messo un dito nelle cose lasciate dal vecchio. Per terra giacevano ancora alcuni chiodi avanzati al becchino che lo avea rinchiuso nella cassa; una fiala con non so qual cordiale disseccato e corrotto stava sulla tavola. Sul muro spenzolavano ancora sfogliati polverosi rami di olivo appesivi da lui nell’ultima domenica delle Palme di sua vita. Mi gettai sopra il letto impresso ancora dalla giacitura del cadavere; là piansi amaramente, evocai la memoria di quel mio primo e si può dir solo amico; lo chiamai a nome mille e mille volte, lo pregai che si ricordasse di me e che scendesse anima o spettro a consolarmi della sua compagnia. Ma la fede titubava anche in queste invocazioni; io non sperava, io non credeva più. Solamente più tardi a forza di tormenti e di sforzi giunsi a rafforzarmi il cuore d’una credenza vaga, confusa, ma pur sicura ed intrepida nelle cose spirituali ed eterne. Allora balbettava sì le orazioni nelle chiese, ma l’anima mia era arida come uno scheletro; la mente cadeva appassita dall’aria greve del mondo; il cuore scoraggiato si appigliava alla speranza del nulla come ad unico rifugio di pace. Questo interno scoraggiamento mi rendeva terribile ed amara perfin la memoria di quel buon vecchio che ad onta delle mie disperate invocazioni non avrei più potuto rivedere, e che dormiva nel sepolcro; mentr’io mi trangosciava nella vita.
L’aria di morte che colà respirava mi invase a poco a poco il cervello: le lagrime mi si stagnarono sulle ciglia; e l’occhio prese una guardatura vitrea e tormentosa ch’io m’ingegnava indarno di cambiare. Mi pareva che il fuoco della vita si ritraesse da me; sentiva il gelo, i fantasmi, i terrori dell’agonia che mi opprimevano; vi fu un istante che cambiato quasi in cadavere credetti di essere lo stesso Martino, e mi maravigliava di esser uscito dalla fossa, e aspettava e temeva che di momento in momento entrassero i becchini per riportarmivi. Questo pensiero strano e spaventoso mi si ingrandiva dinanzi come la bocca d’un abisso; non era più un pensiero ma una visione, una paura, un raccapriccio. La luce della finestra mi percosse le pupille quasi assopite; forse in quel momento il sole sbucava da qualche nuvola e inondava la stanza cogli splendori del giorno: un desiderio d’aria, di quiete, d’annientamento s’impadronì di me. Sorsi barcollando, e mi trascinai al davanzale del balcone; ma lo strepito d’una seggiola che rovesciai nel movermi, mi svegliò un poco da quel sogno funereo. Del resto credo che mi sarei precipitato dalla finestra, e la mia vita sarebbe passata senza il lungo epitaffio di queste confessioni. Stesi la mano per appoggiarmi alla tavola, e toccai qualche cosa che mi restò fra le dita. Era un libricciuolo di devozione; quello appunto che il vecchio Martino soleva leggicchiare tutte le domeniche durante la messa; gli occhiali vi stavano ancora dentro in guisa di segno. Parve quasi che l’anima del mio amico fosse accorsa alle mie chiamate e s’apprestasse a rispondermi dalle pagine sdruscite di quel libro; gli occhi mi si inumidirono di nuovo, e mi abbandonai col capo nelle mani sopra la tavola, singhiozzando senza ritegno. Allora tornò se non la calma almeno la luce nel mio spirito, e a poco a poco ricordai come e perché fossi là venuto; e quali dolori mi aveano fatto cercare ricovero nella memoria d’un morto.
Mi rizzai tremante e lagrimoso ancora, ma conscio e sicuro di me; apersi religiosamente il libro e ne sfogliai con raccoglimento le pagine. Erano le solite orazioni, semplici e fervorose; conforto ineffabile delle anime divote, geroglifici ridicoli e misteriosi pei miscredenti. Qua e là si frapponeva l’immagine di qualche santo, qualche polizzino di comunione col suo testo latino e la cifra dell’anno in fronte; modeste pietre miliari d’una lunghissima vita, ammirabile di fede, di sacrifizio, e di contenta giocondità. Finalmente mi capitò sott’occhio una carta piena da capo a fondo d’uno stampatello irregolare e minuto, quale è usato da coloro che imparavano soli a scrivere metà da scritture corsive e metà da lettere stampate. Era il carattere autentico di Martino, e mi sovvenne allora ch’egli già adulto a forza di scarabocchiare era giunto ad esprimere alla bell’e meglio quanto aveva in capo, per potersene giovare nel render conto delle spese ai padroni. Trovata quella carta mi parve aver tra mano un tesoro, e mi accinsi ad interpretarla benché non mi sembrasse impresa tanto agevole. Pure, cerca e ricerca, aggiungi di qua e togli di là, a forza d’ipotesi, di rattoppi e di appiccature, mi venne fatto di cavare un senso da quel viluppo di lettere, vaganti senz’ordine e senza freno come un branco di pecorelle ignoranti. Pareva fossero ricordi o ammaestramenti d’esperienza ritratti da qualche stretta pericolosa della vita vittoriosamente superata; e a rinfiancarli il buon vecchio aveva aggiunto qualche massima divota e i comandamenti di Dio ove cadevano a proposito. E la scrittura non mancava di qualche rozza eleganza come sarebbe d’un trecentista, o di qualunque uomo che non sa scrivere ma sa pur pensare meglio di coloro che scrivono. Cominciava così:
«Se sei al tutto infelice è segno che hai qualche peccato sull’anima; perché la quiete della coscienza prepara a’ tuoi dolori un letto da riposarsi. Cerca e vedrai che hai trascurato qualche dovere, o fatto dispiacere ad alcuno; ma se riparerai all’ommissione e al mal fatto, tornerà subito la pace a rifiorir nel tuo cuore, perché Gesù Cristo ha detto: Beati coloro che soffrono persecuzione.
«Dimentica i piaceri che ti son venuti di sopra a te; cercali sotto a te nell’amore degli umili. Gesù Cristo amava i fanciulli, i cenciosi, e gli storpi.
«Non guardare alla tua condizione come ad una galera cui sei condannato. Galeotti in veneziano si chiamano i birbanti. Ma i buoni lavorano per amore del prossimo e quanto più duro è il lavoro tanto è maggiore il merito. Bisogna amare il prossimo come noi stessi.
«Non ribellarti a chi ti comanda; soffri la sua durezza non per timore ma per compassione, acciocché non accresca il suo peccato. Gesù Cristo ubbidì ad Erode e a Pilato.
«Il segreto che ti si rivela per caso, è più sacro di quello che ottieni in deposito dalla fiducia altrui. Questo ti è confidato dall’uomo, e quello da Dio. La soddisfazione di averlo custodito gelosamente ti darà maggior piacere che non ne otterresti dai favori o dai denari che ti si offrono a tradirlo. La pace dell’anima val più di mille zecchini; io lo posso assicurare; e mi avvedo ora che pensai giustamente e pel mio meglio.
«Vivendo bene si muore meglio, desiderando nulla, si possiede tutto. Non desiderare la roba d’altri. Però non bisogna né disprezzare né rifiutare per non offender nessuno.
«Se adempiendo a tutti i tuoi doveri non sei ancora in pace con te stesso, gli è segno che ignori molti altri doveri che ti incombono. Cercali, adempili e sarai contento per quanto lo sopporta la condizione umana.
«La disperazione è sempre stata la più gran pazzia, perché tutto finisce. Parlo delle cose di questa vita. Ma le gioie del Paradiso non finiscono mai; e neppur la fede nel Signore Iddio. Ch’egli mi aiuti a conseguirle. Amen».
In un cantoncino rimasto bianco stavano scritte con carattere più minuto e posteriore quest’altre due massime:
«Quando sei buono a nulla per vecchiaia o per malattia, considera ogni servigio che ti si rende come un dono spontaneo.
«Non sospettar il male; ne vedi anche troppo di certo per immaginarti l’incerto. I giudizii temerarii sono proibiti dalla legge del Signore. Ch’egli mi benedica. Amen.»
Confesso la verità che dicifrata questa scrittura io rimasi umiliato di molto ed anche un po’ afflitto d’averla letta. Io che avea sempre stimato Martino un semplicione, un dabbenuomo, un buon servitore, umile, premuroso, riservato come se ne usavano una volta e nulla più! Io che appetto a lui, massime negli ultimi anni, dappoiché rosicchiava un po’ di latino, mi teneva per un uomo di conto, e mi stimava di seguitare a volergli bene, quasi fosse la mia una gran degnazione! Io che avrei sdegnato di fargli parte del mio peregrino sapere per paura non già che essendo sordo non mi udisse, ma che non mi comprendesse pel suo ingegno zotico e triviale!... Guardate! con quattro righe buttate giù sulla carta egli me ne insegnava dopo morto più ch’io non avrei potuto insegnarne agli altri studiandoci sopra tutta la vita! Di più, frammezzo a’ suoi precetti ve n’erano di tanto sublimi nella loro semplicità ch’io non arrivava a comprenderli; e sì che le parole dicevano chiaro! – Per esempio, dove stava scritto di cercare quali altri doveri sconosciuti ci incombessero da adempiere se l’adempimento di quelli che conosciamo non bastasse a farci vivere in pace con noi stessi, cosa voleva dire il buon Martino? E questo era proprio il mio caso; e dietro questa massima più che colle altre mi tornava conto di lambiccare il cervello. Basta! Per allora mi rassegnai a leggerla e a rileggerla, se non senza capirla così astrattamente, almeno senza poterne trovare un modo di applicazione alle mie circostanze. E tornai a meditare la prima, la quale ascriveva a qualche nostra mancanza o a qualche cattiva azione la piena infelicità!
– Povero me! pensai – certo che io ho molte colpe sulla coscienza, perché mi sento oggi più miseramente infelice che uomo alcuno al mondo non possa essere.
Sì, ve lo giuro, feci un esame di coscienza così sottile, così scrupoloso che non fu senza merito per essere stato il primo: colla nozione imperfettissima ch’io aveva delle leggi morali, ho paura che me [ne] passassi buona più d’una, ma anche mi rampognai di cose per sé innocentissime; come per esempio d’essermi sempre rifiutato a stringer amicizia coi figliuoli di Fulgenzio e di serbar poca gratitudine alla signora Contessa. Il primo peccato lo iscriveva a superbia, ed era antipatia pura e semplice; del secondo accagionava il mio cattivo animo, ma tutta la colpa l’aveva la memoria tenace della mia povera zazzera, tanto ingiustamente martorizzata. Intanto, quello che più importa, non m’illusi punto sul mio peccataccio più grosso, su quello sfrenato amore per la Pisana, il quale mi si scoprì d’un tratto alla coscienza in tutta la sua bestiale salvatichezza. Io aveva amato la Pisana fin da piccino! Ottimamente! Fin da piccino avea sognato con esso lei un amore da uomo! Cose compatibili in un ragazzo che ragiona coi piedi! – Giovinetto e già ragionevole e malizioso oltre il bisogno, avea persistito in quella bizzarria fanciullesca. – Male, signor Carlino! Ecco il primo scapuccio4 dopo il quale vengono gli altri, come le ventidue lettere dell’alfabeto dopo la prima. La ragione doveva avvertirmi ch’io era o il cugino o il servitore della Pisana. (Servitore, dico, perché coi servi era il mio posto nel castello di Fratta); in ambedue i casi non mi stava di appiccicarmi a lei colle pretese d’un amore contro l’ordine delle cose. Veggiamo un poco: coll’amore dove si giunge o dove si intende di giungere? Al matrimonio; questa è sicura; e io la sapeva e la vedeva tutti i giorni. Ma io, doveva io mai sperare di sposarmi colla Pisana?... Chi sa!... Zitti, desiderii chiaccheroni che correte incontro all’impossibile. Qui non si tratta di sapere se la tal cosa può avvenire in natura, ma se è solito che avvenga, e se contenterà quelli che ci hanno intorno le mani. Conveniva proprio ch’io confessassi che né il matrimonio mio colla Pisana sarebbe stato secondo l’ordine consueto del mondo, e che né il Conte né la Contessa né alcun altro né forse la Pisana stessa avrebbero avuto ragione di esserne contenti. Dunque? dunque correndo dietro a quello stregamento io non batteva la buona via; correva pericolo di fuorviarmi lontano assai e certo non era questa la strada di adempiere ai miei doveri di probità e di riconoscenza.
Ma se la Pisana mi amava?... Ecco un altro cavillo, un sotterfugio, una scusa del vizio inveterato, Carlino bello! Prima di tutto, se anche la Pisana ti amasse, sarebbe tuo dovere di fuggirla piucchemai, perché approfitteresti d’una sua leggerezza, d’un suo invasamento per contrapporla al desiderio dei parenti. E poi tu sei povero ed ella è ricca; non mi piace porgere appiglio a certe calunnie. E poi e poi ella non ti ama, e la questione è bella e sciolta... Come, come non la mi ama? come sarebbe a dire? Sì, datti pace, Carlino! non la ti ama per nulla; non la ti ama con quell’impeto cieco, intero, perseverante che impedisce ogni considerazione, toglie ogni distanza e confonde anima ad anima. Non la ti ama; e tu lo sai bene, perché di ciò appunto ti crucci e t’arrovelli tanto. Non la ti ama perché sei venuto in questa camera a cercar dalla morte un conforto contro le sue male parole, contro il suo disprezzo. Consolati Carlino; puoi abbandonarla senza ch’ella ne pigli una sola febbre. Non sei neppur il capo raro che la ne debba soffrire nell’orgoglio. Se tu fossi il poetico Giulio Del Ponte, o lo sfarzoso castellano di Venchieredo ne dovresti avere un qualche rimorso, ma tu!... Eh va là! non te ne sei accorto che qui a Fratta sei appetto a lei come Marchetto, come Fulgenzio, come tutti gli altri una stazione temporanea nel turno de’ suoi affetti, un accattone che aspetta la sera del sabbato il suo quattrinello d’elemosina. Male, male Carlino! Qui non è più questione di doveri verso gli altri, ma di rispetto a te stesso. Sei tu un asino da guardar a terra e da insaccar legnate o un uomo da tener diritta la fronte, e da sfidare il giudizio altrui? Pulisciti i ginocchi, Carlino; e va’ via di qua. Vedi, arrossisci di vergogna; è cattivo segno e buono nello stesso tempo: accenna alla coscienza del male commesso, ma insieme a ribrezzo e a pentimento di quel male. Vattene Carlino, vattene; cerca una strada più onesta, più sicura, ove siano altri passeggieri cui tu possa dar mano e insegnare la via; non perderti in quei nebulosi confini fra il possibile e l’impossibile a battagliare colla tua ombra, o coi mulini di don Chisciotte. Se non puoi dimenticar la Pisana, devi fingere di dimenticarla; al resto non pensare, che verrà dopo. Ora, sia verso te che verso lei e verso tutto, il tuo dovere è questo. Restando avvilisci te, spazientisci lei, rendi male per bene a’ suoi genitori. Vattene Carlino, vattene! Pulisciti i ginocchi e vattene!
Questo consiglio fu il primo frutto del monitorio di Martino; e fui tanto spaventato della sua acerbezza che senza pescare altri corollarii ripiegai la carta e ripostala nel libro e intascato questo, uscii pallido e pensieroso da quella stanza ov’era entrato livido e demente. Fra tutti i dolori miei mi parlava più chiaramente quello di aver sconosciuto per tanti anni la pratica rettitudine di Martino, di non aver fatto di lui quel conto che meritava, di averlo creduto, in una parola, una macchina cieca e obbediente mentr’era invece un uomo conscio e rassegnato. Io era divenuto così piccino nella mia propria stima che non mi ravvisava più; la memoria d’un vecchio servitore morto, seppellito e già roso da’ vermi mi costringeva ad abbassare il capo confessando che con tutto il mio latino nella vera e grande sapienza della vita era forse più indietro che i villani. Infatti nella loro semplice religione essi definiscono coraggiosamente la vita per una tentazione, o una prova. Io non poteva definirla altrimenti che coll’eguali parole che si adoprerebbero a definire la vegetazione d’una pianta. Aveva un bel piluccarmi le idee, un bel voltare e rivoltare questa matassa di destini, di nascite, di morti e di trasformazioni! Senza un’atmosfera eterna che la circondi, la vita rimane una burla, una risata, un singhiozzo, uno starnuto; l’esistenza momentanea d’un infusorio è perfetta al pari della nostra, coll’ugual ordine di sensazioni che declina dalla nascita alla morte. Senza lo spirito che sorvola, il corpo resta fango e si converte in fango. Virtù e vizio, sapienza e ignoranza son qualità d’un’argilla diversa, come la durezza o la fragilità, o la radezza o lo spessore. Ed io mi sdraiava comodamente nella metafisica del nulla e del pantano, mentre dall’alto de’ cieli la voce d’un vecchio servitore mi cantava le immortali speranze! – O Martino, Martino! – sclamai – io non comprendo l’altezza della tua fede, ma gli insegnamenti che ne ritraggo sono così grandi e virtuosi che soli farebbero malleveria della sua bontà. Abbiti l’ossequio del tuo indegno figliuolo anche al di là della tomba, o vecchio Martino! Egli ti ha amato in vita, e se non ti diede gran parte della sua stima allora, adesso te la dona tutta, te la dona col fatto, accettando ciecamente i tuoi consigli, e mostrandosi degno di averne raccolto il prezioso retaggio.
Primo effetto di cotal proponimento fu di stogliermi dal castello di Fratta per condurmi qua e là in cerca di svagamenti e di piaceri, come altre volte avea fatto. Indi feci sfilare dinanzi alla ragione tutta la piccola squadra de’ miei doveri, e trovandola poco numerosa, mi balenò alla mente quell’oscura falange di doveri sconosciuti che mi poteva assalire quandochessia, e la quale anzi, secondo Martino, io avrei dovuto chiamare in mio aiuto contro i tedii dell’infelicità. Per allora non fu che un balenio; e sonai sì campana a martello per ogni cantone dell’animo; ma nessun nuovo sentimento sorse a gridarmi; tu devi far questo e devi tralasciar quello. Circa al romperla colla Pisana era già d’accordo con me stesso; sentiva il dolore e quasi l’impossibilità di questo sacrifizio, ma non me ne celava l’obbligo assoluto. E poi e poi riconoscenza, carità, studio, temperanza, onestà, in ogni altro punto trovava le partite in ordine: non c’era di che ridire. Soltanto temeva di aver mostrato finallora poco zelo nel mio noviziato di cancelleria; ma fermai di mostrarlo in seguito, e cominciando dal domani scrissi il doppio di quanto soleva scrivere ai giorni prima. In quel benedetto domani doveva anche principiare a non guardar più la Pisana, a non cercarla, a non chieder conto di lei; ma vi feci sopra tanti ragionamenti, che protrassi il cominciamento dell’impresa al posdomani. In seguito tirai innanzi un giorno ancora, e finii col persuadermi che il mio dovere era soltanto di assopir l’amor mio, di svagarlo, di stancheggiarlo coll’adempimento degli altri doveri, non di assassinarlo direttamente. L’anima mia ne era così piena che sarebbe quasi stato un suicidio; così, per non ammazzarmi lo spirito tutto d’un colpo, seguitai a stracciarlo, a tormentarlo brandello per brandello. Il rimorso d’una colpa conosciuta e ribadita dall’intelletto amareggiava perfin le lontane lusinghe che ancora mi rimanevano.
Un giorno, dopo aver scritto molte ore in cancelleria senza che questa occupazione mi fosse di gran giovamento, pensai d’andarmene a Portogruaro per congedarmi dall’Eccellentissimo Frumier. Si era già allo scorcio dell’ottobre e poco sarei stato ad imbarcarmi per Padova. Guardate che combinazione! La Pisana era appunto in quel giorno a pranzo dallo zio, e se ora io giurassi che non ne sapeva nulla, certo non mi credereste. Si festeggiava l’onomastico della nobildonna, e facevano cerchio alla mensa Giulio Del Ponte, il padre Pendola, monsignor di Sant’Andrea e tutti gli altri della conversazione. Il Senatore m’accolse come fossi già invitato; ed io feci l’indiano e sedetti non senza sospetto che la Pisana per tormisi d’infra i piedi m’avesse taciuto l’invito. Infatti la sua vicinanza a Giulio, le occhiatine che si scambiavano, e la confusione delle loro parole quando venivano interrogati, mi chiarivano abbastanza ch’io doveva esser per lei, se non un incommodo, certo un assai inutile testimonio. Incommodo no; perché già a mio riguardo non la si sarebbe tirata indietro da nulla. In tutte le parti anche migliori dell’animo suo ella mancava affatto di quella delicatezza che sovente è mera abitudine e talvolta anche ipocrisia, ma che conserva in uno squisito sentimento di pudore il rispetto alla virtù. Donde avrebbe ella appreso queste raffinatezze delle maniere femminili? Sua sorella Clara, che sola avrebbe potuto insegnargliele, viveva sempre lontana da lei in camera della nonna; essa, lasciata in balia di manifestare e imporre tutti i proprii capricci, avea imparato mano a mano non solo a lasciar loro il freno sul collo, ma anche a non prendersi briga di esaminarli e di nasconderli se fossero brutti e vergognosi. La padronanza dell’istinto uccide il pudore dell’anima, che nasce da ragione e da coscienza.
Io sedeva vicino al padre Pendola mangiando poco, discorrendo meno, osservando assai, e più di tutto macerandomi di rabbia e di gelosia. Giulio Del Ponte s’animava a tratti, si mesceva come uno scorribanda5 alla conversazione generale, lanciava un razzo di frizzi, di barzellette, d’epigrammi e poi tornava al muto colloquio della vicina con tal atto che diceva: Si parla più dolcemente così! Si vedeva che quel suo brio non era spontaneo, cioè non era l’abbondanza della vena che lo faceva sgorgare. Piuttosto argomentava che, stando muto, o avrebbe fatto pensar male, o avrebbe perduto quella stima di giovane allegro e sfolgorante che gli avea conquistato il cuore della Pisana. Infatti costei, che sorrideva soltanto alle sue occhiate, arrossiva fin nelle orecchie, sospirava, si confondeva quand’egli parlava lesto, grazioso, animato e faceva scoppiar d’ognintorno l’applauso irresistibile delle risate. Giulio Del Ponte aveva indovinato la qualità della propria magia: le avea piaciuto in ragione della virtù che aveva di ravvivare, di rallegrare, di trascinare. Infatti sembrava che egli avesse tre anime invece di una; e gli occhi e i gesti e le parole e i pensieri avevano in lui tanta abbondanza e varietà che non parea bastare a tanto movimento quel solo fornello spirituale che dà calore di vita a ciascuno di noi. Scusatemi la similitudine; se la forza dell’anima si misurasse come quella del vapore, si poteva calcolare la sua a novanta cavalli, limitando a trenta quella della gente comune. Converrete meco ch’era una gran fortuna; ma guai, guai per questi Sansoni di spirito se Dalila taglia loro i capelli! Guai dico: il premio stesso della lor vigoria li precipita; quell’amore che negli altri è un alimento, una crescenza di fuoco che aggiunge la forza di altri milioni di cavalli a quella anche piccolissima che esisteva prima, in essi invece è un inciampo, una sottrazione. Distraendo la loro attività dal suo campo naturale li sprovvede del predominio che avevano, per confonderli alla plebaglia degli altri innamorati ognuno de’ quali può soverchiarli con altre doti, con altri pregi diversi dai loro. In una parola, l’amore che sublima gli sciocchi, istupidisce queste anime splendide e ammaliatrici. Ma Giulio sapeva ciò, e se ne difendeva valorosamente. Sentiva l’amore crescere come una nuvola incantata e avvolgergli la mente e accarezzarla, invitandola ai sogni alla beatitudine. Un istante cedeva a quei dolci adescamenti; ma poi l’accortezza lo risvegliava additandogli nel riposo la sua sconfitta. Si rialzava non più per trabocco spontaneo di giocondità e di brio, ma per forza di volontà e per interesse d’amore. Aveva ammaliato la Pisana; non voleva perdere la sua conquista. Infelice in questo che ai temperamenti come il suo s’avvicendano sempre facili e venturose le occasioni di piacere e di godere, ma si offrono pericolose e fatali quelle di amare. Ogni opera ha i suoi mezzi: l’amore vuol esser conquistato coll’amore; il luccichio della gloria e il barbaglio dello spirito devono tenersi paghi alla galanteria.
Il padre Pendola adocchiava Giulio Del Ponte e la Pisana; poi sogguardava me; due occhi come i suoi non si movevano per nulla, ed ogni volta che li incontrava io sentiva fin nel fondo dell’anima la fredda strisciata dei loro sguardi. Gli altri commensali non badavano a nulla; cianciavano fra loro, bevevano alla salute della nobildonna, ridevano fragorosamente delle cavatine improvvisate da Giulio e sopratutto mangiavano. Ma quando si levarono le mense e la compagnia stava per scendere in giardino a prendere il caffè sulla terrazza, il padre Pendola mi prese amorevolmente pel braccio invitandomi a rimanere. La pietà che si dipingeva sul suo volto mi sgomentì un poco; ma mi diede anche della sua indole miglior idea che forse non avessi avuto infin allora. Cosa volete? la calamita da una banda attira, dall’altra respinge il ferro e non si sa il perché. Anche fra uomo ed uomo si osservano le bizzarrie della calamita. Rimasi per curiosità, per ossequio, un po’ anche perché i miei occhi avevano bisogno di non vedere.
– Carlino, – mi disse il padre girando con me su e giù per la sala mentre i servi finivano di sparecchiare – voi siete in procinto di tornar a Padova.
– Sì, padre – risposi con due sospironi irragionevoli forse ma certo sinceri.
– È il vostro meglio, Carlino. Qui confessatemi che non siete contento del vostro stato, che l’incertezza e l’ozio vi rovinano, e che sciupate i più begli anni della gioventù!
– È vero, padre; ho cominciato per tempo a gustare il fastidio della vita.
– Bene, bene! tornerete poi a trovarla gradevole le dieci e le venti volte. Tutto sta che vi sacrifichiate nobilmente all’adempimento de’ vostri doveri.
Quest’esortazione in bocca del reverendo mi sorprese assai: non mi sarei mai aspettato che le sue massime concordassero con quelle di Martino; e questa concordia mi aperse d’un tratto l’animo alla confidenza.
– Le dirò – soggiunsi – che da poco tempo in qua ho cercato, appunto nell’adempimento de’ miei doveri un rifugio contro contro la noia.
– E lo avete trovato?
– Non so; lo scrivere in cancelleria è lavoro troppo materiale; e il signor Cancelliere non è la persona più adatta a render quel lavoro piacevole. Occupo le mani, è vero, ma la testa vola ove le piace, e pur troppo i dispiaceri e le ore si contano più col cervello che colle dita.
– Parlate ottimamente, Carlino; ma voi dovete sapere meglio di me che più di tutto alla guarigione importa una ferma volontà di guarire. Qui, qui, Carlino, voi avete l’anima ammalata; se volete sanarla, andatevene; ma voi direte che la malattia viaggia coll’infermo. No, no, Carlino, non è ragione bastevole! Causa lontana non affligge tanto come causa vicina. Via, non arrossite ora; io non dico nulla, vi consiglio da buon amico, da padre, e nulla più. Siete senza famiglia, non avete alcuno che vi ami, che vi diriga; io voglio adottarvi per figliuolo, e soccorrervi con quel lume di esperienza che il Signore mi ha concesso. Fidatevi di me, e provate: non vi domando altro. Bisogna che partiate di qui; che partiate non solamente colle gambe, sibbene anche coll’animo. Per tirar poi l’animo con voi, voi avete già indovinato il modo. Piegarlo alla retta conoscenza e all’operosa osservanza dei proprii doveri. Avete detto benissimo; i dolori si contano col cervello, e io aggiungerò col cuore, non già colle dita della mano. Bisognerà dunque occupare oltre la mano anche il cervello ed il cuore.
– Padre, – balbettai veramente intenerito – parli, io l’ascolto con vera fede; e mi proverò d’intendere e di ubbidire.
– Uditemi, – riprese egli – voi non avete obblighi di famiglia, e il debito della riconoscenza verso chi vi ha fatto del bene è saldato presto da chi non può pagarlo con altro che con la gratitudine dell’affetto. Da questo lato i vostri doveri non vi darebbero l’occupazione di un minuto, se non fosse collo spingervi allo studio secondo l’intendimento dei vostri benefattori. Ma non basta. Così si occuperebbe il cervello; il cuore rimane ozioso. Tanto più che la famiglia in cui foste allevato non ha saputo educarvelo a suo profitto. No, non vergognatevi, Carlino. È certo che voi non potete esser legato coll’amor di figliuolo al signor Conte e alla signora Contessa che appena è se seppero farsi amare come genitori dalla lor prole vera. I beneficii non obbligano tanto quanto il modo di porgerli, massime poi i fanciulli. Non vergognatevene dunque. È così, perché così doveva essere. Quanto allo sforzarvi ora, sarebbe segno di ottima indole, di animo docile e grato; ma non vi riescireste. L’amore è un’erba spontanea non una pianta da giardino. – Carlino, il vostro cuore è vuoto di affetti famigliari come quello d’un trovatello. È una gran sciagura che scusa molti falli... intendiamoci, figliuolo! li scusa sì, ma né ci libera dal dovere di purgarli, né ci abilita per nulla a indurirvisi! A questa sciagura si cercano rimedii istintivamente durante la prima età. E un buon angelo può fare che si imbrocchi giusto!... Ma spesso anche la sorte avversa, la cecità fanciullesca ci fanno trovar veleni invece di rimedii. Allora, Carlino, appena la ragione cresciuta se ne accorge, bisogna cambiar vaso, e abbandonare quella cura fallace e nociva per appigliarsi alla vera. Voi avete diciotto anni, figliuolo; siete giovane, siete uomo. Non avete, non potete avere un affetto certo, santo, legittimo che vi occupi degnamente il cuore, perché nessuno ve ne ha insegnate fin qui le fonti, né annunciata la necessità! Io forse primo vi parlo ora la voce del dovere, e non so quanto gradito...
– Séguiti pure, séguiti, padre. Le sue parole sono quelle di cui i miei pensieri andarono in cerca senza pro’ ai giorni passati. Mi sembra di veder farsi giorno nella mia mente, e stia sicuro che avrò il coraggio di non distoglier gli occhi.
– Bene, Carlino! Avete mai pensato che voi non siete solamente uomo, ma sibbene ancora cittadino, e cristiano?
Questa domanda fattami dal padre con piglio grave e solenne mi conturbò tutto: quello che volesse dire e cosa importasse l’essere cittadino, io nol sapeva affatto; quanto all’essere cristiano, io non avrei messo punto in dubbio che lo fossi, perché nella dottrina mi avevano avvezzato a rispondere di sì. Rimasi adunque un po’ perplesso e confuso, poi risposi con voce malferma:
– Sì, padre, so di essere cristiano per la grazia di Dio!
– Così il Piovano v’insegnò a rispondere; – riprese egli – ed ho tutte le ragioni per credere che non diciate per usanza una bugia. Fino ad ora, Carlino, tutti erano cristiani e perciò una tal dimanda era quasi inutile. La religione stava sopra le dispute; e buoni o malvagii, se non la regola dei costumi, come nei primi secoli di fervore, almeno il vincolo della fede ci stringeva tutti nella gran famiglia della Chiesa. Ora, figliuol mio, i tempi sono mutati; per esser cristiano non bisogna imitare gli altri, ma pensare anzi a fare a rovescio di quanto fanno molti altri. Dietro l’indifferenza di tutti s’appiatta l’inimicizia di molti, e contro questi molti i pochi veramente credenti devono combattere, lottare con ogni sorta di armi per non rimaner sopraffatti. Cioè intendiamoci, non per orgoglio personale, ma perché non rimanga conculcata quella religione fuor della quale non è salute... Carlino, ve lo ripeto, voi siete giovane, siete cristiano; come tale vivete in tempi difficili, e andate incontro a tempi molto più difficili ancora; ma la difficoltà stessa di questi tempi, se è una sventura comune, se è una vicenda miserevole anche per voi, pel vostro interesse momentaneo e pel decoro della vostra vita è una vera fortuna. Pensateci, figliuolo: volete voi poltrire nell’indifferenza senza pensiero e senza dignità? o volete piuttosto mescervi alla battaglia dell’eternità col tempo, e dello spirito colla carne? Queste avvisaglie presenti condurranno da ultimo a cotali dilemmi, non ne dubitate. Voi siete di un’indole aperta e generosa e dovete propendere alla buona causa. Colla religione l’idealità, la fede nella giustizia immortale, e nel trionfo della virtù, la vita razionale insomma e la vittoria dello spirito; colla miscredenza il materialismo, lo scetticismo epicureo, la negazione della coscienza, l’anarchia delle passioni, la vita bestiale in tutte le sue vili conseguenze. Scegliete, Carlino! scegliete!
– Oh! sono cristiano! – sclamai io con tutto l’ardore dell’anima. – Io credo nel bene e voglio ch’esso trionfi.
– Non basta volerlo – soggiunse il padre con una sua vocina melanconica. – Il bene bisogna cercarlo, bisogna farlo perché esso trionfi davvero. Perciò bisogna darsi corpo ed anima a chi suda, lavora, combatte per ciò; bisogna adoperare le arti stesse de’ nemici a loro danno; bisogna raccogliere intorno al cuore tutta la costanza di cui siamo capaci, armar la mano di forza, il senno di prudenza e non aver paura di nulla e durar sempre vigili all’ugual posto; e cacciati tornare, e disprezzati soffrire, dissimulare per rivincer poi; piegarsi sì anche, se occorre, ma per risorgere; venire a patti, ma per temporeggiare. Insomma bisogna credere nell’eternità dello spirito per sacrificare questa vita terrena, momentanea alla immortalità futura e migliore.
– Sì, padre. Quest’orizzonte che mi si dischiude agli occhi è tanto vasto che non ho più l’audacia di piangere le mie piccole sciagure. Allargherò i miei sguardi in esso e scompariranno le minuzie che mi danno inciampo. Volerò invece di camminare!
– Davvero, Carlino? così mi piacete; ma ricordatevi che l’entusiasmo non basta senza il corredo d’una buona dose di criterio e di costanza. Ora io vi ho mostrato quali doveri altissimi e nobili reclamano l’opera vostra, e voi vi siete infervorato nella loro splendida pienezza. Ma poi durante la via vi parrà di ricadere nella levità e piccolezza umana. Non vi spaventate, Carlino. Gli è come un passeggiero che per giungere a Roma dee pernottare molte volte in sucide taverne, e far viaggio con facchini e con vetturali. Soffrite tutto; non abbiate ribrezzo dei passaggi momentanei, sollevate il pensiero alla meta; tenetelo sempre là!
Io capiva e non capiva; era abbarbagliato da quelle splendide e sonanti parole che prima mi balenavano alla mente con quei grandi fantasmi d’umanità, di religione, di sacrifizio, di fede che popolano così volentieri i mondi sognati dai giovani. Capiva che o bene o male entrava in una sfera nuova per me; dov’io non era che un atomo intelligente avvolto in un’opera sublime e misteriosa. Con quali mezzi a qual fine? – Non lo sapeva per fermo; ma fine e mezzi soverchiavano d’assai le mie preoccupazioni erotiche, i miei fanciulleschi rammarichi. Invitato a mostrarmi cristiano, mi sentiva uomo nell’umanità e ingigantiva.
– Questo in quanto a religione – seguitava con veemenza il reverendo padre. – In quanto alla vostra qualità di cittadino le condizioni sono consimili. Non caleva il pensarci e ogni opera individuale cadeva al suo posto nel gran meccanismo sociale, quando tutti s’accordavano nel rispetto tradizionale alla patria e alle sue instituzioni. La patria, figliuol mio, è la religione del cittadino, le leggi sono il suo credo. Guai a chi le tocca! Convien difendere colla parola, colla penna, coll’esempio, col sangue l’inviolabilità de’ suoi decreti, retaggio sapiente di venti, di trenta generazioni! Ora pur troppo una falange latente e instancabile di devastatori tende a metter in dubbio ciò che il tribunale dei secoli ha sancito vero, giusto, immutabile. Conviene opporsi, figliuol mio, a tanta barbarie che prorompe; convien rendere ai nemici quel danno stesso che cercano portare a noi, seminando fra loro la corruzione, la discordia. Il male contro il male va adoperato coraggiosamente alla maniera dei chirurghi. Se no, cadremo certamente; cadremo amici e nemici in potere di quei maligni che predicano un’insensata libertà per imporci la vera servitù; la servitù a codici immorali, temerarii, tirannici! La servitù alle passioni nostre ed altrui, la servitù dell’anima a profitto di qualche maggior godimento terreno e passeggiero. Siamo forti contro la superbia, figliuol mio. Per ciò ne conviene esser umili; ubbidire, ubbidire, ubbidire. Comandi la legge di Dio; la legge che fu, la legge che è; non l’arbitrio di pochi invasati, che dicono di innovare, ma non tendono che a divorare! Capite, figliuolo, quel che voglio dire?... Così religione e patria si danno la mano; e vi preparano un bel campo di battaglia dove sacrificarvi più degnamente che nella colpevole idolatria d’un affetto, o d’un interesse privato.
Coll’una mano il reverendo padre mi prostrava nel fango; coll’altra mi sollevava alle stelle. Io scossi potentemente il mio giogo di dolore e alzai libera ma costernata la fronte.
– Eccomi – risposi. – Io spero di cancellare la prima parte della mia vita, sovrapponendovi la seconda più alta e più generosa. Dimenticherò me stesso ove non possa cambiarmi: cercherò doveri più santi, amori più grandi...
– Adagio con questi amori! – m’interruppe il padre – non usate l’egual vocabolario in materie così disparate. L’amore è un lampo che guizza, una meteora che passa. E nella vita nuova a cui vi eccito si vogliono la fede e lo zelo; due forze pensate e continue! La croce del sacrifizio e la spada della persuasione: ecco i nostri simboli, superiori di gran lunga alle corone di mirto, e alle colombe accoppiate. Ma la persuasione, figliuol mio, scaturisce dal sacrifizio nostro ed è ricevuta negli animi altrui come il calore prodotto dal sole è appropriato dal seme che fermenta e che germina. Non convien farsi intoppo delle contraddizioni, dei livori altrui; la persuasione verrà; fatele strada colla perseveranza e colla forza. Quando si matura il trionfo del bene giova perseguitar il male; ma perseguitarlo utilmente sapientemente: perché, figliuol mio, l’esercito dei martiri pur troppo non è molto numeroso, e dai proprii sacrifizii è mestieri cavare il prezzo che meritano per non vederli sprecati.
– Padre, – soggiunsi io con qualche ritenutezza pel mistero che mi cresceva in quella lunga parlata – spero che capirò meglio quando mi sia purificato lo spirito dai fumi che lo offuscano. Penserò, e vincerò.
– Avreste già vinto se vi foste provato a combattere, – rispose il reverendo – ma voi, Carlino, vi siete chiuso nel vostro guscio, e non avete cercato l’aiuto di chi poteva molto per voi. Le idee non nascono, ma procedono, figliuol mio: e voi avete fatto malissimo di raggomitolarvi nelle vostre passioncelle, senza fidarvi alle persone oneste ed oculate che vi avrebbero menato ben innanzi in quella strada che ora vi addito. L’anno scorso per esempio io vi avea raccomandato di frequentare a Padova l’avvocato Ormenta, un uomo integerrimo, giusto, generoso che avrebbe volto l’ingegno vostro al suo vero ministero, e vi avrebbe indicato il vero scopo e l’ampia utilità della vita. Uomini così fatti devono esser venerati dai giovani e presi ad esempio, se vogliono.
– Padre, l’avvocato Ormenta io l’ho veduto più volte, giusta la raccomandazione; ma io era sviato in altri pensieri. Mi pare anche che fossi spaventato dalla sua freddezza e da una certa aria di sprezzo che mi rassicurava ben poco. Non so se mi sembrasse o troppo grande o troppo diverso da me; ma certo io non mi sentiva in buona voglia alla sua presenza, e la camera nella quale mi riceveva era così tetra, così agghiacciata da metter paura.
– Tutti segni d’una vita austera e sublime, figliuol mio. Quello che un tempo vi ha spaventato, vi piacerà, vi ammalierà domani. Sembrano fredde le cose eccelse e le nevi coprono le cime delle alte montagne; ma son le prime ad esser baciate dal sole, e le ultime ch’esso abbandoni. Tornerete quest’anno dall’avvocato, vi addomesticherete con lui, e o il giudizio m’inganna, o io vi avrò reso il gran servigio di farvi trovare una buona e sicura guida per la vita cui siete destinato. Adesso io vi ho gettato in cuore un piccolo seme. Speriamo che germoglierà. Il buon avvocato trovandovi meglio disposto vi accoglierà con miglior fiducia. Anch’io, vedete, or fanno dieci mesi, sperava poco da voi; ve lo confesso ingenuamente, e tanto più volentieri in quantoché oggi spero molto...
– Oh, padre, ella mi confonde! Come mai sperar molto da me?
– Come, Carlino, come? voi non vi conoscete, e io non voglio che montiate in superbia, ma voglio insegnarvi a leggere nell’anima vostra. Voi avete un ardore intenso e costante di passioni, che sollevato ad una sfera più pura dove le passioni diventano adorazioni, può dar una luce benefica e divina... Siete proprio deciso a spastoiarvi dal fango, a cercar la felicità dov’ella risiede veramente, nell’adempimento dei doveri più santi che la coscienza imponga ad uomo del nostro tempo?
– Sì, padre; tutto farò per amore della giustizia.
– Allora fidatevi di noi, Carlino; noi vi aiuteremo, noi vi illumineremo. Le nebbie dell’alba si muteranno a poco a poco in raggi di sole. Voi ci ringrazierete, e noi ringrazieremo voi...
– Oh, padre, cosa dice mai!
– Sì, vi ringrazieremo dei grandi servigi che renderete alla causa della religione e della patria, alla causa che difendiamo per compassione dell’umanità e per gloria di Dio. Foste fornito da natura di doti superbe; usatene degnamente, e troverete riconoscenza, onori, contentezze. Ve lo prometto io. Se foste prete, vi direi: State con me! Combatteremo, pregheremo, vinceremo insieme; ma vi chiamano per un’altra via, ottima e nobile pur essa. L’avvocato Ormenta farà le mie veci: gli scriverò a lungo di voi; egli vi terrà per figliuolo, e avrete forse occasione di far più bene voi nel mondo che io non possa sperare di farne in mezzo al clero di una modesta diocesi. Siamo intesi, Carlino; non vi domando altro che di credermi e di provare. Sopratutto non voglio più vedervi imbecillire in sogni da ragazzo. Disprezzate quello che va disprezzato: rompete la catena delle abitudini; pensate che l’uomo è fatto per gli uomini. Siate generoso giacché siete forte.
Che cosa volete? bisogna pur che lo dica. L’adulazione fece quello che l’eloquenza non avea fatto o almeno compì l’opera incominciata da essa. Mi vennero le lagrime agli occhi, presi le mani del padre Pendola, le copersi di baci, le inondai di pianto, promisi d’esser uomo, di sacrificarmi pel bene degli altri uomini, di ubbidire a lui, di ubbidire all’avvocato Ormenta, di ubbidire a tutti fuorché a quelle mie passioni che mi avevano infin allora così scioccamente tiranneggiato. Io era fuori di me, mi pareva di esser diventato un Apostolo; di chi e perché non sapeva; ma infatti la testa mi andava per le nuvole, e nulla al mondo io disprezzava tanto come i miei sentimenti e la mia vita degli anni trascorsi. Il padre mi confermava in questi proponimenti di conversione confortandomi intanto a ripigliar il filo delle mie devozioni infantili, a credere, a pregare. La luce si sarebbe fatta poi e l’avvocato Ormenta doveva essere il candelliere. Scesimo insieme in giardino e sulla terrazza, dove le belle fronde già ingiallite delle viti ombreggiavano il riposo vespertino della compagnia. Il chiaccherio languiva nella calma solenne del tramonto; le acque del Lemene romoreggiavano al basso, verdastre e vorticose; un suono di campane lontano e melanconico veniva per l’aria come l’ultima parola del giorno morente, e il cielo s’infiammava ad occidente cogli splendidi colori dell’autunno. Al primo momento mi pareva di essere in un gran tempio, dove lo spirito invisibile di Dio mi empiesse l’anima di gravi e serene meditazioni. Poi i pensieri mi tumultuavano nel capo come il sangue nelle vene dopo una corsa precipitosa; la mente avea volato troppo, non conosceva più l’aria in cui batteva le ali, il ribrezzo dell’infinito la sgomentiva. Mi avvicinai alla ringhiera per guardar nel fiume, e quell’acqua che passava, che passava senza posa, senza differenza alcuna, mi dava l’immagine delle cose mondane che colano fluttuando in un abisso misterioso. I discorsi del padre Pendola facevano allora nella mia memoria l’effetto d’un sogno che si ricorda di aver veduto chiaramente e di cui non ci sovviene più che con una vaga e scolorita confusione. Mi volsi per cercarlo; e vidi Giulio e la Pisana che bisbigliavano fra loro. Sentii come Icaro sciogliermisi la cera delle ali, e precipitava nelle passioni di prima; ma l’orgoglio mi sorresse. Mi era pur sentito poco prima tanto maggiore di essi, perché non potea continuare ad esser tale? Guardai coraggiosamente la Pisana, e sorrisi quasi di pietà; ma il cuore mi tremava; oltrecché non credo che quel sorriso mi durasse a lungo sulle labbra.
Allora il padre Pendola, che avea confabulato col Senatore, mi si raccostò; e quasi indovinando le titubanze dell’anima mia prese a compatirmi con sì squisita carità, che io mi vergognai d’aver tentennato. Le sue parole erano dolci come il mele, entranti come la musica, pietose come le lagrime: mi commossero, mi persuasero, mi innamorarono. Fermai fra me di tentare la prova; d’immolarmi a quei sublimi doveri di cui mi aveva parlato, di esser alla fine padrone di me una volta e di saper dire: Voglio così! – Soffrirò, pensava frattanto, ma vincerò; e le vittorie accrescono le forze, laonde se non altro avrò guadagnato di poter poi soffrire con minor viltà. Per nulla Martino non è risuscitato, per nulla il padre Pendola non ha letto nel mio cuore; ambidue prescrivono l’egual rimedio; io sarò coraggioso e ne userò da forte!
Il reverendo padre mi parlava ancora col suono carezzevole d’una cascatella fra i muscosi dirocciamenti d’un giardino; non saprei dire quali cose ei mi dicesse; ma nel togliermi di là ebbi il coraggio di offrir il braccio al Conte ed alla Pisana perché salissero in carrozza e di accomodarmi poi a cassetta col pretesto del caldo che pur non era molesto in una notte d’ottobre. Dopoché bracheggiava6 in cancelleria avea libero ingresso nella carrozza dei padroni, e quella sera mi convenne anzi sostenere una battagliola col Conte per non approfittare di questo prezioso diritto. Mi ricordò allora d’alcuni anni prima quando scoperto l’invaghimento della Pisana per Lucilio avea fatto quella strada stessa appeso alle coregge posteriori della carrozza, e perduto in un turbine di pensieri e d’angoscie che mi dissennava. Quella sera avrei dato la vita per poter sedere daccanto a lei, e martoriarmi nella sua indifferenza e assaporare avidamente il male che mi si faceva. Quanto insuperbii di vedermi mutato a quel segno! Era io allora, invece, che volontariamente rifiutava di avvicinare la mia persona alla sua; dopo tanti spasimi, tante gelosie, tanti tormenti, finalmente avea conquistato il coraggio di fuggire! Non credo peraltro che arrivassi a Fratta né più infelice né meno pallido; e se il povero Martino fosse stato vivo, certamente avrebbe notato la mia cattiva voglia. Invece trovai il Cancelliere che aveva una carta di gran premura da farmi ricopiare, e non avendomi beccato durante la giornata, mi assalì sgarbatamente la notte. Lo credereste che io mi ci misi con un gusto matto? Mi pareva di principiare consapevolmente l’opera di mia redenzione; e m’increstava7 di lasciar andare a letto la Pisana senza fermarmi a guardar la luna, e pensare e martoriarmi dietro a lei. Gli è vero che ricopiando quella carta mi successe di duplicare qualche parola, e saltarne qualche altra, e ad ogni tuffo nel calamaio, diceva fra me – Finalmente son riescito a non pensarci per una mezza giornata! – E così ci pensava senza scrupolo; ma la coscienza non se n’accorgeva, o per discretezza faceva l’indiana, come la madre di Adelaide.
Il padre Pendola mi parlò, m’istruì, mi consigliò parecchie volte nei brevi giorni che rimasi ancora a Fratta. Il piovano di Teglio gli dava mano colle sue esortazioni, e così io partii che mi pareva di andare ad una crociata, o poco meno. M’accorgo ora che mi mancava la fede; ma aveva la curiosità, l’orgoglio, il coraggio che possono impiastricciarne una pel momento. Quando il pensiero della Pisana cascava come un razzo alla congrève8 fra il conciliabolo de’ miei nuovi proponimenti, ed uno scappava di qua, un altro si salvava per di là, io mi dava delle grosse picchiate nel petto sotto il tabarro, recitava qualche giaculatoria e con un po’ di pazienza l’incendio si spegneva e tornava cittadino e cristiano, come voleva il padre Pendola. Forse per altro non sarei giunto ad accontentare il Piovano; il quale, clausetano fin nelle unghie, dopo la vana aspettativa d’un anno, tacciava l’ottimo padre di indolenza e di incuria negli affari della diocesi. Egli avrebbe voluto uno zelo da San Paolo. Il padre invece nuotava sott’acqua, e così ingannava meglio i pesci e le anitre; dopo ch’egli avea preso le redini della Curia, si osservava nel clero cittadino una disciplina esterna più uniforme e canonica. Non avrei voluto vedere cosa stava ancora di sotto, ma si evitavano i sussurri, le censure, gli scandolezzi9. Con quattro paroline di prudenti preghiere e qualche ammiccata d’occhi, il buon padre aveva ridonato agli ecclesiastici quelle dignitose apparenze, che sono di gran momento per mantenere l’autorità. Sicuro che un Gregorio settimo non si sarebbe arrestato lì; ma il reverendo padre sapeva contar i secoli, e voleva sanar il sanabile, non arrischiar la vita dell’infermo con tardive operazioni. Gli bastava che certe cose non si vedessero e non se ne parlasse, e che non dando così appiglio al raccapriccio degli scrupolosi, anche i vecchi, i rigidi, gli incorruttibili fossero costretti a tacere, a rabbonirsi, a omettersi della solita insubordinazione10, mantenuta in fin allora col pretesto dell’anarchia e della spensieratezza dei superiori. Ciò appunto non quadrava al Piovano di Teglio; ma in quanto a me egli approvava il santo fervore inspiratomi dal Segretario, e me ne incaloriva maggiormente colla sua rozza e sincera facondia.
Io arrivai a Padova coll’invasamento di uno che s’appresta a farsi frate per disperazione amorosa. Giuntovi appena, corsi dall’avvocato Ormenta, al quale era già stato scritto dal padre Pendola, e che mi accolse appunto come il Guardiano o il Provinciale accoglierebbe un novizio. Quel degno avvocato che m’era sembrato l’anno prima un po’ sospettoso, un po’ beffardo, un po’ gelato, mi parve invece allora l’uomo più aperto, soave e mellifluo della terra. Le sue occhiate andavano e rapivano in estasi; ogni suo gesto era una carezza; ogni parola picchiava proprio al cuore come a casa propria. Di tutto era contento, anzi beato; di sé, del padre Pendola e sopratutto del prezioso dono che questi gli avea fatto coll’affidargli la mia tutela. Mi parlò di fiducia, di raccoglimento, di pazienza; m’invitò a pranzo per tutti i giorni che avrei voluto, meno il mercoledì nel quale egli usava digiunare, e questo metodo non potea forse convenire al mio stomaco giovanile. Si congratulò con me della mia età freschissima la quale mi dava doppia opportunità di far il bene: bisognava indagare le massime le intenzioni de’ miei compagni; consultarne con lui per guardar di correggerle di indirizzarle a miglior scopo se parevano difettive o fuorviate; avrei servito di canale perché il senno maturo potesse avvantaggiare della sua lenza la focosa attività dei giovani; così ce ne fossero stati tanti di questi mediatori! Ma già parecchi se n’aveano, e il frutto ricavato cominciava a moltiplicarsi, e a manifestarsi nella parte più docile e riflessiva della gioventù. Io sarei stato fra i più benemeriti col mio ingegno, colla mia fisonomia bella e simpatica, colla mia loquela pronta e calorosa. Ne avrei avuto premio, sia nella soddisfazione della coscienza (e questo è senza dubbio il migliore), sia anche negli onori temporali, e nelle ricompense eterne. Lo stato avea bisogno di magistrati zelanti, accorti, operosi; e li avrebbe trovati in mezzo a noi. Né bisognava rifiutarvisi perché la carità del prossimo e il bene della patria e della religione devono imporre silenzio alla modestia. Tutti gli uomini erano fratelli, ma il fratello più destro non dee consentire che il meno destro si precipiti alla cieca. L’amore deve esser oculato sempre, e qualche volta severo. La mano può percuotere, lo deve anzi in certi casi, ci s’intende che il cuore dee conservarsi caritatevole, indulgente, pietoso e piangere per quella triste necessità di dover castigare per migliorare, e tagliare per correggere. Oh, il cuore, il cuore! A sentir l’avvocato Ormenta, egli lo aveva così grande, così tenero, così ardente, che potea sì sbagliare per eccesso, non mai per difetto di amore.
Frattanto certe cose che notava intorno al signor avvocato non mancavano di darmi qualche po’ di stupore. Prima di tutto quella sua casaccia umida scura e quasi ignuda continuava a promovermi nei nervi un senso di ribrezzo come la tana della biscia. Un uomo sì aperto e leale doveva accomodarsi di quella oscurità, di quelle apparenze così nere e mortuarie! E poi durante la mia visita entrò a chiedergli non so che cosa la moglie; una donnetta sottile, piccina, sospirosa, verdognola. L’avvocato le si volse contro con una voce acerba e stonata, con un piglio più da padrone che da marito, e la donnicciuola se la svignò dalla stanza mordendosi le labbra ma non osando rifiatare. Dunque il signor avvocato aveva nell’ugola un doppio registro: quello che aveva adoperato con me l’anno prima, e allora colla moglie, e l’altro che aveva usato con me pochi momenti innanzi, e che continuò ad usar poi finché mi ebbe accompagnato sulla soglia della casa. Un ragazzotolo giallo, sucido, spettinato, vestito da Sant’Antonio, che si trastullava con non so quali giocattoli da sacrestia in un cantone dell’andito, mi fece anche voglia di ridere. L’avvocato me lo ebbe a presentare come il suo unico figliuolino, un piccolo prodigio di sapienza e di santità, che si era votato spontaneamente a sant’Antonio, e che ne avea vestito l’abito, come si costumava allora e qualche volta si costuma anche adesso a Padova. Quei suoi capelli, rasi a corona sul capo e abbarruffati come la siepaia d’un orto abbandonato, gli occhi loschi e cisposi, le mani impegolate d’ogni bruttura, e le vesti tutte lacere e bisunte nella loro santità, facevano uno strano contrasto col panegirico tessutomi a voce sommessa dall’avvocato. Pensai fra me che lo illudesse l’amore di padre: quel ragazzo poteva dimostrare quattordici anni (ne aveva sedici, come scopersi dappoi) eppure nulla nella sua persona confermava le lodi che se ne facevano, se non si volesse confondere la sudiceria colla santità, giusta la bizzarra opinione di qualche bigotto. Rinchiusa che ebbi la porta lo sentii intonare a gran voce un cantico divoto: credo che avrei preferito gli abbaiamenti d’un cane, e sì che le salmodie sacre con quel loro tenore mesto e solenne hanno sempre commossa l’anima mia in ogni sua fibra. Ma le divozioni cessano di esser sacre quando sono adoperate a spensierato trastullo e a vano sussurro; e io credo che il permetterne e l’inculcarne di cotal guisa ai fanciulli non serva che a guastarli, anche secondo le idee di chi volesse farli soltanto buoni cristiani. Le cose spirituali, secondo me, vanno prese sul serio; altrimenti si lascino piuttosto da un canto. Può esser sciagura il non pensarvi, ma è sacrilegio il farsene beffe.
Del resto, secondo le ingiunzioni del padre Pendola e dell’avvocato Ormenta, io mi feci forza ad uscire dal solito riserbo; diedi una piccola parte del mio tempo allo studio, e cogli svagamenti e coll’intenzione a cose più grandi ed eccelse addormentai nell’animo mio il dolore che vi covava acerbissimo per la dimenticanza della Pisana. Non mi fu difficile scoprire ne’ miei compagni quello che il padre aveva avvertito: una profonda e generale indifferenza in fatto di religione; anzi si andava più in là, cogli scherni, colle parodie, coi motteggi. Questi avrebbero servito a ravvivarmi in cuore la fede, se i miei primi maestri si fossero dati cura di accenderla; ma nessuno aveva pensato a ciò; su questo punto si può dire ch’io fossi nato morto, a risuscitarmi si voleva un miracolo che non avvenne finora. Peraltro lo sdegno ch’io aveva delle buffonerie mi fece credere per qualche tempo di avere quelle tali credenze, le quali io soffriva tanto a veder burlate con tanta frivolezza. La generosità giovanile mi ingannò sullo stato delle mie opinioni, e mi fece piegare a difendere piuttosto gli oppressi che gli assalitori. Narrai quello che vedeva all’avvocato; egli mi incorò ad osservar meglio, a notare quali legami avesse quell’anarchia religiosa colla licenza politica e morale, a discernere i caporioni della setta, ad accostarli, a conversar con loro in maniera che mi aprissero tutto l’animo, per sapere da qual banda incominciare a correggere, a riparare. Mi eccitò sopratutto a non dar nell’occhio col mio atteggiamento, a confondermi colla folla, a risponder poco per allora, limitandomi ad interrogare e ad ascoltare.
– Le pecorelle smarrite si richiamano colle carezze, – diceva l’avvocato – bisogna lusingarle dapprincipio, perché ci credano; bisogna seguirle prima perché esse poscia vengano volentieri dietro a noi.
Egli non mancava mai di invitarmi a visitarlo spesso, e a favorirlo della mia compagnia a pranzo; ma se io lo accontentava della prima, non era così disposto ad approffittare della seconda parte dell’invito. Una domenica che a tutti i costi egli avea voluto trattenermi secolui a desinare, ci trovai una tal brigata che mi fece scappar l’appetito. Una vecchia pelata e rantolosa che chiamavano la signora Marchesa, un vecchio sollecitatore mezzo sbirro e mezzo prete che beveva sempre e mi guardava traverso al bicchiere, due giovinastri rozzi, sporchi, massicci che mangiavano colle mani e coi denti si aggiungevano al piccolo Sant’Antonio e alla larva piagnolosa della padrona di casa per darmi la più gran melanconia che mai avessi provato. L’avvocato invece sembrava ai sette cieli per avere d’intorno a sé una così eletta compagnia; osservai peraltro ch’egli non invitava mai il sollecitatore a bere, e i giovinastri a mangiare. Tutti i suoi eccitamenti li volgeva alla Marchesa la quale non potea più né bere né mangiare per la tosse che la travagliava. Il signor avvocato trinciava con una perfezione veramente matematica: e giunse a cavare otto porzioni da un pollastrello arrosto; operazione che secondo me vince di difficoltà la quadratura del circolo. Io non avea proprio volontà di toccar cibo, e cessi la mia parte ad uno dei due giovani che non lasciò sul piatto neppur la traccia degli ossi. L’avvocato mi avea fatto mano a mano conoscere tutti i commensali e poi non mancò di tirarmi in un cantone per farmene la storia. La Marchesa era una benemerita patrona di tutti i pii istituti della città; si diceva che fosse ricca di ottantamila zecchini, e lui l’avvocato era il suo consigliere prediletto. ll sollecitatore era un veneziano molto amico dell’attuale Podestà al quale faceva fare ogni cosa che gli piaceva; e così gli tornava di accarezzarlo per ogni buona occorrenza. I giovani erano due scolari11 veronesi che s’erano dati come me alla santa causa e si proponevano di aiutarla con tutto lo zelo. Peccato che non avessero né il mio ingegno né le mie belle maniere, ma già Dio sapeva mutar i sassi in pane, e colla buona volontà si arriva a tutto. Io pensai che se in tutte le loro occupazioni ponevano quello stesso zelo che nel mangiare, avrebbero avuto maggior bisogno di freno che di stimolo. Mi ricordai anche allora di averli incontrati qualche volta sotto il portico dell’Università; e mi parve che non fossero né i più esemplari né i più modesti che là frequentavano fra una lezione e l’altra.
– Basta! faranno forse per seguire le pecorelle smarrite, e invogliarle a farsele venir dietro! io pensai ancora. Ma non ebbi la benché minima voglia di stringer amicizia con esso loro come l’avvocato mi consigliava; come anche accettai con un inchino l’invito fattomi dalla Marchesa di andar qualche volta alla sua conversazione ove avrei passato un paio d’ore lontano dai pericoli, in mezzo a gente sicura e timorata di Dio. L’inchino voleva dire: Grazie, ne faccio senza della sua conversazione! – Ma l’avvocato si affrettò a rispondere in mio nome, che io era gratissimo alla cortesia della signora Marchesa e che vi avrei corrisposto col farmi vedere in sua casa il più spesso che me lo avrebbero concesso le mie occupazioni. Io fui lì lì per soggiungere qualche sproposito, tanto mi mosse la rabbia quell’uso che si faceva a capriccio altrui della mia volontà. Ma l’avvocato mi rabbonì con un’occhiata, e aggiunse poi sottovoce: – La marchesa è molto amante della gioventù; bisogna saperle grado delle sue ottime intenzioni; e compatirla ne’ suoi difetti pel gran bene che la può fare!
Insomma in onta a queste belle chiacchere io mi tolsi di casa dell’avvocato ben deliberato di non immischiarmi più né de’ suoi pranzi, né della conversazione della Marchesa. Pei due giorni seguenti ne ebbi peraltro il vantaggio di trovar più saporito il minestrone del collegio: con una libbra di pane affettatavi dentro mi parve di essere a un banchetto reale. La mia camera godeva almanco d’un bel sole e poteva alzar gli occhi senza incontrarli negli sguardi gatteschi del sollecitatore. I due scolari veronesi si abbatterono in me qualche giorno dopo nei corritoi dell’Università, ma sembravano così poco vogliosi di appiccar parola con me come io di avvicinarmi a loro. Ne domandai conto a qualcuno, e seppi che erano i più beoni e scapestrati dello Studio. Studiavano medicina da sette anni e non avevano ancora ottenuto la laurea, e sprovvisti di mezzi di fortuna, vivevano d’inganno e di rapina alle spalle del prossimo. Io compiansi l’avvocato Ormenta di saperlo zimbello di cotali ghiottoni; ma quando mi intesi di aprirgli gli occhi sul loro conto egli mi accolse assai male. Rispose che eran calunnie, che si maravigliava molto come io ci dessi mente, e che attendessi a scoprire e a distruggere i vizii dei cattivi, non ad esagerare i difettucci dei buoni. Io cominciai a credere che la fede del buon avvocato fosse molto più pura della sua morale; poiché se quelli erano difettucci non capiva più quali fossero i vizii ch’io era destinato a combattere.